30_Lewis - I quattro amori

C. S. Lewis

 

I quattro amori

 

 

Capitolo primo

INTRODUZIONE

San Giovanni ci ricorda che «Dio è amore». Quando per la prima volta provai a scrivere questo libro sull’amore, pensavo di aver trovato, con questa massima, una strada maestra che mi avrebbe guidato nell’esplorazione di un tema così impegnativo. Avevo pensato di cominciare dicendo che gli affetti umani meritano davvero questa qualifica solo nella misura in cui essi riproducono l’amore divino. Di conseguenza, la prima distinzione che feci fu tra quelli che io chiamai, contrapponendoli, «amore dono» e «amore bisogno»: appartiene alla prima categoria il sentimento che spinge un uomo a lavorare, fare progetti, risparmiare per il benessere futuro della sua famiglia che, pure, la morte gli impedirà di condividere o di vedere realizzato; è del secondo tipo, invece, l’amore che spinge un bambino a rifugiarsi nelle braccia della madre quando si sente solo o spaventato.

Non avevo dubbi su quale dei due somigliasse di più all’amore di colui che è l’amore stesso: l’amore divino può essere soltanto dono; il Padre offre tutto se stesso, e ciò che ha, al Figlio; questi, a sua volta, dona se stesso al Padre e al mondo, e se stesso al Padre per il mondo, affinché questo, per suo tramite, possa ritornare al Padre. E d’altra parte, che cosa vi può essere di più estraneo alla vita divina, quale ce la figuriamo, di un amore inteso come bisogno? Egli non manca di nulla, mentre il nostro «amore bisogno» - come ben vide Platone - «è figlio dell’indigenza». Esso è l’esatto riflesso, a livello di coscienza, della nostra autentica natura: l’uomo viene al mondo indifeso; nel momento in cui giunge alla consapevolezza di sé, scopre anche la solitudine; il suo bisogno degli altri è fisico, emotivo, intellettuale; non può fare a meno di loro se vuole arrivare alla conoscenza, anche soltanto del proprio essere.

Mi preparavo dunque, con ingenuo ardore, a scrivere un facile panegirico sul primo tipo d’amore, insieme ad una critica degli aspetti negativi dell’«amore bisogno». Molte delle convinzioni che nutrivo allora mi sembrano ancor oggi valide; ad esempio, sono sempre dell’opinione che il nostro amore sia ben poca cosa se si risolve interamente in un desiderio di ricevere, ma certo non mi sentirei più di affermare - sulle orme del mio maestro, George MacDonald - che chi fa solo esperienza di questo affannato desiderio scambia per amore un sentimento che con l’amore non ha nulla a che vedere. Infatti, non credo sia giusto negare all’«amore bisogno» la qualifica di amore; ogni qualvolta ho cercato di impostare il problema in questi termini, mi sono arenato tra interrogativi e contraddizioni. La realtà è molto più complessa di quanto immaginassi allora.

Se decidessimo di non chiamare più quell’«amore bisogno» la qualifica di amore, faremmo innanzitutto violenza a molte lingue, compresa la nostra. Infatti, senza voler considerare il linguaggio una guida infallibile, dobbiamo comunque riconoscere che, pur con tutte le sue deficienze, esso rimane il veicolo di trasmissione di molta saggezza ed esperienza accumulatesi nei secoli. Chi prova a sottovalutarne l’importanza finisce col pagarne, prima o poi, le conseguenze. È meglio non seguire l’esempio di Humpty Dumpty, che dà alle parole il significato che vuole lui.

In secondo luogo, bisogna andarci cauti nel definire l’«amore bisogno»un’espressione di «mero egoismo»: l’uso di questo aggettivo, infatti, è sempre pericoloso. È vero che si può indulgere egoisticamente all’«amore bisogno» come a tante altre nostre debolezze, e di certo è riprovevole una pretesa d’amore tirannica e vorace, ma nella nostra esperienza quotidiana non chiamiamo certamente egoista il bambino che si rivolge alla madre per essere consolato, o l’adulto che cerca compagnia «per non sentirsi solo».

Quei bambini, o quegli adulti, che più si sforzano di combattere questo istinto, raramente posseggono le doti dell’autentico altruista. So bene che chi prova questo «amore bisogno» può avere dei buoni motivi per cercare di sopprimerlo o di mortificarlo, ma l’esserne del tutto privi è un marchio che di solito contraddistingue il freddo egoista. Dal momento che il nostro bisogno degli altri è reale («Non è bene che l’uomo sia solo»), il venir meno, nella nostra coscienza, del senso di questo bisogno che si esprime attraverso l’«amore bisogno»—in altre parole, la convinzione, ingannevole, che sia bene per noi stare da soli—è un brutto sintomo spirituale, proprio come l’inappetenza è un cattivo sintomo sotto il profilo medico, perché l’uomo ha veramente bisogno del cibo.

Siamo giunti così al terzo aspetto della questione, che è senza dubbio il più importante. Qualunque cristiano sarà pronto a riconoscere che la salute spirituale dell’uomo è direttamente proporzionale al suo amore per Dio; questo amore, però, per la natura stessa del rapporto, è per buona parte, se non interamente, un «amore bisogno». Di ciò ci rendiamo conto quando imploriamo da lui perdono per i nostri peccati, o conforto nelle tribolazioni; ma forse la prova più evidente la abbiamo quando si fa più viva la nostra consapevolezza - che dovrebbe infatti essere in continua crescita - di come tutto il nostro essere si risolva, per sua stessa natura, in un unico, enorme bisogno: esso è incompleto, preparatorio, vuoto eppure compresso, e grida a colui che può sciogliere ciò che ora è avvinto, e congiungere ciò che ancora giace reciso.

Non voglio dire che l’uomo non possa offrire a Dio nient’altro che un puro e semplice «amore bisogno»: nell’estasi, l’anima raggiunge ben altre vette; ma proprio chi ha sperimentato questo traguardo è anche il primo a dirci che i vertici toccati cesserebbero di essere un segno della grazia - per trasformarsi in chimere neoplatoniche, se non addirittura demoniache - nell’istante stesso in cui I’uomo presumesse di poter contare su di esse nella vita quotidiana per affrancarsi da questa condizione di bisogno. «Ciò che è in alto - dice I’Imitazione - non si regge senza ciò che è in basso». Solo uno sciocco o uno sfrontato avrebbe l’ardire di presentarsi davanti al suo creatore con questa pretesa: «Io non vengo qui a mendicare; ti amo disinteressatamente». Proprio quelli che arrivano a provare verso Dio un amore che si avvicina a un atto di donazione, un momento dopo, se non addirittura in quell’attimo stesso, si batteranno il petto come i pubblicani, proclamando la propria limitatezza dinanzi all’unico e vero datore di tutte le cose. Dio stesso vuole che sia così; egli, del resto, si volge direttamente al nostro «amore bisogno» con le parole: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi», e ancora, nel Vecchio Testamento: «Spalancate la vostra bocca, e io la ricolmerò».

Un tipo particolare di «amore bisogno», dunque, il più grande che ci sia, coincide o per lo meno è una componente essenziale della condizione spirituale più alta, più salutare, e più realistica concessa all’uomo. Ne consegue un curioso corollario: il massimo accostamento a Dio si realizza nel momento in cui meno ci sentiamo simili a lui. Infatti, quale contrasto più grande si può immaginare di quello che oppone pienezza e bisogno, sovranità e umiltà, rettitudine e penitenza, onnipotenza e invocazione d’aiuto? La scoperta di questo paradosso mi fece vacillare, e fece naufragare i miei precedenti tentativi di scrivere sull’amore. Sembra inevitabile che qualcosa del genere debba accadere quando si affronta questo tema.

Dobbiamo ora distinguere tra due cose che, entrambe, potremmo definire come «vicinanza a Dio». La prima è la «somiglianza» con Dio. Si può dire che egli ha impresso un certo grado di somiglianza con se stesso in tutto ciò che ha creato: lo spazio e il tempo, pur con diverse modalità, riflettono la sua grandezza; la vita ne riproduce la fecondità; la vita animale, l’attività. Una somiglianza più spiccata è caratteristica dell’uomo, in quanto essere dotato di raziocinio. Gli angeli—così crediamo—sono dotati di due ulteriori elementi di somiglianza rispetto a noi, vale a dire l’immortalità e la conoscenza intuitiva. Per questi loro attributi gli uomini (buoni o cattivi) e tutti gli angeli (anche quelli caduti) Sono più simili a Dio degli animali; le loro nature sono «più vicine» alla natura divina.

Esiste però anche un secondo tipo di vicinanza a Dio, che definirei «vicinanza per accostamento». In questa prospettiva, la condizione nella quale l’uomo più si avvicina a Dio è quella che lo vede in cammino verso l’unione finale con Dio—verso la visione e il godimento di Dio—con la massima sollecitudine e certezza.

Se siamo in grado di afferrare la distinzione tra «vicinanza per somiglianza» e «vicinanza per accostamento», potremo comprendere anche come le due cose non sempre coincidano: ciò può verificarsi in alcuni casi, ma non in altri. Un esempio servirà a chiarire il concetto. Supponiamo di trovarci in montagna e di tornare, dopo una passeggiata, al paese dove siamo alloggiati; a mezzogiorno arriviamo in cima a un colle, dalla cui sommità la nostra meta ci sembra, in linea d’aria, assai vicina, quasi sotto di noi: si direbbe a un tiro di schioppo. Ma, dato che non siamo rocciatori, non possiamo scendere direttamente, e siamo costretti a compiere una lunga deviazione, di almeno cinque miglia. In alcuni momenti del nostro detour ci troveremo, chilometricamente, molto più lontani dal paese di quanto non lo fossimo stando seduti in cima al colle, ma, ripeto, soltanto in termini di misurazione statica; in termini di «avanzamento» reale, ci troveremo invece molto più vicini al bagno caldo e al tè che ci aspettano.

Poiché Dio è beato, onnipotente, sovrano e creatore, la felicità, la forza, la libertà e la fertilità (del corpo, come della mente) costituiscono, nel momento in cui si manifestano nella vita dell’uomo, dei fattori di somiglianza—e quindi di «vicinanza»—a Dio. Non per questo, però, noi siamo autorizzati ad affermare che il possesso di questi doni favorisca automaticamente la nostra santificazione: non esistono ricchezze sufficienti ad assicurarci il lasciapassare per il regno dei cieli. Anche se dalla cima del colle eravamo effettivamente vicini al villaggio, restando seduti là non avremmo mai visto avvicinarsi il nostro bagno caldo e il tè.

Nel nostro caso la somiglianza, che potremmo anche chiamare vicinanza, a Dio—da lui stesso conferita a particolari creature, e solo in determinate condizioni—è qualcosa di intrinseco e di finito. Ciò che è prossimo a Dio perché a lui simile, non potrà mai, soltanto per questo, avvicinarsi ulteriormente a lui. La «vicinanza per accostamento», invece, è per definizione un progressivo avvicinamento; e mentre la somiglianza ci viene data dall’alto—e può essere accolta con o senza gratitudine, può essere messa a frutto o se ne può abusare—l’accostamento a Dio è qualcosa che, per quanto avviato e sostenuto dalla grazia, spetta a noi portare a termine. Le creature sono fatte, in vario grado, a immagine di Dio, senza collaborazione né consenso da parte loro; ma non è così che esse diventano figlie di Dio. La somiglianza che abbiamo con lui in quanto suoi figli non è sullo stesso piano di quella che balza agli occhi da una fotografia o da un ritratto; in un certo senso essa va al di là della semplice somiglianza, poiché si tratta, invero, di consonanza, o di unità di intenti con Dio. Il che, tuttavia, non è in contrasto con le distinzioni che abbiamo operato finora.

Da questo si deduce che la nostra imitazione di Dio su questa terra, che è sforzo volontario, distinto da qualunque grado di somiglianza egli abbia impresso nella nostra natura o condizione umana, deve risolversi - come ha già detto ben altro scrittore - in un’imitazione del Dio incarnato: il nostro modello sarà non soltanto il Cristo del Calvario, ma anche quello dell’officina, della strada, della folla, delle grandi rivendicazioni e delle forti opposizioni, della mancanza di pace e di intimità, delle interruzioni.

Tutto questo, infatti, per quanto così radicalmente lontano dall’idea che ci siamo fatti della vita divina, non soltanto è manifestamente simile ad essa, ma anzi ne incarna l’operare nelle condizioni umane. A questo punto, prima di passare a trattare dei vari tipi d’amore, sarà opportuno spiegare il motivo che mi ha spinto a compiere questa distinzione preliminare.

L’affermazione di San Giovanni, che Dio è amore, è stata a lungo controbilanciata, nella mia mente, dal pensiero di un autore moderno, Denis de Rougemont, secondo il quale l’amore «dal momento che cessa di essere un dio cessa di essere un demone»; il che, ovviamente, può essere riformulato come «comincia a essere un demone nel momento in cui comincia a essere un dio». Se riusciremo a equilibrare questi due giudizi, potremo salvarci da molti pericoli. Ignorando questa precauzione, la verità che Dio è amore potrà capovolgersi nell’affermazione opposta, che l’amore è il nostro dio.

Suppongo che chiunque abbia riflettuto sull’argomento sia in grado di comprendere il senso delle parole di Rougemont. Qualsiasi affetto umano, al suo apice, tende a rivendicare a sé un’autorità divina, e la sua voce viene da noi facilmente scambiata per la volontà stessa di Dio. Essa ci esorta a non fermarci davanti a nessun ostacolo, a pagare qualunque prezzo; esige una totale dedizione; tenta di soverchiare ogni altra pretesa, e insinua in noi la convinzione che ogni azione fatta «nel sincero interesse dell’amore» è per questo legittima e anche meritoria. Tutti siamo pronti ad ammettere che un amore a sfondo passionale o l’amor di patria possono arrivare a diventare, sotto questo aspetto, degli «dèi»; lo stesso dicasi degli affetti familiari e, anche se in maniera diversa, dell’amicizia. Non vale la pena di soffermarci su questo punto, perché avrò occasione di farlo, a più riprese, nei capitoli successivi.

Vorrei ora mettere in risalto, piuttosto, che questa pretesa blasfema non si fa strada quando gli affetti umani sono più vili e degradati, ma, al contrario, quando essi raggiungono la loro espressione più spontanea e stimabile, quando sono—come dicevano i nostri nonni—«puri» o «nobili». Ciò risulta evidente soprattutto nella sfera erotica: una passione autentica e sinceramente disposta al sacrificio parlerà dentro di noi con una voce che ci sarà facile scambiare per quella di Dio; non così il frivolo appetito dei sensi, o una passione brutale. Questi ultimi riusciranno a traviare i loro adepti in mille modi, ma non per quella via; un uomo può agire per influsso di questo tipo di passione, ma non potrà mai arrivare a provare per essa della venerazione: sarebbe come se un uomo si mettesse a venerare il prurito che lo costringe a grattarsi. Quel momento di indulgenza che una madre sciocca ha verso il bambino viziato—anch’esso una forma di autoindulgenza che, finché l’accesso dura, si riversa su una bambola di carne e ossa—ha molte meno probabilità di «diventare un dio» della profonda e angusta devozione di quella madre che veramente «vive per il figlio». Sono convinto che l’amore di patria che può essere evocato da una generosa bevuta di birra e dalle note di una banda di ottoni non spingerà mai nessuno a commettere in suo nome atti malvagi né atti eroici. Basterà, infatti, ordinare un altro boccale e unirsi al coro perché esso si dilegui completamente. Ed è naturale che sia così; i nostri affetti non possono aspirare alla divinità finché questa pretesa non diviene plausibile, il che accade soltanto se essi arrivano ad avere un’autentica somiglianza con Dio, cioè con colui che è l’amore stesso.

Ma attenzione a non cadere in un facile errore. I nostri «amori dono» hanno davvero una somiglianza con Dio, e in misura tanto maggiore quanto più il dono è fatto senza riserve e pregiudiziali. Quanto hanno saputo dire i poeti a questo proposito è vero: la gioia, l’energia, la pazienza, la prontezza al perdono che caratterizzano questi affetti altruistici, la loro preoccupazione per il bene della persona amata, tutto questo costituisce uno specchio reale della vita divina, e si impone alla nostra venerazione. In sua presenza abbiamo ragione a ringraziare il Signore «che ha dato all’uomo un tale potere». Siamo dunque nel pieno rispetto della verità e dell’evidenza quando affermiamo che chi ama intensamente è «vicino» a Dio.

Ma questa rimane una «vicinanza per somiglianza», impotente a generare, per virtù propria, una «vicinanza di accostamento». La somiglianza ci è stata data; essa non è necessariamente collegata a quel lento e faticoso cammino verso Dio che deve essere, invece, una nostra conquista personale (anche se non sono esclusi aiuti dall’esterno). Sul momento, tuttavia, questa somiglianza ha un suo splendore, che fa sì che noi scambiamo per «uguale» ciò che è soltanto «somigliante». I nostri affetti umani possono così diventare l’oggetto di quella incondizionata devozione che è dovuta unicamente a Dio; successivamente, si trasformeranno in veri e propri dèi; infine, in demoni; per ultimo, essi ci distruggeranno, e con noi loro stessi. Questo perché gli affetti naturali cui è consentito di diventare dèi non riescono a conservare per molto la loro originaria natura: continueremo a chiamarli con questo nome, ma spesso essi si saranno mutati in complesse forme di odio.

I nostri affetti che tradiscono un bisogno di ricevere potranno essere avidi ed esigenti, ma non avranno mai la statura per ergersi a dèi; non sono, infatti, abbastanza vicini a Dio—quanto a somiglianza—per potere presumere tanto.

Da quanto ho detto sarà apparsa chiara la necessità di non associarsi né agli adoratori né ai «detrattori» dell’amore umano. Un’eccessiva venerazione per l’amore passionale e per gli «affetti familiari» ha caratterizzato in senso negativo tutta la produzione letteraria del XIX secolo. Leggendo ciò che scrissero Browning, Kingsley e Patmore, a volte si ha l’impressione che innamorarsi equivalga a diventare santi. I romanzieri dell’epoca, poi, contrapponevano abitualmente al «secolo» non il regno dei cieli, ma il focolare domestico.

Oggi stiamo attraversando un momento di reazione a questa tendenza: i «detrattori» rigettano come stucchevoli e inutili sentimentalismi gran parte di ciò che i loro padri hanno detto in lode dell’amore, e preferiscono dedicarsi al compito di svellere e mettere in mostra impietosamente le fangose radici dei nostri affetti umani. Io ritengo, invece, che non si debba dare ascolto né al «gigante troppo saggio» né a «quello troppo stupido». «Ciò che è in alto non si regge senza ciò che è in basso». Una pianta ha bisogno di avere radici sotto di sé e luce sopra di sé, e le radici non possono che essere imbrattate di terra. Molto di quel sudiciume è in realtà uno «sporco pulito», se soltanto resta confinato in giardino, senza che ci diamo la pena di spargerlo sul tavolo della biblioteca.

Gli affetti umani possono essere gloriose immagini dell’amore divino; niente di meno, ma anche niente di più: solo affinità che derivano dalla somiglianza e che, per un verso, possono favorire, ma per un altro impedire, un’affinità che sia invece il risultato di un avvicinamento. A volte, essi possono non avere nulla a che vedere con questa affinità, né in un senso, né in un altro.

 

Capitolo secondo

PREDILEZIONE E AMORE

PER CIO’ CHE È SUBUMANO

Molti della mia generazione rammenteranno di essere stati rimproverati, da piccoli, per aver detto di «amare» le fragole; infatti taluni considerano un vanto che l’inglese possegga due distinti verbi—«amare» e «piacere»— mentre il francese è costretto a servirsi di un unico verbo, aimer, per entrambi i significati. Ma il francese ha dalla sua molte altre lingue, senza contare che anche l’inglese corrente, a volte, imita quest’uso. A chiunque capita di dire ogni giorno, per quanto corretto e ligio egli possa essere, di «amare» un cibo, un gioco, un passatempo; ed effettivamente esiste un’innegabile continuità tra i nostri piaceri più elementari e i nostri affetti verso le persone. Poiché «ciò che è in alto non si regge senza ciò che è in basso», sarà opportuno cominciare dal basso, dalle semplici predilezioni, e dal momento che prediligere qualcosa significa ricavare da essa un certo gusto, comincerò proprio da questo tipo di piacere.

È ormai da tempo assodato che i piaceri possono essere divisi in due categorie: quelli che sono tali solo in quanto preceduti da un vivo desiderio, e quelli che sono piaceri a pieno titolo, senza il concorso di un atteggiamento preparatorio. Bere un bicchier d’acqua rientra nel primo gruppo: può essere un piacere se si ha sete, e anche uri gran piacere se si ha molta sete, ma probabilmente mai nessuno, se non spinto dalla sete o dalla prescrizione del medico si è mai versato, e bevuto, un bicchier d’acqua per il puro gusto di farlo.

I piaceri improvvisi e imprevisti dell’olfatto sono un esempio del secondo tipo, come l’inspirare a pieni polmoni avvicinandosi a un campo di fagioli in fiore, o a un filare di piselli odorosi durante la nostra passeggiata mattutina. Un momento prima ci sentivamo appagati e pienamente soddisfatti; il piacere che ci viene elargito poi—e può essere davvero intenso—è un dono non richiesto, in sovrappiù.

Se finora mi sono servito soltanto di esempi elementari, è per amore di chiarezza, ma è ovvio che vi possono essere situazioni più complesse. Se ci offrono un caffè o una birra quando ci saremmo aspettati—e ci sarebbe bastato—un bicchier d’acqua, proveremo contemporaneamente un piacere del primo tipo (per il placarsi della sete) e uno del secondo (per il buon sapore). Oppure, l’assuefazione può trasformare quello che una volta era un piacere del secondo tipo in un piacere del primo tipo. L’uomo temperante gusterà con intenso piacere un occasionale bicchiere di vino, proprio come la fragranza del campo di fagioli; ma l’alcolizzato, cui l’abuso ha ormai distrutto palato e stomaco, non gusta più nessun liquore, dal quale, tutt’al più, egli trae un momentaneo sollievo all’impellente bisogno di alcol. Per quel poco che ancora riesce a distinguere dei sapori, quello del liquore non gli sembra nemmeno buono, ma è sempre meglio del tormento della privazione.

Nonostante tutti gli scambi e le combinazioni che si possono verificare tra le due classi di piaceri, la distinzione originaria rimane sufficientemente chiara. Potremmo adottare, per í due tipi, le denominazioni di «piaceri da bisogno» e «piaceri di apprezzamento». Tutti sono in grado di vedere l’affinità tra questo «piacere da bisogno» e l’«amore bisogno» di cui ho parlato nel capitolo precedente. Ma là, ricorderete, confessavo di aver dovuto far forza su me stesso per non svilire l’«amore bisogno», per non negargli addirittura la qualifica di amore. Qui, invece, rischio di cadere nella tentazione opposta: sarebbe molto facile diffondersi sulle lodi dei «piaceri da bisogno» e considerare con diffidenza quelli che sono di apprezzamento; gli uni così naturali (un aggettivo che fa sempre un certo effetto), così necessari, così protetti dagli eccessi per via della loro stessa naturalezza, gli altri voluttuari, anticamera di ogni lussuria e vizio. Se fossimo a corto di argomenti in proposito, basterebbe rivolgerci alle opere degli stoici, aprire il rubinetto e lasciar scorrere fino ad averne la vasca piena.

Nel corso di questa ricerca, invece, dovremo far attenzione a non lasciarci sfuggire mai giudizi morali, o di valore, avventati. La mente umana, si sa, è in genere molto più incline a lodare, e a criticare che non a descrivere e a definire; essa mira a fare di ogni distinzione una discriminazione in termini di valore. Da qui l’atteggiamento di quei funesti critici che non riescono a mettere in luce le differenti qualità di due poeti senza prima averli messi in graduatoria, come fossero in lizza per un premio letterario. Noi dovremo evitare di fare altrettanto parlando dei piaceri, tenendo conto della complessità della realtà. Può servire a metterci in guardia, al proposito, la riflessione che il «piacere da bisogno» è lo stadio finale cui giungono i «piaceri di apprezzamento» quando si deteriorano, dopo averci portati all’assuefazione.

Il nostro interesse per questi due tipi di piacere, comunque, si limiterà in questa sede a quegli aspetti che adombrano caratteristiche comuni ai nostri «amori» propriamente detti.

L’assetato che ha appena vuotato una caraffa d’acqua potrà esclamare: «Per giove, proprio quello che ci voleva!»; lo stesso dirà l’alcolizzato dopo l’abituale cicchetto. La persona che passa accanto ai piselli odorosi durante la sua passeggiata mattutina dirà invece: «Com’è buono questo profumo! ». L’intenditore, dopo il primo sorso di un chiaretto d’annata, esclamerà anche lui: «Questo è un vino eccezionale! ». Quando si tratta di «piaceri da bisogno» le nostre affermazioni riguardano, di regola, noi stessi, e sono formulate al passato; quando si tratta di «piaceri di apprezzamento» esse sono rivolte all’oggetto in questione, e sono espresse al presente.

Shakespeare ha descritto l’appagamento di una passione tirannica come qualcosa «Past reason hunted and, no sooner had, Past reason hated».

Qualcosa di simile si verifica anche nel caso dei più innocenti e insopprimibili «piaceri da bisogno», anche se, ovviamente, in misura assai minore; forse questi non diventano oggetto d’odio una volta goduti, ma è certo che allora «muoiono in noi» con incredibile rapidità. Il rubinetto e la caraffa d’acqua rappresentano indubbiamente un richiamo quando si rientra in casa con la gola secca dopo aver falciato l’erba, ma cinque secondi dopo essi avranno perso ogni attrattiva. L’odore del fritto ci fa un diverso effetto prima e dopo il pranzo. Infine—e mi si perdoni il ricorso all’esempio più vile—chi di noi non ricorda di aver provato una gioia quasi degna di essere celebrata in versi quando, trovandosi in una città straniera scorgeva infine la scritta SIGNORI su una porta?

