¿Adónde te escondiste, amado, y me dejaste con gemido?

 

«Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato
l’amore dell’anima mia.

L’ho cercato, ma non l’ho trovato.
Mi alzerò e farò il giro della città
per le strade e per le piazze.
Voglio cercare l’amore dell’anima mia.
L’ho cercato, ma non l’ho trovato.
Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città:

«Avete visto l’amore dell’anima mia?» (Ct 3, 1-3).


Lo avevo ridotto a un idolo, ecco perché se ne è andato «l’amore dell’anima mia». L’idolo, anche il più piccolo, procura un po’ di nutrimento al cuore: un po’ di gioia, una certa identità, un po’ di sicurezza a chi si sente pellegrino e affamato. Ma è solo un immagine di Dio; un’immagine fabbricata dall’uomo. Gli idoli sono «argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono; non c’è respiro nella loro bocca» (Sal 135 15-18 – cfr. Sal 115, 4-9). «Diventi come loro chi li fabbrica – prosegue il Salmo – e chiunque in essi confida». Se ne è andato «l’amore dell’anima mia», ci ha lasciati sempre più freddi e vuoti nelle nostre relazioni, come l’idolo che volevamo che fosse: «Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete. La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo» (Francesco, Evangelii Gaudium,  n. 54).

 

 

I

 

«Il bambino si risveglia alla coscienza di sé come evocato a tale coscienza dall’amore della madre. […] L’interpretazione del sorriso e di tutta la dedizione della madre è la risposta d’amore ad amore, da lei suscitata per il fatto che l’ ‘io’ viene evocato dal ‘tu’; e questo proprio perché originariamente si avverte che il ‘tu’ della madre non è il ‘tu’ del bambino, ma che tutti e due i centri vibrano nella stessa ellisse dell’amore, e inoltre perché altrettanto originariamente si capisce che questo amore è il bene sommo e assolutamente sufficiente, al di là del quale, a priori, non si può aspettare niente di più elevato; dunque in questo ‘io-tu’ è fondamentalmente dischiusa la pienezza della realtà (come nel Paradiso), e tutto ciò che in seguito può essere sperimentato come delusione, deficienza e avida cupidigia, è solo una deviazione da ciò; perciò tutto — ‘io’ e ‘tu’ e mondo — è illuminato da questo lampo originale con un raggio tanto chiaro e sano da includere anche una manifestazione di Dio. […] è però solo come un lampo; a questo lampo di luce segue un crepuscolo e forse una tenebra sempre più profonda». Seguono «la pena e il dolore che soffro abitualmente per la tua assenza» (CA 1, 8), dice la sposa del Cantico. «Tutta l’ulteriore esperienza del mondo … contiene una fondamentale delusione: … né le cose né gli uomini ai quali in definitiva appartiene anche mia madre; tutto ciò è ‘solo’ mondo, e non Dio»[1].

«Ormai è tardi, forse l’ultima ora del giorno», quando l’anima considera «che la vita è breve (Gb 14, 5), che il sentiero della vita eterna è stretto (Mt 7, 14); che le cose del mondo sono vane e ingannatrici; che il tempo è incerto, il giudizio rigoroso, la perdizione molto facile, la salvezza molto difficoltosa». Eppure sa d’essere stata avvolta d’amore in ogni istante della sua esistenza; conosce «il grande debito di gratitudine che ha verso Dio che l’ha creata solo per se stesso» e sa che per questo «gli deve il servizio di tutta la sua vita». Sa, ancor più, che questo Dio «l’ha redenta da Sé soltanto», e per tal motivo «ella gli deve tutto e la risposta d’amore e della volontà». Insomma, gran parte della vita di chi è «in obbligo con Dio fin da prima della nascita», «è trascorsa invano». «Per rimediare a tanto male e a tanto danno, rinunciando a tutte le cose, trascurando ogni altra faccenda, senza rimandare né di un giorno né di un’ora, con ansie e gemiti del suo cuore ormai ferito d’amore per Dio, - l’anima - comincia a invocare il suo Amato ed esclama: “Adónde te escondiste, Amado…».

Non è che Dio conceda qui all’anima l’esperienza di un amore assente che brucia e inquieta l’anima; la grazia di sentire la lacerante assenza dello Sposo che «è fuggito» (questo è da sempre, lo abbiamo visto). No, è che l’anima stessa, «Cayendo en la cuenta», considerando quanto le viene a costare l’aver «così a lungo trascurato» Dio, l’aver ridotto Dio a un idolo, ossia che «lo Sposo è fuggito», che «molto irritato … si è nascosto», come il sole dietro la luna in un’eclisse[2], decide che è giunto il momento della conversione. Ed è come se pregasse:

«Non a noi, Signore, non a noi,
ma al tuo nome da’ gloria,
per il tuo amore, per la tua fedeltà» (Sal 115, 1).

Dio è dunque assente, in quanto lo si vuole come Colui che dà gloria a noi, ed è perciò sconosciuto. La sua presenza non appare evidente, e dunque è cercata: “Dove ti sei nascosto?”. Questa è la domanda ultima del figlio prodigo che s’è perduto lontano dalla casa del Padre. E «il luogo dove è nascosto il Figlio di Dio è, come dice san Giovanni, il seno del Padre (Gv 1, 18), cioè l’essenza divina, inaccessibile a ogni occhio mortale e nascosta a ogni umana comprensione» (CB 1, 3), nell’intimo stesso della nostra anima. «Così, l’anima che desidera trovarlo deve staccare la sua volontà da tutte le cose create ed entrare in se stessa in un profondo raccoglimento, come se tutto il resto non esistesse. … Dio, quindi, è nascosto nell’anima e il buon contemplativo deve cercarlo, dicendo: Dove ti sei nascosto?» (CB 1, 6).

L’anima grida: «Colui che la mia anima ama, perché non lo trovo e non lo sento, se Egli è in me?». Si affollano allora i ricordi evangelici della parabola del tesoro nascosto nel campo (Mt 13, 44), della necessità di ritirarsi nella stanza segreta dove soltanto può essere rintracciato Dio Padre nella preghiera (Mt 6, 6): «il motivo è che tu non ti nascondi come lui per trovarlo e sentirlo […] Suvvia, dunque anima beata! Ora che sai che nel tuo intimo dimora nascosto l’Amato dei tuoi desideri, cerca di rimanere ben nascosta con lui, e nel tuo cuore potrai avvertirlo e abbracciarlo con sentimenti d’amore […] Non ti accontentare mai di quanto comprenderai di Dio, ma di quanto di lui non comprenderai. Non indugiare mai nell’amare e nel godere quanto di Dio puoi comprendere e sentire, ma ama e gioisci di ciò che non puoi comprendere e sentire di Lui: questo, ripeto, è cercarlo nella fede!» (CB 1, 9; 10; 12). E mantenere ardente l’amore, perché il nostro non è un Dio nascosto ma «l’Amato nascosto». Non un Dio compreso ma accolto. Da amare con lo stesso amore con il quale ci ama: «Nel Cantico spirituale, san Giovanni presenta il cammino di purificazione dell’anima, e cioè il progressivo possesso gioioso di Dio, finché l’anima perviene a sentire che ama Dio con lo stesso amore con cui è amata da Lui» (Benedetto XVI, Udienze, 16 febbraio 2011).  

L’amore di cui parla Giovanni della Croce è attivamente «esercitato», «esercizio d’amore» nei confronti dell’Amato che si nasconde, lasciando che si nasconda, perché non sia ridotto ad “altro” da Sé.

Questo «esercizio di amore» è anzitutto solo partecipazione: «l’anima … partecipa in certo qual modo della sua abbondanza e del suo impeto nel suo dire» (CA Prologo 1). Vi partecipa «in minima parte» (ibid.), tanto che «i santi dottori, malgrado quanto abbiano detto e tutto ciò che si potrebbe ancora dire, non sono mai riusciti a chiarirne completamente il senso con le parole, come del resto non è stato possibile spiegarlo con parole umane» (CA Prologo 1). Non possiamo dire dell’Altro, e così dell’‘altro’, se non in minima parte…

Il “piccolo Seneca” di Teresa si astiene e invita ad astenersi da ogni tentativo di “presa” nei confronti di Dio e così, sembra suggerire, del prossimo. Invita ad arrendersi al mistero, al fatto che l’uomo non comprende: «Chi può descrivere ciò che egli fa capire alle anime innamorate, nelle quali dimora? E chi potrà esprimere a parole i sentimenti che ispira loro? E chi, infine, quanto fa loro desiderare? Certo, nessuno, nemmeno quelle anime nelle quali si verificano questi favori celesti» (CA Prologo 1). Si tratta di «sapienza mistica … non occorre che sia intesa distintamente perché susciti nell’anima amore e affetto. In realtà essa agisce come la fede, mediante la quale amiamo Dio senza comprenderlo» (CA Prologo 2). Nell’amore «le cose non vengono solo conosciute ma anche gustate» (CA Prologo 3). 

Qui Giovanni ci sta dicendo che se vogliamo gustare le cose de mondo e i rapporti interpersonali dobbiamo limitarci a conoscere, rinunciando a comprendere. È così anzitutto con Dio. Il fatto che si dia a noi nel Figlio non significa, allora, impossessarsene, impadronirsene, ma piuttosto significa gioire per quel bene, per ciò che è in se stesso.

Dio che prima «ferisce», cioè accende il desiderio, poi fugge, senza lasciare nemmeno il possesso per un istante. Non è possibile afferrare il valore, non è possibile impossessarsi di un bene, tanto meno del bene supremo che è Dio e l’appagamento del desiderio non è nel circoscrivere, comprendere e capire, ma neanche nel comprendere nel senso di afferrare, farne qualcosa di proprio, «un privilegio» (Fil 2, 6). Non può esserci appagamento nel desiderio: «Non mi bastava ancora la pena e il dolore che ordinariamente soffro per la Tua assenza: oltre a questo dopo avermi ferita con più amore (...) e accresciuto la passione e il desiderio della tua vista, fuggi con la leggerezza di un cervo e non Ti lasci afferrare per un istante» (CB 1, 16). 