I «piaceri di apprezzamento» sono ben diversi; essi non ci procurano un semplice appagamento dei sensi, ma qualcosa che di diritto esige il nostro apprezzamento. Il godimento che l’intenditore trae dal bere il suo chiaretto non si può certamente mettere a confronto con quello che egli prova scaldandosi i piedi freddi. Nel primo caso egli ha la consapevolezza che il vino merita la sua piena attenzione e che esso giustifica la lunga tradizione e l’abilità che hanno concorso alla sua riuscita, oltre, naturalmente, agli anni di preparazione occorsi per predisporre il palato ad apprezzarlo. Nel suo atteggiamento possiamo distinguere persino una sfumatura di altruismo: non è solo a proprio beneficio che egli desidera che il vino venga stagionato e conservato con le opportune cure; anche se fosse in punto di morte e sapesse di non poterne più bere, sarebbe ugualmente addolorato al pensiero che quell’annata andasse sprecata o deteriorata, o anche soltanto bevuta da incompetenti (come il sottoscritto), incapaci di distinguere tra un chiaretto buono e uno mediocre.

Lo stesso vale per l’uomo che passa accanto ai piselli odorosi: egli non solo gode del profumo, ma sente anche che tale fragranza in qualche modo merita di essere apprezzata; se dovesse passare oltre distratto e inappagato si sentirebbe in colpa, e certo si rivelerebbe rozzo e privo di sensibilità. Sarebbe un peccato se una cosa tanto bella andasse sprecata; sarà un momento delizioso da ricordare per anni e anni a venire. Proverà dispiacere quando saprà che il giardino è stato inghiottito da cinema, autorimesse, dalla nuova circonvallazione.

Da un punto di vista scientifico, entrambi i tipi di piacere dipendono, comunque, dalla nostra percezione sensoriale. I «piaceri da bisogno», però, fanno aperta confessione della propria relatività non solo rispetto all’organismo umano, ma anche rispetto alle concisioni in cui esso si trovava al momento della sensazione; al di fuori di questa correlazione essi non hanno per noi il minimo significato, o interesse.

Gli oggetti che ci procurano un «piacere di apprezzamento» danno invece la sensazíone - quand’anche irrazionale - che in qualche modo noi siamo tenuti a gustarli, ricercarli, lodarli. «Sarebbe un peccato sprecare un vino simile per Lewis»—potrà dire l’intenditore di chiaretto. «Come si può passare accanto a questo giardino senza accorgersi dei suo profumo?»—ci chiederemo noi. Lo stesso non si può dire dei «piaceri da bisogno»: non rimprovereremo certo noi stessi, o il prossimo, per non aver avuto sete, e per aver quindi oltrepassato una fontanella senza bere un sorso d’acqua.

In che modo i «piaceri da bisogno» adombrino i nostri «amori bisogno» è abbastanza ovvio: in questi l’amato viene visto in rapporto con le nostre esigenze, esattamente come si guarda il bicchiere d’acqua quando si ha sete, o come l’alcolizzato guarda il bicchiere di gin. Entrambi, l’«amore bisogno» e il «piacere da bisogno», non durano oltre la necessità dei momento; il che però non significa, fortunatamente, che tutti gli altri affetti che cominciano come «amore bisogno» siano per questo condannati a essere transitori. Quel bisogno, tanto per cominciare, può rivelarsi permanente, o ricorrente; oppure sull’«amore bisogno» potrà innestarsi un altro tipo di affetto; a volte sono dei principi morali, ad esempio la fedeltà coniugale, la pietà filiale, la gratitudine e così via, che possono far durare il rapporto per tutta la vita. Ma se I’«amore bisogno» non riceve un sostegno, è vano sperare che non «muoia in noi» una volta cessato il bisogno. Ecco perché il mondo risuona dei lamenti delle madri trascurate dai figli orma cresciuti, e delle amanti abbandonate dopo aver saziato quel desiderio fisico che era I’unico legame che teneva il compagno vicino a loro.

Diverso è il caso del nostro «amore bisogno» per Dio, perché il bisogno che abbiamo di lui non avrà mai fine, né in questo mondo né in qualunque altro. Può però cessare la nostra consapevolezza, nel qual caso anche questo «amore bisogno» muore. «The Devil was sick, the Devil a monk would be». Apparentemente non c’è motivo di tacciare di ipocrisia l’effimera devozione di quelle persone la cui religiosità si dilegua una volta superato «il pericolo, la necessita, o la tribolazione». Perché, infatti, non avrebbero dovuto essere sinceri? Erano disperati e hanno invocato aiuto; chi non lo avrebbe fatto al posto loro?

Ciò che il «piacere di apprezzamento» adombra, invece, non può essere descritto così sbrigativamente. Innanzitutto, esso è il punto di partenza della nostra esperienza del bello; è impossibile tracciare una linea di demarcazione al di sotto della quale i piaceri sono «sensuali» e sopra alla quale essi sono «estetici». Le esperienze dell’intenditore di chiaretto contengono elementi di concentrazione, giudizio e percettività disciplinata che non deriva- no certo dai sensi; quelle del musicista sono ancora condizionate da elementi sensoriali. Non c’è frontiera, e neanche soluzione di continuità, tra il piacere quasi fisico dei profumi di un giardino, un godimento globale della campagna (o della sua bellezza) e, perfino, il godimento di opere di poesia o di pittura ad essa ispirate.

Come accennavo poc’anzi, in questi piaceri è presente fin dall’inizio un’ombra, un barlume di invito a un atteggiamento disinteressato. Naturalmente, anche nel caso dei «piaceri da bisogno» si può essere talvolta disinteressati o altruisti—e tanto più eroicamente: è una tazza d’acqua che Sidney, ferito, cede al soldato morente. Ma non è questo il tipo di altruismo cui mi riferisco. Sidney agisce in nome dell’amore per il prossimo; nel caso dei «piaceri di apprezzamento», invece, anche nelle loro forme più basse—e in misura maggiore mano a mano che si trasformano nel pieno apprezzamento della bellezza—sentiamo nascere dentro di noi qualcosa che non esiterei a definire amore, e per di più disinteressato, verso l’oggetto stesso. E quel sentimento che tratterrebbe un uomo dal deturpare un’opera d’arte, anche se egli fosse l’ultimo esemplare della razza umana rimasto sulla terra e, per giunta, prossimo a morire. È ciò che ci fa sentire felici al pensiero di una foresta ancora incontaminata—che pure non vedremo mai con i nostri occhi. È ciò che ci fa desiderare ansiosamente che il giardino, o il campo di piselli odorosi, continuino a esistere. Non si tratta soltanto del fatto che queste cose ci piacciono; noi le stimiamo anche «molto buone», con un giudizio che, in quel momento, ci pone quasi su un livello divino.

Si vede ora come il nostro criterio di cominciare da ciò che sta più in basso—senza il quale «ciò che è in alto non si regge»—comincia a dare i suoi frutti. Esso mi ha rivelato l’insufficienza della precedente classificazione degli affetti in base alle categorie del bisogno e del dono; esiste, infatti, Un terzo elemento nell’amore, non meno importante degli che è adombrato nei nostri «piaceri di apprezzamento». Questo giudizio, secondo il quale un oggetto è «buono», quest’attenzione, quasi un omaggio, offerta ad esso come qualcosa di dovuto, questo desiderio che esso sia e continui a essere ciò che è ora, anche se è destino che noi non dobbiamo goderne mai, può essere rivolto non soltanto alle cose ma anche alle persone. Se esso ha per oggetto una donna, lo chiameremo ammirazione; se un uomo, culto dell’eroe; se Dio, adorazione.

L’«amore bisogno» si appella a Dio dalla nostra condizione d’indigenza; l’«amore di apprezzamento» brama di servire Dio, persino di soffrire per lui. L’«amore di apprezzamento» dice: «Noi Ti rendiamo grazie per la Tua gloria immensa»; l’«amore bisogno», verso una donna dice: «Non posso vivere senza di lei». L’«amore dono» desidera ardentemente renderla felice, darle conforto, protezione—se possibile, farla vivere negli agi—; l’«amore di apprezzamento» la contempla trattenendo iI respiro, e tace; gode per il semplice fatto che una simile meraviglia esista, pur sapendola non destinata a sé; non cederebbe allo sconforto se dovesse perderla; e questa alternativa gli sembrerebbe sempre meglio del non averla mai conosciuta.

Si uccide per poi dissezionare. Nella vita quotidiana, grazie al cielo, i tre elementi costitutivi dell’amore si mescolano e si alternano istante dopo istante. Forse nessun tipo di amore, ad eccezione dell’«amore bisogno» esiste mai solo, chimicamente «puro», per più di pochi secondi. Probabilmente questo è il motivo per cui nella vita niente è duraturo, tranne il bisogno.

Un trattamento particolare richiedono due forme di amore per qualcosa che va al di là degli interessi del singolo. Per alcune persone, specie tra gli inglesi e i russi, il cosiddetto «amore per la natura» è un sentimento particolarmente radicato e duraturo. Mi riferisco qui a quella passione che non può essere classificata semplicemente come un caso particolare del nostro amore più generale per ciò che è bello. Questo anche se, è ovvio, molti oggetti naturali—alberi, fiori e animali—sono in sé belli; gli amanti della natura che intendo io non sono attratti dai singoli oggetti belli che la natura ci offre. Chi invece lo è, sarà per loro un’occasione di distrazione: un appassionato di botanica si rivelerà una compagnia insopportabile durante un’escursione; è il tipo di persona che si fermerà in continuazione, richiamando l’attenzione sui dettagli più insignificanti. Gli amanti della natura non cercano nemmeno il bello scorcio o il panorama suggestivo; infatti il loro portavoce, Wordsworth, si è espresso con forza contro tale atteggiamento. Esso, infatti, porta a fare «paragoni tra uno scenario e l’altro», a «trastullarsi» con «gracili novità di colori e di proporzioni». Mentre si è occupati in questa attività critica e discriminatrice, si perde di vista proprio ciò che è più importante, gli «umori del tempo e della stagione» e lo «spirito» del luogo.

E, naturalmente, Wordsworth ha ragione. Questo è il motivo per cui, se amiamo la natura nel modo che intende lui, un paesaggista sarà un compagno anche peggiore del botanico durante una passeggiata all’aperto. E’ l’«umore», lo «spirito» che conta. Gli amanti della natura vogliono arrivare a percepire, il più distintamente possibile, anche la minima parola, per così dire, pronunciata daIIa natura in quel particolare momento e luogo. La ricchezza manifesta, la grazia e l’armonia di alcune scene non sono più gradite, ai loro occhi, della cupezza, desolazione, terrore, monotonia o della «desolazione visionaria» di altre. Persino un paesaggio monotono troverà in loro una rispondenza, in quanto si tratta di una parola in più pronunciata dalla natura. Essi mettono a nudo se stessi davanti alle qualità intrinseche di ogni paesaggio, nelle diverse ore del giorno; vogliono farle penetrare in sé, fino ad assorbirne completamente il colore.

Questa esperienza, come è il caso di tante altre è stata portata alle stelle nel xix secolo, per finire poi ridimensionata dai moderni.

Ai denigratori di Wordsworth concederemo che, parlando da semplice filosofo (o da filosofo dilettante) e non da poeta, egli ha detto molte sciocchezze. È sciocco credere, senza averne le prove, che í fiori godano nel respirare l’aria, e ancor più sciocco non aggiungere che, se così fosse, i fiori proverebbero certamente dolore, oltre che piacere. E di sicuro nessuno ha mai imparato la filosofia morale «per la suggestione di un bosco in primavera»; nel qual caso, poi, non si tratterebbe certo del tipo di filosofia morale che Wordsworth avrebbe approvato, ma, piuttosto, di un’esaltazione della più spietata competitività, Credo che proprio questo sia il caso di alcuni pensatori moderni: il loro amore per la natura è legato al richiamo che essa esercita sui «demoni oscuri del sangue»; ciò avviene non a dispetto, ma a motivo della mancanza di pietà e di pudore con cui in natura si manifestano l’impulso sessuale, la fame e l’istinto di potere.

Se scegliamo la natura a maestra, essa ci insegnerà esattamente ciò che in anticipo abbiamo deciso di imparare; il che significa, in altre parole, che la natura non è maestra. La tendenza a investirla di questo ruolo si innesta con facilità sull’esperienza che noi chiamiamo «amore per la natura»; ma si tratta soltanto di un innesto. Mentre noi siamo sotto l’influsso degli «umori» o degli «spiriti» della natura, non riceviamo da essa direttive di ambito morale, ma veniamo, piuttosto, sopraffatti da una travolgente gaiezza, o da un’insostenibile magnificenza, o da una tetra desolazione. Potrete fare, di questo, quello che più vi piace (se ne siete capaci): l’unico imperativo che risuona sulle labbra della natura è: «Guarda, ascolta, assisti».

Il fatto che questo imperativo venga così travisato, e che in suo nome si edifichino teologie, dottrine panteistiche e antiteologie—tutte ugualmente passibili di ridimensionamento—non sminuisce certo il suo valore come esperienza. Da essa gli amanti della natura—i Wordsworthiani, come pure le persone con i «demoni oscuri nel sangue»—apprendono un’iconografia, un linguaggio di immagini, che non è fatto soltanto di percezioni visive:

anche quegli «umori», quegli «spiriti», potenti espressioni di terrore, malinconia, giocondità, crudeltà, lussuria, innocenza, purezza, si fanno immagini. L’uomo può servirsene per paludare le proprie dottrine personali; ma se si vuole imparare la teologia e la filosofia bisogna rivolgersi altrove: non c’è da stupirsi se i migliori maestri sono piuttosto i teologi e i filosofi.

Quando parlo di «rivestire» il nostro credo con tali immagini non mi riferisco alla creazione di similitudini o metafore di ambito poetico; avrei potuto dire, invece di «rivestire», «riempire», o «incarnare». Molte persone, me compreso, non sarebbero mai arrivate a comprendere il senso delle parole che usiamo per fare la nostra professione di fede se non avessero sperimentato certi aspetti della natura. Essa non mi ha certo insegnato che esiste un Dio della gloria e dell’infinita maestà: questo l’ho dovuto imparare per altre vie; il compito della natura, piuttosto, è stato quello di chiarirmi il senso della parola gloria. Dove altro—mi chiedo—avrei potuto impararlo? Sarei mai riuscito a dare un altro significato all’espressione «timor di Dio», che non fossero gli sforzi meschini per raggiungere una sicurezza, se non avessi visto certo burroni minacciosi e precipizi inaccessibili? Se la natura non avesse risvegliato in me certe intense aspirazioni, mi sarebbero rimaste per sempre precluse ampie distese di quello che ora so di poter chiamare l’«amore di Dio».

Ovviamente, quest’uso che un cristiano può fare della natura non costituisce di per sé, alcuna prova della legittimità del cristianesimo. Suppongo che anche gli adoratori degli «dèi tenebrosi» possano ugualmente sfruttarla a sostegno della loro fede. Anzi, direi proprio che questo è il punto: la natura non è maestra. Una fondata dottrina filosofica può, in alcuni casi, convalidare un’esperienza della natura, ma un’esperienza della natura non può convalidare una dottrina filosofica. La natura non può aiutarci a verificare nessuna affermazione teologica o metafisica, almeno, non nel senso che ci interessa ora; potrà, invece, servirci per chiarirne il significato.

Questo, in base ai presupposti del cristianesimo, non avviene per caso:

la gloria del creato, infatti, può darci un’idea di ciò che non è creato proprio perché l’uno deriva dall’altro e ne è, in qualche modo, il riflesso.

In qualche modo, certamente, ma non nella maniera diretta e semplice che saremmo tentati di immaginarci. Anche i fatti messi in rilievo dagli amanti della natura appartenenti all’altra scuola sono pur sempre veri: ci sono sì le primule nei boschi, ma anche i parassiti nell’intestino. Se tenterete di trovare una conciliazione tra questi due elementi, o di dimostrare che non ne esiste la necessità, vi vedrete costretti a voltare le spalle all’esperienza diretta della natura—da cui avevate preso le mosse—e a entrare nel campo della metafisica, della teodicea, o di qualcos’altro di simile. Il che può anche essere una cosa intelligente da fare, a patto di saperla tenere distinta dal nostro amore per la natura. Se invece vogliamo rimanere in quest’ambito, con il proposito di parlare di ciò che la natura ci «ha detto» direttamente, dobbiamo non allontanarci da essa. Davanti a noi è apparsa un’immagine di gloria; non dobbiamo, ora, cercare attraverso essa o al di là di essa, un sentiero diretto che ci conduca a una più piena conoscenza di Dio. Il sentiero svanisce poco oltre, soffocato da terrori e misteri, dalla profondità onnicomprensiva dei disegni divini, dall’intreccio della storia dell’universo. Non possiamo addentrarci oltre; per lo meno, non per quella strada; saremo costretti a compiere un détour: a lasciare le colline e i boschi per tornare ai nostri studi, alla chiesa, alla bibbia, a inginocchiarci. Altrimenti, l’amore per Ia natura si trasformerà in una religione della natura che, anche se non dovesse condurci alle «divinità tenebrose», di certo ci spingerebbe a dire molte sciocchezze.

Non per questo, però, dobbiamo consegnare l’amore per la natura— una volta purificato e delimitato nel modo che vi ho suggerito—nelle mani dei suoi detrattori. La natura non è in grado di soddisfare i desideri che essa stessa ha suscitato, né di rispondere a quesiti teologici, né di renderci santi. L’autentico cammino che dobbiamo compiere verso Dio ci costringe a voltarle le spalle quotidianamente, a passare dai campi tinteggiati dall’alba a un’angusta chiesetta o, magari, ad andare a lavorare in un quartiere dell’East End.

Tuttavia, l’amore per la natura ha rappresentato per taluni un’iniziazione preziosa, insostituibile. Potrei anche usare il presente, poiché, in effetti, quelli che riescono a mantenere il loro amore per la natura entro i dovuti limiti sono anche quelli che riescono poi a conservarlo più a lungo. Questo è quanto dovremmo aspettarci. Tale amore, se innalzato a culto, finisce col diventare un dio e, dunque, un demonio; e sappiamo bene che i demoni non mantengono mai le promesse. La natura si «spegne» in chi cerca di vivere in funzione di questo amore. Coleridge finì col diventare del tutto insensibile alla natura; Wordsworth, col lamentarsi che il suo splendore fosse ormai svanito. Provate a recitare le vostre preghiere del mattino, di buon’ora, in un giardino, ignorando di proposito la rugiada, gli uccelli e i fiori, e vi ritroverete ricolmi di freschezza e di gioia; se vi recherete invece là già con questa aspettativa, superata una certa età, nove volte su dieci non proverete nessuna emozione.

È giunto ora il momento di passare a parlare dell’amor di patria, per il quale non ci serve scomodare Denis de Rougemont: tutti, ormai, sappiamo bene in quale demonio esso può trasformarsi quando si ha la pretesa di farne un dio. C’è addirittura chi sospetta che in tutti i casi esso non sia nient’altro che un demonio; ma se questo fosse vero, dovremmo ripudiare almeno la metà della grande poesia e delle azioni eroiche compiute dal genere umano. Non si salverebbe neppure il lamento di Cristo su Gerusalemme; anch’egli, infatti ha esternato il suo amore per la propria patria.

Delimitiamo, per adesso, l’ambito del problema, in quanto questa non è la sede adatta per trattare di etica internazíonale Quando questo amore diventa demoniaco ne derivano, fatalmente, azioni malvage; lascio ad altri, più esperti di me, il compito di distinguere, tra i comportamenti delle nazioni, quelli che debbano essere considerati malvagi. Il mio scopo, per ora, è soltanto quello di esaminare questo sentimento in se stesso, con la speranza di arrivare a distinguere quando esso abbia presupposti sani, e quando invece demoniaci.

Nessuno dei due atteggiamenti è mai la causa diretta del comportamento di una nazione, poiché, in senso stretto, sono i governanti, e non le nazioni, che agiscono a livello internazionale. Un patriottismo di impronta demoniaca nei sudditi—mi rivolgo dunque a loro—renderà però più facile, per i governanti, compiere azioni malvage; un sano patriottismo renderà loro le cose più difficili. Per questo i capi scellerati cercheranno, con la propaganda, di incoraggiare i lati più demoniaci dei nostri sentimenti, in modo da assicurarsi la nostra acquiescenza di fronte alle loro nefandezze. I buoni governanti faranno il contrario. Questo è uno dei motivi per cui noi privati cittadini dovremmo sempre tenere sotto controllo la salute del nostro amor di patria. Ed è proprio di questo che intendo ora discutere.

Un’altra prova dell’estrema ambivalenza del patriottismo può essere il fatto che sia Kipling sia Chesterton sono stati tra í suoi più vigorosi sostenitori. Se questo sentimento fosse univoco, non si comprenderebbe come due scrittori, per altro così diversi tra loro, avrebbero potuto, entrambi, esaltarlo. La verità è che esso contiene svariati ingredienti, con i quali si possono preparare diverse miscele.

Innanzitutto c’è l’amore per la casa, o il luogo, in cui siamo cresciuti, o per i luoghi—a volte numerosi—in cui abbiamo abitato, o per tutti i posti situati nelle vicinanze e ad essi molto simili; poi c’è l’amore per le vecchie conoscenze, le vedute, i suoni, gli odori familiari. Noterete che, su larga scala, questo sentimento coincide, per noi, con l’amore per l’Inghilterra, il Galles e la Scozia, o la Repubblica d’Irlanda. Soltanto gli stranieri e i politici parlano di «Gran Bretagna». L’affermazione di Kipling «io non posso amare i nemici del mio Impero» batte su una nota ridicolmente stonata—il «mio» Impero!

A questo amore per i luoghi si accompagna l’amore per un modo di vivere: per la birra e il tè, per i fuochi all’aperto, per i treni a carrozze, per la Polizia disarmata, e tante altre cose; per il dialetto locale e, con un’affezione appena minore, per Ia nostra madrelingua. Come dice Chesterton, i motivi per cui un uomo non vuole che il suo paese sia governato dallo straniero sono gli stessi per cui egli si oppone a che la sua casa sia bruciata: perché «non saprebbe da dove cominciare» a enumerare tutte le cose di cui sentirebbe la mancanza.

È difficile trovare obiezioni legittime in base alle quali condannare questo sentimento. Come la famiglia ci offre il primo gradino per il superamento dell’egocentrismo, così questo tipo d’amore ci offre il primo gradino per il superamento dell’egoismo familiare. Naturalmente, non si tratta di carità disinteressata; esso comporta affetto per i nostri vicini in senso locale, non per il prossimo in senso evangelico. Tuttavia, chi non ama i propri compaesani o concittadini—che vede e conosce—non ha molte probabilità di arrivare a provare amore per l’«Uomo», che non ha mai visto né conosciuto.

Tutti gli affetti naturali, compreso questo, possono diventare rivali dell’amore spirituale, ma possono anche fungere da imitazioni preparatorie, che ci aiutano a tenere in allenamento, per così dire, i muscoli spirituali che la grazia muoverà poi per scopi più elevati; come una bambina che ora culla la sua bambola e che, una volta donna, cullerà il suo bambino. Potrà rendersi necessario rinunciare a questo amore—«cavati l’occhio destro»—ma bisogna prima averlo, un occhio; la creatura che ne fosse sprovvista, che fosse arrivata ad avere soltanto una racchia «fotosensitiva» al suo posto, perderebbe il suo tempo a meditare sul senso di questa severa massima.

Naturalmente, questo tipo di patriottismo non è affatto aggressivo, e non chiede di meglio, che essere lasciato in pace; può diventare aggressivo, però, nel caso che l’oggetto del suo amore sia in pericolo. Nella mente di chi è dotato di almeno un briciolo di immaginazione esso produce, anzi, un atteggiamento salutare verso gli stranieri: come posso, infatti, amare la mia terra senza essere convinto che anche il mio prossimo ha motivi altrettanto validi per amare la sua? Basta rendersi conto che ai francesi, per colazione, piace il café complet proprio come a noi piacciono le uova con la pancetta; e dunque, contenti loro, contenti tutti. L’ultima cosa al mondo che dovremmo desiderare è che tutti si uniformassero alle nostre abitudini e caratteristiche; questa terra non sarebbe più la nostra patria se cessasse di distinguersi dalle altre.

Il secondo ingrediente dell’amor di patria è una particolare attitudine verso il passato del nostro paese, e mi riferisco al passato quale esso sopravvive nell’immaginazione popolare, alle grandi imprese dei nostri antenati. Pensiamo a Maratona; pensiamo a Waterloo. «Per noi che parliamo la stessa lingua di Shakespeare non vi può essere che libertà o morte». Sentiamo che il passato da una parte ci impone degli obblighi, dall’altra ci offre delle salvaguardie: non possiamo tradire le aspettative che i nostri padri hanno riposto in noi, ma, proprio in quanto loro figli, abbiamo buone speranze di riuscire a non deluderli.

Questo sentimento ci offre meno garanzie del semplice amor di patria. La vera storia di ogni paese è fatta anche di azioni mediocri, e persino ignominiose. A voler considerare le azioni eroiche come tipiche, finiremmo col farci un quadro falsato della storia, che si presterà facilmente a essere demolito da una rigorosa critica storica. Per questo un patriottismo basato sul nostro glorioso passato fa il gioco dei suoi detrattori. Con l’approfondirsi della nostra conoscenza dei fatti storici l’amor di patria potrà incrinarsi improvvisamente e trasformarsi in disilluso cinismo, o mantenersi vivo, ma a prezzo di chiudere consapevolmente gli occhi davanti alla realtà. Nonostante questo, chi si sente di condannare ciò che spinge tante persone, nei momenti cruciali, a comportarsi molto meglio di quanto non avrebbero fatto se non avessero ricevuto questo stimolo?