Il desiderio è un’esperienza di trascendenza, cioè chi esce da se stesso può desiderare è capace di desiderare, l’uomo che confonde il proprio io, la propria persona con tutta la realtà non può avere nessun desiderio, tutt’al più può avere delle sensazioni epidermiche a livello superficiale, ma non è capace di desiderare; desidera autenticamente e veramente chi è capace di trascendersi, cioè di uscire da se stesso, chi scopre che al di là del suo naso c’è un mondo infinitamente più grande di lui, c’è una realtà che lo trascende. Uscire significa rientrare in se stessi, uno scoprire questo bene supremo, Dio, nel profondo di se stessi; Giovanni della Croce cita più volte Agostino; uscire da sé non è altro che rientrare più profondamente in se stessi.

Quale è la molla che fa scattare questo desiderare, questa capacità di desiderare? È il fatto di trovare una perfetta corrispondenza tra la mia ricerca, cioè quello che io sto cercando e quello che dall’esterno mi viene offerto, mi viene donato, è uno scoprire che fuori di me c’è un valore, un bene che viene incontro a quello che stavo cercando e si fa incontro a me. È un po’ l’esperienza che ci descrive anche il Vangelo nelle due parabole del tesoro nascosto nel campo e della perla preziosa; un uomo che trova quel tesoro, che trova quella perla va, vende tutti i suoi averi e compra quel campo, si impossessa di quella perla e tutte queste azioni del comperare e del vendere sembrano determinate da questi soggetti, in realtà è quel tesoro ed è quella perla che determina tutte le azioni. Non sono io il soggetto del mio volere, del mio comprare, del mio vendere, ma è quella mia scoperta, il venirmi incontro di quel bene, che mi convince a fare determinate scelte, ma perché ho scoperto quel bene come valore, perché mi è stato donato, mi è venuto incontro.

La differenza tra chi deve, cioè parte dalla logica del dovere e chi desidera, cioè parte dalla logica del desiderio, si riscontra, a proposito della perla e del tesoro, tra chi dirà sempre e continuerà a sottolineare: “io ho venduto i miei averi, io ho rinunciato a questo per quel bene, per quel valore”; e chi dirà piuttosto: “io ho trovato quella perla preziosa, io ho scoperto, mi è venuto incontro, mi è stato donato un valore”. C’è una bella differenza tra i due modi di presentare la stessa realtà; quella scoperta porta sì a vendere, a rinunciare, a fare determinate scelte e determinate rinunzie, ma non è su quello che l’anima mette l’accento. Poiché «non riesce ad esprimersi dà il nome di un non so che» (CB 7, 1), a qualcosa che “avviene”, senza che lei ne sappia il perché e ne comprenda bene il significato.

Ciò che ha venduto, a cui ha rinunciato, quando quel qualcosa è avvenuto, sono «tutte le cose create e se stessa» (CB 1, 2). Da se stessa, infatti, l’anima non ha «certezza né la chiarezza del Possesso dello Sposo in questa vita» (CB 1, 4). Perciò rinuncia a ogni «devozione affettiva e sensibile» (CA 1, 2), notando che «per quanto grandi siano le comunicazioni e le presenze di Dio nei confronti dell’anima e per quanto alte e sublimi siano le conoscenze che un’anima può avere di Dio in questa vita, tutto questo non è l’essenza di Dio, né ha a che vedere con lui. In verità, egli rimane ancora nascosto all’anima …  Né l’alta comunicazione né la presenza sensibile di Dio sono, infatti, una prova certa della sua presenza, come non sono testimonianza della sua assenza nell’anima l’aridità e la mancanza di tali interventi» (CA 1, 2). Si mette dunque alla ricerca della Sua «essenza divina … inaccessibile a ogni occhio mortale e nascosta a ogni umana comprensione» (Ibid.). E dice: Dove ti sei nascosto? Da questo si riconosce che «ama davvero Dio … non si contenta di qualcosa d’inferiore a Dio» (CA 1, 6).

E nell’orazione «non si preoccupa di chiedere, espone semplicemente i suoi bisogni affinché l’Amato faccia ciò che vuole». Proprio perché sa di non comprendere e di non saper volere niente di meglio di ciò che vuole Lui. «Così, infatti, si comportò la beata Vergine con il Figlio amato che alle nozze di Cana in Galilea, non chiedendogli direttamente il vino, ma dicendogli: Non hanno più vino (Gv 2, 3). Allo stesso modo, le sorelle di Lazzaro non gli mandarono a dire di guarire il fratello, ma lo informarono che colui che egli amava era malato (Gv 11, 3). Il motivo per cui è meglio presentare i propri bisogni all’Amato che chiedergli di esaudirli è triplice: anzitutto perché il Signore sa meglio di noi ciò che ci serve; in secondo luogo perché l’Amato si muove di più a compassione vedendo i bisogni di chi lo ama e la sua rassegnazione; infine perché l’anima è più al riparo dall’amor proprio e dall’egoismo nel presentare i suoi bisogni piuttosto che nel chiedere ciò che, a suo avviso, le manca» (CA 2, 8).

«Lungo il cammino di ricerca» si sta, «esercitandosi nelle virtù e nelle mortificazioni» (CA 3, 1). Una fede pura non può e non deve affidarsi alle opere, lo sappiamo, neppure alle proprie opere d’amore. Tuttavia, se il desiderio è sincero e l’amore grande l’anima «non si lascia prendere dalla pigrizia nel compiere quanto può per trovare il Figlio di Dio, suo Amato … anche dopo aver fatto tutto, non è soddisfatta e non ritiene d’aver fatto nulla» (CA 3, 1). Le «opere», infatti, rivelano che, in amore, è necessario avere «un cuore nudo e forte, libero da tutti i mali e da tutti i beni che non sono puramente Dio» (CA 3, 5): esattamente quel cuore che la creatura non possiede come sua dote. Tale scoperta è parte necessaria del cammino d’amore, perché esige presto l’affidamento di se stessi a Colui che vuole donarci anche la forza di amare e di operare: «Se poi aspetti le mie opere... concedimele Tu e compile Tu in me» (Orazione dell’anima innamorata). Solo in una preghiera che domanda anche la grazia dell’operare, si avvera la riconciliazione tra la fede e le opere che umanamente potrebbero rivelarsi fonte di presunzione: riconciliazione operata dall’Amore che chiede opere e, al tempo stesso, dona «costanza e arditezza per non abbassarsi a cogliere i fiori, coraggio per non temere le fiere (il mondo) e forza per superare i forti (i demoni) e le frontiere (la carne), con l’unico scopo di andare sui monti (mortificazioni) e lungo le riviere delle virtù» (CA 3, 9).

Il nostro è esercizio di un dono, che ciascuno di noi «ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza», ma «con gioia» (2Cor 9, 7) di ritornare alla sua «fonte» in coloro che chiamiamo fratelli. «San Giovanni della Croce diceva a un discepolo: stai vivendo con altri “perché ti lavorino e ti esercitino nella virtù” (Cautele, 15)»[3]. Queste mortificazioni e virtù il cui esercizio ci è reso possibile da Dio, noi le esercitiamo nei confronti dei fratelli.

E poiché è con gioia che diamo, come ricorda l’Apostolo, allora «il Signore ama» (2Cor 9, 7), ossia regala consolanti esperienze di Lui: «Una sera d’inverno compivo come al solito il mio piccolo servizio, […] a un tratto udii in lontananza il suono armonioso di uno strumento musicale: allora mi immaginai un salone ben illuminato tutto splendente di ori, ragazze elegantemente vestite che si facevano a vicenda complimenti e convenevoli mondani; poi il mio sguardo cadde sulla povera malata che sostenevo; invece di una melodia udivo ogni tanto i suoi gemiti lamentosi […]. Non posso esprimere ciò che accadde nella mia anima, quello che so è che il Signore la illuminò con i raggi della verità che superano talmente lo splendore tenebroso delle feste della terra, che non potevo credere alla mia felicità”» (S. Teresa di Gesù Bambino, Manoscritto C, 29 v-30r).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

II

 

 

L’anima-Sposa intuisce già, nella bellezza delle creature, le tracce del passaggio di colui che è Bellissimo, e le creature confermano l’intuizione e dicono di più: è stato il Suo passaggio, per quanto veloce, che le ha colmate di «mille grazie» ed è stato il Suo sguardo amoroso che le ha rivestite di divina bellezza. Questo tuttavia è da sempre, ed è ri-velato nel tempo, sottratto alla ‘presa’ manipolatoria, lungo la Storia della Salvezza, di chi vorrebbe ridurre ad ‘altro’ la realtà. A partire dalla realtà di Dio, che si vorrebbe desse gloria a noi, anziché a Lui (cfr. Sal. 115, 1).

L’anima «comincia a camminare, mediante la considerazione e la conoscenza delle creature, verso la conoscenza del suo Amato, che le ha create» (CA 4, 1). Dopo aver «illustrato il modo per disporsi a intraprendere questo cammino, cioè non andare in cerca di piaceri e soddisfazioni, - quel dare gloria a noi - e la forza che occorre per vincere le tentazioni e le difficoltà» (Ibid.), è portata alla considerazione del dono, dell’irrompere improvviso di Dio; e del suo sottrarsi immediatamente e sempre alla “presa” di un desiderio crescente. Segue ora la considerazione delle creature. L’anima intrattiene con esse il tradizionale «dialogo» sul Creatore; «interrogandole sul suo Amato» (ibid.).

Si era lamentata con forte dolore per la «fuga» dell’Amato, ricorrendo ai desideri e ai gemiti come a messaggeri capaci di manifestare a Lui i segreti del suo cuore, e decidendo con determinazione di lottare contro i suoi tre nemici: il mondo, il demonio e la carne (cfr. CB 3, 7-9). Ora angosciata mendica dalle creature irrazionali una parola su di Lui. «É da notare che, come afferma sant’Agostino, la domanda rivolta dall’anima alle creature è la riflessione che intorno ad esse essa fa del suo Creatore» (Ibid.). E il Creatore è quell’infinitamente «più» che esse balbettano. È presenza velata, sempre più grande nelle sue opere, di un Dio che sebbene «faccia molte altre cose per mano altrui, per esempio servendosi degli angeli e degli uomini, tuttavia la creazione l’ha fatta e la fa per mano propria» (CA 4, 3).

Lo sguardo di Dio sull’opera sua è diverso dal nostro. Agli esordi stessi della creazione, quello sguardo si posa, contemplando nella freschezza giovanile, primordiale della creazione, la splendente bellezza della luce (cfr. Gen 1, 4) e poi la terra e il mare, il sole e la luna, i volatili e i pesci, gli animali terrestri e finalmente l’uomo. E lo sguardo di Dio si posa alla fine, complessivamente, sulla creazione, abbracciandola tutta (cfr. Gen 1, 31). Altrove Dio viene descritto nell’atto in cui affonda il suo sguardo nel vuoto degli abissi (cfr. Dan. 3, 54) e il salmo lo immagina nel suo scrutare, con le palpebre socchiuse, l’operare più segreto dell’uomo, per penetrarne le ultime profondità. Insomma, gli occhi di Dio brillano divinamente d’amore.

Nel vangelo, lo sguardo luminoso del Cristo si posa frequentemente sulle cose e sulle persone, avvolgendole nella sua luce calda e amorosa. Quegli occhi divini si alza no con particolare reverenza al cielo, come per cercare e implorare il volto del Padre (cfr. Gv 17, 1) o per implorare un favore celeste (cfr. Gv 11, 41). Si riempiono anche di lacrime, nella pienezza della commozione (cfr. Gv 11, 35), si adagiano con amore di predilezione su Natanaele (cfr. Gv 1, 49) e si posano, con la dolcezza mite e dolente di un rimprovero, su quelli di Pietro nella notte penosa della passione (cfr. Lc 22, 61). Lo sguardo di Gesù diffonde ovunque le misteriose grazie di cui la sua persona è ricolma. Scrutando la sua misteriosa potenza trasformativa il padre del Carmelo ci parla dello sguardo di Dio.

«Per gli occhi dello Sposo - egli scrive - l’anima intende la sua Divinità misericordiosa che piegandosi sull’anima con misericordia imprime e infonde in lei la sua grazia e il suo amore, con il quale la abbellisce ed eleva tanto da farla consorte della sua stessa divinità» (C 32, 4).

E poco oltre, analizzando gli effetti trasformanti di quegli occhi creativi e trasformanti di Dio, li segnala limpidamente: «Lo sguardo di Dio produce nell'anima quattro beni diversi, che sono: purificarla, renderla gradita, arricchirla e illuminarla, cosi come il sole quando invia ì suoi raggi» (C 33, 1). 

Il tutto si chiude con una invocazione agli occhi divini perché moltiplichino il favore celeste: «Ben puoi, o mio Dio, mirare ed apprezzare grande-mente l'anima che hai già guardato, giacché con il tuo sguardo le hai dato valore e pregio... Perciò non una volta sola ma altre volte ancora ella merita di essere guardata» (C 33, 9).

Linguaggio d’amore, fortemente espressivo, che implora uno sguardo, e non uno solo, perché l’amore gode nell’esercizio continuo della sua felice potenza.

Una viva notizia d’amore si diffonde come un profumo dalla varia bellezza delle cose: il divino bosco della creazione (cfr. CA 5, 3) è pieno di incanti, benché testimonianza di un passaggio rapido del suo creatore che vi ha lasciato una orma ora evidentemente riconoscibile.

È stato il Suo passaggio, per quanto veloce, che le ha colmate di «mille grazie» ed è stato il Suo sguardo amoroso che le ha rivestite di divina bellezza. La bellezza delle creature è stata provocata dallo sguardo del Padre che fin dall’inizio «le ha guardate nel Figlio» facendole «molto buone». In seguito, Egli le ha ulteriormente abbellite quando suo Figlio si fece uomo, «innalzando alla bellezza di Dio ed esaltando, di conseguenza, in Lui tutte le creature, essendosi unito nell’uomo alla natura di tutte loro» (C 5, 4). Se poi dal mistero dell’Incarnazione del Figlio ci si eleva fino a contemplare la sua Resurrezione nella carne, dobbiamo addirittura affermare che il Padre ha voluto lasciare le creature «completamente (del todo) rivestite di bellezza e dignità» (C 5, 4). Sotto il Suo sguardo possiamo affermare che l’anima si sente fortemente spinta ad amare Dio

«Immaginate di stare seduti su di una tranquilla panchina in un parco, circondati da alcune aiuole di fiori e con una siepe sullo sfondo... State scrivendo una lettera abbastanza personale; mentre scrivete tutti assorti... qualcuno è là - lo avete notato con la punta dell’occhio: qualcuno che vi osserva; e questo dura parecchio: abbiamo fatto l’esperienza di sentirci in mostra!»[4]. Sono una buona notizia (Vangelo) «gli occhi desiati», farebbe dire Giovanni della Croce all’anima di Chi «le sembra stia sempre a guardarla» (CA 11, 4). È il momento in cui si sente osservata e scopre di essere importante nella vita e nel cuore di un Altro. In realtà è un momento che abbraccia la nostra intera esistenza.

È stato detto che «una persona è illuminata», non «quando gli viene un’idea», ma «quando qualcuno la osserva»[5]. Questo implica tutto un modo di vedere la vita cristiana. Il cristianesimo è un effetto, l’effetto di un Dio che ci guarda costantemente, i cui occhi anticipano, irradiano, penetrano e ne stimolano la bellezza. Questi occhi del vangelo sono chiamati tradizionalmente «grazia»: un Dio che si dona e i cui doni ci rendono capaci di rispondergli come la bellezza che essi vedono. Lo sguardo di Dio è il fondamento di ogni comportamento cristiano: «Senza la sua grazia, la sua grazia non può essere meritata» (CB 32, 5). Il problema è che, in quanto basilare, in quanto pervasiva come l’aria, questa iniziativa divina può essere dimenticata, e la persona di Gesù, che noi siamo, si trasforma piuttosto in un’azione umana, in religione, intricata, insignificante ed in definitiva opprimente. «Al di fuori di Dio», dice Giovanni, «tutto è angustia»[6]. Dobbiamo metterci da parte, in silenzio: «Il Padre pronunciò una parola, che fu suo Figlio e sempre la ripete in un eterno silenzio, perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall’anima»[7].

«Una persona è illuminata quando qualcuno la guarda», abbiamo detto. L’orrido caos iniziale è illuminato quando Dio vi posa il suo sguardo. Lo «Sposo» penetra con lo sguardo la superficie dell’abisso, diffondendovi la vita. Questa è la stupenda comprensione che Giovanni ha della creazione: l’universo, ogni elemento in esso, ogni evento in esso e l’intreccio fitto di questi eventi - ogni pensiero, ogni amicizia, ogni storia: è dato loro di essere grazie agli occhi di un Altro, occhi «che comunicano» l’essere al mondo. Una tale creazione è splendente nella sua bellezza, come la Parola di Dio, che brilla delicata, ma potente, «spargendo mille grazie» e riempiendo il cosmo con le tracce della sua persona. Un significato meraviglioso di questo riguarda l’atto creativo di, Dio: non è solo un inizio primordiale, ma un evento presente. È un evento tanto delicato, in un certo senso tanto precario, ma anche tanto amorevole quanto lo sguardo di uno che vuole bene. Sotto un tale sguardo l’uomo può ritrovarsi, perché al di sopra delle opinioni esiste la verità che scaturendo da una fonte superiore all’uomo lo condiziona positivamente e lo salva, perfezionando quella dignità che possiedono anche coloro che non la stimano e non ne cercano la promozione dove solo si può trovare.

Dicendo del bene delle creature e insieme dell’origine di quello stesso bene, Giovanni della Croce affronta il tema della libertà, intimamente connesso con quello della dignità dell’uomo. Ci permette di ricordare che la scelta è tra due beni, l’origine o il riflesso di quest’origine. «Mai come oggi, gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà e intanto sorgono nuove forme di schiavitù sociale e psichica» (GS 4), aveva detto il Concilio. Questa apparente contraddizione si spiega con la possibilità data ad ogni uomo, di autogestire la propria libertà sino a dove questa non compromette la libertà degli altri. Questa unica barriera, innalzata dal buon senso, non serve però a garantire all’uomo né il proprio completamento né la propria felicità. Occorre saper scegliere tra due beni, questa è la vera libertà; di cui uno migliore dell’altro.

Ora: Giovanni della Croce significativamente parla di due «abbozzi» o «disegni»: quello della fede (dibujo de fe) e quello dell’amore (dibujo de amor). Ambedue sono tracciati nell’anima amante. Ambedue sono l’argento nei cui riflessi impariamo a guardare Dio e a sentirci guardati da Lui. Ma «la sostanza d’oro» sono la verità e l’amore di Dio, sono la Sua verità e il Suo amore.

Il «disegno d'amore» per quanto «abbozzato» - ed è dunque imperfetto - può incidersi molto profondamente nella volontà: «Quando c’è unione d’amore, l’immagine dell’Amato è riprodotta in maniera così viva e perfetta da poter dire in tutta verità che l’Amato vive nell’amante e l’amante nell’Amato. L’amore crea una tale somiglianza nella trasformazione degli amanti da poter dire che ciascuno di loro è l’altro e che entrambi sono uno. Questo perché nell’unione e nella trasformazione d’amore l’uno si dà in possesso all’altro, l’uno si abbandona e si scambia con l’altro; cosi l’uno vive nell’altro, l’uno è nell’altro ed entrambi sono uno per trasformazione d’amore. Questo voleva dire san Paolo quando scriveva: Vivo autem iam non ego; vivit vero in me Christus: Vivo però non più io, ma vive in me Cristo (Gal 2, 20). Dicendo vivo, ma non più io, vuoi farci capire che, sebbene lui vivesse, la vita non era la sua, perché era trasformato in Cristo, e così la sua vita era più divina che umana; per questo dice che non è lui che vive, ma Cristo in lui» (CB 12, 7).

Dio, sapendosi amato, può perfezionare questo «abbozzo» fino a renderlo molto somigliante all’originale; quando ciò accade si parla di matrimonio spirituale, «lo stato più elevato a cui si possa giungere in questa vita».