Personalmente, ritengo che sia possibile trarre forza dalle immagini del passato, senza per questo restare ingannati né montarsi la testa. L’immagine ideale può diventare pericolosa soltanto se viene scambiata, o pretende di sostituirsi, al risultato di una ricerca storica rigorosa e sistematica. Le storie migliori sono quelle che vengono tramandate, e accettate, per quello che sono. Con questo non voglio dire che, per principio, esse debbano essere presentate come frutto di fantasia (alcune, dopo tutto, sono realmente accadute); ma l’enfasi dovrebbe appuntarsi sui racconto come tale, sul quadro che accende l’immaginazione, sull’esempio che irrobustisce la volontà. Lo scolaro, ascoltandole per la prima volta, dovrebbe percepire vagamente— anche senza saperlo esprimere a parole—che si tratta di una «saga». Lasciamo pure che egli si esalti—meglio ancora se «fuori scuola»—alle «imprese che ci valsero un Impero», ma meno mescoleremo queste cose alla «lezione di storia», meno le contrabbanderemo per una seria analisi o, peggio, per una giustificazione della politica imperialistica, e migliori risultati otterremo.

Ricordo di aver posseduto, da bambino, un libro riccamente illustrato a colori, dal titolo Our Island Story (Il racconto della nostra Isola); ebbene, questo titolo mi è sempre sembrato perfettamente adatto al contenuto. Anche nell’aspetto esteriore quel libro si distingueva da un testo scolastico. Ciò che considero moralmente dannoso, ciò che nutre un tipo di patriottismo che col tempo può diventare pernicioso, ma che di rado dura a lungo in un adulto istruito, è lo scrupoloso indottrinamento dei giovani ottenuto presentando loro una storia palesemente falsata, o condita di preconcetti:

in breve, la leggenda eroica spacciata, malamente, per documento storico.

ciò si accompagna l’implicita assunzione che le altre nazioni non hanno avuto eroi che possano reggere il paragone con i nostri, a volte persino la convinzione—ecco un cattivo esempio di teoria biologica—che è possibile, alla lettera, «ereditare» una tradizione. Una conseguenza quasi inevitabile è ciò che potremmo definire «terzo fattore», responsabile, a volte, di un tipo deviato di patriottismo.

Questo terzo elemento non è un sentimento, ma un credo: una convinzione salda, perfino prosaica, che la nostra nazione, in base all’evidenza, è stata a lungo, ed è tuttora, spiccatamente superiore alle altre. Una volta mi azzardai a ribattere a un vecchio ecclesiastico, accalorato sostenitore di questo tipo di patriottismo: «Ma, signore, non è forse vero che ogni popolo pensa che i propri uomini siano i più coraggiosi e le proprie donne le più belle del mondo?». A questo mi rispose con estrema serietà—non avrebbe potuto essere più serio recitando il Credo davanti all’altare: «Sì, ma nel caso dell’Inghilterra è vero!». Devo ammettere che questa convinzione non ha fatto del mio amico (riposi in pace) un farabutto, ma soltanto un vecchio, adorabile asino. Essa può comunque produrre asini che scalciano e mordono. Nelle frange mentalmente instabili può sfumare in quel razzismo popolare condannato sia dal Cristianesimo sia dalla scienza.

Questo ci porta al quarto ingrediente. Se la nostra nazione è davvero tanto migliore rispetto alle altre, si potrà facilmente sostenere che essa abbia su di loro i diritti, e i doveri, di un essere superiore. Nel XIX secolo gli inglesi divennero particolarmente consapevoli di tali doveri; pensiamo al «fardello dell’uomo bianco». Quelli che chiamavamo indigeni erano i nostri protetti dei quali ci eravamo autoproclamati guardiani. Non era tutta ipocrisia; qualcosa di buono per loro abbiamo fatto, ma la nostra abitudine di parlare come se il motivo per cui l’Inghilterra si era messa alla conquista di un impero—il motivo per cui dei ragazzetti inesperti cercavano di arruolarsi nell’ics (Indian Civil Service)—fosse essenzialmente di natura altruistica, faceva venire il voltastomaco al resto del mondo.

Eppure, questo atteggiamento mostrava ancora il senso di superiorità nella sua luce migliore. Altre nazioni, nella nostra stessa situazione, hanno messo avanti i diritti, piuttosto che i doveri. La loro idea era che alcuni popoli fossero talmente cattivi che era giustificato sterminarli. Ad altri, utilizzabili soltanto come spaccalegna e a tirare l’acqua dai pozzi, essi avevano fatto capire che sarebbe stato meglio per loro continuare a spaccare legna e a tirare l’acqua dai pozzi! Cani, rispettate i vostri padroni!

Non mi sognerei mai di porre questi due atteggiamenti sullo stesso piano, ma di certo entrambi sono fatali. Entrambi esigono che la loro area di azione divenga «sempre più ampia»; e tutti e due posseggono questo marchio caratteristico del male: soltanto facendo ricorso alla crudeltà si salvano dal cadere nel ridicolo. Se non fosse per i trattati di pace con i pellirossa mai rispettati, per lo sterminio dei tasmanidi, per le camere a gas, per Belsen, per Amritsar, per i negri e i meticci, per l’apartheid, la prosopopea di entrambi farebbe l’effetto di una farsa roboante.

Infine, si raggiunge lo stadio in cui il patriottismo, nella sua forma demoniaca, arriva a negare inconsciamente se stesso. Chesterton scelse due versi di Kipling come perfetto esempio di questo atteggiamento; non fu bello nei confronti di Kipling, il quale sapeva—fin troppo bene, per la sua condizione di senzapatria—che cosa può significare per un uomo l’amor di patria. I suoi versi, comunque isolati dal contesto, rendono bene il carattere di questo patriottismo, e suonano così: «If England was what England seems ‘ow quick we’d drop ‘er. But she ain’t».

L’amore non ragiona mai così. Sarebbe come amare i propri figli soltanto «se sono buoni», una moglie soltanto finché il suo aspetto è piacevole, un marito soltanto finché è famoso e ha successo. «Nessun uomo—ha detto un greco—ama la sua città perché è grande, ma perché è la sua». Chi ama veramente il suo paese continuerebbe ad amarlo anche qualora esso fosse sull’orlo della rovina o della degenerazione: «Inghilterra, con tutti i tuoi difetti, ti amo ancora». Per lui sarà «ben poca cosa, ma che, pure, mi appartiene». Può darsi che il suo amore gliela faccia apparire giusta e grande anche quando non lo è; la delusione, fino a un certo punto, sarà sopportabile. Ma il soldato di Kipling ragiona al contrario: egli l’ama perché la crede giusta e grande, I’ama per i suoi meriti. Essa rappresenta un affare ben avviato, e il prendervi parte solletica il suo orgoglio. Che cosa succederebbe se le sorti si capovolgessero? La risposta è presto detta: «‘ov, quick we’d drop her». Se la nave comincia a imbarcare acqua, egli l’abbandona. Così, quel patriottismo che si mette in marcia con un gran rullar di tamburi e sventolio di bandiera, in realtà si incammina sulla via che porta a Vichy. Questo è un fenomeno che avremo occasione di incontrare altre volte: quando gli affetti naturali diventano sregolati, non soltanto feriscono altri affetti, ma cessano essi stessi di essere gli affetti che erano; non sono più nemmeno affetti.

Il patriottismo, dunque, ha molti volti. Chi vorrebbe respingerlo in toto probabilmente non ha preso in considerazione ciò che subentrerebbe al suo posto, e che forse ha già cominciato a sostituirsi a esso. Ancora per molto tempo, forse per sempre, le nazioni vivranno nel pericolo. I governanti devono, in qualche modo, spronare i propri sudditi a difendere il loro paese, o almeno prepararli alla difesa. Se l’amor di patria è andato perduto, ciò potrà essere fatto soltanto presentando ogni conflitto internazionale sotto una luce puramente etica. Se la gente non è disposta a versare il proprio sudore e sangue «per la patria», bisogna inculcare in essa la convinzione che il sacrificio è necessario per la causa della giustizia, della civiltà o per le sorti del genere umano. Questo ci fa scendere di un gradino più in basso, non salire più in alto. I sentimenti patriottici, sia ben chiaro, non trascuravano l’etica. Gli uomini giusti dovevano essere convinti che la causa del loro Paese fosse una giusta causa; eppure essa restava, innanzitutto, la causa del loro paese, non la causa della giustizia in astratto.

Questa differenza mi sembra essenziale. È possibile che io ritenga, in tutta onestà e buona fede, che sia giusto difendere la mia casa da uno scassinatore facendo ricorso alla forza, ma se tentassi di far credere alla gente di avergli fatto un occhio nero soltanto per motivi morali—a prescindere dal fatto che la casa in questione era la mia—non troverei molto credito. La pretesa di parteggiare per l’Inghilterra soltanto perché la sua è la giusta causa—come potrebbe fare un imparziale Don Chisciotte—è ugualmente fittizia.

Il guaio è che da una premessa insensata può derivare poi molto male: se la causa del nostro paese è la causa di Dio, ogni guerra dovrà essere allora una guerra di sterminio. In questo modo una falsa trascendenza viene attribuita a cose che appartengono fin troppo a questo mondo. La gloria insita nel patriottismo di vecchio stampo consisteva proprio in questo, che mentre riusciva a temprare gli uomini alle imprese più disperate, non perdeva mai, per questo, la consapevolezza di essere un semplice sentimento. Le guerre potevano essere eroiche, senza per questo doversi presentare come guerre sante.

La morte dell’eroe non era confusa con quella del martire e—cosa davvero incantevole—quello stesso sentimento che poteva essere preso così sul serio durante un’azione nelle retrovie, poteva poi essere preso alla leggera in tempo di pace, come succede con tutti gli affetti sani. Sapeva, cioè, ridere di se stesso. I nostri più antichi canti patriottici non possono essere cantati senza un allegro ammiccare; quelli moderni suonano più come inni. Meglio «I granatieri della Gran Bretagna» (rataplan—plan plan) in qualunque occasione, piuttosto che «Terra di speranze e di gloria».

Avrete notato che il tipo di amore che ho descritto ora, e tutti i suoi ingredienti, possono essere rivolti anche a qualcos’altro, oltre che alla patria: a una scuola, a un reggimento, a una grande famiglia, o a una classe. Le stesse critiche che abbiamo sollevato potranno essere dunque ugualmente applicate a questi casi. Si potrà provare questo sentimento anche per organismi che hanno diritto a ben altro che un affetto naturale: per una chiesa o, ahimè, per una corrente all’interno della chiesa, o per un ordine religioso. Soltanto per trattare questo aspetto, denso di implicazioni, ci vorrebbe un libro a sé. Ci basti dire, per ora, che l’azienda celeste è anche un’azienda terrena. Il nostro patriottismo verso quest’ultima (che è di natura esclusivamente terrena) può prendere a prestito con grande facilità le pretese di trascendenza dell’altra, e servirsene per giustificare le azioni più abominevoli. Se mai qualcuno scriverà un libro su quest’argomento—e non sarò certo io—dovrà fare piena confessione dei contributi specifici del cristianesimo al cumulo delle crudeltà e dei tradimenti compiuti dall’uomo. Vaste aree del «Mondo» si rifiuteranno di darci ascolto finché non avremo rinnegato pubblicamente una larga porzione del nostro passato. E perché mai dovrebbero ascoltarci? Noi abbiamo proclamato a gran voce il nome di Cristo per poi agire come servi di Moloc.

Qualcuno potrebbe obiettare che non è giusto chiudere questo capitolo senza aver dedicato neanche un rigo all’amore per gli animali. L’argomento, però, rientra meglio in quello successivo; se anche gli animali sono, di fatto, subumani, essi non sono mai amati in questa prospettiva. Rimane sempre la convinzione, o l’illusione, che essi abbiano una personalità, cosicché l’affetto verso di loro è piuttosto un esempio dell’Affetto che sarà argomento del prossimo capitolo.

 

Capitolo terzo

AFFETTO

Vorrei cominciare dal più umile e più diffuso degli affetti, da quell’amore che, apparentemente, sembra avvicinare maggiormente la nostra esperienza a quella degli animali. Premetto fin d’ora che non per questo lo considero meno degno: niente nell’uomo è migliore o peggiore soltanto perché comune anche agli animali. Quando ci capita di accusare una persona di essersi comportata «come un animale», non intendiamo dire che essa ha rivelato caratteristiche animali (questo capita a tutti), ma che ha dimostrato di possedere soltanto queste in un’occasione che, al contrario, richiedeva doti specificatamente umane. Quando apostrofiamo qualcuno col titolo «bestia» intendiamo dire, di solito, che egli ha commesso un tipo di crudeltà che sarebbe impossibile al più delle bestie, cui manca la necessaria intelligenza.

I greci chiamavano questo affetto storge (bisillabo, con pronuncia dura della «g»); io qui lo chiamerò semplicemente affetto. Il mio dizionario greco riporta la definizione: «affetto, specialmente di genitori verso la prole», ma anche della prole verso i genitori. Non ho dubbi che proprio questa sia la forma originaria di quest’esperienza, come pure l’accezione propria della parola. L’immagine da cui dobbiamo partire è quella di una madre che allatta il suo bambino, di una cagna o di una gatta con una cesta piena di cuccioli o di gattini; cerchiamo di vederli come un’unica nidiata, con un gran strofinio di nasi, e poi squittii, fusa, leccate, balbettio infantile, latte, calore, il sapore di un’esistenza appena avviata.

L’importanza di questa immagine consiste nel fatto che essa, fin dall’inizio, ci pone di fronte a un paradosso. Se sono ovvi il bisogno e l’«amore bisogno» dei piccoli, altrettanto si può dire dell’«amore dono» della madre, la quale ci dà la vita, il primo nutrimento, e protezione. Consideriamo, però, che ella è costretta a far nascere, se non vuole morire; deve allattare, per non soffrire. In questo senso, anche il suo affetto è un «amore bisogno». Eccoci dunque arrivati al paradosso: è un «amore bisogno», ma il suo è un bisogno di dare; è un «amore dono», ma che ha bisogno di sentirsi necessario. Su questo ritorneremo più avanti.

Nella vita animale, tuttavia, per non parlare di quella umana, l’affetto si estende ben oltre il rapporto tra madre e piccoli. Quel caldo benessere, quella soddisfazione che nasce dallo stare insieme, coinvolge gli oggetti più disparati: in effetti si può dire che esso sia il meno discriminante degli affetti. Di alcune donne possiamo già dire in anticipo che avranno pochi corteggiatori, e di alcuni uomini che difficilmente si faranno degli amici; questo perché entrambi non hanno nulla da offrire. Ma chiunque può diventare oggetto d’affetto, anche se brutto o stupido, persino se insopportabile; e non è necessario che vi sia un’evidente affinità tra le persone che questo sentimento lega: ho visto provare affetto per un imbecille, non solo da parte dei suoi genitori, ma anche dei fratelli. Questa specie d’amore ignora le barriere di età, sesso, classe sociale, educazione: può nascere tra un giovane intellettuale e una vecchia infermiera, per quanto i loro interessi e le loro aspirazioni siano completamente diversi. Gilbert White sostiene di aver visto nascere affetto tra un cavallo e una gallina.

Alcuni romanzieri hanno afferrato bene il carattere peculiare di questo sentimento. In Tristram Shandy il padre del protagonista e lo zio Toby sono talmente lontani dall’avere una qualsiasi comunanza di interessi, o di ideali, che non riescono a conversare per più di dieci minuti senza incominciare a litigare; eppure, avvertiamo ugualmente che li lega un reciproco e profondo affetto. Lo stesso vale per Don Chisciotte e Sancho Panza, Pickwick e Sam Weller, Dick Swiveller e la Marchesa; Io stesso avviene in The Wind in the Willows (Il vento tra i salici). Qui, però, si tratta di qualcosa che esula dalle intenzioni dell’autore: il quartetto composto dalla Talpa, dal Ratto, dal Tasso e dal Rospo ci testimonia quale sorprendente eterogeneità può esistere tra persone unite dall’affetto.

Ma l’affetto obbedisce anche a criteri propri; tanto per cominciare, esso si rivolge soltanto a ciò che gli appare familiare. Mentre è possibile, a volte, indicare con precisione il giorno e l’ora in cui ci siamo innamorati o in cui è nata una nuova amicizia, dubito che qualcuno sia in grado di stabilire quando è cominciato un affetto. Divenirne consapevoli significa rendersi conto che esso esiste già da un po’ di tempo. Indicativa, in questo senso, è l’abitudine di definirlo «vecchio», o vieux. Il cane abbaia agli estranei che non gli hanno mai fatto niente di male, e scodinzola alle persone che ha imparato a conoscere, anche se queste non gli hanno mai reso alcun servizio. Il bambino si affeziona al vecchio e scorbutico giardiniere che non gli ha mai prestato attenzione, e si ritrae davanti al visitatore che cerca con ogni mezzo di conquistare la sua simpatia. Ma deve trattarsi di un vecchio giardiniere, uno che è «sempre» stato lì intorno—quel «sempre» che appartiene alla nostra infanzia e che, pur breve, ci pare sia durato, un’eternità.

L’affetto, come dicevo, è il tipo d’amore più umile; non si dà arie. Si può essere orgogliosi di «essere innamorati», o di un’amicizia; l’affetto, al contrario, è modesto, quasi furtivo e schivo.

Una volta feci notare a un amico che non è raro che nasca affetto tra un cane e un gatto; al che mi rispose: «È vero, ma scommetto che nessun cane lo confesserebbe mai ai suoi amici». Questa potrebbe essere una buona caricatura di molti affetti umani; come dice Comus: «Let homely faces stay at home». Ebbene, I’affetto ha un volto estremamente comune, proprio come I’hanno molte delle persone verso le quali proviamo questo sentimento. Il fatto di amarle non è indice di buon gusto né di perspicacia, come anche il fatto che esse ci amino.

Quello che ho definito «amore di apprezzamento» non è un elemento costitutivo dell’affetto; di solito, soltanto l’assenza o la privazione ci fanno apprezzare le persone verso le quali proviamo questo semplice affetto, e che finiamo per considerare come scontate: e questo dare per scontato, che sarebbe un affronto in un rapporto di tipo amoroso, in quest’ambito invece è, fino a un certo punto, ammissibile e appropriato, e ben si adatta alla natura confortevole e tranquilla di questo sentimento. L’affetto non sarebbe tale se dovessimo esternarlo a parole, e spesso: esibirlo in pubblico fa lo stesso effetto che trasportare all’aperto il nostro vecchio mobilio durante un trasloco; nel suo posto abituale faceva la sua figura, visto adesso alla luce del sole sembra malandato, pacchiano, grottesco. L’affetto dà l’impressione di infiltrarsi, di insinuarsi furtivamente nella nostra esistenza. Esso predilige gli oggetti più umili, disadorni, privati: comode pantofole, vecchi abiti, vecchie storielle, il battere ritmico della coda di un cane sonnacchioso sul pavimento della cucina, il ronzio di una macchina da cucire, un pupazzo dimenticato sul prato.

Ma ecco che già sono costretto a correggermi; sto parlando dell’affetto come esso si presenta quando esiste separatamente dagli altri tipi di amore; il che si verifica spesso, ma non sempre. Come il gin, che si può bere da solo oppure usare come base per molti cocktail, anche l’affetto, oltre a essere un sentimento autonomo, può entrare nella composizione di altri affetti, permearli di sé, e divenire proprio l’agente attraverso il quale essi operano giorno dopo giorno, e senza il quale, probabilmente, si logorerebbero più rapidamente. Fare amicizia è ben diverso dall’affezionarsi a qualcuno, ma quando un amico diventa un vecchio amico, tutte quelle cose che, originariamente, non avevano alcun rapporto con la nostra amicizia per lui ci divengono familiari, e quindi care. Anche un amore passionale può diventare col tempo estremamente sgradevole se, passato il momento di trasporto iniziale, non si riveste dell’abito senza pretese dell’affetto. Altrimenti diventerebbe una condizione troppo scomoda: troppo angelica o troppo animale o, a turno, entrambe le cose; sempre troppo grande o troppo piccola per i bisogni dell’uomo.

C’è, in verità, un fascino tutto particolare nell’amicizia, come pure nel l’eros, che nasce da quei momenti in cui l’«amore di apprezzamento» sembra essersi assopito, e ci sentiamo avvolti dal semplice agio e dalla quotidianità del nostro rapporto (siamo riusciti a conservare quella libertà che nasce dalla solitudine e, nello stesso tempo, nessuno dei due si sente solo): non si avverte la necessità di parlare né di scambiarsi tenerezze; sembra che non ci sia bisogno di fare nulla se non, forse, di attizzare il fuoco.

Questo mescolarsi e sovrapporsi dei diversi tipi di amore ci viene costantemente ribadito dal fatto che questi tre affetti, nelle epoche e nei luoghi più diversi, hanno sempre avuto in comune, come loro manifestazione esteriore, il bacio. Oggi, in Inghilterra, non si usa più tra amici, mentre in ‘affetto’ e in amore esso è ancora usato, e può essere benissimo manifestazione di entrambi, al punto che non si riesce a stabilire chi l’abbia preso a prestito dall’altro, e se si tratti davvero di un prestito. Giustamente si potrà obiettare che i baci d’amore sono ben diversi dai baci d’affetto, ma è altrettanto vero che non tutti i baci tra innamorati sono baci d’amore. Inoltre, entrambi i tipi d’amore hanno l’abitudine—che spesso lascia interdetti noi moderni—di adottare un linguaggio o «gergo» infantile; il che non è proprio soltanto della specie umana: il professor Lorenz ci ha insegnato che quando le taccole manifestano il loro amore, nel loro richiamo «si colgono accenti infantili del tutto insoliti tra le taccole adulte». Per noi, come per gli uccelli, è valida la stessa giustificazione: anche i tipi più diversi di tenerezza sono pur sempre tenerezza, e il linguaggio attraverso il quale si esprime la prima tenerezza di cui facciamo esperienza viene riutilizzato per esprimere un sentimento affine, pur se di tipo nuovo.

Non abbiamo accennato, finora, a uno degli effetti secondari più vistosi dell’affetto. Ho detto che esso non è, essenzialmente, un «amore di apprezzamento»; infatti non fa discriminazioni, e tollera la compagnia dei tipi meno raccomandabili. Eppure, stranamente, proprio questo fatto permette che alla fine si faccia strada un apprezzamento che, altrimenti, non avremmo provato. Potremo dire, con un fondamento di verità, di aver scelto i nostri amici e la nostra compagna per le loro qualità: per la bellezza, la sincerità, la bontà d’animo, lo spirito, l’intelligenza, e altre doti ancora. Ma deve essere il tipo di bellezza, il tipo di bontà che piace a noi; e ognuno, in materia, ha gusti molto personali.

Ecco perché gli amici e gli innamorati sentono di essere «fatti l’uno per l’altro». Vanto dell’affetto, invece, è proprio il fatto di legare persone che, nella maniera più assoluta- talvolta fino a sfiorare il ridicolo- non si direbbero certo spiriti affini; individui che, se il fato non avesse deciso di metterli a vivere nello stesso ambiente familiare o nella stessa comunità, non avrebbero mai avuto niente in comune. Solo se l’affetto accenna a diminuire—e non è detto che ciò debba accadere—cominceremo allora ad aprire gli occhi. Nel momento in cui ci affezioniamo al «vecchio tal dei tali», che inizialmente frequentavamo soltanto perché per caso si trovava accanto a noi, ci accorgiamo che in lui, dopo tutto, «c’è qualcosa di buono». Quando diciamo per la prima volta, e convinti, che per quanto non sia il «nostro tipo» egli è, dopo tutto, «a modo suo», un gran brav’uomo, otteniamo un effetto liberatorio. Potremo non rendercene conto, o sentirci soltanto tolleranti e indulgenti, ma in realtà avremo superato una barriera. Quell’«a modo suo» significa che stiamo passando sopra alle nostre idiosincrasie personali, che stiamo imparando ad apprezzare la bontà, o l’intelligenza, in se stessa, e non semplicemente la bontà, o l’intelligenza, condite e servite come piace al nostro palato.

«Cani e gatti dovrebbero crescere insieme—ha detto qualcuno—servirebbe ad allargare la loro mente». L’affetto allarga la nostra mente: di tutti gli affetti naturali, è il più universale, il meno esigente, il più vasto. Le persone che vivono al nostro fianco in famiglia, a scuola, a messa, sulla nave, nel convento, rappresentano da questo punto di vista una cerchia più ampia che non gli amici—per quanti possiamo arrivare ad averne— che da soli ci siamo trovati nel mondo esterno. Non è facendomi molti amici che dimostrerò di apprezzare le qualità proprie dell’uomo. Sarebbe come dire che io dimostro di possedere vasti gusti letterari perché so apprezzare tutti i libri che si trovano nel mio studio. La risposta è la stessa in entrambi i casi: «Tu hai scelto quei libri; tu hai scelto quegli amici: è ovvio che ti vadano bene». Le qualità del vero lettore si vedono quando riusciamo a trovare qualcosa di rispondente alle nostre esigenze nel reparto occasioni di un qualsiasi negozio di libri usati. Allo stesso modo, le qualità del vero conoscitore dell’animo umano sono quelle che ci fanno trovare qualcosa di apprezzabile nella fetta di umanità con cui veniamo quotidianamente a contatto.

Per mia esperienza, è proprio l’affetto che crea in noi questo gusto, insegnandoci prima a notare, poi a sopportare, quindi a sorridere, a godere, infine ad apprezzare le persone che «per caso» ci troviamo accanto. Fatte per noi? Grazie al cielo, no; esse rimangono se stesse, più strane di quanto avremmo creduto, e più degne di quanto le avessimo giudicate.

E ora ci avviciniamo al punto pericoloso. L’affetto—ci dice San Paolo—«non si gonfia». L’affetto si può anche riversare su ciò che si presenta poco attraente; Dio e i suoi santi amano anche quello che è poco amabile. L’affetto «non si aspetta granché», chiude un occhio sui difetti, si riaccende presto dopo un litigio; come la carità, che sa sopportare a lungo ed è mite e pronta al perdono. L’affetto apre i nostri occhi a una bontà che, senza il suo aiuto, non avremmo saputo vedere, o apprezzare. Allo stesso modo agisce l’umile santità.