Ma l’originale («l’immagine perfetta») si compirà solo «nella trasformazione della gloria». Quando cioè mostreremo a noi e al mondo chi siamo veramente, nell’unione con Dio. L’amore appare allora all’anima come «una fonte abissale» dove vorrebbe immergersi, ed ella è pronta a tutto pur di raggiungerla. Ma in questa vita ella deve appunto accontentarsi dell’abbozzo, del disegno: nella fonte ella può solo specchiarsi e cercare di intravvedere «gli occhi dell’amato». Tuttavia in questo suo protendersi fino allo spasimo, chi potrà garantirle di non specchi se stessa nella fonte, tornando alla “religione”?

Ecco allora «l’altro disegno», «l’altro abbozzo», quello inciso nell’intelligenza: è «l’abbozzo della fede», un disegno consistente nelle «verità che il mio Amato mi ha infuse» (CB 12, 2). È la «fede cristallina», quella che «è di Cristo» (tutta sostanziata di Lui) ed è «pura nelle sue verità, fonte chiara e limpida da errori». Si tratta di «proposizioni e articoli di fede»: «riflessi argentati», perché gli articoli di fede che ci vengono insegnati ricoprono con il loro argento «la sostanza d’oro che contengono».

C’è dunque la fede con cui crediamo (e sono riflessi d’argento), e c’è la sostanza della fede che crediamo (ed è l’oro che splenderà alla fine, nella visione). «¡Oh cristalina fuente, / si en esos tus semblantes plateados / formases de repente / los ojos deseados / que tengo en mis entrañas dibujados!».

I due «disegni abbozzati» nell’anima (quello della fede e quello dell’amore) rimandano ambedue «al disegno degli occhi desiderati» (quelli di Cristo) che l’anima si porta dentro: fede e amore rimandano ambedue alla Persona Amata di Cristo, al punto che l’anima, quando si sofferma sulle verità di fede, si sente quasi guardata da Lui: «Dà il nome di occhi alle verità di fede, per la grande presenza che sente del suo Diletto, tanto da sembrarle che Lui la stia sempre guardando» (CB 12, 5).

Tra i riflessi d’argento e la sostanza d’ora la libertà è chiamata sempre ad una scelta. Lungo la propria vicenda terrena. Verrebbe da citare qui la santa Madre Teresa di Gesù, pensando a noi come a una fondazione permanente del Signore: «Procurino sempre d’incominciare e d’andare avanti di bene in meglio» (F 29, 32).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

III

 

 

Che cosa sappiamo noi, in verità, delle vie che Dio può e vuole percorrere, per unirsi attivamente con ogni singola creatura, dal momento che Egli ne è innamorato? Sappiamo che «la carità non avrà mai fine» (cfr. 1Cor 13, 8) e che «la misura propria d’amare Dio è quella di amarlo senza misura»[8]. L’uomo farà, prima o poi, l’esperienza che «il cuore non si soddisfa con meno di Dio» (CB 35, 1).

È l’«uguaglianza d’amore» che l’anima «sempre desidera, dal punto di vista naturale e soprannaturale, perché l’Amante non può essere soddisfatto se non sente che ama quanto è amato» (CB 38, 3). Questo anelito nel tempo all’uguaglianza d’amore («amare Dio con lo stesso amore con cui ci ama») l’anima lo percepisce da sempre «perfino naturalmente»[9], è comune e universale.

L’anima sceglie Colui che le sembra «la stia sempre guardando» (CB 12, 5) perché vuol giungere ad amarLo «con lo stesso amore con cui ci ama». Proprio allora si incontrano le prime parole del Cantico che lo Sposo rivolge alla Sposa: «Torna colomba mia!» (CB 13). Sono un invito a «tornare», ma dove?

La Sposa, ferita per l’assenza dello Sposo, ancora non ama, crede soltanto. Non c’è passione per l’amato, solo un “sapere” di Lui. È ferma alla cristallina sorgente (cristalina fuente) che è poi la «fede per due ragioni e cioè perché appartiene a Cristo suo Sposo e perché ha le proprietà del cristallo essendo pura, forte, chiara, limpida da errori e da forme naturali nelle sue verità, Le dà poi il nome di fonte perché emanano da essa le acque di ogni bene spirituale, Per questo Cristo, Nostro Signore, la chiamò fonte nel colloquio con la Samaritana affermando che in coloro che avrebbero creduto in Lui sarebbe sgorgata una fonte, le cui acque sarebbero salite fino alla vita eterna (Gv, 4, 14). Si tratta dello spirito che avrebbero ricevuto coloro che credono in Lui (Ibid. 7, 39)» (CB 12, 3).

È un cambio di prospettiva quello che offre la considerazione dello Sposo, il quale rassomiglia a un cervo ferito che «va in fretta a cercare refrigerio presso la fonte di fresche acque» (CB 13, 9): «Al gemito di lei, anch’egli viene ferito dall’amore di lei, infatti per gli innamorati, la ferita di uno è di entrambi». Egli si mostra a lei, dicendole d’esser «piagato in questa tua piaga» e richiama a sé la sua colomba.

Due simboli: quello della colomba e quello del soffio leggero di vento provocato dal volo della colomba che torna al suo Amato, evocano il soffio dello Spirito Santo che spira l’amore trinitario. È «un’aria d’amore» che tutto avvolge - sia la Trinità, che ama, che la creatura, amata - e che ha il duplice beneficio di far sempre più divampare la carità: «Nell’amante l’amore è fiamma che arde col desiderio di ardere ancora dì più», dato che «un amore accende altro amore» (CB 13, 12), pur arrecando refrigerio a coloro che amano.

L’amante contempla in sé la carità, la quale è l’accendersi della faticosa operosità ecclesiale. Giovanni della Croce preferirebbe dare qui la parola a Teresa di Gesù che «lasciò scritte queste cose in modo ammirevole» (CB 13, 7). Lei che «moriva di non morire» e lo ricordava spesso nei suoi scritti, più tardi, giunta al «matrimonio spirituale», aveva dovuto cambiare atteggiamento. Aveva scritto allora: «Sento il desiderio di non morire tanto presto per poter lavorare per la Sua gloria» (Rel 42). Era accaduto infatti che, giunta all’unione mistica con Cristo, Teresa s’era sentita dire: «D’ora in poi tu avrai cura del mio onore... come mia vera Sposa. Il mio onore è il tuo e il tuo è il mio» ed era perciò ormai tempo che ella si assumesse, quali suoi propri, gli interessi di Lui, mentre egli Si sarebbe preso cura di ciò che la riguardava. Così aveva compreso che gli interessi dello Sposo erano tutti nella continuata passione che la Chiesa del suo tempo viveva nel mondo. E fu spinta a un crescente fervore di «opere e opere». Proprio con questo serio avvertimento ella aveva voluto concludere il suo Castello interiore (m): «Non crediate che Dio faccia tutte queste grazie soltanto per vezzeggiare le anime... Sapete che cosa vuoi dire essere veramente spirituali? Vuol dire essere gli schiavi di Dio, tali che egli possa segnarci col ferro della croce e venderci come schiavi in tutto il mondo, come è stato per Lui» (7M 4, 4.8).

Le prime parole dello Sposo, dunque, subito invitano la sua Sposa «a tornare» («Vuélvete paloma») per immergersi davvero nella fervente e operosa carità descritta dall’Apostolo Paolo («ejercitar lo que de ella dice El Apostol!») perché «il programma del cristiano – il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù – è un “cuore che vede”. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente»[10].

Riuscendo così a tener per fermo che i doni non riescono mai a donare il Donatore: «Regalo, presente, dono? / Puro simbolo, segno,  / che sono io che voglio donarmi. / Che dolore, separarmi da ciò che ti do, / e che ti appartiene dunque / senz’altro destino ormai / che essere tuo, di te / mentre io resto / sull’altra sponda, solo / ancora così mio. / Come vorrei essere / io stesso il regalo che ti do / e non soltanto colui che te lo dona»[11].

L’esercizio della Carità ci sintonizza con lo Spirito del Signore e ci fa comprendere nel tempo che il nostro dramma coinvolge lo stesso Dio, il Quale è come se dicesse: «Se muore lei, per me tutta questa messa in scena del mondo che gira, la possono anche smontare, portare via, schiodare tutto, arrotolare tutto il cielo e caricarlo su un camion col rimorchio, possiamo spengere questa luce bellissima del sole che mi piace tanto… ma tanto… lo sai perché mi piace tanto? Perché mi piace lei illuminata dalla luce del sole, tanto… portar via tutto: queto tappeto, queste colonne, questo palazzo… la sabbia, il vento, le rane, i cocomeri maturi, la grandine, le 7 del pomeriggio, maggio, giugno, luglio, il basilico, le api, il mare, le zucchine… le zucchine….» (R. Benigni, La tigre e la neve, 2005). Dio non vuole «la morte del peccatore, dice il Signore, ma che egli si converta e viva» (Ez 33, 2).

Da sempre gli amanti sono impegnati a «contar y cantar» come l’intero universo abbia per loro armonia e bellezza solo perché l’Amato esiste e il mondo ha senso solo perché l’amato lo abita. L’amato che, nel tempo, si impara a custodire come “altro”, per potere un giorno incontrare l’Altro nel rispetto che si merita.

Stando dalla parte di chi riceve il dono del Pastore «que está olvidado» (Un Pastorcico 3), dalla parte «de su bella pastora» la quale «con gran pena se deja maltratar en tierra ajena» (Ibid.), ormai è chiaro: «le sue profondità sono infinite e quindi infinita sarà anche la sua fame la sua sete» (Fiamma 3, 22) e «tutte le creature sono briciole cadute dalla mensa di Dio… e le briciole servono più a stimolare l’appetito che a togliere la fame» (1S 6, 3). Per utilizzare saggiamente i suoi appetiti nei confronti dell’Amato che si china su di lui dopo che «lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto» (Lc 10, 30), l’uomo dovrà, dunque, imparare a «purificarli», non nel senso di rinnegare le giuste esigenze che essi esprimono, ma nel senso di mantenerli trasparenti all’unico grande desiderio che è degno dell’uomo: quello di Dio.

La misericordia di chi a noi si fa prossimo purifica il nostro attaccamento ai beni materiali perché ci ricorda che non dobbiamo lasciarci maltrattare da tutti quegli inviti alla concupiscenza, che alla fine ci hanno lasciato mezzo morti. Il desiderio (anche di bene, come quando il samaritano si china su di noi) non si tramuti in cupidigia, in avidità, in avarizia, fino a farci diventare prigionieri solo di ciò che riusciamo ad avere o ad accumulare.