Se ci fermassimo a questi paragoni, saremmo indotti a credere che questo affetto non è soltanto uno tra i tanti affetti naturali, ma è l’amore stesso che opera nei cuori umani e che adempie alla legge. Avevano forse ragione i romanzieri vittoriani? Forse è davvero sufficiente un amore di questo tipo? Gli «affetti domestici», nel loro pieno e completo rigoglio, rappresentano forse la perfetta incarnazione della vita cristiana? La risposta a tutte queste domande, almeno per quel che mi riguarda, è certamente un no.

Non si tratta soltanto del fatto che quei romanzieri sembravano scrivere, a volte, come se non avessero mai letto il passo evangelico in cui si parla del dovere di «odiare» la propria moglie, la propria madre, e persino se stessi. Il che è certamente vero: il cristiano non dovrebbe mai dimenticare che esiste una rivalità tra gli affetti naturali e l’amore dovuto a Dio. Dio è il grande rivale, l’oggetto ultimo della gelosia umana; è la bellezza, terribile come quella della Medusa, che in qualsiasi momento può rubarmi—o così mi sembra—il cuore di mia moglie, o di mio marito, o di mia figlia. Quell’amarezza che caratterizza un certo tipo di ateismo e che spesso si veste, in chi la prova, di anticlericalismo o di odio per le forme di superstizione, nasce in realtà da questo. Ma per il momento non mi riferisco a questo tipo di rivalità, della quale ci occuperemo invece in uno dei capitoli successivi. Per ora il nostro discorso deve rimanere ancorato «su questa terra».

Quante di queste «famiglie felici» esistono veramente? Peggio ancora: nelle case in cui regna l’infelicità, dovremo sempre dare tutta la colpa a una mancanza d’affetto? Non credo; in alcuni casi, addirittura, proprio l’affetto è la causa di quell’infelicità.

Quasi tutte le caratteristiche di questo amore sono ambivalenti, e possono essere messe a buon frutto, come pure a cattivo frutto. É un sentimento che, lasciato a se stesso, libero di seguire le proprie inclinazioni, può incupire e degradare la vita dell’uomo. I suoi denigratori e gli antisentimentalisti non hanno detto tutta la verità che c’era da dire in proposito; ma di certo tutto quello che hanno detto è vero. Indicativo, in questo senso, è il disgusto che provoca in noi la maggior parte di quelle melodie sdolcinate e di quella poesia edulcorata attraverso le quali I’arte popolare dà espressione alla sua idea dell’affetto. Risultano odiose per via della loro falsità, poiché spacciano ciò che è semplice opportunismo per una ricetta, pronta per l’uso, della felicità (e persino della bontà). Non c’è il minimo accenno alla necessità di darsi in qualche modo da fare: basta lasciar piovere su di noi l’affetto, come se fosse una doccia calda, e tutto—è I’implicita conclusione—andrà per il meglio.

L’affetto, abbiamo visto, comprende sia l’«amore bisogno» sia l’«amore dono». Comincerò dunque dal primo, dal nostro bisogno di affetto.

C’è un motivo per il quale questo desiderio, di tutte le brame d’amore, può raggiungere il massimo dell’irrazionalità. Ho detto prima che quasi chiunque può essere oggetto d’affetto; è vero, e il fatto è che quasi chiunque si aspetta di esserlo. L’insigne signor Pontifex, in The Way of All Flesh (Così muore la carne), si sente oltraggiato nello scoprire che suo figlio non lo ama; è «innaturale» che un ragazzo non provi affetto per suo padre. Non gli viene in mente di domandarsi se abbia mai fatto o detto qualcosa, da che il bambino ha l’uso della ragione che potesse suscitare in lui affetto. Una situazione simile ci viene presentata in apertura del King Lear, dove il protagonista ci appare come un vecchio ben poco amabile, eppure divorato da un prepotente bisogno d’affetto.

Sono stato costretto a far ricorso a esempi letterari perché tu, lettore e io, autore, non viviamo nello stesso ambiente; se così fosse stato, non avrei avuto difficoltà a portarvi esempi tratti dalla vita reale. E qualcosa che accade tutti i giorni, ed è facile capirne la ragione: tutti sappiamo che bisogna darsi da fare per meritare, o per lo meno per incoraggiare, un rapporto amoroso o un’amicizia; l’affetto viene considerato, invece, come qualcosa che la natura ci fornisce gratuitamente, qualcosa di «innato», di «intrinseco», una specie di dotazione. Abbiamo dunque il diritto aspettarcelo; se gli altri non ce lo danno, sono degli snaturati.

Questa convinzione è una forma distorta di verità; per buona parte, questo affetto è qualcosa di congenito. In quanto mammiferi, l’istinto fornisce di una certa dose, spesso consistente, di amore materno. In quanto specie sociale, il nucleo familiare rappresenta per noi un milieu nel quale, se tutto va per il verso giusto, l’affetto si svilupperà e rafforzerà senza pretendere qualità di spicco nel suo oggetto. Se ci viene dato, non è necessariamente perché lo meritiamo; possiamo ottenerlo anche con uno sforzo minimo.

Dopo aver percepito, assai vagamente, una verità (molti sono amati con un affetto che va ben oltre i loro meriti), il signor Pontifex ne trae una ridicola conclusione: «Perciò io, pur senza meritarlo, ne ho diritto». Sarebbe lo stesso che dire, a un livello più alto, che, poiché nessuno per meriti propri ha diritto alla grazia divina, io, non avendo alcun merito, posso avanzare pretese nei suoi confronti.

In entrambi i casi, non si tratta di una questione di diritti, Non abbiamo «diritto di aspettarci» di essere amati dai nostri familiari, ma solo una «ragionevole aspettativa», sempre che noi e loro siamo, più o meno, persone normali. Se così non fosse, se fossimo tipi intolleranti, la «natura» si metterebbe contro di noi. Infatti, le stesse condizioni d’intimità che rendono possibile I’affetto sono anche quelle che—altrettanto naturalmente—— rendono possibile un’antipatia peculiare e incurabile un odio atavico costante, privo di enfasi, a volte quasi inconscio, esattamente uguale alla corrispondente forma d’amore. Sigfrido, nell’opera, non riesce a ricordare un istante in cui non abbia provato odio per l’andatura strascicata, i bisbigli e gli ammiccamenti del nano suo patrigno.

È caratteristico di questo tipo di odio, come anche dell’affetto, che non si riesca mai a cogliere momento in cui esso nasce. E lì da sempre. Notate che l’aggettivo vecchio si adatta ugualmente bene a una logora avversione, come pure a un’affezione duratura: «un vecchio trucco», «una vecchia abitudine», «le solite vecchie storie», Sarebbe assurdo dire che re Lear manca d’affetto, Se consideriamo l’affetto nella sua componente del bisogno, allora egli ne ha da vendere. Se, a modo suo, non avesse amato le figlie, non avrebbe desiderato così disperatamente il loro affetto. Anche il genitore (o il figlio) più scostante può essere pieno di questo affetto vorace, ma esso sarà causa solo di infelicità per lui e per gli altri. La situazione diventa oppressiva. La continua richiesta d’affetto da parte di quelle persone che lo reputano un loro diritto, pur avendo un carattere assai poco amabile, il loro ritenersi ingiustamente offese, le continue recriminazioni—vuoi manifeste o vocianti, vuoi solo implicite in ogni espressione e gesto di risentita autocommiserazione—producono in noi un senso di colpa (il che è esattamente il loro scopo) per un fallo che, anche volendo, non avremmo potuto evitare e che non possiamo cessare di commettere. Con il loro comportamento, essi sigillano quella stessa fonte alla quale speravano di poter placare la loro sete. Se in qualche circostanza, per loro fortunata, un germe di affetto riesce a nascere in noi, è sufficiente la loro continua pretesa di averne sempre dí più per renderci nuovamente duri verso di loro.

Ovviamente, queste persone desiderano da noi sempre la stessa prova d’affetto: che ci schieriamo al loro fianco, che ascoltiamo e condividiamo le loro lagnanze nei confronti di terzi: «Se il mio bambino mi volesse davvero bene, capirebbe com’è egoista suo padre»... «Se mio fratello mi volesse davvero bene, si metterebbe dalla mia parte, e non da quella di mia sorella»... «Se mi volessi bene, non permetteresti agli altri di trattarmi in questa maniera». Nel frattempo, si perde di vista la strada giusta. «Se vuoi essere amato, sii amabile», ha detto Ovidio. Quel vecchio reprobo buontempone intendeva dire semplicemente: «Se vuoi attirare le ragazze, devi renderti attraente», ma la sua massima può trovare un’applicazione più ampia. Il lirico d’amore era, alla sua epoca, più saggio del signor Pontifex e di re Lear.

Ma ciò che sorprende di più non è il fatto che queste insaziabili richieste, avanzate da persone poco amabili, rimangano talvolta inesaudite, ma che così spesso esse vengano accolte. Non è raro vedere una donna sprecare la fanciullezza, la giovinezza, gli anni della maturità, fin quasi alle soglie della vecchiaia, per curare, obbedire, coccolare una madre-vampiro che non si accontenta mai di quanto è coccolata e obbedita. Il sacrificio della figlia, per quanto le opinioni al riguardo siano discordi, è forse ammirevole; di certo non lo è la donna che lo pretende.

Il carattere «congenito» e immeritato dell’affetto, come pure le sue qualità di familiarità e naturalezza, si prestano dunque a diverse illazioni. Oggi si fa un gran parlare della mancanza di educazione delle nuove generazioni. Per via della mia non più giovane età, dovrei forse schierarmi al fianco delle persone anziane, ma debbo confessarvi di essere rimasto molto più impressionato dalle cattive maniere dei genitori verso i figli, che non del contrario. A chi di noi non è capitato di trovarsi in una situazione molto imbarazzante, come ospite a tavola di una famiglia dove il padre o la madre trattavano la prole, ormai cresciuta, con un’inciviltà che, rivolta a giovani estranei, avrebbe certamente causato la rottura di quella conoscenza? Affermazioni dogmatiche su questioni che riguardano i ragazzi e non gli adulti, interruzioni sgarbate, secche contraddizioni, messa in ridicolo di cose che i giovani considerano importanti (talvolta la loro religione), riferimenti offensivi ai loro amici; tutto questo fornisce un’eloquente risposta al quesito: «Perché sono sempre fuori casa? Perché si trovano meglio in qualunque altra casa, che non sia la loro?». Chi non è dalla parte della libertà contro la barbarie?

Se domanderete a una di queste persone insofferenti—non sono soltanto genitori, naturalmente—perché in casa si comportano in quel modo, risponderanno: «Oh, facciamola finita! Uno torna a casa per rilassarsi. Non si può sempre star lì a badare alle maniere; se non si può essere se stessi nemmeno a casa propria, dove altro si può farlo? Non c’é bisogno di rispettare il galateo a casa. Siamo una famiglia felice: siamo abituati a dirci qualunque cosa; nessuno ci fa caso; siamo tutti molto comprensivi».

Ancora una volta siamo molto vicini alla realtà eppure, fatalmente, in errore. L’affetto è una questione di vestiti vecchi e di comodità, di momenti incustoditi, di libertà che, prese con estranei, sarebbero maleducazione. Ma i vestiti vecchi sono una cosa; portare la stessa camicia fino a farle emanare un cattivo odore, è un’altra cosa. C’è l’abito adatto per una festa in giardino, ma anche i vestiti che portiamo per casa devono, nel loro ambito, rispondere a certi requisiti di decenza. Allo stesso modo, c’è differenza tra la cortesia che riserviamo agli estranei e quella che usiamo con i familiari. Alla base di entrambi i comportamenti c’è però lo stesso presupposto: che «nessuno deve riservare a sé un trattamento privilegiato». Certo, più l’occasione è pubblica, più la nostra obbedienza a questo principio deve essere «burocratizzata» o formalizzata.

Esistono «regole» di buona creanza. Più l’incontro ha carattere d’intimità, più potremo lasciare da parte l’etichetta; non per questo, tuttavia, deve venir meno la cortesia. Al contrario, l’affetto, nella sua forma più alta, adotta una cortesia che è incomparabilmente più sottile, sensibile e profonda di quella riservata ai rapporti pubblici. In pubblico basta seguire un cerimoniale; a casa bisogna tener presente la realtà che tale rituale presuppone, o rassegnarci a veder prevalere, con vociante sopraffazione, il più egoista dei presenti. Bisogna davvero saper negare a se stessi qualsiasi trattamento di favore; a un ricevimento, al contrario, è sufficiente nascondere questo istinto, da cui il vecchio adagio: «Vieni a vivere con me, e imparerai a conoscermi». È proprio il modo in cui una persona si comporta in famiglia che ci rivela quanto valgono le sue maniere «da società», o «da ricevimento». Chi si lascia alle spalle le buone maniere una volta ritornato a casa dal ballo, o lasciati gli amici, sicuramente non potrà aver dimostrato neanche là un’autentica cortesia; tutt’al più sarà riuscito a scimmiottare quelli che la posseggono realmente.

«Siamo abituati a dirci qualunque cosa». La verità, dietro a questa affermazione, è che l’affetto nella sua forma migliore, può dire qualunque cosa che si sente di dire, senza curarsi delle regole di cortesia che si osservano in pubblico. Questo perché l’affetto, nella sua forma più pura, non può voler ferire né umiliare né dominare. Potremo anche apostrofare la compagna del nostro cuore di essere un’«ingorda» se avrà bevuto inavvertitamente il nostro aperitivo, oltre al suo; si potrà tentare di azzittire il proprio padre che sta per raccontare per l’ennesima volta la solita logora storiella; ci potrà capitare di dar fastidio, di prendere in giro, di stuzzicare. Potrà scapparci detto: «Sta’ zitta, voglio leggere». Tutto è lecito, purché con il tono e al momento giusto, vale a dire, con il tono e al momento che non mirano a ferire, né vi potrebbero mai riuscire.

L’affetto, tanto più è sincero, tanto più chiaramente sa discernere gli atteggiamenti e i tempi giusti (ogni amore ha il suo stile). Ma il nostro Rudesby, con tutto il suo amore per la casa, pensa a qualcosa di diverso quando rivendica per sé la libertà di dire «qualunque cosa». Poiché nutre un tipo di affetto assai imperfetto—se non vogliamo dire che ne è del tutto privo—, egli si arroga quelle libertà che soltanto l’affetto più pieno ha il diritto di prendersi, e sa come impiegare. Egli, invece, se ne serve con animo pieno di spregio, spinto dai suoi risentimenti, oppure con spietatezza, per servire il suo egoismo, oppure, nella migliore delle ipotesi, con stupidità, perché non è sufficientemente furbo. Probabilmente, egli continuerà a sentirsi la coscienza a posto; sa che l’affetto porta a prendersi delle libertà; egli si prende delle libertà, ergo—conclude—egli si sta dimostrando pieno d’affetto. Provate a manifestargli il vostro risentimento, e vi sentirete rispondere che il difetto d’amore è in voi. L’offeso è lui, che sente di essere stato malgiudicato. A volte egli si vendicherà assumendo un atteggiamento di scostante superiorità, e comportandosi in maniera esageratamente «educata». Il pensiero implicito, naturalmente, è questo: «Ah, dunque non dobbiamo considerarci intimi? Dobbiamo comportarci come se fossimo estranei? Avevo sperato che... ma non importa, facciamo come vuoi tu».

Questo comportamento illustra in maniera chiara la differenza che esiste tra una cortesia frutto di intimità e una puramente esteriore. Proprio quello che si adatta a una può risultare un’infrazione alle regole dell’altra: comportarsi con disinvoltura e libertà davanti a un estraneo di riguardo che ci è appena stato presentato, è maleducazione; applicare una cortesia formale e cerimoniosa in famiglia («volti pubblici in luoghi privati») è, e rimane, un esempio di cattive maniere.

Un delizioso esempio di buone maniere domestiche lo troviamo in Tristram Shandy. In un momento singolarmente poco appropriato «zio Toby» si lancia in uno sproloquio su uno dei suoi temi preferiti, le fortificazioni. Il padre di Tristram, superato una volta tanto il limite della sopportazione, lo interrompe con violenza; poi vede la faccia di suo fratello, dalla quale è assente qualunque proposito di vendetta, ma che lascia trapelare quanto profondamente egli si senta ferito, non per un affronto subito personalmente—questo non gli passerebbe neppure per la mente—, ma per l’affronto fatto a quella nobile arte. Il padre di Tristram si pente allora immediatamente, fa le sue scuse, e tra i due ha luogo una completa riconciliazione. Zio Toby per dimostrare di aver perdonato sinceramente e di non serbare rancore, riattacca la sua conferenza sulle fortificazioni.

Ma ancora non abbiamo toccato il tema della gelosia. Al riguardo, penso che oramai nessuno più creda che si tratti di qualcosa di proprio agli affetti a sfondo passionale. Basterebbe, a smentire questa convinzione, il comportamento dei bambini, degli impiegati e degli animali domestici. Ogni tipo d’amore, in pratica, è soggetto alla gelosia; più in generale direi che essa investe ogni genere di rapporto associativo.

La gelosia che nasce dall’affetto è strettamente dipendente dall’affidamento che esso fa su ciò che è vecchio e familiare, e anche sulla sua totale, o relativa, estraneità a quello che ho chiamato «amore di apprezzamento». Non vogliamo che i «vecchi visi familiari» diventino più vivaci o più belli ch le vecchie abitudini si modifichino—anche se il cambiamento fosse per il meglio—, che i vecchi svaghi e interessi siano sostituiti da eccitanti novità. Ogni cambiamento rappresenta una minaccia per l’affetto.

Un fratello e una sorella, o due fratelli—il sesso qui non ha alcuna importanza—crescono, fino a una certa età, dividendo tutto: hanno letto gli stessi fumetti, scalato gli stessi alberi, giocato insieme ai pirati o agli astronauti, hanno incominciato e abbandonato, nello stesso momento, la raccolta di francobolli. Poi accade una cosa terribile: uno di loro fa un balzo in avanti—scopre la poesia o la scienza o la musica classica—oppure, ammettiamo, va incontro a una conversione religiosa. La sua vita viene travolta dal nuovo interesse, che l’altro non può condividere e da cui si sente, conseguentemente, escluso.

Dubito che l’infedeltà di un marito, o di una moglie, possa causare un più acuto e sconsolato senso di abbandono, o una più feroce gelosia, di quella che può insorgere in questi casi. Non si tratta ancora della gelosia verso i nuovi amici che il «disertore» presto si farà. Quella verrà a suo tempo; per ora, si tratta di una gelosia rivolta alla cosa in sé—a quella scienza, a quella musica, a Dio (che in questo contesto viene sempre chiamato «religione» o «la tua religione»). Spesso questa gelosia trova sfogo nel cercare con ogni mezzo di mettere in ridicolo il nuovo interesse, che viene definito un «cumulo di sciocchezze» o, con intento spregiativo, «infantile» o da «grandi», a seconda dei casi. Si accuserà il disertore di non provare un vero interesse per quella cosa, di volersi soltanto mettere in mostra e pavoneggiare; si dirà che è tutta ostentazione. Come prima reazione, nasconderemo quei libri, distruggeremo quegli esemplari scientifici, cambieremo con la forza quei programmi di musica classica.

Ciò si spiega con il fatto che l’affetto è il più istintivo, in questo senso il più bestiale, degli affetti, e la sua gelosia è proporzionalmente feroce; ringhia e digrigna proprio come quel cane cui è stato sottratto l’osso. E perché mai non dovrebbe? Qualcosa, o qualcuno, ha portato via a quel bambino il cibo di tutta una vita, il suo secondo io, e il suo mondo cade a pezzi.

Non soltanto i bambini reagiscono a questo modo. Poche cose, nella pacifica vita di tutti giorni di un paese civile, possono avere gli esiti demoniaci che sono propri del rancore con cui una famiglia di atei si rivolta, al completo, contro uno dei suoi membri che è divenuto cristiano, o una famiglia di basso ceto contro un suo membro che dà segni di voler diventare un intellettuale. Non si tratta semplicemente, come pensavo una volta, del tipo di odio radicato e, direi quasi, disinteressato, del buio per la luce. Una famiglia che frequenti assiduamente la chiesa non si comporterà meglio nei confronti di uno di loro che è diventato ateo. È una reazione a un atto di diserzione, che è sentito quasi come un furto: qualcuno o qualcosa ci ha rubato il «nostro» ragazzo (o ragazza). Lui che era uno dei nostri ora è uno dei loro. Che diritto avevano di farci una cosa simile? Egli è nostro. E poi di certo questo cambiamento non è che un inizio: di questo passo dove andremo a finire? E dire che prima eravamo tutti sereni e felici, e non facevamo del male a nessuno!

Talvolta il sentimento che proviamo è una duplice gelosia, o meglio, si tratta di due tipi contrastanti di gelosia che si rincorrono nella mente di chi la prova. Da un lato «queste sono tutte sciocchezze, fisime da intellettuali, frottole da ipocriti». Ma dall’altro, «Supponiamo—non può essere, non deve essere—, ma supponiamo solo per un istante che ci sia qualcosa di vero. Supponiamo che ci sia realmente qualcosa di vero nella letteratura o nel cristianesimo. E se il disertore avesse veramente scoperto un nuovo mondo di cui non avevamo mai sospettato l’esistenza? Ma, se così fosse, che gioco sleale! Perché proprio lui? Perché non è toccato a noi? Una bambinetta così—un ragazzetto presuntuoso—dovrebbero aver visto cose che sono rimaste nascoste a quelli più grandi di loro?» E dal momento che questa conclusione appare loro incredibile e insopportabile, la gelosia preferisce ritornare all’ipotesi di partenza: «Sono tutte sciocchezze».

I genitori si trovano più a loro agio in questa situazione, rispetto ai figli. Qualunque sia il nuovo mondo del figlio disertore, essi potranno sempre sostenere di esserci passati anche loro, e di esserne usciti dal polo opposto: «È soltanto una fase transitoria—diranno allora—passerà». Niente potrebbe dar loro più soddisfazione dell’avverarsi delle loro previsioni. Il loro è quel tipo di commento cui, sul momento, non è possibile ribattere, poiché è un’affermazione che riguarda il futuro. Ferisce, ma—detta con tono così indulgente—è difficile prendersela. Meglio ancora, i genitori possono esserne davvero convinti, e, soprattutto, le loro previsioni possono rivelarsi alla fine esatte. Non sarà colpa loro se ciò non accadrà.

«Ragazzo mio, hai imboccato una cattiva strada, e farai morire tua madre di crepacuore». Quest’appello, tipicamente vittoriano, può essere stato in molti casi motivato; l’affetto subiva un duro colpo quando uno dei membri della famiglia rinnegava l’etica domestica per cadere molto più in basso—gioco d’azzardo, alcol, ballerine. Sfortunatamente, ci sarebbero state le stesse probabilità di spezzarle il cuore innalzandosi al di sopra dell’etica domestica. La tenacia conservatrice dell’affetto agisce in entrambe le direzioni; essa può funzionare come contraltare domestico a quel tipo suicida di educazione nazionale che frena il bambino promettente perché i pigri e i somari potrebbero essere feriti se egli venisse ammesso, antidemocraticamente, a una classe superiore rispetto alla loro.

Tutte queste perversioni dell’affetto sono collegate principalmente all’affetto inteso come «amore bisogno»; ma anche l’affetto nella sua forma di «amore dono» non è immune da travisamenti. Penso a una certa signora Fidget, che morì alcuni mesi or sono. E sorprendente vedere come la sua famiglia, da allora, si sia rianimata. L’espressione tesa è scomparsa dal volto di suo marito; a volte lo si vede persino sorridere. Il figlio più piccolo, che consideravo una creatura scontrosa e malevola, sta ora rivelando doti di umanità. Il maggiore, che non era mai in casa, se non nei momenti che passava a letto, ora è quasi sempre là, e si è messo a risistemare il giardino. La figlia, considerata da tutti «di salute cagionevole» (anche se non ero mai riuscito a scoprire di che male soffrisse) ora prende lezioni di equitazione—il che un tempo sarebbe stato impensabile—va a ballare tutte le sere, e gioca quanto vuole a tennis. Persino il cane, che non poteva uscire se non condotto al guinzaglio, ora è un ben noto membro del Club del Lampione della strada in cui abitano.

Si sentiva spesso dire, alla signora Fidget, che viveva per la sua famiglia, il che non era certo falso, come tutti i vicini ben sapevano. «Quella donna vive per la sua famiglia—dicevano—che moglie, e che madre!». Faceva tutti i bucati da sola. Vero; lo faceva male, e si sarebbero potuti permettere la spesa della lavanderia; spesso la pregavano di non farlo, ma lei continuava ostinatamente. C’era sempre qualcosa di caldo a pranzo per chi restava a casa, e sempre qualcosa di caldo per cena (anche d’estate). La imploravano di non preparare nulla; le giuravano, quasi con il pianto in gola, di preferire i piatti freddi (ed era vero), ma senza risultato. Lei viveva per la sua famiglia. Rimaneva sempre alzata per dare il «bentornato» a chi, di notte, rincasava tardi; le due o le tre del mattino, non faceva alcuna differenza. Trovavi sempre Iì ad aspettarti quel viso tirato, fragile e pallido, quasi una silenziosa accusa; il che significava, naturalmente, che non si poteva uscire troppo spesso, a meno di non passare per un individuo senza scrupoli. Per di più, era sempre indaffarata per qualche cosa; ella si reputava, infatti (non so giudicare se a ragione o torto), un’eccellente sarta dilettante e un’esperta della maglia. E ovvio che poi, in casa, fossero tutti costretti a indossare quella roba; a detta del vicario, dopo la sua morte i contributi di quella famiglia alle «vendite di beneficenza» superano, da soli, quelli messi insieme da tutti gli altri parrocchiani.

E poi, come si preoccupava della loro salute! Da sola sopportava il fardello della «salute delicata» della figlia. Il dottore—un vecchio amico, dato che tutto veniva fatto al di fuori dell’assistenza sanitaria pubblica— non poteva mai parlare direttamente con la sua paziente; dopo una brevissima visita la madre se lo portava in un’altra stanza; la ragazza non doveva avere alcuna preoccupazione, nessuna responsabilità per la propria salute; per lei c’erano soltanto cure amorose, carezze, diete speciali, disgustosi cordiali ricostituenti, e colazioni a letto.