Occorre purificare il nostro attaccamento a tutti quei beni sensibili e naturali che sono fonte di piacere, badando a che il bisogno di soddisfazione non si faccia sempre più smodato, fono a intorpidirci la coscienza e a ottundere la nostra sensibilità spirituale, fino a farci oltrepassare i confini del lecito immergendoci nelle nostre debolezze (vizi); purificare il nostro attaccamento ai beni intellettuali e morali di cui siamo dotati, sfuggendo ad un loro uso narcisistico ed egocentrico e sottoponendoli costantemente alla legge della carità (cioè del servizio fraterno); purificare perfino il nostro attaccamento ai beni spirituali e soprannaturali, osservando se, in forza di essi, la nostra anima si dilata e si espande missionariamente, o se si chiude nella compiacenza di sé e delle proprie virtù.

La locanda in cui viene portato il ferito incontrato dal Samaritano viene sovente vista come la Chiesa nella quale ci si prende cura dell’uomo bisognoso di essere riportato alla sua integra dignità. Sono i suoi Santi che fanno questo e lasciano la preziosa moneta dei loro scritti e della loro testimonianza per continuare a farlo nel tempo (cfr. Lc 10, 35). I Santi cristiani samaritani, riconoscono la bellezza che irraggia anche attraverso le piaghe e i tormenti del Crocifisso, abituati a chiedere la grazia di poter contemplare la bellezza di Cristo senza intermediari. Il loro sguardo si è fatto più acuto del nostro, perciò si chinano sulle ferite, educandoci alla verità di noi stessi, che siamo l’umanità di Cristo.

E Cristo, a un certo momento, sapendoci pronti ad accogliere la sua azione misericordiosa nei Santi, «per mezzo dell’unione di fidanzamento» ci fa «raccontare e cantare le grandezze» di Lui. Dio è le montagne, le isole d’oltremare, i fiumi, l’alba, la notte, la musica, la cena e tutto il resto, semplicemente perché l’amore che abbiamo nell’anima, nella sua fase unitiva, ci consente di percepire Dio così. Ogni uomo ha in sé la capacità di pensare e presentire Dio nelle realtà create, a partire dalle qualità in esse scoperte, esaltandole, per così dire, divinamente. Ma qui accade qualcosa di più: l’Amato si è comunicato all’anima personalmente, con crescente ricchezza e varietà, al punto tale che, quando davanti a lei scorrono le bellezze disseminate nella creazione e nelle molteplici esperienze umane, ella le riconosce (e vi percepisce infinite prospettive e risonanze) per il fatto che conosce il suo Amato.

E infatti stiamo facendo esperienza di Dio, nell’esercizio della Carità. La tentazione idolatrica di innalzare l’una o l’altra creatura a livello di Dio... tutto questo appartiene ormai al passato ed è stato travolto dall’incontro d’amore. La Sposa s’accorge che abbracciando Cristo riceve in maniera pura e «trasparente» tutte le creature; possedendo Lui s’accorge d’aver già trovato «personalizzata» anche tutta la bellezza disseminata nel mondo. «La Sposa afferma che suo Amato è per lei tutte queste cose» nel senso che «in quelle cose ella sente che Dio è per lei tutte le cose...» (CB 14-15, 5).

Chi non si accontenta mai di qualcosa che sia meno di Cristo, ed è perciò disposto a perdere tutto pur di poterLo trovare e di poterLo chiamare «Mio Amato!», si accorgerà di non aver perso nulla al mondo e di aver trovato in Lui, quasi «personificate», tutte le più belle opere della creazione e tutte le sue più care esperienze umane.

Siamo nel fidanzamento, e ai turbamenti di un’unione non ancora compiuta, e che la poesia offre nei sui simboli, la sposa risponde con una semplice richiesta: quella di «essere guardata», perché «il guardare di Dio è amare e fare grazie» (CB 19, 6). Sa di non doversi acquietare nella narcisistica contemplazione dei doni posseduti, dato che, se resta sotto lo sguardo dello Sposo, i doni cresceranno al ritmo stesso dello sguardo. Giovanni della Croce ci invita sempre a chiedere di restare sotto lo sguardo del Signore.

 

 

 

 

 

IV

 

Stato felicissimo è «una trasformazione totale dell’amata nell’Amato in cui le due parti si donano l’una all’altra attraverso un possesso totale, con una certa consumazione di unione amorosa, in cui l’anima – per quanto si può in questa vita diventa “Dio per partecipazione”» (CB 22, 3). Ciò non significa che l’uomo sia partece dell’essenza di Dio (poiché allora sarebbe Dio): «la comunione non è né sostanziale (come nel panteismo), né ipostatica (propria soltanto del Cristo)»[12]. L’uomo partecipa invece del rapporto con le nature create proprio di Dio. Anche per questo le “vede” con gli occhi Suoi, le contempla e collabora con Dio nella creazione ritornandole alla loro bellezza, per quanto gli è possibile. Di qui il criterio per stabilire il grado di unione a Dio di qualunque persona: la Carità vissuta.

Riprendiamo: alla Sposa si è nuovamente aperto l’accesso al «bel giardino sospirato» («ameno huerto deseado»): al bel paradiso che aveva perduto all’origine della propria storia personale.

«Era così vivo il desiderio che lo Sposo aveva di liberare e di redimere perfettamente la sua sposa dalle mani della sensualità e del demonio che, avendolo ormai fatto, si rallegra come il buon Pastore il quale, dopo avere errato a lungo, ritrova la pecorella smarrita e se la pone sulle spalle (Lc 15, 5), o come la donna che, perduta la dramma accende la lucerna e mette sottosopra tutta la casa per cercarla e infine, trovatala, la stringe in mano e chiama le amiche e le vicine invitandole a rallegrarsi con lei: rallegratevi meco, ecc. (Ibid., 9). Desta veramente meraviglia vedere il piacere e la gioia che prova l’amoroso Pastore e Sposo dell’anima nel vedersela ormai così ritrovata e perfetta posta sui suoi omeri e tenuta con le sue mani in questa desiderata unione … Egli chiama l’anima sua sposa, sua corona e gioia del suo cuore, portandola sulle braccia e procedendo con lei come uno sposo dal suo talamo (Sal. 18, 6)» (CB 22 annotazione).

Il primo Adamo ha rotto l’alleanza nuziale con Dio; il secondo Adamo, Cristo, ristabilisce l’alleanza nella natura umana che ha «sposato», sia personalmente (assumendo la carne e offrendola per la redenzione del mondo), sia comunitariamente (assumendo in qualche modo «tutta la natura umana[13]» e «unendosi ad ogni uomo»). «Il Figlio di Dio redense e di conseguenza sposò a sé la natura umana, e di conseguenza ogni anima» (CB 23, 3).

Lo sposalizio effettuato sulla Croce è offerto ad ogni anima e realizzato col Battesimo («la primera gracia») e tutto accade di getto «al passo di Dio» che dona tutto e subito. Ma poi la creatura umana deve assimilarlo «al passo dell’anima», cioè «a poco a poco». Dio le lascia il tempo della paziente scoperta e assimilazione di ciò che è accaduto. È la parabola nuziale del profeta Ezechiele (cfr. Ez 16, 5-14): all’inizio l’anima sembra una trovatella cananea, che i genitori hanno abbandonato nei campi «come oggetto ripugnante» (per essi che sono «briganti»[14]), ancora col cordone ombelicale e sporca di sangue. Poi ella cresce selvaggia fino alla giovinezza, finché non incontra un Signore che se ne innamora, la prende in sposa, la ricolma di vesti ricamate e di gioielli e la rende regina, perfetta in bellezza. Non contano per Lui (come invece contavano per i «briganti» che l’hanno messa al mondo) i tradimenti e le perversioni future della Sposa. Esse non impediranno allo Sposo di essere per-il-dono nei confronti della sua Sposa. Lo sposo non nega mai il perdono in vista di una «alleanza eterna».

Nell’ «alto stato del matrimonio spirituale», lo Sposo, afferma Giovanni della Croce, «rivela all’anima i suoi meravigliosi segreti»; le mostra come l’unione della quale gode la faccia entrare nei misteri dell’Incarnazione e della Redenzione, nella libertà del Creatore che rinnova la sua creazione.

«Quali dunque saranno i sentimenti dell’anima in mezzo a queste grazie tanto sublimi? Come si struggerà in amore! Di quanta gratitudine sarà piena vedendo il seno di Dio aperto per lei con un amore sì sovrano e generoso! Sentendosi immersa in tante delizie, fa a Dio il dono di tutta se stessa e gli offre in cambio il seno della sua volontà e del suo amore, sperimentando in ciò quello che la sposa dei Cantici prova ed esprime al suo Sposo, parlando con Lui: Io sono per il mio Amato, ed Egli è rivolto verso di me. Vieni, Amato mio, andiamocene in campagna, dimoriamo insieme nelle ville. Alziamoci di buon mattino per andare a vedere se la vigna è fiorita e i fiori promettono i frutti, e se sono fioriti i melograni. Lì ti darò il mio petto, cioè impiegherò i diletti e le forze della mia volontà in servizio del tuo amore» (CB 27, 2).

«Offrirsi reciprocamente il petto» è la formula che Giovanni della Croce sceglie per descrivere lo scambio d’amore tra Dio e la creatura umana, in cui questa si consegna «tutta e di fatto», «senza riservare nulla né per sé né per altri», «sua per sempre» (CB 27, 3). E ricordiamo qui che questo scambio è un ricevere dell’uomo e un ridare nei fratelli a Dio. Si ama Dio dello stesso amore con il quale si è amati da Lui, e questo amore non è verso Dio, o verso se stessi, ma verso l’altro da sé.