La signora Fidget, infatti, com’era solita ripetere, si «ammazzava di lavoro» per la sua famiglia. Non c’era modo di impedirglielo, né era possibile restarsene seduti a guardarla, senza sentirsi in colpa. Dovevano aiutarla; la verità è che si sentivano continuamente in dovere di aiutarla. Il che significa che erano costretti a fare delle cose per lei, onde aiutarla a fare delle cose per loro che, personalmente, non desideravano ella facesse.

Quanto al suo caro cagnolino, diceva di considerarlo «proprio come uno dei miei figli». Fin dove le era riuscito, infatti, esso assomigliava esattamente a uno di loro, ma, non avendo scrupoli, se la passava molto meglio e, per quanto sottoposto a continui controlli veterinari e diete, e guardato a vista, riusciva talvolta a raggiungere il bidone della spazzatura o il cane del vicino.

Il vicario dice che ora la signora Fidget riposa in pace; speriamo sia davvero così; quello che è certo, è che ora la sua famiglia ha finalmente trovato la pace.

È facile vedere come, nel caso dell’istinto materno, la tendenza a comportarsi in questo modo sia, per così dire, innata. L’affetto materno, infatti, è un «amore dono» ma tale da avere bisogno di dare; perciò ha bisogno di rendersi necessario, mentre lo scopo proprio di un dono dovrebbe essere quello di porre chi Io riceve nella condizione di non avere più bisogno del nostro dono. Si nutrono i figli per metterli presto in grado di nutrirsi da soli; si insegna loro affinché presto possano fare a meno dei nostri insegnamenti. È dunque un compito ingrato quello che spetta all’«amore dono»: esso deve, infatti, operare in vista della propria abdicazione. Dobbiamo mirare a renderci superflui. Il momento in cui potremo dire: «Non hanno più bisogno di me» dovrebbe anche essere il momento della nostra ricompensa.

Ma il nostro istinto, di per sé, non può arrivare tanto; esso desidera il bene del proprio oggetto, ma non in maniera così limpida: desidera soltanto il bene che noi stessi possiamo dargli. Dovrebbe invece subentrare un tipo d’affetto più alto, che desideri veramente e soltanto il bene del proprio oggetto, da qualunque parte gli venga, aiutandoci ad addomesticare l’istinto, e a metterlo quindi in grado di abdicare. Questo riesce di frequente; ma dove ciò non si verifica, il bisogno famelico di rendersi necessari troverà giustificazione in sé stesso, o tenendo il proprio oggetto in una condizione di eterna dipendenza, o creando per lui dei bisogni fittizi. E lo farà con tanta maggiore spregiudicatezza quanto più sarà convinto, con un fondamento di verità, di essere un «amore dono» e, come tale, «altruista».

Non soltanto le madri si comportano in questo modo; rientrano nella stessa categoria anche tutti quegli affetti che, vuoi perché derivati dall’istinto parentale, vuoi perché ad esso simili quanto a funzione, hanno bisogno di sentirsi necessari. L’affetto di un mecenate per il suo protégé ne è un esempio. Emma nel romanzo omonimo di Jane Austen, vuole che Harriet Smith abbia una vita felice, ma solamente quel tipo di vita che lei stessa ha programmato per lei.

Anche la mia professione—l’insegnamento universitario—è, in questo senso, pericolosa. Se un docente vale davvero, dovrà impegnarsi affinché giunga presto il momento in cui i suoi allievi saranno in grado di essere i suoi critici e rivali. Dovremmo provare un gran piacere, una volta giunto questo momento, allo stesso modo che il maestro di scherma è soddisfatto quando un allievo arriva a toccarlo con il fioretto e a disarmarlo. E molti, effettivamente provano soddisfazione.

Ma non tutti. Sono abbastanza avanti negli anni per ricordarmi del triste caso del professor Quartz. Nessuna università potrà mai vantare un insegnante più efficiente, o più devoto. Egli dava tutto se stesso agli allievi, lasciando in ciascuno di loro un’impronta indelebile, e diventando non di rado l’oggetto di una venerazione per buona parte meritata. Era naturale, e bello anche, che essi continuassero a fargli visita anche dopo che era cessato il loro rapporto professionale; lo andavano a trovare a casa, la sera, e facevano memorabili discussioni. Ma il fatto curioso è che questo stato di cose non durava mai a lungo. Prima o poi—potevano passare pochi mesi, oppure poche settimane—, giungeva la sera fatale in cui, bussando alla sua porta, si sentivano rispondere che il professore era occupato. Questo significava che erano stati banditi per sempre dalla sua presenza. Il motivo di questa decisione era che, nell’incontro precedente, lo studente si era ribellato e aveva sostenuto la propria indipendenza intellettuale, dissentendo dall’opinione del maestro e sostenendo il proprio punto di vista, fors’anche con qualche successo.

Messo di fronte a quella stessa indipendenza che egli si era adoperato a far nascere, e che era suo dovere cercare di far loro raggiungere, il professor Quartz non era riuscito ad accettarla. Wotan aveva duramente faticato per creare un Sigfrido libero; messo davanti a un Sigfrido che agiva da uomo libero, il dio fu assalito dalla collera. Il professor Quartz era un uomo infelice.

Questo terribile bisogno di sentirsi necessari trova sfogo spesso nel coccolare un animale. Sapere che qualcuno «ama gli animali» non ci dice molto su quella persona, almeno finché non avremo saputo in che modo e spirito lo fa dal momento che esistono al riguardo due prospettive. Da una parte l’animale evoluto e addomesticato costituisce, per così dire, un «ponte» tra noi e il resto della natura. Tutti noi, in quanto uomini, sentiamo a volte in maniera dolorosa il nostro isolamento rispetto alla parte subumana della creazione, e l’atrofia dell’istinto conseguente allo sviluppo della nostra intelligenza, alla nostra accresciuta autoconsapevolezza, alle innumerevoli complessità della condizione umana, alla nostra incapacità a vivere nel presente. Se solo potessimo scrollarci di dosso tutto questo! Non dobbiamo—, sia detto per inciso, non possiamo—diventare bestie, ma possiamo, almeno, star con una bestia. Dipende dal singolo individuo dare, o meno, un significato autentico a questa esperienza; tuttavia, a livello inconscio, essa rimane per buona parte una piccola matassa di impulsi biologici. È qualcosa che ha tre zampe nel mondo della natura e una nel nostro; è un legame, un ambasciatore. Chi non desidererebbe di avere—usando una espressione di Bosanquet—«un rappresentante alla corte di Pan»? L’uomo in compagnia di un cane ricompone una lacerazione nell’Universo.

Ma è ovvio che gli animali possono essere anche usati per fini più bassi. Se abbiamo bisogno di sentirci necessari e se la nostra famiglia, molto giustamente, si rifiuta di aver bisogno di noi, un cucciolo sarà un ottimo surrogato. Potremo tenerlo tutta la vita in uno stato di dipendenza nei nostri confronti. Potremo farlo restare perennemente a uno stadio infantile, fare di lui una specie di invalido permanente, negargli quell’autentico benessere che si confà a un animale, e compensare questo vuoto creando in lui innumerevoli piccole voglie che soltanto noi siamo in grado di soddisfare. La sfortunata creatura diventerà così molto utile al resto della famiglia, funzionando da valvola di scarico. Voi sarete troppo occupati a rovinare la vita del cane per avere il tempo di rovinare la loro. A questo scopo i cani sono meglio dei gatti, e le scimmie—mi dicono—sono il meglio che si possa trovare.

Effettivamente il male ricade sempre sulla povera bestia, che però, con tutta probabilità, non si rende conto dei torti che è costretta a subire. Meglio ancora, se pure ne fosse consapevole, non lo sapremmo mai: anche l’essere umano più calpestato e vessato—se i nostri soprusi si spingono troppo oltre-potrà un giorno rivoltarsi contro di noi e spiattellare una terribile verità. Gli animali non possono parlare.

Quelli che dicono: «Più conosco gli uomini, più amo i cani», quelli che trovano negli animali un sollievo al peso della compagnia degli uomini, farebbero meglio a fare un esame di coscienza e a vedere quali ne sono i veri motivi. Spero di non venire, per questo, frainteso. Se i miei discorsi faranno dubitare a qualche lettore che la mancanza di «affetti naturali» sia un’estrema depravazione, avrò fallito nel mio intento. Neanche per un istante metterei mai in discussione che è all’affetto che siamo debitori dei nove decimi della felicità salda e duratura di cui ci è dato godere nell’arco della nostra esistenza terrena. Avrò quindi la massima comprensione per quelli che commenteranno queste ultime pagine come segue: «Certo, certo, queste cose accadono. Le persone egoiste e nevrotiche possono distorcere qualunque cosa, persino l’affetto, e farlo diventare causa di infelicità o di sfruttamento. Ma perché mettere l’accento su questi casi limite? Un po’ di buon senso, qualche concessione reciproca, impediscono che ciò si verifichi tra persone educate». Ma io penso che anche questo commento abbia bisogno di essere commentato.

Innanzitutto, la parola nevrotici. Non credo che vedremo le cose con più chiarezza semplicemente classificando questi stati malsani dell’affetto come patologici. È fuori di dubbio che esistono effettivamente delle condizioni patologiche che impediscono, o rendono assai difficile, per certe persone, resistere alla tentazione di cadere in questi stati. In questi casi, la prima cosa da fare è spedire queste persone da un medico. Credo, però, che chiunque sia onesto con se stesso dovrà riconoscere di aver provato egli stesso queste tentazioni. Il loro verificarsi non è indice di malattia o, se vogliamo proprio trovare un nome per questa condizione, la potremo definire come «l’essere macchiati dal peccato originale». Se alla gente comune capita di cedere a questi impulsi—a chi non è capitato qualche volta?—, ciò non è indice di malattia, ma di peccato. Una guida spirituale ci farà più bene delle cure del medico. La scienza medica si adopera a ristabilire le strutture «naturali», o le funzioni «naturali»; ma l’avidità, l’egoismo, l’autoillusione, l’autocommiserazione sono innaturali quanto l’astigmatismo o un rene mobile.

In effetti, chi mai definirebbe naturale o normale un uomo che fosse immune completamente da questi difetti? «Naturale», se proprio volete definirlo così, ma in un senso tutto particolare: arcinaturale, da prima della caduta. È esistito un solo uomo così, ed Egli non somigliava affatto all’immagine del cittadino integrato, equilibrato, inserito, felicemente sposato, impiegato, popolare, cara agli psicologi. Non si può essere ben inseriti in un mondo che ti chiama «indemoniato», e poi finisce con I’inchiodarti a un palo di legno.

In secondo luogo, il modo stesso in cui è formulato il commento è una ammissione della validità della tesi che io sostengo. L’affetto produce felicità se—e soltanto se—c’è buon senso, scambio reciproco, «educazione». In altre parole, soltanto se vi aggiungiamo qualcosa di diverso dall’affetto. Il puro sentimento non basta; c’è bisogno di «scambio reciproco», vale a dire di giustizia che continuamente stimoli l’affetto quando esso si affievolisce, e lo controlli quando esso dimentica o sfida le regole che fanno dell’amore un’arte. C’è bisogno di «educazione». È inutile volerci nascondere che questo significa bontà, pazienza, abnegazione, umiltà, e l’intervento continuo di un tipo di amore ben più alto di quello che l’affetto, da solo, potrebbe mai arrivare a essere. Questo è il punto. Se cerchiamo di vivere soltanto affetto l’affetto si rivolterà contro di noi. È difficile rendersi conto fino a che punto ciò possa accadere. È possibile che la signora Fidget abbia ignorato totalmente le innumerevoli frustrazioni e pene da lei inflitte alla sua famiglia? E più di quanto si riesca a credere. Lei sapeva—di certo sapeva— che avrebbe rovinato tutta la serata a chi aveva la certezza di trovarla lì ad aspettare il suo ritorno, senza che ce ne fosse bisogno, e per di più con aria accusatrice. Lei ha continuato in queste sue abitudini perché, se avesse smesso, si sarebbe trovata a dover affrontare proprio quella realtà che era ben decisa a ignorare: avrebbe scoperto di non essere necessaria. Questo è il primo motivo. In secondo luogo, proprio la laboriosità della sua vita tacitava i suoi celati dubbi sulla qualità del suo amore. Più i piedi le bruciavano e la schiena le doleva, tanto meglio si sentiva, poiché questo le sussurrava all’orecchio: «Come li devi amare, se sopporti tutto questo per amore loro! »

Questo è il secondo motivo; ma credo si possa andare ancora più a fondo. Il mancato apprezzamento da parte degli altri, quelle terribili parole che la ferivano—qualsiasi cosa può ferire una signora Fidget—quando pregavano di mandare il bucato in lavanderia, le permettevano di sentirsi maltrattata e, quindi, di provare un continuo dolore, e di godere delle gioie del risentimento. Se qualcuno afferma di non aver mai provato questo piacere, di certo è un bugiardo, o un santo. È vero anche che questo piacere lo prova soltanto chi odia; dunque, anche un amore come quello della signora Fidget contiene una buona dose di odio.

Le parole di quel poeta latino, «Amo e odio», si riferivano alla passione erotica, ma anche altri tipi di amore ammettono la stessa mescolanza. Essi portano in sé i germi dell’odio, Se l’affetto diviene sovrano assoluto nella vita di un uomo, allora quei semi porteranno frutto. L’amore, se elevato a Dio, si trasforma in un demonio.

 

Capitolo quarto

AMICIZIA

Volendo parlare dell’affetto, o dell’eros, è facile trovare un pubblico preparato: di entrambi sono state più volte messe in risalto l’importanza e la bellezza, talvolta fino all’esagerazione. Persino i loro avversari sono partiti da una posizione di reazione consapevole a questa tradizione laudatoria, restandone, in parte, influenzati. Al contrario, sono pochi i moderni che conferiscono un certo valore all’amicizia, per non dire poi di quanti a volte giungono addirittura a negarle la qualifica di affetto.

Per quanto mi risulta, nessuna poesia o romanzo, dopo In Memoriam, ne ha più cantato le lodi. Tristano e Isotta, Antonio e Cleopatra, Romeo e Giulietta trovano ancora innumerevoli corrispettivi in letteratura; lo stesso non si può dire di David e Gionata, Oreste e Pilade, Rolando e Oliviero, Amis e Amile.

Per gli antichi, l’amicizia era il più felice e il più completo degli affetti umani, coronamento della vita, e scuola di virtù. Il mondo moderno, in confronto, l’ignora. Ovviamente, chiunque è disposto ad ammettere che un uomo, oltre che di una moglie e di una famiglia, ha bisogno anche di «qualche amico»; ma il tono stesso di quest’ammissione e il tipo di conoscenze che vengono poi definite «amicizie» mostrano chiaramente che ciò cui si fa riferimento ha ben poco a che vedere con la philia che Aristotele classificava tra le virtù, o con quell’amicitia sulla quale Cicerone scrisse un trattato. È un fattore del tutto marginale; non è la portata principale nel banchetto della vita, ma semplicemente uno tra i tanti contorni: è qualcosa che serve a riempire i momenti vuoti del nostro tempo. Come siamo arrivati a questo punto?

La risposta ovvia e immediata è che pochi tengono in giusta considerazione I’amicizia perché pochi ne fanno esperienza; e il motivo per cui può accadere che qualcuno percorra il cammino della vita senza incontrare mai l’amicizia e radicato nella qualità intrinseca che separa cosÌ nettamente l’amicizia dagli altri affetti naturali. L’amicizia è—ma non in senso peggiorativo—il meno naturale degli affetti, il meno istintivo, organico, biologico, gregario e indispensabile. Qui i nostri nervi c’entrano ben poco; in questo sentimento non c’è nulla di tenebroso: nulla che faccia accellerare il polso, o arrossire, o sbiancare. È semplicemente un rapporto che si stabilisce tra individui. Quando due persone diventano amiche, significa che esse si sono allontanate, insieme, dal gregge. Senza I’eros nessuno di noi sarebbe stato generato, e senza l’affetto nessuno di noi avrebbe ricevuto un’educazione; al contrario, si può vivere e riprodursi anche senza l’amicizia. Essa, da un punto di vista biologico, non è affatto indispensabile per la specie. Il branco, il gregge, la comunità, possono persino nutrire, nei suoi riguardi, avversione e sfiducia, e ancor più facilmente i suoi capi: presidi, superiori di comunità religiose, colonnelli e capitani di vascello, possono disapprovare il formarsi di autentiche e profonde amicizie che dividono i loro sottoposti in piccoli gruppi

Questa qualità, per così dire, «innaturale» dell’amicizia costituisce un’ottima spiegazione al fatto che essa fu esaltata in epoca antica e medievale, ma è tenuta in poca considerazione ai giorni nostri. L’ideale che permeava di sé quelle età era d’impronta ascetica, vòlto a una rinuncia del mondo. La natura, le emozioni, il corpo, erano sentiti come pericolosi per la salute dell’anima, o venivano disprezzati come forme di degradazione della vera natura dell’uomo. Era dunque inevitabile che il tipo di affetto più apprezzato fosse quello in apparenza più indipendente, se non addirittura antagonista, nei confronti della natura bruta. In questa prospettiva l’affetto e I’eros apparivano troppo palesemente collegati con i nostri nervi, troppo scopertamente propri anche alle creature brute: la loro presenza si avvertiva in ogni spasmo delle viscere, in ogni sussulto del diaframma.

Nell’amicizia—in quel mondo luminoso, tranquillo, razionale, di rapporti liberamente allacciati—ci allontaniamo da tutto questo. Unica tra tutti gli affetti, essa sembra innalzare l’uomo al livello degli dèi, o degli angeli.

Ma poi vennero il romanticismo e la «commedia strappalacrime», «ritorno alla natura» e l’esaltazione del sentimento; e sulla loro scia tutta quell’ondata di emotività che, per quanto spesso criticata, perdura ancor oggi; infine, l’esaltazione dell’istinto, degli oscuri demoni del sangue, i cui gerofanti sono quasi sempre incapaci di amicizie maschili. Per influsso di questo nuovo inquadramento, tutti quelli che un tempo costituivano elementi a favore, cominciarono a operare contro questo sentimento, che non aveva abbastanza sorrisi lacrimevoli, pegni, e balbettii infantili, per piacere agli animi sentimentali. D’altra parte, non era abbastanza sanguigno e corposo per attirare i primitivisti, che lo consideravano gracile e fiacco, una specie di surrogato vegetariano degli affetti più corposi.

Altri fattori sono stati determinanti. Per coloro—e oggi sono la maggioranza—che vedono nella vita umana un semplice sviluppo, in termini di complessività, rispetto alla vita animale, tutti quei comportamenti che non possono esibire un certificato che attesti la loro origine animale o il loro valore ai fini della sopravvivenza, appaiono sospetti. I certificati che l’amicizia può addurre in questo senso non sono molto soddisfacenti.

Anche le ideologie che pongono la massa al di sopra del singolo, necessariamente comportano una svalutazione dell’amicizia, in quanto rapporto che si istituisce tra uomini al loro massimo livello d’individualismo. Essa sottrae individui alla «solidarietà» collettiva con altrettanto successo della solitudine, anzi, in maniera ancor più dannosa, poiché li sottrae a gruppi di due o tre. Anche alcune forme di ideale democratico sono, per loro natura, ostili all’amicizia, poiché essa è selettiva e ristretta a pochi individui. Dire: «Questi sono miei amici» lascia sottintendere: «Quelli non lo sono».

Per tutte queste ragioni, se uno è convinto (come lo sono io) che la valutazione corretta dell’amicizia sia quella degli antichi, l’unico modo di svolgere un capitolo su questo tema sarà quello di farne una riabilitazione. Questo comporta da parte mia il noioso compito preliminare di demolire un’opinione diffusa riguardante l’amicizia: la convinzione, oggi imperante, che ogni vera e profonda amicizia abbia in realtà un sottofondo omosessuale.

La parola pericolosa, di cui qui è importante tener conto, è in realtà. Affermare che ogni amicizia è consapevolmente ed esplicitamente omosessuale sarebbe fin troppo palesemente falso; i nostri saccenti si rifugiano dunque nell’accusa, meno palpabile, che essa è in realtà—inconsapevolmente, cripticamente, in un senso quasi pickwickiano—omosessuale. Il che, per quanto non possa essere provato, non può nemmeno essere confutato. L’assenza di prove tangibili di omosessualità nel comportamento di due amici non turba affatto quei saccenti. «Questo—affermeranno allora con aria compunta—è esattamente quanto dovremmo aspettarci». Proprio la mancanza di prove viene considerata la principale prova; l’assenza di fumo dimostra che il fuoco è stato accuratamente nascosto. Certo, ma soltanto se è stato davvero acceso. Prima, dunque, dovremo dimostrarne l’esistenza altrimenti ragioneremo come quella persona che dice: «Se ci fosse un gatto invisibile su quella sedia, la sedia sembrerebbe vuota; ma la sedia sembra vuota, quindi lì sopra dev’esserci un gatto invisibile».

Ci sarà forse difficile averla vinta, con argomentazioni logiche, su una persona che crede ai gatti invisibili; certo è che, almeno, capiremo con che tipo abbiamo a che fare. Chi non riesce a concepire l’amicizia come un affetto reale, ma la considera soltanto un travestimento, o una rielaborazione dell’eros, fa nascere in noi il sospetto che non abbia mai avuto un amico. Noi, invece, sappiamo bene che si può provare, sì, attrazione e amicizia per una stessa persona, ma sappiamo anche che, in un certo senso, niente è più lontano dall’amicizia di una passione amorosa. Gli innamorati si interrogano continuamente sul loro amore, gli amici non parlano quasi mai della loro amicizia. Gli innamorati stanno quasi tutto il tempo facci a faccia, assorti nella contemplazione l’uno dell’altro, gli amici, fianco a fianco, assorti in qualche interesse comune. Ma, soprattutto, l’eros (finché dura) lega necessariamente due sole persone. Il due, invece, lungi dall’essere il numero distintivo dell’amicizia, non è nemmeno il più congeniale a questo tipo di legame. Ed è importante capire il perché.

Lamb dice, non ricordo con precisione a che proposito, che se di tre amici (A, B, e C) A dovesse morire, allora B perderebbe non soltanto A, ma anche «la parte di A in C», mentre C perderebbe non soltanto A, ma anche, «la parte di A in B». In ciascuno dei miei amici c’è qualcosa che solo un altro amico sa mettere pienamente in luce. Da solo non ho la grandezza sufficiente per stimolarlo ad agire al meglio delle sue possibilità; ho bisogno di altre luci, a sostegno della mia, per illuminare tutte le sue sfaccettature. Ora che Charles è morto, non vedrò più le reazioni di Ronald a una tipica battuta «da Charles». Non è affatto vero che ora che Charles se n’è andato Ronald è più mio, in quanto è tutto «per me»; la verità, semmai, è che ora ho meno anche di Ronald.

Da ciò consegue, dunque, che l’amicizia è il meno geloso degli affetti. Due amici sono ben lieti che a loro se ne unisca un terzo, e tre, che a loro se ne unisca un quarto, a patto che il nuovo venuto abbia le carte in regola per essere un vero amico. Essi potranno dire allora, come le anime beate in Dante: «Ecco che crescerà li nostri amori», poiché in questo amore «condividere non significa perdere».

È ovvio che l’esiguo numero di spiriti a noi congeniali tralasciando considerazioni pratiche, quali le limitate dimensioni delle stanze e il volume ridotto della voce umana—pone dei confini oggettivi all’ampliamento di questa cerchia di amici; ma entro questi limiti il nostro godimento di ciascuno degli amici aumenta, e non diminuisce, con il numero di coloro con i quali lo dividiamo. In questo, l’amicizia rivela una piacevole «vicinanza per somiglianza» con lo stesso paradiso, dove proprio la moltitudine dei beati (il cui numero sfugge a qualunque calcolo umano) accresce il godimento che ciascuno ha di Dio. Ogni anima, infatti, Lo vede in maniera personale, e comunica poi questa sua visione unica a tutte le altre. Questo è il motivo per cui, come dice un autore antico, i Serafini, nella visione di Isaia, cantano, vicendevolmente «Santo, Santo, Santo» (Is 6, 3), Più divideremo tra noi il pane celeste, più ne avremo per cibarcene.

Un’interpretazione in chiave omosessuale, dunque, non mi sembra affatto plausibile. Con questo non intendo dire che all’amicizia non si mescoli mai un tipo deviato di eros. Certe culture, in certi loro stadi, sembrano anzi mostrare una netta tendenza verso questo tipo di contaminazione. Nelle società guerriere, specialmente, essa deve essere subentrata con estrema naturalezza nel rapporto tra il maturo combattente e il suo giovane scudiero, o servitore. La lontananza dalle donne, durante le campagne di guerra, avrà costituito senz’altro una spinta decisiva in questa direzione.

Se ci trovassimo a dover decidere in un senso o nell’altro, cioè se questo elemento di omosessualità si sia insinuato, o meno, in un’amicizia—qualora sussistesse la necessità o la possibilità di decidere in merito—dovremmo fare affidamento sull’evidenza (quando esiste) e non su una teoria a priori. Baci, lacrime e abbracci non sono, di per sé, indice di omosessualità. Se così fosse le implicazioni sarebbero, se non altro, troppo comiche: pensiamo a Hrothgar che abbraccia Beowulf, a Johnson che abbraccia Boswell (una coppia quasi scandalosa di eterosessuali), a tutti quei duri centurioni descritti da Tacito, vecchi e barbuti, che si aggrappano gli uni agli altri supplicando un ultimo bacio prima che la legione venga dispersa... tutti tipi equivoci? Se si crede a questo, allora si può credere a qualunque cosa. In prospettiva storica, se c’è qualcosa che ha bisogno di una spiegazione, non sono certo Ie dimostrazioni di amicizia dei nostri antenati, ma piuttosto l’assenza di queste manifestazioni esteriori nella società moderna. Siamo noi che andiamo fuori passo, non loro.