Questa totalità richiesta alla creatura non deve, però, far dimenticare che Dio per primo si è già atteggiato «quasi che egli fosse il suo schiavo ed essa suo Dio! Tanto profonda è l’umiltà e la dolcezza di Dio!» (CB 27, 1). Dio sceglie di avere la creatura «come proprio Dio». Mai un discorso d’amore è stato portato così a fondo da mostrarci un Dio inginocchiato ai piedi della sua creatura; e anche se Gesù ce ne ha mostrato l’immagine incarnata sulla terra, ora ci viene detto che questo stesso atteggiamento è quello del Padre celeste che si fa adorante della sua creatura. La «scienza appresa per amore», che Dio comunica all’anima giunta a questo stato, non è soltanto quella con cui ella apprende finalmente come «essere tutta sua per sempre e non trattenere per sé cosa alcuna che possa dispiacergli», ma è frutto di una trasformazione: «Trasformandola in se stesso, Dio l’ha fatta completamente sua e l’ha purificata da tutto ciò che impedisce tale unione... L’anima si dona in realtà tutta intera a Dio, senza riserva alcuna, come Dio si è dato liberamente a lei». Ella appartiene ormai a Dio tanto che non vorrà mai più separarsi da Lui; ma ancor più sconvolgente è il pensiero che l’anima è giunta a tanto perché lo ha imparato da Dio: un Dio che si dichiara anch’Egli «interamente consegnato, ripagato, e soddisfatto».

Ora, la «sposa innamorata» si mostra come «perduta al mondo». Infatti deve «compiere quell’unica cosa che, secondo lo Sposo, è necessaria (Lc 10, 42), cioè l’attenzione e il continuo esercizio d’amore in Dio» (C 29, 1).

Giovanni della Croce insiste in questo: «Egli [lo Sposo] apprezza quest’unica cosa al punto che rimproverò Marta che voleva allontanare Maria dai suoi piedi per occuparla in altre faccende al servizio del Signore, convinta di fare tutto lei, mentre Maria non faceva nulla, perché se ne stava a godere ai piedi del Signore. Invece è vero tutto il contrario, perché non esiste opera più grande o più necessaria dell’amore. Per questo, anche nel Cantico dei Cantici, lo Sposo difende la sposa, scongiurando tutte le creature del mondo, rappresentate lì dalle figlie di Gerusalemme, di non impedire alla sposa il sonno spirituale d’amore, di non destarla, né di farle aprire gli occhi ad altra cosa, finché essa non io voglia (Ct 3, 5)».

Sorprende la dura polemica che decide di intrattenere con chi pretende affermare il primato e la necessità della vita attiva e apostolica, invece che abbandonarsi al puro amore: «Prestino bene attenzione, allora, le persone molto attive, che credono di abbracciare il mondo con la loro predicazione e le loro opere esteriori. Pensino che gioverebbero di più alla Chiesa e riuscirebbero più gradite a Dio se, a prescindere dal buon esempio che darebbero, impiegassero almeno metà del loro tempo nello stare con Dio in preghiera… In questo caso otterrebbero di più - e con minor fatica - con un’opera sola anziché con mille, per il merito della preghiera e per le forze spirituali che in essa si acquisiscono. In caso contrario, sarà come battere l’aria o fare poco più che nulla, a volte proprio nulla o addirittura si reca danno. Dio non voglia che il sale cominci a diventare insipido (Mt 5, 13; Mc 9, 50; Lc 14, 34-35). Così, quanto alle persone molto attive, anche se esternamente sembrerà che facciano qualcosa, in sostanza non faranno nulla, poiché è certo che le opere buone non si possono compiere se non in virtù di Dio» (CB 29,3).

Ricordiamoci che L’Orazione è un disporsi a ricevere; esercita un’azione su «colui stesso che prega», rendendolo capace di ricevere i doni di Dio. 

Questo «estremismo contemplativo» di Giovanni della Croce si accorda bene con l'insegnamento della grande Teresa di Gesù, che mette al vertice dell’itinerario mistico l’accordo tra «Marta e Maria», e il fiorire di «opere e opere». Le opere del cristiano sono per Dio (a causa Sua). Marta e Maria appunto vanno insieme. E mentre Teresa guarda con gioia l’attività ecclesiale della Sposa proiettata in un fervore di opere, tutte motivate dal fatto che ella si sta «prendendo cura dell’onore del suo Sposo», Giovanni della Croce ha di mira la Sposa tentata di cedere al mondo che la ricatta in tema di carità: un mondo che, sotto pretesto di apostolato, la vorrebbe vedere ancora «intenta ai soliti rapporti e passatempi[15] che prima le erano abituali nel mondo» (CB 29, 5); un mondo dove spadroneggia la critica di coloro che «vogliono che tutto sia attività, che brilli e riempia esternamente l’occhio; [essi] non capiscono la, vena e la fonte occulta da dove scaturisce l’acqua e sboccia ogni frutto» (CB 29, 4). Ha di mira la Sposa che, giunta «a lo vivo del amor de Dios», giustamente «ritiene tutto il resto poca cosa» (CB 29, 5), e che si è felicemente persa per il mondo ed estraniata dai suoi critici mondani, non perché non vuole interessarsi alla loro salvezza, ma perché essi vorrebbero impedirle il felice guadagno dell’amore grazie al quale essa sarà lieta di soffrire per loro, completando nella «carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24): «Se ormai non la vedono più, credano e dicano pure che... essa stessa si è voluta perdere, cercando il suo Amato, profondamente innamorata di lui… Questa perdita è divenuta il suo guadagno e per questo ella si è voluta perdere di proposito» (CB 29, 5 ).

«A tutti quelli del mondo ella dice che la ritengano pure perduta e che lo dicano pure, perché essa ha piacere che lo dicano: direte che mi son perduta» (CB 29, 6). Seguo l’invito evangelico: «Chi vorrà guadagnare la propria vita la perderà, ma chi la perderà per Me la guadagnerà» (Mt 16, 25). «El que a si no se sabe perder no se gana, ante se pierde» (CB 29, 11) traduce Giovanni, quasi scolpendone i termini.

L’anima dunque non è che non faccia più opere - ché anzi le compie con «perfetta audacia e determinazione» («perfecta osadía y determinación») ma le fa tutte e solo per Dio, senza vergognarsene mai e restando sempre «perduta a se stessa», consapevole che «l’essersi perduta per Lui» è comunque la sua opera maggiore e insostituibile. Perciò chiunque «anda de veras enamorado» («si comporta da vero  innamorato») fa in modo di «perdersi» a tutto il resto, per guadagnarsi meglio in ciò che ama: «por ganarse mas en aquello que ama». Perdersi (o meglio, «farsi perdutella» - «hacerse perdidiza») è il modo migliore per lasciarsi conquistare: «es tener gana que la ganen» (CB 29, 10), lasciarsi «sedurre» (Ger 20, 7).

È «la soledad de todas la cosas», quella che si realizza soltanto quando nessuna cosa nasconde più o impedisce la sua Presenza. È importante ricordare qui la sottolineatura di Madeleine Delbrél secondo cui questa solitudine mistica, necessaria per l’unione con Dio, è possibile anche per coloro che sono vocazionalmente collocati nel frastuono del mondo e nel vortice della missione: «A noi gente della strada sembra che la solitudine non sia l’assenza del mondo, ma la presenza di Dio. É l’incontrarlo dovunque che fa la nostra solitudine. Essere veramente soli è, per noi, partecipare alla solitudine di Dio. Egli così grande che non lascia posto a nessun altro, se non in Lui. Il mondo intero è come un faccia a faccia con Lui dal quale non possiamo evadere. Incontro della sua vivente causalità negli incroci di strade, ricche di movimento. Incontro con la su orma sulla terra. Incontro della sua Provvidenza nelle leggi scientifiche. Incontro di Cristo in tutti questi “piccoli che sono suoi”: quelli che soffrono nel corpo, quel che s’annoiano, quelli che si inquietano, quelli che mancano di qualcosa. Incontro con il Cristo respinto, nel peccato dai mille volti. Come avremmo cuore di deriderli o di odiarli, questi innumerevoli peccatori ai quali passiamo accanto? Solitudine di Dio nella carità fraterna: il Cristo che serve il Cristo. Il Cristo in colui che serve, il Cristo in colui che è servito. L’apostolato come potrebbe essere per noi una dissipazione o uno strepito?»[16].

Non si tratta di una solitudine malata o scontrosa, ma della piena manifestazione di quella «ultima solitudo» - a cui accenna già il libro della Genesi - che la creatura sempre porta con sé, nascosta in fondo al proprio cuore e che dev’esser coscientemente ripresa e coltivata nel cammino di sequela, se ci si vuol davvero abbandonare nelle braccia dell’Unico Amore. Commentando il testo biblico Giovanni Paolo II diceva: «L’uomo è “solo”: ciò vuol dire che egli, attraverso la propria umanità, altro verso ciò che egli è, viene nello stesso tempo costituito in un'unica esclusiva ed irripetibile relazione con Dio stesso»[17]. Una tale solitudine originaria non si oppone al bisogno di comunione (né all’amore, né all’amicizia) che ogni essere umano sperimenta, ma sta all’origine di tale bisogno e fa vegliare continuamente il nostro cuore, matenendolo sempre orientato verso l’infinito amore sponsale del Figlio di Dio.

«Al fine, siamo stati creati per questo fine d’amore» (CB 29, 3): è la necessaria conclusione che non può essere messa in gioco, sotto nessun pretesto: «È più prezioso agli occhi di Dio ed è più utile alla Chiesa un briciolo di questo puro amore («un poquito de este puro amor») che tutte le altre opere messe insieme...» (CB 29, 2).

«Che cosa vi fa credere - scriveva G. Bernanos - che la solitudine allontani gli uomini e impedisca di comprenderli? Cristianamente, e anche umanamente, credo che sia vero il contrario. È nel silenzio e nella solitudine che ci si ritrova - si ritrova la verità di se stessi - attraverso questa verità che si accede a quella degli altri»[18].

Ancora M. Delbrél: «Sono sicura che il vero amore di Dio deve essere o diventare, umanamente, una solitudine, in una zona essenziale di noi stessi. Credo anche che è di questa solitudine che c’è bisogno per passare nel mondo e starvi come un fermento. Senza tale solitudine il dono di noi stessi a Dio non è mai radicale, e il dono di noi s agli altri è, sotto certi aspetti, povero»[19].

«Stabilirsi nella pace dell’unico e solitario amore dello Sposo»: questa è la vocazione suprema che Dio ha assegnato alla creatura. Una quiete dove Egli possa davvero «parlare al suo cuore, ciò significa soddisfare il suo cuore, che trova appagamento solo in Dio» (CB 35,1).

La Sposa, dunque, «vuole parlare d’amore allo Sposo e godere della sua presenza», e lo fa descrivendo con fierezza «ricchezze, virtù e doni che appartengono a entrambi» e parlando dell’uso che faranno di tale patrimonio. Per legare assieme tutto, ella offre un suo crine: un filo sottilissimo – quasi un nulla – ma forte come la sua volontà ormai decisa indomabilmente ad amare. L’Amore assoluto e totale, si lascia racchiudere e pregustare nell’incanto di «un particolare» della persona amata: «Oh, meraviglia degna di suscitare la nostra ammirazione e la nostra gioia! Dio fatto prigioniero da un capello» (CB 31, 8). Lo stupore va tutto all’incredibile propensione con cui Dio si lascia innamorare dalla sua fragile creatura. Viene alla mente la bella definizione di santa Teresa di Lisieux quando dice – nel prologo della sua Storia di un’anima – che «proprietà dell’amore è abbassarsi» (MA 3r). In questo consiste la purezza dell’amore di Dio.

 

 

V

 

 

L’anima dunque ha imparato a «vivere in solitudine». In questa solitudine il cuore veglia continuamente, mantenendosi sempre orientato verso l’infinito amore sponsale del Figlio di Dio. Perché l’anima desidera Dio e «non può essere consolata dalla compagnia di nessun’altra cosa; anzi, finché non Lo trova, tutto la fa sentire ancora più sola» (CB 35, 3). «El corazón no se satisface con menos de Dios», «Il cuore non si sazia con meno di Dio» (CB 35, 1).

Questa conseguenza - che giudica negativamente solo le «compagnie» scelte e cercate come sostituzione idolatrica dell’unico Amore necessario[20] - è la spiegazione ultima di tutte le «solitudini corrotte»: quella di chi si è isolato religiosamente nell’orgoglio, coltivando il disprezzo sistematico degli altri; quella di chi ha fatto il vuoto attorno a sé distruggendo legami e provocando lacerazioni; oppure quella di chi è stato tradito e si è lasciato andare ai margini dell’esistenza.

Come il desiderio di Dio coltivato esige una buona solitudine, così il desiderio di Dio represso o inascoltato provoca una cattiva solitudine. E come la buona solitudine fiorisce sempre in alte esperienze di comunione, così la cattiva solitudine distrugge anche le relazioni umane positive e necessarie.

Certo, anche chi coltiva una solitudine buona perché vuole «riposarsi soltanto in Dio» (CB 35, 4), ed è un riposo perché libera finalmente dalle inquietudini della ricerca di “onore” tra gli uomini, conosce – prima di giungere al sollievo – sofferenze e privazioni, perché la natura umana, dopo il peccato, non è più inclinata a riconoscere subito Dio come suo unico bene, ma poi l’unione con lui le diventa «nido, casa, dimora» (cfr Sal 83, 4). Chi ha conosciuto le vere sofferenze e i veri appagamenti, legati alla solitudine buona, è in grado di spiegare, ai tanti uomini malati di incomunicabilità, le risorse tuttavia nascoste del dolore che vivono.

A questo punto, bisogna affrontare insieme una obiezione: Il desiderio di Dio non dice della sua esistenza. Certo, un autore impareggiabile come S.C. Lewis, non sarebbe d’accordo. Leggiamo: «Il cristiano dice: le creature non nascono con un desiderio, se di quel desiderio non esiste soddisfazione. Un bimbo ha fame: esiste il cibo. Un anatroccolo vuole nuotare: esiste l’acqua; gli uomini provano desiderio sessuale: esiste il sesso. Se trovo in me un desiderio che nessuna esperienza di questo mondo è in grado di soddisfare, la spiegazione più probabile è che io sono fatto per un altro mondo. Se nessuno dei miei piaceri terreni soddisfa questo desiderio, ciò non dimostra che l’universo è un inganno. Probabilmente i piaceri terreni non sono destinati a soddisfarlo, ma solo a suscitarlo, a indicare il suo vero oggetto. Se è cosi, devo guardarmi da un lato dal disprezzare queste benedizioni terrene o dal mostrarmi ingrato, e dall’altro dallo scambiarle per qualcosa di cui esse stesse sono una sorta di copia, un’eco, un miraggio. Devo tener vivo in me, senza lasciare che sia mai sopraffatto o messo da parte il desiderio della mia vera patria che troverò soltanto dopo la morte; andare verso questa patria e aiutare il prossimo a fare altrettanto dev’essere il fine principale della mia vita...»[21].

Ma noi desideriamo cose che non sempre esistono nella realtà, e tuttavia sono vere: sono immaginari.

E vi sono immaginari puri - i sogni - e lì stanno, magari al cinema, alla TV, su Internet… rendono vivibile una vita spesso piena di contraddizioni. Il contraddittorio lo supero immaginando, nel sogno, o per esercizio di fantasia. A ciascuno il suo dio, quelli con la ‘d’ minuscola, quelli delle ‘religioni’.

Vi sono poi immaginari realizzabili, che rimangono tali fino a quando non pervengono, appunto, alla propria realizzazione. Stanno alla base dei progressi del genere umano, lungo tutta la sua storia. Non hanno una precisa fisionomia all’inizio, si va per tentativi. Li si cerca perché ci hanno già trovato. I loro simboli abitano la nostra mente e i nostri cuori, fino a che non si incontrano con la propria realizzazione. Ciò che simboleggiano è infine il nostro contributo alla Creazione.

Ma Dio è reale, solo reale. È oltre ogni immaginario e ci viene incontro, come ogni realtà. Se l’uomo giunse ad immaginare Dio nelle Religioni, Dio gli venne incontro. Ed era un’Altro. Tra l’altro Custode della custodia dell’alterità, della bellezza autentica.

L’episodio accadde nel monastero di Beas dove fra Giovanni della Croce si reca tutti i sabati per le confessioni. Un giorno chiede a suor Francesca della Madre di Dio: «Qual è la sua maniera di pregare?». La risposta che ottiene dall’umile suora lo incanta e lo illumina: «Mi soffermo a fissare la bellezza di Dio e a rallegrarmi che Egli la possieda». Per alcuni giorni Giovanni sceglie questo tema per le sue istruzioni alle monache, approfondendolo per loro. Poi decide di comporre le ultime cinque strofe del Cantico che cominciano appunto con un inno entusiasta alla Bellezza di Dio. Giovanni della Croce riprende, in maniera speculare, il tema iniziale della «ferita d’amore». All’inizio di tutto il poema risuonava, infatti, il lamento della Sposa che si sentiva «ferita d’amore», abbandonata a gemere, da un Amato inspiegabilmente fuggito. È anche lo Sposo che momentaneamente l’abbandona, a gemere, perché possa iniziare la loro reciproca e beatificante ricerca.

Ora, in questo nuovo inizio, peraltro conclusivo, ad essere «ferito» è lo Sposo: la solitudine totale della Sposa (cioè, il suo non poter trovar conforto in cosa alcuna che non sia la compagnia dello Sposo) provoca in Lui una continua «ferita d’amore». Propriamente Egli è «ferito da lei per la solitudine che ella ha a causa di Lui» («herido de ella por la soledad que por El tiene») (CB 35,7), come se il vuoto da lei volontariamente scelto scavasse in Lui («nel suo stesso corpo») sempre nuovi spazi o aperture d’amore. Ciò permette allo Sposo di «attrarla e assorbirla in Sé» («atrayendola y absorbendola en si»). Il ricordo del cuore trafitto di Cristo, rifugio mistico di tutte le anime amanti, non è fuori luogo.

Ad evocare l’immagine di Gesù, ferito d’amore, san Giovanni della Croce scriverà il piccolo poema El pastorcico, il pastorello che «su un albero si è innalzato, dove le sue belle braccia ha spalancato, appeso ad esse morir s’è lasciato, col petto dall’amore lacerato» (Poesie, VI). È l’immagine più cristologica che esista per esprimere questo amore solitario del Cantico Spirituale. In effetti non potremmo rivolgerci altrove se non a quell’icona del Crocifisso dove appunto noi contempliamo la massima forma, incomprensibile, dell’amore di Dio per noi e dall’altra parte l’espressione della massima solitudine che può essere chiesta ad un uomo e che Dio ha preso su di sé: la solitudine dell’orto degli ulivi; la solitudine della croce; la solitudine del sepolcro. L’esperienza del massimo dono d’amore di Dio per noi ha fatto sì che Gesù si consegnasse, abbandonandosi di fronte a noi.

«Oh, se l’anima riuscisse a capire che non si può giungere nel folto delle ricchezze e della sapienza di Dio, se non entrando dove più numerose sono le sofferenze di ogni genere riponendovi la sua consolazione e il suo desiderio! Come chi desidera veramente la sapienza divina, in primo luogo brama di entrare veramente nel folto della croce! Per questo S. Paolo ammoniva i discepoli di Efeso che non venissero meno nelle tribolazioni, ma stessero forti e radica ti nella carità, affinché potessero comprendere con tutti i Santi che cosa sia la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità e conoscessero pure la sovraeminente carità della scienza di Cristo, per essere ricolmi di tutta la pienezza di Dio (3, 13; 17-19). Per entrare dentro alle ricchezze della sapienza divina la porta è la croce che è stretta; pochi desiderano oltrepassarla, mentre sono molti coloro che amano i diletti a cui si giunge per suo mezzo» (CB 36, 13).

San Giovanni della Croce non può non rendere testimonianza alla sovreminente ricchezza del dono di Dio in Cristo, non può non cantare questo dono, non chiosare canto. Egli non può infine nemmeno non confessare la sua impotenza: ciò che ho detto non è nulla di ciò che dovrebbe essere detto, se sarà possibile che ciò sia detto! Sarà sempre possibile «entrare più dentro» (CB 37, 10) nella sapienza e scienza di Dio nascosta nella Croce. Per dire qualcosa di «questo» (aquello), san Giovanni della Croce ricorre alle lettere che l’autore dell'Apocalisse invia alle sette Chiese che sono ad Efeso, Smime, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea. I passi citati da Giovanni della Croce contengono sette volte il verbo «dare». Al termine di questo percorso di sette lettere, conclude con queste parole che si direbbero disincantate, se non fossero una raffinata lode al dono ineffabile di Dio in Cristo:

«Tali sono le parole del Figlio di Dio, dirette a far capire il «quello» (aquello). Sono tutte molto appropriate, ma non lo spiegano del tutto, poiché le cose immense hanno di bello che tutti i termini di eccellenza, di qualità e di grandezza e bontà si addicono loro, ma nessuno e neppure tutti insieme riescono a spiegarle» (CB 38, 8).