Ho già detto che l’amicizia è il meno biologico dei nostri affetti. Sia l’individuo sia la comunità sopravvivono anche in sua assenza; c’è però qualcos’altro, che spesso viene confuso con l’amicizia, e di cui la comunità ha invece assolutamente bisogno; qualcosa che, pur senza potersi dire amicizia, ne è la matrice.

Nelle comunità primitive la cooperazione tra i maschi, nel loro ruolo di cacciatori o di guerrieri, non era meno importante della procreazione o dell’educazione dei bambini. Una tribù che avesse trascurato una di queste componenti si sarebbe estinta esattamente come quella che avesse trascurato l’altra. Molto prima che la storia avesse inizio, noi uomini ci riunivamo, staccandoci dalle donne, per occuparci di determinate questioni. Dovevamo farlo; e provare piacere nel compiere qualcosa che, comunque, deve essere fatto, è una caratteristica rilevante ai fini della sopravvivenza.

Non solo dovevamo sbrigare quelle faccende, ma dovevamo anche discuterne. La caccia e la guerra andavano programmate e, a cose fatte, era importante riunirsi per scambiarsi le opinioni su quanto era accaduto e trarne insegnamenti per il futuro. Questo ci procurava un piacere anche maggiore. Si esponevano al ridicolo i vigliacchi e gli inetti, gli autori di imprese coraggiose venivano lodati pubblicamente. Ci soffermavamo anche a discutere di dettagli tecnici («Avrebbe dovuto sapere che con il vento in quella direzione non ce l’avrebbe mai fatta»... «Vedi, avevo una freccia più leggera, e così ce l’ho fatta» . ..«Quello che dico sempre io, è che»... «Bloccalo in questo modo: vedi, proprio come ora io tengo questo bastoncino»). In pratica, si parlava dei nostri affari. Stare insieme era per noi un gran piacere: noi combattenti, noi cacciatori, legati dalla comune perizia, da pericoli e fatiche vissuti in comune, da battute allusive — lontano dalle donne e dai bambini.

Come ha detto un uomo di spirito: può anche darsi che l’uomo delle caverne non avesse una clava sulle spalle, di sicuro, però, aveva un suo circolo. Questo faceva parte, probabilmente, della sua religione; qualcosa, di simile, dunque, al circolo di fumatori del romanzo Typee, di Melville dove i selvaggi «comodamente accoccolati» sulle stuoie trascorrevano tutte le loro serate.

Nel frattempo, che cosa facevano le donne? Non chiedetelo a me; io sono un uomo, e non ho mai spiato nei misteri della Bona Dea. Certamente anche loro avranno avuto i loro riti, dai quali gli uomini erano esclusi. Se spettava a loro occuparsi dell’agricoltura, come a volte accadeva, saranno state in possesso, come gli uomini, di abilità comuni, di attrezzi e trionfi comuni. Eppure, il loro mondo forse non è stato mai così enfaticamente femminile come quello degli uomini era maschile. I bambini dovevano stare con loro, e probabilmente anche i vecchi. Ma le mie sono soltanto supposizioni. Posso tracciare la preistoria dell’amicizia solo per quanto riguarda il ramo maschile.

Da un punto di vista biologico, questo piacere che nasce dalla cooperazione, dal parlare insieme dei propri affari, dal rispetto reciproco e dalla mutua comprensione che si sviluppa tra uomini che quotidianamente si vedono messi alla prova, ha un grande valore. Se volete, potete considerarlo un prodotto dell’«istinto gregario». A me, però, questo sembra un modo contorto per spiegare qualcosa che già tutti noi conosciamo molto meglio della parola «istinto»—qualcosa che in questo stesso momento è in atto in decine di circoli di ufficiali, sale da tè, camerate, mense e circoli da golf. Io preferisco chiamarlo «cameratismo», o «socievolezza».

Questo «cameratismo», però, è soltanto la matrice dell’amicizia, anche se spesso viene chiamato con questo nome, e nonostante che molta gente, quando parla dei suoi «amici», intenda dire piuttosto i suoi compagni. Ma non si tratta di amicizia, almeno non nel senso che io attribuisco a questa parola. Con questo non voglio certo sminuire quei rapporti di semplice cameratismo, così come non si svilisce l’argento solo perché lo si tiene distinto dall’oro.

L’amicizia nasce dal semplice cameratismo quando due o più compagni scoprono di avere un’idea, un interesse o anche soltanto un gusto, che gli altri non condividono e che, fino a quel momento, ciascuno di loro considerava un suo esclusivo tesoro (o fardello). La frase con cui di solito comincia un’amicizia è qualcosa di questo genere: «Come? Anche tu? Credevo di essere l’unico...». Possiamo immaginare che tra quei primi cacciatori, o guerrieri, alcuni individui isolati—uno ogni secolo, uno ogni mille anni?— abbiano visto quello che gli altri non vedevano: che il cervo, oltre che commestibile, era bello, che la caccia era sì necessaria, ma anche divertente; individui che sognavano che i loro dèi fossero, oltre che potenti, santi. Ma fintanto che queste persone dotate di una speciale percettività morivano senza aver trovato un’anima gemella, tutto questo—temo—rimaneva senza frutto, e da ciò non scaturiva né arte, né sport, né religione spiritualistica. Quando, invece, due persone di questo tipo si scoprono a vicenda, quando tra immense difficoltà o, all’opposto, con una velocità ellittica che a noi pare sorprendente, essi condividono la stessa visione, è allora che nasce l’amicizia. E, immediatamente, esse si ritrovano sole in un’immensa solitudine.

Agli innamorati piace stare da soli. Gli amici trovano intorno a sé questa solitudine, questa barriera che li separa dal resto della massa, che lo vogliano, o no. Sarebbero anzi lieti di rimuoverla, e lieti di trovare un terzo che si unisse a loro.

Ai giorni nostri l’amicizia nasce nello stesso modo. Per noi sarà più difficile, è ovvio, che le attività che potremo condividere—e quindi il cameratismo su cui si innesterà l’amicizia—abbiano un carattere fisico e materiale, come nel caso della caccia e del combattimento. Potrà trattarsi di una religione comune, di studi comuni, di una professione comune, persino di un divertimento comune. Chiunque lo divida con noi sarà nostro compagno; ma soltanto una o due o tre persone che, oltre a questo, avranno anche qualche altra cosa in comune con noi saranno nostri amici.

In questo tipo di affetto—come disse Emerson—«Mi vuoi bene?» significa: «Vedi la stessa verità?» o, per lo meno, hai a cuore la stessa verità? Chi concorda con noi sul fatto che una certa questione, dagli altri considerata secondaria, è invece della massima importanza, potrà essere nostro amico. Non è necessario, invece, che egli sia d’accordo sulla risposta da dare al problema.

Noterete, dunque, come l’amicizia ripeta, a un livello più personale e meno condizionato dal punto di vista sociale, i caratteri di quel cameratismo che era stato la sua matrice. Quel rapporto cameratesco legava persone che facevano qualcosa insieme: cacciare, studiare, dipingere, o qualunque altra attività. Anche gli amici fanno qualcosa insieme, ma si tratta di qualcosa di più intimo, di meno facilmente definibile, condiviso da meno persone: si tratterà sempre di cacciatori, ma di una selvaggina incorporea; sempre di collaboratori, ma in un lavoro di cui il mondo non coglie, o ancora non coglie, I‘importanza; sempre di compagni di viaggio, ma di un genere di viaggio diverso. Per questo ci figuriamo gli innamorati faccia a faccia, ma gli amici fianco a fianco; i loro occhi sono rivolti in avanti.

Ecco perché quei patetici personaggi sempre «a caccia di amici» non riescono mai a trovarne. Si può arrivare ad avere degli amici soltanto a patto che si desideri qualcos’altro, oltre agli amici. Se la risposta sincera alla domanda: «Vedi la stessa verità?» fosse: «Non vedo niente e non mi interessa niente; voglio soltanto un amico», allora non potrà nascere alcuna amicizia—anche se potrà nascere affetto. Non ci sarebbe niente per cui essere amici, e l’amicizia deve avere un oggetto, fosse anche solo una passione per il domino o per i topolini bianchi. Chi non possiede nulla non può dividere nulla; chi non sta andando da nessuna parte non può avere compagni di viaggio.

Quando le due persone che scoprono di essere in cammino sulla stessa strada segreta sono di sesso differente, l’amicizia che nasce tra loro si trasformerà molto facilmente—magari già dopo la prima mezz’ora—in attrazione sessuale. Anzi, a meno che essi non si trovino fisicamente sgradevoli, o a meno che uno, o entrambi, non siano già impegnati sentimentalmente, è quasi certo che prima o poi questo accadrà. E, viceversa, un amore sensuale può portare a un’amicizia tra i due innamorati. Questo, però, lungi dall’abolire la distinzione tra i due tipi di affetto, la mette ancor più chiaramente in risalto.

Se quella che era prima una nostra amica, nel senso più pieno e più profondo del termine, diventa poi, d’improvviso o gradualmente, la nostra amata, certamente non vorremo dividere con terzi il nostro affetto passionale; ma non avremo nessuna gelosia nel dividere con altri la sua amicizia. Niente arricchisce di più un affetto sensuale della scoperta che l’amata può entrare a far parte autenticamente, in senso profondo, con spontaneità, del gruppo di amici che già avevamo: sentire che noi due non soltanto siamo legati da un affetto passionale ma, insieme ad altri due, tre o quattro, siamo in viaggio verso una stessa meta, e abbiamo una visione comune.

La coesistenza di amicizia e di eros può forse servire a far capire a certi moderni che l’amicizia è davvero un affetto, che ha un’intensità pari a quella dell’eros. Ammettiamo che abbiate avuto la fortuna di sposare una vostra amica; e ora ammettiamo che vi venga offerta la scelta tra due alternative per il futuro: «O voi due cesserete di essere innamorati, ma rimarrete per sempre uniti nella ricerca dello stesso Dio, della stessa bellezza, della stessa verità, o altrimenti, rinunciando a tutto questo, conserverete per tutta la vita i rapimenti, gli ardori, le meraviglie e i desideri selvaggi dell’eros. Scegliete quello che preferite». Quale scelta fareste? Quale scelta non rimpiangereste una volta fatta?

Finora ho insistito sul carattere di «non necessarietà» dell’amicizia, ma questa affermazione richiede, senza dubbio, più giustificazioni di quante io ve ne abbia fornite finora.

Qualcuno potrebbe obiettare che le amicizie hanno un valore pratico per la comunità. Nelle aree civilizzate, tutte le religioni hanno avuto inizio da una ristretta cerchia di amici. La nascita effettiva della matematica si fa coincidere con le riunioni di un piccolo gruppo di amici greci, durante le quali si parlava di numeri, linee e angoli. Quella che ora è la Società Reale, in origine erano pochi gentiluomini che si incontravano nel tempo libero per discutere di cose di cui soltanto loro (e pochi altri) erano appassionati. Quello che oggi chiamiamo il «movimento romantico» un tempo erano il signor Wordsworth e il signor Coleridge che discutevano accaloratamente (per lo meno Coleridge) di una loro segreta visione. Si può affermare forse, senza tema di esagerare, che anche il comunismo, il tractarinismo, il metodismo, il movimento contro la schiavitù, la riforma, il rinascimento, hannoavuto inizio nello stesso modo.

Questo, di per sé, è già abbastanza significativo. Ogni lettore avrà poi le sue opinioni, probabilmente, su quali di questi movimenti siano stati buoni e quali cattivi. Ma anche accettando queste discriminazioni di valore, questo dimostrerebbe ancora che l’amicizia può tradursi in un potenziale beneficio, o in un potenziale pericolo per la comunità. Anche nella sua accezione positiva, tuttavia, essa non ha tanto valore ai fini della sopravvivenza, ma ha piuttosto quello che potremmo chiamare un valore di «civilizzazione»; sarebbe dunque qualcosa che, in termini aristotelici, aiuta la comunità non a vivere, ma a vivere bene. I valori della sopravvivenza e i valori della civilizzazione in alcuni periodi e in alcune circostanze coincidono, ma non sempre. Ciò che è certo, in ogni caso, è che quando l’amicizia dà frutti da cui la comunità trae benefici, ciò avviene sempre incidentalmente, quasi si trattasse di un sottoprodotto. Le religioni ideate per i fini sociali, come il culto divino dell’imperatore nell’antica Roma o i tentativi moderni di «vendere» il cristianesimo come strumento per «salvare la civiltà», non ottengono mai grossi risultati. Sono i piccoli cenacoli di amici che voltano le spalle al mondo, quelli che realmente lo trasformano. La matematica degli egiziani e dei babilonesi era una scienza pratica e sociale, posta al servizio dell’agricoltura e della magia; ma la libera matematica dei greci, coltivata da amici che la consideravano un passatempo, ha avuto per noi un’importanza assai maggiore.

Altri, ancora, potrebbero dire che I’amicizia è estremamente utile agli individui, addirittura necessaria alla Ioro sopravvivenza, citando opinioni autorevoli a sostegno di questa tesi: «Bare is back without brother behind it» e «There is a friend that sticketh closer than a brother». Ma in questi modi di dire la parola amico è usata nel senso di «alleato». Nella sua accezione propria amico significa, o dovrebbe significare, qualche cosa di più. Un amico, potete esserne certi, saprà dimostrarsi un buon alleato al momento opportuno, pronto a prestare o a donare nel bisogno, ad accudirci nella malattia, a difenderci contro i nemici, a fare ciò che è in suo potere per le nostre vedove e i nostri orfani. Ma questi servigi che un amico può renderci non sono la vera essenza dell’amicizia. I momenti in cui tali servigi si rendono necessari rappresentano quasi delle interruzioni nel nostro rapporto: per un verso essi sono essenziali, per un altro non lo sono. Essenziali, in quanto saremmo dei falsi amici se non fossimo disposti a offrire il nostro aiuto quando ce n’è bisogno; non essenziali, in quanto il ruolo del benefattore rimane sempre occasionale, persino estraneo alla figura dell’amico. In un certo senso ci fa sentire in imbarazzo.

L’amicizia, infatti, non è condizionata dal bisogno, che invece l’affetto ha, di sentirsi necessaria. Potrà dispiacermi il fatto che un dono, un prestito, una veglia notturna, si siano resi necessari—ma ora, per l’amor del cielo, dimentichiamo tutto questo e ritorniamo alle cose che ci piace fare, o di cui ci piace discutere, insieme. La stessa gratitudine non arricchisce questo affetto. La frase stereotipa «Non c’è di che» in questo caso esprime perfettamente quello che proviamo in quel momento. Il marchio della perfetta amicizia non è il fatto di essere pronti a prestare aiuto nel momento del bisogno (anche se questo si verificherà puntualmente), ma il fatto che, una volta dato questo aiuto, nulla cambia. Si è trattato di una deviazione, di un’anomalia, di una fastidiosa perdita di tempo, rispetto a quei pochi momenti—sempre troppo fugaci—in cui si può stare insieme. Magari avevamo soltanto un paio d’ore a disposizione per poter parlare e, santo cielo, venti minuti se ne sono andati per parlare di affari.

Il fatto è, naturalmente, che a noi non interessano affatto gli affari dei nostri amici. L’amicizia, come l’eros, non è mai inquisitrice. Si diventa amici di una persona senza sapere, né preoccuparsi, se egli sia sposato o meno, o di come si guadagni da vivere. Tali «questioni pratiche», «affari di secondaria importanza» non hanno nulla a che vedere con la domanda fondamentale: «Vedi la stessa verità?».

In un circolo di veri amici ognuno è semplicemente se stesso: non rappresenta altri che stesso. A nessuno interessa sapere della famiglia dell’altro, della sua professione, classe, reddito, razza e storia passata. Sono tutte cose che, prima o poi, verremo a sapere, ma incidentalmente. Verranno fuori a poco a poco se ci sarà bisogno di fare un esempio o un’analogia, come pretesto per raccontare un aneddoto, mai per il gusto della cosa in sé. Questa è la regalità dell’amicizia: in essa ci incontriamo come sovrani di stati indipendenti, fuori dal nostro paese, su terreno neutrale, svincolati dal nostro contesto.

Questo affetto ignora, in generale, non soltanto l’aspetto fisico, ma tutto quell’insieme che è costituito dalla famiglia, dal lavoro, dal passato e dai nostri legami. A casa, oltre a essere Peter o Joan, ci spetta un’altra qualifica più generale: marito o moglie, fratello o sorella, capo, collega o subalterno. Non così in amicizia, dove è una questione di menti svincolate, denudate. L’eros vuole corpi nudi; l’amicizia, personalità nude.

Da ciò deriva (senza voler essere frainteso) il carattere squisitamente arbitrario e l’irresponsabilità di questo affetto. Non ho il dovere di essere amico verso nessuno, e nessuno ha il dovere di esserlo nei miei confronti. Niente pretese, nemmeno l’ombra di un obbligo. L’amicizia è superflua, come la filosofia, I’arte, l’universo stesso (Dio, infatti, non aveva bisogno di creare). Essa non ha valore ai fini della sopravvivenza; è piuttosto una di quelle cose che danno valore alla sopravvivenza.

Quando parlavo di amici fianco a fianco, o spalla a spalla, intendevo mettere in evidenza il contrasto tra il loro atteggiamento reciproco e quello degli innamorati, che ci immaginiamo invece faccia a faccia. Al di là di questo contrasto non vorrei, però, forzare l’immagine: la meta, o visione, che accomuna gli amici non li assorbe in maniera tale da farli rimanere estranei e dimentichi l’uno dell’altro. Al contrario, essa è proprio il tramite che permette lo sviluppo di una reciproca conoscenza e affetto.

Non arriveremo mai a conoscere qualcuno meglio del nostro «amico». Ogni passo del cammino comune mette alla prova la sua tempra, e le prove cui egli va incontro possono essere da noi riconosciute e comprese proprio perché anche noi vi andiamo incontro insieme a lui. Per questo, per il fatto che, di volta in volta, egli saprà superare l’esame, la nostra fiducia, il nostro affetto e la nostra ammirazione sbocceranno in un «amore di apprezzamento» particolarmente robusto e consapevole. Se, sul nascere dell’amicizia, ci fossimo occupati più di lui come persona, e meno di ciò «intorno a cui» si stava sviluppando questo legame, non saremmo arrivati a volergli così bene o a conoscerlo così a fondo. Non è guardandolo negli occhi, come se fosse la nostra innamorata, che riconosceremo il guerriero, il poeta, il filosofo o il cristiano; è meglio combattere al suo fianco, leggere con lui, discutere con lui, pregare con lui.

Direi che nella perfetta amicizia questo «amore di apprezzamento» è spesso così grande e così saldamente radicato, che ogni membro del circolo, nel profondo del cuore, prova un senso di umiltà nei confronti degli altri. A volte egli si chiede persino che cosa stia facendo in mezzo a gente così evidentemente migliore di lui, e si reputa fortunato oltre i suoi meriti di far parte di quella compagnia. Ciò avviene specialmente quando il gruppo al completo è riunito, e ciascuno riesce a mettere in luce quello che di meglio, di più saggio, di più divertente vi è negli altri. Quelli sono gli «incontri d’oro», quando quattro o cinque del gruppo, dopo aver fatto una lunga passeggiata, arrivano alla nostra locanda; quando si può stare con le pantofole ai piedi, e allungare questi verso la fiamma del camino, con accanto a noi qualcosa da bere; quando tutto il mondo, e anche qualcosa che si estende oltre questo mondo, si apre davanti alla nostra mente, mano a mano che parliamo. Nessuno avanza pretese sugli altri, né sente alcuna responsabilità nei loro confronti; ci sentiamo tutti uomini liberi e alla pari, come se ci fossimo incontrati soltanto un’ora prima; nello stesso tempo, sentiamo intorno a noi il calore di un affetto maturato con gli anni. La vita—la vita terrena—non ha dono più grande da offrirci. Che cosa abbiamo fatto per meritarlo?

Da quanto è stato detto risulterà chiaro che nella maggior parte delle società, in quasi tutte le epoche, l’amicizia si sviluppa tra uomini e uomini, o tra donne e donne. I due sessi si incontrano nell’affetto e nell’eros, ma non in questo tipo d’amore. Essi, infatti, di rado hanno modo di trovarsi uniti in quel rapporto cameratesco che si instaura quando vi è un’attività comune, e che è la matrice dell’amicizia. Quando gli uomini hanno un’istruzione e le donne no, quando uno dei due sessi lavora e l’altro non ha un’attività, o quando essi svolgono lavori del tutto diversi, allora sarà difficile che abbiano qualcosa su cui costruire un’amicizia.

É facile capire, dunque, che è solo questa mancanza di una base comune e non qualcosa di insito nella loro natura, il fattore che preclude l’amicizia; laddove, infatti, è possibile essere compagni, allora si può diventare anche amici. Per questo in una professione, come la mia, in cui uomini e donne lavorano fianco a fianco, o nel campo delle missioni, o tra scrittori e artisti, questo genere di amicizia è invece comune. È vero anche che ciò che da una parte viene offerto come amicizia, dall’altra può essere scambiato per eros, con conseguenze dolorose e imbarazzanti. Oppure, qualcosa che inizia come amicizia da entrambe le parti può, poi, trasformarsi in eros. Ma dire che qualcosa può essere scambiato o può trasformarsi in qualcos’altro non significa negare che tra le due cose esistano delle differenze; questo, anzi, lo sottintende: altrimenti non potremmo parlare di «trasformazione» o di «scambio».

Per questo aspetto la nostra società è sfortunata. Probabilmente, troveremmo abbastanza confortevole vivere in un mondo in cui uomini e donne non avessero lavori in comune né istruzione comune. Qui gli uomini si rivolgerebbero esclusivamente ad altri uomini per l’amicizia, traendone grande piacere; lo stesso, mi auguro, farebbero le donne, trovandosi la loro controparte di amicizie femminili. Ugualmente felice potrebbe essere quel mondo in cui tutti gli uomini e le donne avessero sufficiente terreno comune perché si potesse sviluppare questo rapporto di amicizia. Oggi, invece, ci troviamo con il piede in due staffe: questo indispensabile terreno comune tra i sessi, la matrice dell’amicizia, esiste in alcuni gruppi, ma non in altri. Manca, in misura appariscente, in molti quartieri residenziali periferici. In un quartiere di plutocrati, dove gli uomini hanno passato tutta la vita a fare soldi, almeno una parte delle donne avrà impiegato il tempo libero per arricchire la propria vita intellettuale, creandosi una cultura musicale, o letteraria. In questo ambiente gli uomini, in mezzo alle donne, fanno la figura dei barbari in mezzo ai popoli civilizzati. In altri quartieri la situazione è esattamente capovolta: entrambi i sessi «sono andati a scuola», ma poi gli uomini hanno proseguito negli studi e sono diventati medici, avvocati, religiosi, architetti, ingegneri, uomini di lettere. Le donne, al loro confronto, sembrano bambini in mezzo agli adulti. In nessuno dei due quartieri esistono le premesse affinché si sviluppino, tra i sessi, delle autentiche amicizie.

Questo stato di cose, pur rappresentando un effettivo impoverimento, sarebbe per lo meno tollerabile se venisse riconosciuto e accettato. Il guaio della nostra epoca, invece, è che gli uomini e le donne che vivono questa situazione rifiutano di accettarla, tormentati come sono dalle voci che giungono loro—e da quel po’ che vedono con i propri occhi—dei gruppi più fortunati dove non esiste questo abisso tra i sessi, e per di più sobillati dalle dottrine egalitarie secondo le quali ciò che è possibile per alcuni dovrebbe essere, e quindi è, possibile per tutti.

Come conseguenza abbiamo, da una parte, la moglie pedante, la donna «colta» che si sforza continuamente di portare il marito «al suo livello»: lo trascina ai concerti, vorrebbe vederlo interessarsi di danze tradizionali, invita a cena gente «colta». Nella maggior parte dei casi questa persecuzione si rivela, al contrario di quanto ci aspetteremmo, abbastanza innocua. Il maschio di mezza età ha grandi risorse di resistenza passiva (se soltanto lei lo sapesse...), di indulgenza: «Le donne—si sa— hanno le loro fissazioni».

Le conseguenze possono essere molto più dolorose, invece, quando sono gli uomini, e non le donne, ad avere una certa cultura, e quando le donne, come anche molti degli uomini, si rifiutano semplicemente di ammetterlo.

Quando questo accade, spesso inganniamo noi stessi con una gentile, educata, faticosa e pietosa finzione. Le donne sono «ammesse» (come direbbero gli avvocati) a far parte a pieno diritto del circolo maschile. Il fatto—in sé irrilevante—che esse ora fumano e bevono come gli uomini una conferma, per le anime più sempliciotte, di una reale uguaglianza. Non sono più ammesse riunioni di soli uomini: in qualunque occasione gli uomini si riuniscano, là ci devono essere anche le donne. Ma gli uomini hanno imparato a muoversi in mezzo alle idee, sanno che cosa sia una discussione, come una tesi vada sostenuta, e come illustrata con esempi. Una donna che abbia avuto soltanto un’educazione scolastica e che, con il matrimonio, si sia lasciata alle spalle quell’infarinatura di cultura ricevuta—le cui letture non vanno oltre le riviste femminili e la cui conversazione si esaurisce quasi completamente in una narrazione—non può entrare a far parte veramente di un circolo di quel genere.