Non si può infatti spiegare la Communio, quel darsi reciproco, senza trattenere nulla per sé, in Dio. Si può solo giungere a sperimentare, fin da quaggiù, un particolarissimo coinvolgimento con lo Spirito Santo che «rende capace di spirare in Dio la stessa spirazione di amore che il Padre spira nel Figlio e il Figlio nel Padre … Se l’anima non si trasformasse nelle tre Persone della santissima Trinità in modo chiaro ed evidente la sua trasformazione non sarebbe né vera ne totale» (CB 39, 3). 

Del resto «non dice la Scrittura: “Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! (Gal 4, 6)”? Se questo accade già in terra che cosa accadrà quando entreremo nella perfezione celeste? E non è forse questo il fine per cui Egli ci ha creati “a sua immagine e somiglianza (Gn 1, 26- 27)”?» (CB 39, 4).

Qui troviamo espressioni che rasentano il limite di ciò che può essere pensato: «L’anima diviene deiforme e Dio per partecipazione» e «compie la sua opera di intelletto, conoscenza e amore, nella Trinità, insieme alla Trinità e come la stessa Trinità» (CB 39, 4). Sappiamo che «Gesù con la preghiera sacerdotale quando chiese al Padre che “tutti fossero una cosa sola come Lui era nel Padre e il Padre era in Lui, perfetti in uno” (Gv 17, 20-23)[22] ci ha ottenuto proprio questa ineffabile grazia» (CB, 39, 5). In altre parole, noi arriviamo a «possedere per grazia quegli stessi beni che Gesù possedeva per natura» e diventiamo veramente «dei per partecipazione, uguali e compagni proprio suoi: di Dio» (CB 39, 6). Se san Pietro ha promesso ai primi cristiani che sarebbero diventati «partecipi della natura divina» (2Pt 1, 4), ciò secondo Giovanni della Croce significa che «l’anima diventerà partecipe di Dio, operando in Lui e assieme a Lui l’opera della Santissima Trinità, in grazia dell’unione sostanziale che si sarà, compiuta tra l’anima e Dio» (CB 39, 6).

Certo l’immensità e l’altezza del dono sono difficili da comprendere, ma lo sono ancor più la trascuratezza e la bassezza in cui troppi si trascinano quaggiù: «o anime create per simili grandezze e ad esse chiamate, che fate? In cosa vi intrattenete? Le vostre pretese non sono che bassezza e i vostri beni miseria. Oh infelice cecità! Gli occhi della vostra anima non vedono più. Sono ciechi dinanzi a una luce così abbacinante! Le vostre orecchie sono sorde al suono di voci così forti! Come non vi accorgete che, mentre cercate le grandezze e la gloria di quaggiù, rimanete miserabili e vili, fatte ignoranti e indegne di tesori cosi preziosi?» (CB 39, 7). Il Signore ha scelto ciascuno di noi «per essere santi e immacolati di fronte a Lui nella carità» (Ef 1,4).

Davvero Giovanni sembra rivolgersi a noi con le stesse parole di Francesco: «Lascia che la grazia del tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto a Dio e a tal fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare, perché hai la forza dello Spirito Santo affinché sia possibile, e la santità, in fondo, è il frutto dello Spirito Santo nella tua vita (cfr Gal 5, 22-23). Quando senti la tentazione di invischiarti nella tua debolezza, alza gli occhi al Crocifisso e digli: “Signore, io sono un poveretto, ma tu puoi compiere il miracolo di rendermi un poco migliore”. Nella Chiesa, santa e composta da peccatori, troverai tutto ciò di cui hai bisogno per crescere verso la santità. Il Signore l’ha colmata di doni con la Parola, i Sacramenti, i santuari, la vita delle comunità, la testimonianza dei santi, e una multiforme bellezza che procede dall’amore del Signore, «come una sposa si adorna di gioielli» (Is 61,10).

Questa santità a cui il Signore ti chiama andrà crescendo mediante piccoli gesti. Per esempio: una signora va al mercato a fare la spesa, incontra una vicina e inizia a parlare, e vengono le critiche. Ma questa donna dice dentro di sé: “No, non parlerò male di nessuno”. Questo è un passo verso la santità. Poi, a casa, suo figlio le chiede di parlare delle sue fantasie e, anche se è stanca, si siede accanto a lui e ascolta con pazienza e affetto. Ecco un’altra offerta che santifica. Quindi sperimenta un momento di angoscia, ma ricorda l’amore della Vergine Maria, prende il rosario e prega con fede. Questa è un’altra via di santità. Poi esce per strada, incontra un povero e si ferma a conversare con lui con affetto. Anche questo è un passo avanti. […]

Così, sotto l’impulso della grazia divina, con tanti gesti andiamo costruendo quella figura di santità che Dio ha voluto per noi, ma non come esseri autosufficienti bensì «come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio» (1 Pt 4,10). Bene hanno insegnato i Vescovi della Nuova Zelanda che è possibile amare con l’amore incondizionato del Signore perché il Risorto condivide la sua vita potente con le nostre fragili vite: «Il suo amore non ha limiti e una volta donato non si è mai tirato indietro. E’ stato incondizionato ed è rimasto fedele. Amare così non è facile perché molte volte siamo tanto deboli. Però, proprio affinché possiamo amare come Lui ci ha amato, Cristo condivide la sua stessa vita risorta con noi. In questo modo, la nostra vita dimostra la sua potenza in azione, anche in mezzo alla debolezza umana»[23].

L’uomo che non ascolta questa vocazione e non cerca di realizzarla intristisce e Si abbrutisce. E forse è soprattutto da una tale sordità che dipende la moltitudine dei gesti che mancano il bersaglio della nostra umanità (i peccati) e dei mali che la affliggono. Bisogna passare per l’abbandono che il Signore ci ha mostrato sulla Croce, ripeterne la consegna.

La croce, soprattutto le stanchezze e i patimenti che sopportiamo per vivere il comandamento dell’amore e il cammino della giustizia, è fonte di maturazione e di santificazione. Quando affronti la persecuzione ti devi liberare da te stesso, quello che cerca appoggi e sicurezze, fossero anche i propri pensieri… Come scrive il Santo: Chi lascerà il proprio modo di fare e di vedere e di considerare? Per lasciarsi guadagnare da Cristo chi si perderà? Chi accetterà di perdersi per essere trovato da Dio?

Al momento supremo in cui l’anima desidera essere trasportata «al glorioso matrimonio» che può essere celebrato soltanto in Paradiso, la chiusa del Cantico diventa preghiera affinché «el dulcissimo jesùs» conduca ad un simile vertice «a todos los que invocan su nombre».

«Coloro che invocano il nome di Cristo»! una definizione che può essere applicata perfino ai bambini e a tutti i poveri peccatori che cercano continuamente di «tornare a casa». Perché chi si era nascosto è semplicemente tornato a casa, da dove le religioni lo volevano esiliare.

«Piaccia al dolcissimo Gesù, Spose delle anime fedeli, di condurvi tutti quelli che invocano il suo nome, al quale sia onore e gloria insieme con il Padre e con lo Spirito Santo in saecula saeculorum» (CB 40, 7).

Così sia.



[1] Hans Urs Von Balthasar, in Mysterium Salutis, III, Queriniana, Brescia, 1967, p. 19-20; 35.

[2] È la religione naturale la quale fa sì che si abbia paura del dio confuso con [2]la creatura di Dio.

[3] Francesco, Gaudete et Exultate, 141.

[4] Iain Matthew, L’impatto di Dio, p. 53.

[5] Vedi Henri de Lubac, Catholicism: a study of the corporate destiny of mankind, Burns and Oates 1950, p. 181.

[6] Lett 13, ad un frate carmelitano, 14 aprile 1589.

[7] Parole di luce e amore 99 [ed. it., Alla comunità di Beas 21.]

[8] San Bernardo, Del dovere di amare Dio e Sermoni sul Cantico dei Cantici. Trad. it., UTET, Torino 1947, p. 19.

[9] San Tommaso d’Aquino afferma: «E’ connaturale all’essere e alla volontà umana amare Dio più di se stessi» (Summa Theologiae, II-II, 141, 2, ad 2).

[10] Benedetto XVI, Deus Caritas est, 31.

[11] Pedro Salinas, La voz, a ti debida, Madrid 1933

[12] P. Evdokimov: “L’amour fou de Dieu” Seuil 1973, p. 48.

[13] Per «anima» Giovanni della Croce intende sempre l’intera persona umana, raggiunta nel suo nucleo più profondo.

[14] Cfr. LC 10, 25-37.

[15] È utile qui ricordare che «pasatiempos» è il termine con cui Teresa descrive le proprie infedeltà e trascuratezze al tempo dell’adolescenza, nei primi capitoli della Vita.

[16] M. Delbrèl, Noi delle strade, testo originale pubblicato in Etudes Carmelitaines, XXXIII, 1938, vol. I, pp. 32ss.

[17] Udienze, 24 ottobre 1979.

[18] G. Bernanos, Corréspondance, II, 303.

[19] Indivisibile amore, ed. Piemme, Casale Monferrato 1994, p. 120.

[20] Cfr. Madonna - Drowned World / Substitute For Love., Ray of light, 1998.

[21] Il cristianesimo così com’è. Sulla speranza, Adelphi, milano 1997.

[22] Un testimone racconta che spesso Giovanni della Croce, durante i lunghi viaggi a piedi, amava recitare la preghiera di Gesù, contenuta nel capitolo 17 del Quarto Vangelo.

[23] Francesco, Gaudete et Exultate, 15-18.

 

footprints of Jesus

Carmelitani Scalzi,
Via A. Canova 4.
20145 Milano
MI
379 174 4166 duruelo63@gmail.com
Powered by Webnode