Certo, la donna potrà essere fisicamente presente nella stessa stanza. E con questo? Se gli uomini sono impietosi, lei rimarrà seduta in silenzio ad annoiarsi per tutto il tempo che dura una conversazione che per lei non ha alcun significato. Se sono persone più educate, cercheranno naturalmente di coinvolgerla nella discussione, spiegandole ciò di cui si parla e cercando di dare un senso alle sue osservazioni fatue e confuse. Ma questi sforzi ben presto falliranno e così, per ossequio alle buone maniere, quella che avrebbe potuto essere una vera discussione viene deliberatamente annacquata e si spegne in chiacchiere, aneddoti, battute. La presenza della donna ha quindi distrutto proprio la cosa che essa era venuta a condividere. Lei non potrà mai entrare a far parte realmente del circolo, poiché il circolo cessa di essere se stesso quando lei ne entra a far parte, come l’orizzonte cessa di essere l’orizzonte quando ci avviciniamo ad esso. In questo caso, imparare a bere e a fumare-magari a raccontare storielle «spinte»—non è servito a farla avvicinare agli uomini un centimetro in più rispetto a sua nonna. Ma sua nonna, almeno, era più felice e più realistica. Se ne stava a casa a parlare con le altre donne di ciò che interessa alle donne, magari mostrando grande fascino, buon senso, e anche ingegno. Anche la nostra donna potrebbe fare lo stesso; probabilmente essa è intelligente quanto gli uomini cui ha rovinato la serata, se non di più. Però non le interessano le stesse cose, né possiede gli stessi strumenti critici. (A tutti capita di fare la figura degli stupidi quando si ostenta interesse per cose che in realtà ci lasciano indifferenti).

La presenza di donne simili, forti del loro numero, aiuta a capire la diffidenza dei moderni nei confronti dell’amicizia. A volte la loro vittoria è schiacciante: queste donne riescono a bandire il cameratismo maschile, e quindi le amicizie maschili, dall’intero circondario. Nell’unico mondo di cui hanno esperienza, un’inesausta e ciarliera «giovialità» rimpiazza la comunione di idee. Tutti gli uomini che incontrano parlano come le donne, per tutto il tempo in cui le donne sono presenti.

Spesso capita che la sconfitta dell’amicizia sia inflitta inconsapevolmente; c’è però un tipo di donna, l’autentica militante, che la programma in anticipo. Una volta ne ho sentita una dire: «Non lasciare mai due uomini soli in salotto, o incominceranno a discutere di qualche argomento, e allora, addio divertimento». Non avrebbe potuto esprimere più chiaramente il proprio pensiero: chiacchiere, ad ogni costo e mai abbastanza, incessanti cascate di voce umana; ma, per carità, niente argomenti: non si deve parlare di niente in particolare.

Questa gaia signora—questa vivace, raffinata, «affascinante», insopportabile seccatrice—si preoccupava soltanto di organizzare delle serate divertenti, e che ciascun incontro si potesse dire «riuscito». Ma la guerra consapevole all’amicizia può anche essere combattuta a un livello più profondo. Ci sono donne che la considerano—con odio, invidia, terrore—il nemico dell’eros e, ancor più, dell’affetto. Una donna che la pensa in questo modo troverà mille modi per far rompere al marito le sue amicizie: litigherà lei stessa con i suoi amici o, meglio ancora, con le loro mogli. Sarà pronta a schernire, a mettersi in mezzo, a mentire. Ella non si rende conto che un marito come quello che lei è riuscita a isolare dagli altri rappresentanti del suo sesso non è poi, in fin dei conti, un grande acquisto, perché è come se lui fosse stato castrato. Non passerà molto tempo che lei, per prima, si vergognerà di lui. Essa dimentica, poi, quanta parte del suo tempo egli passa in luoghi in cui non le è possibile sorvegliarlo. Nasceranno altre amicizie, ma questa volta segrete. Fortunata lei, e più di quanto si meriti, se presto non ci saranno altre cose che lui le terrà nascoste.

Così si comportano soltanto le donne sciocche, è ovvio. Le donne di buon senso, quelle che, se lo volessero, sarebbero certo in grado di poter accedere al mondo delle discussioni e delle idee, sono proprio quelle che, se mancano dei requisiti necessari, non cercano di entrarvi a ogni costo, o di distruggerlo. Hanno altro a cui pensare. A un ricevimento misto, esse gravitano verso un settore della sala e, con altre donne, parlano dei loro problemi. Così occupate, non desiderano la nostra compagnia più di quanto noi desideriamo la loro. Soltanto gli elementi più insignificanti di un sesso pretendono di rimanere aggrappati all’altro. Vivi e lascia vivere. Esse ridono di noi, proprio come è giusto che sia. Quando i sessi, non avendo delle vere e proprie attività in comune, possono incontrarsi soltanto nell’affetto e nell’eros—non possono, dunque, essere amici—è bene che ciascuno abbia una viva consapevolezza dell’assurdità dell’altro. Questo atteggiamento è sempre salutare. Nessuno ha mai apprezzato veramente l’altro sesso, come anche i bambini o gli animali, senza sentire, in certi momenti, che in esso c’è qualcosa di buffo. Entrambi i sessi, infatti, lo sono: l’umanità è tragicomica, e la divisione in sessi ci permette proprio di vedere nell’altro il lato comico e anche il pathos che, in noi, spesso ci sfugge.

Vi avevo avvertito che questo capitolo sarebbe stato, in gran parte, una riabilitazione. Spero che le pagine precedenti abbiano chiarito il perché non mi stupisco—personalmente—del fatto che i nostri antenati considerassero l’amicizia come qualcosa che ha il potere di sollevarci quasi al di sopra dell’umanità. Questo amore, libero dall’istinto, libero da tutti i doveri che non siano quelli liberamente assunti dall’amore, quasi totalmente immune dalla gelosia è libero, senza riserve, dal bisogno di sentirsi necessario, è eminentemente spirituale. È il tipo di amore che potremmo immaginare ci sia tra gli angeli. Avremmo forse trovato un affetto naturale che coincide con l’amore stesso?

Prima di giungere a conclusioni affrettate, consideriamo l’ambiguità nella parola spirituale. In molti passi del Nuovo Testamento essa significa «che è proprio dello Spirito (Santo)», e in questi contesti lo spirituale è, per definizione, buono. Ma quando spirituale viene usato semplicemente come contrario di «corporeo», o «istintivo», o «animale», il caso è differente. Esiste un male spirituale, oltre che un bene spirituale; ci sono gli angeli impuri, accanto agli angeli puri. I peccati peggiori dell’uomo sono di natura spirituale. Non dobbiamo credere che, avendo scoperto che l’amicizia è spirituale, abbiamo scoperto anche che essa è, di per sé, santa o infallibile.

Restano ora da prendere in considerazione tre fattori importanti. Il primo, cui ho già accennato, è la sfiducia che le autorità nutrono nei riguardi delle forti amicizie che possono instaurarsi tra i loro soggetti; questo atteggiamento può essere ingiustificato, ma può anche avere, in certi casi, delle fondate motivazioni.

Il secondo è l’atteggiamento della maggioranza verso qualunque circolo di amici molto uniti. Gli appellativi con cui vengono definiti hanno sempre una sfumatura più o meno accentuatamente denigratoria: nel migliore dei casi si tratta di una «cricca»; fortunati se non è una coterie, un «piccolo senato», o una «società per la mutua ammirazione». Chi nella propria vita ha conosciuto soltanto l’affetto, il cameratismo e l’eros, sospetta che gli amici siano dei saccenti gonfi di boria che non considerano gli altri degni di stare al loro fianco. Questa è, naturalmente, la voce dell’invidia. Ma le accuse che l’invidia lancia sono sempre le più fondate o, per lo meno, quelle che più si avvicinano alla realtà, quelle che fanno più male. Dobbiamo quindi prendere in considerazione anche questa imputazione.

Infine, dobbiamo notare che, nelle Scritture, solo molto di rado viene usata l’immagine dell’amicizia per simboleggiare I’amore tra Dio e I’Uomo. Essa non viene trascurata completamente; di fatto, però, le Scritture preferiscono ignorare questo rapporto, apparentemente angelico, quando si tratta di scegliere un simbolo atto a esprimere il più alto degli affetti, e preferiscono calarsi nelle profondità di ciò che è più naturale (o più istintivo). Come immagine di Dio nella sua veste di Padre viene scelto l’affetto, mentre I’eros viene preferito per rappresentare Cristo come Sposo della Chiesa.

Cominciamo, dunque, dalla diffidenza verso I’amicizia che nutrono coloro i quali esercitano il potere. Ritengo che il loro atteggiamento sia, in parte, giustificato, e che un esame dei loro motivi possa far venire alla luce dei fattori importanti. L’amicizia, dicevamo, nasce nel momento in cui una persona dice a un’altra: «Come! Anche tu? Pensavo di essere l’unico...». Ma questo gusto, o visione, o punto di vista, che scopriamo di avere in comune non è sempre necessariamente qualche cosa di buono. Può darsi che da questa esperienza comune nascano opere d’arte, o di filosofia, o progressi nel campo della religione o della morale; ma perché non la tortura, il cannibalismo, o i sacrifici umani?

La maggior parte di noi avrà sperimentato sicuramente, in gioventù, la natura ambivalente di questi momenti. È stato meraviglioso incontrare per la prima volta qualcuno cui piaceva il nostro poeta preferito. Ciò che prima comprendevamo in maniera confusa ora assume chiari contorni; ciò di cui prima quasi ci vergognavamo, ora siamo pronti ad ammetterlo pubblicamente. Ma non è stato meno piacevole incontrare per la prima volta qualcuno che divideva con noi una malsana passione segreta. Anche questa diviene, da quel momento, più tangibile ed esplicita; anche di questa cessiamo di vergognarci. Ancora oggi, qualunque sia la nostra età, ci può capitare dì sperimentare il fascino insidioso che si prova nel condividere con altri un odio o un risentimento. É difficile resistere all’impulso di salutare come nostro amico l’unica persona del College che, oltre a noi, ha ben individuato i difetti del vice-direttore.

Da solo, tra persone che sento poco comprensive, espongo le mie idee e i miei principi timidamente, quasi vergognandomi di sostenerli apertamente, e quasi dubbioso della loro validità. Rimettetemi in mezzo ai miei amici e in mezz’ora—che dico, in dieci minuti—queste stesse convinzioni e principi ritorneranno a essere incrollabili. L’opinione di questa piccola cerchia— fintanto che io ne faccio parte—vale più di quella di mille estranei. Con il rafforzarsi dell’amicizia, questi effetti si faranno sentire anche in assenza dei miei amici. Tutti noi, infatti, vogliamo essere giudicati dai nostri pari, da quelle persone che sentiamo «vicine al nostro spirito». Soltanto loro conoscono veramente i nostri pensieri, e soltanto loro giudicano sulla base di presupposti della cui validità noi siamo pienamente convinti. Da loro ci viene la lode, da noi ambita, e la riprovazione, da noi temuta. Le piccole conventicole dei primi cristiani sopravvissero perché si preoccuparono esclusivamente di amare «i fratelli», voltando le spalle all’opinione della società che li circondava. Ma un circolo di criminali o di eccentrici, oppure di pervertiti, sopravvive esattamente allo stesso modo: fingendosi sordo alle opinioni del mondo esterno, respingendole come chiacchiere di «chi sta al di fuori», di «chi non può capire»: dei formalisti, dei borghesi, del sistema, dei saccenti, dei moralisti e degli ipocriti.

È facile, dunque, capire il perché le autorità guardino con sospetto all’amicizia. Ogni autentica amicizia è una specie di secessione, quasi una ribellione. Potrà trattarsi della rivolta di un gruppo di seri pensatori contro gli sproloqui correnti, o di spiriti bizzarri contro le verità indiscusse del buon senso; di veri artisti contro il cattivo gusto imperante, o di ciarlatani contro il gusto consolidato della civiltà; di uomini retti contro le ingiustizie sociali, o di uomini corrotti contro i sani valori della società.

Qualunque sia il caso, quest’amicizia riuscirà sgradita a chi sta in alto. In ogni gruppuscolo di amici si crea una sezione di «opinione pubblica» che fortifica i propri membri contro la più generale opinione pubblica, vale a dire quella della comunità. Ciascuno di essi è, perciò, una sacca di potenziale resistenza. È molto meno facile governare e controllare uomini che hanno dei veri amici; è più difficile, per le buone autorità, correggerli, e per le cattive autorità, corromperli. Da ciò deriva che se i nostri capi, con la forza o con la propaganda a favore della «socievolezza», oppure invadendo la sfera del privato e annullando le occasioni in cui si può usufruire del tempo libero, riuscissero mai a creare un mondo in cui tutti fossero compagni, ma non esistessero amici, essi avrebbero rimosso alcuni pericoli, ma ci avrebbero anche privati di qualcosa che costituisce, forse, la nostra unica salvaguardia contro il completo asservimento.

Nondimeno, i pericoli sono perfettamente reali. L’amicizia (come hanno visto gli antichi) può essere scuola di virtù, ma anche (come essi non hanno visto) scuola di vizi. È ambivalente rende i buoni migliori, e i cattivi peggiori. Sviluppare quest’affermazione richiederebbe troppo tempo; quello che ci interessa, ora, non è spaziare sulle malvagità che possono risultare da certe cattive amicizie, ma divenire consapevoli dei possibili pericoli insiti in quelle buone.

Questo amore, come tutti gli affetti naturali, ha una sua innata predisposizione verso una particolare malattia. É ovvio che questo elemento di secessione, di indifferenza, o di sordità (per lo meno su alcune questioni) alle voci del mondo esterno è comune a tutte le amicizie, siano esse buone, cattive, o semplicemente innocue. Anche se il terreno comune dell’amicizia non fosse niente di più impegnativo di una raccolta di francobolli, il circolo giustamente e inevitabilmente ignorerebbe l’opinione dei milioni di persone che la considerano un’occupazione sciocca, e delle migliaia che se ne dilettano solo a tempo perso. I fondatori della moderna meteorologia giustamente e inevitabilmente ignorarono l’opinione di milioni di persone che ancora attribuivano i temporali a pratiche di stregoneria. In questo non vi è nulla di male. Come io sono consapevole di essere un intruso in un circolo di giocatori di golf, di matematici, o di patiti del volante, così a mia volta reclamo Io stesso diritto di considerare questi altri degli intrusi rispetto al mio circolo. Le persone che, stando insieme, si annoiano, dovrebbero incontrarsi di rado; le persone che si trovano interessanti, spesso.

Il pericolo è che questa parziale indifferenza, o sordità, all’opinione esterna, per quanto giustificata e necessaria, possa portare a un’indifferenza, o sordità generalizzate. Gli esempi più appariscenti di questo genere si ritrovano non tanto in un circolo di amici, ma piuttosto in una classe teocratica o aristocratica.

Sappiamo bene che cosa pensassero i sacerdoti, all’epoca di Nostro Signore, della gente comune. I cavalieri delle cronache di Froissart non avevano simpatia né pietà per gli «esclusi», per gli zotici e i contadini. Ma a questa deplorevole indifferenza si legava strettamente un fattore positivo: tra di loro regnavano ideali davvero elevati—generosità, cortesia, onore—che allo zotico diffidente e a pugni stretti saranno sembrati soltanto sciocchezze. I cavalieri, per mantenersi su questo livello erano, e dovevano essere, totalmente indifferenti nei confronti delle sue opinioni: dovevano «infischiarsene» di quello che pensava lui. Se invece se ne fossero curati, anche il nostro attuale livello di valori sarebbe più basso e più rozzo. Ma l’abitudine a «infischiarsene» si rafforza sempre di più all’interno di una classe sociale. Non dare ascolto alla voce del contadino nei casi in cui era effettivamente necessario avrà reso poi più facile non dare ascolto alla sua voce quando egli invocava giustizia o pietà. La parziale sordità, che è nobile e necessaria, incoraggia la sordità totale, che è arrogante e disumana.

Ovviamente, un circolo di amici non ha lo stesso potere vessatorio, nei confronti del mondo esterno, di una potente classe sociale; ma esso è esposto, nel suo piccolo, allo stesso pericolo. Esso può arrivare a trattare come «esclusi», in senso generico e spregiativo, coloro che sono propriamente degli «esclusi» soltanto in un ambito ben determinato. Così, come una classe di aristocratici, il gruppo di amici può creare intorno a sé un vuoto attraverso il quale nessuna voce più giunge a loro. Il circolo letterario o artistico che aveva cominciato col non tenere in nessun conto, forse a ragione, le opinioni dell’uomo comune in materia di letteratura o di arte, può finire poi col non tenere in nessun conto anche la sua idea che essi sono tenuti a pagare i conti, a tagliarsi le unghie, e a comportarsi civilmente. Qualsiasi difetto il circolo abbia—e nessun circolo ne è del tutto esente—diviene così incurabile. Ma non basta. La sordità parziale e giustificabile si basava su un certo tipo di superiorità—anche se era solo quella di chi se ne intende di francobolli. Dal senso di superiorità alla sordità totale, il passo è breve: il gruppo disdegnerà, ignorandoli completamente, quelli che rimangono al di fuori di esso. In pratica, si sarà trasformato in qualcosa di molto simile a una classe sociale. Una coterie è un’aristocrazia che si è autoeletta tale.

Dicevo poco fa che quando un’amicizia è buona, ciascun membro a volte prova un sentimento di umiltà nei confronti degli altri. Egli vede che essi sono persone stupende, e si considera fortunato di poter godere della loro compagnia. Ma, sfortunatamente, quelli che da un certo punto di vista sono «loro», da un altro punto di vista siamo «noi». Così è molto facile passare dall’umiltà individuale all’orgoglio corporativo. Non si tratta di ciò che siamo soliti chiamare orgoglio sociale o snobismo, il piacere che ci dà a conoscere, e far saper di conoscere, gente di un certo livello. Quella è una cosa del tutto diversa. Lo snob desidera aggregarsi a un certo circolo poiché questo è considerato di élite; gli amici, invece, corrono il rischio di considerare se stessi un’élite, dopo aver fatto gruppo. Inizialmente, la nostra è una ricerca di amici che condividano le nostre aspirazioni, e il giudizio che su di loro noi pronunciamo si fonda sul loro effettivo valore personale; in seguito avremo la piacevole sorpresa di scoprire che siamo diventati un’aristocrazia. Certo non ci chiameremo a quel modo; chiunque, tra i lettori, abbia avuto esperienza di amicizie si sentirà pronto a negare, e forse anche con un certo calore, che il proprio circolo si sia mai macchiato di una tale assurdità. Io farei lo stesso. Ma in questi casi è sempre meglio non cominciare dal nostro caso personale. Qualunque sia il nostro atteggiamento in merito, penso che tutti, per lo meno, avremo notato questa tendenza nei circoli di amici rispetto ai quali noi siamo degli «esclusi».

Una volta mi trovavo a una specie di conferenza tenuta da due religiosi, evidentemente grandi amici; a un certo punto questi iniziarono a parlare di «energie non create», diverse da Dio. Io domandai loro com’era possibile che esistessero altre cose non create, oltre a Dio, se è vero, come ci dice il Credo, che egli è il «Creatore di tutte le cose visibili e invisibili». Come risposta, quelli si limitarono a scambiarsi un’occhiata e a ridere tra di loro. Non che ci fosse niente di male in quella risata, ma avrei gradito ricevere anche una risposta verbale. Non si trattava nemmeno di una risata sgradevole, o di scherno: solo, essa esprimeva alla perfezione ciò che gli americani avrebbero reso con l’esclamazione: «Isn’t he cute?». Sembrava la risata di due adulti gioviali che avessero appena sentito un enfant terrible fare il tipo di domanda che non si dovrebbe mai fare in pubblico. Non potete immaginare quanto il loro sorriso fosse inoffensivo, e quanto chiaramente lasciasse trasparire la loro piena consapevolezza di vivere su un gradino più in alto rispetto al resto dell’umanità, il loro credersi venuti in mezzo a noi come cavalieri in mezzo alla plebaglia, o come adulti in mezzo ai bambini. Molto probabilmente essi avranno avuto una risposta da dare alla mia domanda, ma sapevano che io ero troppo ignorante per seguirli nel loro ragionamento. Se si fossero presi il disturbo di dire: «Temo che ci vorrebbe troppo tempo per spiegarle questo punto», ora non li incolperei del peccato di orgoglio che può nascere dall’amicizia. Il punto è proprio quello sguardo, e quella risata, espressioni visibili e udibili di una superiorità corporativa data per scontata. La quasi completa inoffensività di quei due, I’assenza apparente di qualsiasi desiderio di ferire o di trionfare sull’avversario (erano due giovani molto simpatici) ben sottolineavano quell’atteggiamento olimpico. Il loro era un senso di superiorità così radicato, da potersi permettere di mostrarsi tollerante, urbano, privo di enfasi.

Questo senso di superiorità corporativa non è sempre olimpico, vale a dire pacifico e tollerante: può anche essere titanico, riottoso, militante ed esacerbato. In un’altra occasione, dopo che avevo parlato davanti ai membri di un organismo universitario, e dopo che, molto opportunamente, si era acceso un certo dibattito intorno al mio intervento, un giovane, con l’espressione tesa come quella di un roditore, si rivolse a me con accenti tali da costringermi ad interromperlo con queste parole: «Mi ascolti, signore. Già due volte, negli ultimi cinque minuti, c’è mancato poco che lei mi desse del bugiardo. Se non è capace di discutere una questione di critica letteraria senza ricorrere a queste argomentazioni, sarò costretto ad andarmene». Mi aspettavo che egli reagisse in due maniere: o perdendo la calma e raddoppiando gli insulti, o arrossendo e scusandosi. La cosa sorprendente fu che egli non fece nessuna delle due cose; nessun turbamento venne a sovrapporsi all’abituale malaise della sua espressione. Certo non ripeté più così apertamente le sue accuse, ma per il resto continuò esattamente con lo stesso tono di prima. Mi ero scontrato con una cortina di ferro; quel tale si era premunito contro il rischio di un qualsiasi rapporto che fosse di natura dichiaratamente personale—vuoi amichevole, vuoi ostile—con tipi come me.

A monte di questo atteggiamento c’era certamente un circolo di amici del tipo titanico, nominatisi da sé Templari, perpetuamente con la lancia in resta per difendere il loro Baphomet. Noi—che dal loro punto di vista siamo «loro»—non esistiamo come persone; siamo soltanto esemplari, esemplari di varie età, gruppi, tipi, schiere, opinioni, o interessi, destinati a essere annientati. Privati di un’arma, essi velocemente ne imbracciano un’altra. Non si può dire che essi si misurino con noi, nell’accezione usuale di questa parola; quello che fanno è, semplicemente, portare a termine un lavoro—spruzzando (ho sentito una volta uno di loro usare questa immagine) insetticida.

Il livello intellettuale dei miei due giovani e simpatici religiosi e del mio non tanto simpatico «roditore» era abbastanza alto, come già quello della famosa setta i cui membri, in epoca edoardiana, ebbero la sublime imbecillità di darsi il nome: «le Anime». Ma questo senso di superiorità può animare anche un gruppo di amici di estrazione intellettuale molto inferiore, e allora verrà ostentato in maniera più sfacciata. Lo avrete visto fare, a scuola, dagli «anziani» davanti a una matricola, o da due regolari dell’esercito davanti a soldati di leva; a volte, in un bar o su un treno, da un gruppo di amici vocianti e volgari, semplicemente per far colpo su degli sconosciuti.

Queste persone di proposito parlano in maniera confidenziale e cifrata, facendo in modo di essere sentiti dai presenti. Chiunque non faccia parte del loro circolo deve capire bene di esserne escluso. A volte l’amicizia non si fonda su nient’altro che questo proposito di escludere gli altri. Parlando con un «escluso», ciascun membro si compiacerà di chiamare gli amici con i loro nomi di battesimo o con i loro soprannomi, non benché, ma proprio perché in questo modo l’«escluso» non capirà a chi egli si riferisca.

Una volta conobbi una persona ancor più scaltra. Essa chiamava in causa i suoi amici come se tutti dovessero sapere chi fossero. Di solito, cominciava i suoi discorsi con una frase del tipo: «Come mi disse una volta Richard Button...». A quel tempo noi eravamo tutti molto giovani, e non osavamo ammettere di non aver mai sentito nominare quel tale Richard Button. Sembrava così ovvio che alle persone anche solo un minimo importanti il suo nome dovesse suonare familiare; «non conoscerlo ci qualificava automaticamente come sconosciuti». Solo in seguito ci rendemmo conto che nessun altro ne aveva mai sentito parlare. Oggi, mi è venuto addirittura il sospetto che alcuni di questi Richard Button, Hezekiah Cromwell, Eleanor Forsyth, non siano mai esistiti, proprio come la signora Harris. Ma per un anno o giù di lì, fummo tutti in uno stato di totale soggezione nei riguardi di quella persona.

Ecco quindi che possiamo rintracciare l’orgoglio dell’amicizia—sia esso olimpico, titanico, o semplicemente volgare—in molti circoli di amici. Ci vuole prudenza prima di affermare che il nostro gruppo non corre questo pericolo, perché, naturalmente, è proprio in noi stessi che è più difficile riconoscere questo atteggiamento. Il pericolo di cadere in questo orgoglio è, in verità, quasi inseparabile dall’affetto che è alla base dell’amicizia. L’amicizia deve escludere; dall’atto innocuo e necessario dell’escludere allo spirito di alterigia il passo è breve, e ancor più facile è passare poi a godere dei meschini piaceri della superbia. Una volta giunti a questo stadio, la china davanti a noi si fa sempre più ripida. Può darsi che non arriveremo mai ad essere dei titani o dei villani; potremo magari diventare delle «Anime»—il che, per alcuni versi, è una fine anche peggiore. Potrà scomparire la visione comune che all’inizio ci aveva fatto incontrare: saremo allora una coterie che esiste per il puro gusto di essere una coterie; una piccola cerchia di aristocratici che si sono autonominati tali—e pertanto assurda—che si crogiola al sole della sua autoapprovazione collettiva.

Talvolta un circolo di amici che parte da questo tipo di premesse incomincia poi a darsi da fare in senso pragmatico. Aprendo, ponderatamente, le porte a quelle reclute che, pur avendo un interesse soio trascurabile per ciò intorno a cui è nata l’amicizia, sono considerate—in un senso non meglio precisato—«uomini validi» essa diviene un potere nel paese. Farne parte acquista un valore politico, anche se la politica in gioco è soltanto quella circoscritta di un reggimento, di un college, o del terreno recintato di una cattedrale. Pressioni sulle commissioni esaminatrici, appropriazioni di incarichi (da affidare a persone «in gamba») e il fronte unito contro i non abbienti divengono ora le sue principali occupazioni, e quelli che un tempo si incontravano per parlare di Dio o di poesia, ora si ritrovano per parlare di lettorati o di benefici. Si noti ora quanto è giusta la sorte che li aspetta. Dio disse ad Adamo: «Polvere sei, e polvere ritornerai». In un circolo che si è trasformato in un’accolta di trafficanti, l’amicizia è scivolata nuovamente in quel rapporto cameratesco, puramente pratico, che era stato la sua matrice. Essi adesso sono una compagnia assai simile a quella costituita dalle primitive orde di cacciatori. Cacciatori, ecco di che cosa si tratta, e nemmeno il tipo di cacciatori verso cui io provo rispetto.

La gran massa delle persone, che non ha mai del tutto ragione ma nemmeno del tutto torto, cade in un grossolano errore se ritiene che ogni gruppo di amici nasca col solo scopo di soddisfare esigenze di vanità e di superbia; ed è in errore, secondo me, se crede che ogni amicizia in realtà indulga a questi piaceri. Ha ragione, invece, nel diagnosticare che l’orgoglio è il pericolo cui l’amicizia più naturalmente si espone. Proprio perché questo è il più spirituale degli affetti, il pericolo che lo insidia sarà, pure, spirituale. L’amicizia è anche, se così vogliamo dire, angelica, ma proprio per questo l’uomo deve circondarsi tre volte di umiltà se vuole cibarsi, senza correre rischi, del cibo degli angeli.

Forse a questo punto potremmo azzardare una congettura sul perché le Scritture usino così di rado l’amicizia come immagine dell’amore più elevato: forse proprio perché, di fatto, esso è già troppo spirituale per poter essere un buon simbolo delle cose spirituali. Ciò che e in alto non si regge senza ciò che è in basso. Dio può tranquillamente presentare se stesso come un Padre e uno Sposo perché soltanto un pazzo potrebbe pensare che egli sia fisicamente nostro Padre, o che il suo sposalizio con la Chiesa sia qualcosa di diverso d un legame mistico. Se invece usassimo l’amicizia a questo scopo, potremmo finire con Io scambiare il simbolo per la cosa simboleggiata. Il pericolo inerente a questo affetto potrebbe diventare quindi anche più grave: potremmo sentirci ulteriormente incoraggiati a scambiare quella vicinanza (per somiglianza) alla vita celeste che I’amicizia certamente dispiega per una somiglianza di accostamento.

L’amicizia, dunque come gli altri affetti naturali è incapace di salvare se stessa. In realtà, proprio perche essa è spirituale, e dunque posta di fronte a un nemico più sottile, essa dovrà invocare, più degli altri, la protezione divina se vuole sperare di conservarsi pura. Pensiamo, infatti, a quanto è stretto il sentiero che essa deve sforzarsi di percorrere. Essa non deve diventare quella che la gente chiama una «società per la mutua ammirazione»; d’altra parte, però, se essa non è animata da questa reciproca ammirazione, o «amore di apprezzamento», non è più amicizia. Se non vogliamo, infatti, che la nostra vita si impoverisca miseramente, dobbiamo far sì che la nostra amicizia sia qualcosa di simile a quella di Cristiana e del suo gruppo in The Pilgrim Progress: …pareva che l’una fosse la meraviglia dell’altra, perché ognuna vedeva la gloria dell’altra senza poter vedere la propria. Perciò esse cominciarono ad avere stima l’una dell’altra, più che ciascuna di sé medesima: poiché l’una diceva: Voi siete più bella di me, e l’altra diceva: E voi avete più grazia di me.

In prospettiva, c’è soltanto un modo per poter gustare, senza pericolo, questa nobile esperienza, e di nuovo è Bunyan che ce lo indica, in quello stesso contesto appena citato. È nella Casa dell’Interprete che, dopo essere state lavate, segnate col sigillo e rivestite di «abiti bianchi», le donne si videro in quella luce. Se ci ricorderemo della lavanda, della segnatura, e della vestizione, saremo salvi. Più elevata è la base comune su cui si sviluppa i’amicizia, più è necessario tenere a mente queste precauzioni. Nel caso di un’amicizia a carattere dichiaratamente religioso, soprattutto, la dimenticanza potrebbe essere fatale; poiché in questo caso ci sembrerebbe che noi—noi quattro, noi cinque—ci siamo scelti reciprocamente, dopo che la perspicacia di ciascuno ha saputo scorgere i’intrinseca bellezza degli altri, da pari a pari—cosa che sembra conferirci una sorta di volontaria nobiltà: ci sembrerebbe di esserci innalzati al di sopra del resto dell’umanità grazie a un nostro innato potere.

Gli altri affetti non alimentano quest’illusione. L’affetto, ovviamente, richiede un rapporto di parentela, o per lo meno di vicinanza, che non dipende mai dalla nostra scelta personale. Quanto all’eros, basta la metà delle canzoni d’amore e delle poesie d’amore di tutto il mondo per convincerci che l’amata è il nostro fato, il nostro destino, e che ella non è legata alla nostra scelta più di quanto lo sia uno scoppio di tuono, poiché «non è in nostro potere amare o odiare». Saranno le frecce di Cupido, i gèni, qualunque cosa, ma non noi stessi. Nel caso dell’amicizia, poiché siamo liberi da questi vincoli, pensiamo di aver scelto autonomamente i nostri pari. In realtà, qualche anno di differenza nelle date di nascita, qualche chilometro di distanza tra due case, la scelta di un’università piuttosto che un’altra, la destinazione a un reggimento invece che a un altro, il caso che ci ha fatta parlare di un argomento, la prima volta che ci siamo incontrati, invece dl tacere—una qualsiasi di queste circostanze avrebbe potuto farci restare separati.

Ma, per un cristiano, non si può parlare, a rigor di termine, di fatalità. Un segreto maestro delle cerimonie ha lavorato per noi. Cristo, che disse ai suoi discepoli: «Non siete voi che vi siete scelti, ma sono Io che ho scelto voi», può veramente dire a ogni gruppo di amici cristiani: «Non siete voi che vi siete scelti, ma sono Io che ho scelto voi, gli uni per gli altri». L’amicizia non è una ricompensa per il discernimento e il buon gusto che abbiamo dimostrato di possedere trovandoci vicendevolmente. Essa è lo strumento attraverso il quale Dio rivela a ciascuno le bellezze degli altri, che non sono, certamente superiori alle bellezze di un migliaio di altre persone, con l’amicizia Dio ci apre gli occhi su di loro. Queste, come tutte le bellezze, derivano da lui, e quando si stabilisce un’autentica amicizia esse vengono da lui accresciute per questo tramite, cosicché l’amicizia diventa il suo strumento per creare, e anche per rivelare.

In questo banchetto è lui che ha imbandito la tavola, ed è lui che ha scelto gli invitati; è lui—osiamo sperare—che vi presiede, come sempre dovrebbe essere. Badiamo bene a non fare mai i conti senza il nostro ospite. Questo non significa che dobbiamo sempre partecipare dell’amicizia in maniera solenne. «Dio, che ha creato la sana risata» ce lo vieta. Una delle difficoltà e dei deliziosi controsensi della vita è proprio il fatto che si debba comprendere la serietà di alcuni suoi ingredienti, e tuttavia saperli e volerli trattare, a volte, con la stessa disinvoltura di un gioco.

Ma verrà il momento in cui potremo parlare più a lungo di queste cose, nel prossimo capitolo. Per il momento mi limiterò, dunque, a riportare il consiglio di Dunbar, consiglio di raro equilibrio: «Man, please thy Maker, and be merry, And give not for this world a cherry».

 

Capitolo quinto

EROS

Con il termine eros mi riferisco, naturalmente, a quella condizione che noi definiamo dell’«innamoramento» o, se preferite, a quel tipo d’amore che è proprio degli innamorati. Alcuni lettori saranno rimasti sorpresi, in un capitolo precedente, sentendomi descrivere l’affetto come l’amore nel quale la nostra esperienza più si avvicina a quella degli animali. Di certo, potreste obiettare, anche la nostra attività sessuale ci avvicina altrettanto al loro comportamento. Questo è senz’altro vero per quanto riguarda la sessualità dell’uomo in generale, ma quella di cui mi occuperò ora non è semplicemente la sessualità umana allo stato puro: la sessualità rientra nel nostro tema soltanto quando essa diventa un ingrediente di quella complessa condizione che è l’«essere innamorati». Dò per scontato che l’esperienza sessuale può essere vissuta anche al di fuori dell’eros, senza che si debba per forza esser innamorati, e che l’eros risulta dalla combinazione di molteplici fattori, oltre a quello sessuale.

Se preferite, posso riformulare la mia premessa in questi termini: la mia indagine non si occuperà di quella sessualità che abbiamo in comune con gli animali—oltre che con tutti gli uomini—, ma di quella sua varietà che è esclusiva dell’uomo, e che si sviluppa all’interno dell’amore; questa esperienza, dunque, è ciò che io intendo per eros. Per l’elemento di sessualità carnale, o animale, presente all’interno dell’eros ho adottato, invece, la denominazione «venere», seguendo un uso antico.

Con il termine «venere» non mi riferisco alla sessualità sotterranea e rarefatta—che è oggetto d’indagine dello psicologo del profondo—ma, al contrario, alla sessualità più ovvia e palese, a ciò che si rivela come sessuale al più superficiale degli esami. La sessualità può operare come componente dell’eros, oppure al di fuori di esso. Mi affretto subito ad aggiungere che ritengo questa distinzione necessaria solo ai fini di delimitare I’ambito della nostra ricerca, al di là delle possibili implicazioni morali. Non è mia intenzione suffragare l’idea popolare che sia l’assenza o la presenza dell’eros a rendere l’atto sessuale «impuro» o «puro», degradante o degno, illegittimo o legittimo. Se dovessimo considerare coloro che hanno avuto rapporti carnali senza trovarsi nelle condizioni proprie dell’eros come persone abiette, allora tutti noi dovremmo dirci discendenti di una razza corrotta.

I momenti e le circostanze in cui le sorti di un matrimonio dipendono unicamente dall’eros sono una percentuale molto ridotta. La maggior parte dei nostri antenati furono costretti a sposarsi in età assai precoce, con compagni scelti dai loro genitori in base a criteri che non avevano nulla a che vedere con l’eros. Essi si sono accostati all’atto sessuale senz’altro «propellente»—per così dire—all’infuori del semplice desiderio animale; e l’hanno saputo compiere bene: da onesti cristiani, mariti e mogli obbedivano ai loro padri e alle loro madri, assolvevano a vicenda i propri doveri matrimoniali, e allevavano la prole nel timore del Signore.

Al contrario, compiere quest’atto sotto l’impulso di un eros trascendente e cangiante, che pone in secondo piano il ruolo dei sensi, può risolversi in un puro e semplice adulterio, può voler dire spezzare il cuore alla propria’ moglie, ingannare il marito, tradire un amico, profanare l’ospitalità, o abbandonare i propri figli. Dio non ha voluto che la distinzione tra un peccato e un dovere fosse affidata ai bei sentimenti. Quest’atto, come molti altri, si giustifica (o meno) in base a criteri molto più prosaici e definibili, come il mantenere o il rompere un giuramento, il compiere un atto di giustizia o di ingiustizia, di carità o di egoismo, di obbedienza o di disobbedienza.

Dalla nostra trattazione escluderemo, dunque, la semplice sessualità—la sessualità senza eros—per motivi che non hanno niente a che veder con la morale, ma semplicemente perché tale elemento è irrilevante ai fini del nostro discorso.

Per l’evoluzionista, l’eros, nella sua variante umana, è qualcosa che sviluppa da venere, una complicazione posteriore, uno sviluppo rispetto all’originario impulso biologico. Non per questo dobbiamo credere, tuttavia, che questo processo sia inevitabile all’interno della coscienza dell’individuo. Ci sono casi in cui un uomo, effettivamente, prova prima attrazione fisica per una donna, e soltanto in uno stadio successivo si «innamora» di lei. Ma dubito che questo accada di frequente. Più spesso, tutto ha origine da una semplice e lieta «preoccupazione», del tutto aspecifica, nei confronti dell’amata, considerata nella sua totalità. Un uomo che si trova in questo stato d’animo non è nella condizione adatta per pensare al sesso poiché è troppo occupato a pensare a una persona. Che lei sia una donna è di gran lunga meno importante del fatto che lei sia se stessa. L’uomo si sente pervaso da un desiderio che può anche non essere tinto di sessualità. Se gli chiedeste che cosa desideri, la sua risposta sincera sarebbe, il più delle volte, «continuare a pensare a lei».

Egli è in contemplazione dell’amore. E quando in uno stadio successivo si risveglia il suo desiderio sessuale, egli non ha la sensazione (a meno che non venga influenzato dall’esterno da teorie scientifiche) che questa, fin dall’inizio, sia stata la radice da cui si è sviluppato tutto il resto. È molto più probabile che egli senta che la marea dell’eros, che ora avanza dopo aver demolito molti castelli di sabbia e dopo aver reso molti scogli isole, con una trionfante settima onda ha finalmente invaso anche quest’ultima parte della sua natura, la piccola pozza della sessualità latente che già era sulla spiaggia prima che la marea avanzasse. L’eros entra in lui da conquistatore, prendendo possesso e riorganizzando, una per una, le istituzioni del paese sottomesso. Può darsi che prima di arrivare a impadronirsi della sessualità che è in lui si sia appropriato di altri territori; anche questa, comunque, verrà infine riorganizzata.

Nessuno ha saputo descrivere in maniera più concisa e fedele la natura di questa riorganizzazione di Orwell, suo oppositore e fautore di una sessualità più genuina, incontaminata dall’eros. In 1984, il terribile eroe (assai meno umano dei quadrupedi eroi del suo La fattoria degli animali), prima di abbandonarsi a effusioni con l’eroina vuole essere da lei rassicurato: «Ti piace farlo?—le domanda—non intendo con me; voglio dire, la cosa in sé». E non è soddisfatto finché non ha ricevuto la risposta che voleva: «Adoro farlo».

Questo breve cambio di battute serve a definire il carattere di questa riorganizzazione: il desiderio sessuale, senza l’eros, vuole quello, la cosa in sé; l’eros vuole l’amata. La cosa è un piacere sensoriale, vale a dire, un evento che si verifica all’interno del nostro corpo. Di un lussurioso che si aggira furtivo per le strade, noi diciamo, con un’espressione poco felice, che «vuole una donna», ma, a rigor di termini, una donna è l’ultima cosa che quello vuole. Egli è alla ricerca di un piacere, per ottenere il quale è indispensabile che una donna entri a far parte dell’ingranaggio. Quanto poi gli stia a cuore quella donna, lo si può facilmente dedurre dal suo comportamento verso di lei cinque minuti dopo averne goduto: non si conserva il pacchetto delle sigarette vuoto.

L’eros, invece, fa desiderare all’uomo non una donna, ma una donna in particolare. Per qualche misteriosa eppure innegabile disposizione del nostro animo, l’innamorato desidera l’amata per quello che è, e non per il piacere che gli può procurare. Nessun innamorato al mondo ha mai cercato gli abbracci della donna amata per il calcolo, fosse anche inconsapevole, che essi potessero essere più piacevoli di quelli di qualunque altra donna. Se egli si fosse posto la questione in questi termini, la risposta sarebbe certo stata affermativa, ma il fatto stesso di essersela posta Io avrebbe situato fuori dall’ottica dell’eros. L’unico uomo che io conosca ad aver sollevato tale problema, è stato Lucrezio, e di certo quando lo ha fatto non era innamorato. La risposta che egli ha dato è interessante. il parere di quell’austero libertino è che I’amore in effetti guasta il piacere sessuale. Il coinvolgimento emotivo viene da lui considerato come un fattore di distrazione, che danneggia la fredda e critica ricettività del palato. Di certo egli è stato un grande poeta, ma «santo cielo, erano proprio dei bruti questi romani!».

Il lettore noterà che, in questo modo, l’eros trasforma ciò che è per eccellenza un «piacere da bisogno» nel più antico «piacere di apprezzamento». Fa parte, infatti, della natura di un «piacere da bisogno» il mostrarci I’oggetto solo in rapporto al nostro bisogno, fosse anche il più transitorio. Nell’eros, invece, un bisogno, persino nel suo stadio di maggior intensità, vede l’oggetto—e tanto più intensamente—come una cosa in sé ammirevole, e importante anche al di là del suo rapporto con il bisogno dell’innamorato.

Se non avessimo provato tutti questo sentimento, se fossimo dei logici puri, potremmo trasalire dinanzi a tale concezione di un desiderio per un essere umano distinto dal desiderio del piacere, conforto, o servizio, che quell’essere umano è in grado di darci. Certo è difficile spiegare a parole questo concetto. Sono gli innamorati stessi che, per quanto parzialmente, cercano di estrinsecare quest’idea quando affermano di volersi «mangiare» a vicenda. Milton si è spinto anche oltre, quando ha immaginato le creature angeliche come dotate di corpi luminosi, grazie ai quali esse riescono a raggiungere una totale compenetrazione, che va ben oltre il semplice abbraccio. Charles Williams si riferiva a qualcosa di simile quando ha detto: «Amarti? Io sono te».

Il desiderio sessuale separato dall’eros, come qualunque altro desiderio, riguarda soltanto noi stessi; nella dimensione dell’eros esso è piuttosto qualcosa che riguarda l’amata. Diviene quasi uno stile di percezione, e un mezzo completo di espressione, che ha però carattere oggettivo, come di cosa estranea a noi, appartenente al mondo reale. Questo spiega come mai l’eros, che pure è il re dei piaceri, quando giunge al massimo dell’intensità ha sempre l’aria di considerare il piacere fisico come secondario. Una maggior considerazione di questo piacere avrebbe il risultato di tuffarci nuovamente in noi stessi, nel nostro sistema nervoso; significherebbe uccidere l’eros, proprio come il fissare un bel paesaggio di montagna sulla nostra retina e nelle nostre cellule nervose significa, in un certo senso, ucciderlo. E in ogni caso, a chi appartiene quel piacere? Poiché uno dei primi effetti dell’eros è proprio quello di abolire la distinzione tra ciò che si dà e ciò che si riceve.

Fino a questo momento mi sono limitato a descrivere, lasciando da parte i giudizi di valore; ma a questo punto sorgono inevitabilmente dei problemi morali, sui quali non è giusto che io nasconda la mia opinione. Se ve la sottopongo, non è per il semplice gusto di fare delle affermazioni, ma anche perché essa possa venire, in parte, corretta da uomini migliori, innamorati migliori, e cristiani migliori di me.

Era opinione diffusa, in passato—e ancor oggi molte anime ingenue ne sono convinte—che il pericolo spirituale cui l’eros ci espone derivi quasi interamente dall’elemento di carnalità in esso presente; che l’eros sia «al massimo nobile» o «al massimo puro» quando il ruolo ricoperto da venere si riduce al minimo. È indubbio che per i vecchi teologi di morale il pericolo contro cui bisognava stare in guardia, nel matrimonio, era quello di una resa totale agli stimoli della carne, con conseguente rovina dell’anima. È bene notare, tuttavia, che questo non è l’atteggiamento delle Scritture in proposito. San Paolo, nello sconsigliare ai suoi seguaci il matrimonio, ignora tale aspetto della questione, se si esclude un accenno all’inopportunità di una prolungata astinenza dai piaceri di venere (1 Cor 7, 5). Quello che egli teme è la «preoccupazione»—il bisogno costante di «far cosa gradita» alla propria compagna, di «badare» a lei—, le molteplici distrazioni della vita coniugale. È il matrimonio in sé, e non il talamo, la causa che il più delle volte ci fa trascurare il servizio ininterrotto che è dovuto a Dio. E certo San Paolo è nel giusto. Se devo fidarmi della mia esperienza personale, sono proprio le cose materiali e le cure prudenti di questo mondo, persino le più umili e le più prosaiche, che costituiscono il nostro grande motivo di distrazione.

Quell’insieme di futili ansietà e di piccole decisioni riguardanti la nostra condotta nelle prossime ore, che ci sovrasta come un nugolo di zanzare, ha interferito con le mie preghiere più frequentemente di quanto non abbiano fatto passioni e appetiti fisici. La grande e costante tentazione, all’interno del matrimonio, non è la sensualità ma, non ci sono dubbi, l’avarizia. Pur con tutto il rispetto dovuto ai compilatori di guide spirituali del medioevo, non posso fare a meno di farvi notare che essi erano tutti celibi e che quindi, probabilmente, non avevano esperienza di come l’eros agisce sulla nostra sessualità, di come esso, lungi dall’aggravare, ridimensiona, anzi, lo stimolo e la dipendenza dal puro appetito fisico. E questo non soltanto perché lo appaga: l’eros, senza rimuovere il desiderio, rende più facile l’astinenza. È vero che esso determina una «preoccupazione» nei confronti dell’amata che a volte si rivela d’ostacolo per la vita spirituale, ma non si tratta, essenzialmente, di una preoccupazione di tipo sessuale.

Penso che il vero pericolo spirituale dell’eros, considerato nella sua interezza, risieda altrove. Su questo punto ritornerò più avanti, per ora preferisco parlare del pericolo che oggi, a mio parere, sovrasta l’atto d’amore. Questo è un argomento che mi vede dissenziente, non con tutto il genere umano (Dio me ne guardi), ma con molti dei suoi più austeri rappresentanti. Ritengo che oggi la gente venga incoraggiata a prendere troppo sul serio venere o, per lo meno, con il tipo sbagliato di serietà. Da quando sono nato ho assistito a un mastodontico, quanto ridicolo, processo di celebrazione del sesso.

Un autore ci dice che venere dovrebbe riproporsi a noi, nel corso della vita coniugale, secondo un «ritmo solenne e sacramentale». Un giovane, al quale avevo descritto come «pornografico» un romanzo che lui ammirava moltissimo, mi rispose con sincero stupore: «pornografico? Ma com’è possibile? Tratta la cosa con tale serietà»—quasi che le facce lunghe siano una sorta di disinfettante morale. I nostri amici che ospitano i demoni oscuri, quelli della scuola del «pilastro di sangue», si stanno seriamente adoperando per far rivivere qualcosa di simile a una religione fallica. La nostra pubblicità, quando sfrutta al massimo l’elemento della sensualità, dipinge la faccenda in termini di rapimento, estasi, devoto mancamento; soltanto di rado c’è un accenno di giocosità. Gli psicologi, poi, ci hanno a tal punto tormentati a proposito dell’incommensurabile, sconfinata importanza di cercare una completa armonia sessuale, e della totale impossibilità di riuscire a raggiungerla, che non mi stupirei se mi dicessero che ora alcuni giovani coppie I’affrontano con le opere complete di Freud, Kraft-Ebbing, Havelo-ck Ellis e del Dr. Stopes ammonticchiate sui tavolini da notte. Forse il vecchio e arguto Ovidio, che non ha mai trascurato i mucchietti di terra, sopra le tane delle talpe, senza per questo farne delle montagne, ci potrà essere più d’aiuto in materia. Abbiamo raggiunto lo stadio in cui si sente veramente il bisogno di una bella e sana risata, come si usava una volta.

Ma, mi risponderete, la faccenda è seria. Senz’altro, e per un motivo molto semplice: in primo luogo, da un punto di vista teologico, poiché questa è la parte che spetta al corpo nel matrimonio che, per scelta divina, è l’immagine mistica dell’unione tra Dio e l’Uomo. In secondo luogo, in rapporto a ciò che, con un po’ di audacia, chiamerò il sacramento subcristiano—o pagano, o naturale—: la nostra partecipazione, in quanto uomini, all’estrinsecarsi delle forze naturali della vita e della fertilità—il matrimonio tra il Padre-Cielo e la Madre-Terra. In terzo luogo, a livello morale, in vista degli obblighi e dell’incalcolabile importanza annessi al ruolo di genitori e di progenitori. Infine, la questione assume a volte (ma non sempre) una notevole rilevanza emotiva nella mente di chi vi è coinvolto.

Ma anche mangiare è una cosa seria: da un punto di vista teologico, poiché è il tramite del sacramento divino; da un punto di vista etico, in collegamento con il nostro dovere di nutrire gli affamati; sul piano sociale, poiché la tavola è, da tempo immemorabile, il Iuogo della conversazione; sotto il profilo medico, come ben sa chiunque di voi soffra di dispepsia. Non per questo, però, ci porteremo a tavola i libri delle devozioni, né in quest’occasione ci comporteremo come se fossimo in chiesa. Sono proprio i gourmets, e non certo i santi, quelli che si Iasciano tentare da un atteggiamento simile. Gli animali sono serissimi per tutto ciò che riguarda il cibo.

Non dobbiamo essere totalmente seri nel nostro rapporto con venere. Il fatto è che a volerla prendere troppo sul serio si finisce col fare violenza alla nostra umanità. Ci deve essere un motivo, se ogni lingua e letteratura del mondo è piena di storielle sul sesso. Molte di queste sono banali o volgari, e quasi tutte sono vecchie e risapute. Ma è necessario insistere sul fatto che esse, tuttavia, esprimono un’attitudine verso venere che, alla lunga, si rivela meno compromettente per la vita cristiana di una gravità reverenziale.

Non dobbiamo cercare di fare della carne un valore assoluto. Bandite il gioco e il riso dal talamo e vi potrà accadere di vedervi scivolare dentro una falsa dea, che sarà anche più falsa dell’Afrodite dei greci; poiché almeno essi sapevano, pur adorandola, che essa è «amante del riso». La saggezza popolare ha perfettamente ragione a considerare venere uno spirito con una componente di comicità. Nessuno ci obbliga a cantare tutti i nostri duetti d’amore alla maniera singhiozzante, da mondo senza fine, da crepa- cuore, di Tristano e Isotta; impariamo a cantarli piuttosto, e anche spesso, alla maniera di Papageno e Papagena.

La stessa venere finirebbe col vendicarsi terribilmente su di noi se volessimo prendere la sua occasionale serietà per un valore in sé, e lo farebbe in due maniere. La prima è stata illustrata in maniera estremamente comica—pur senza quest’intenzione—da Sir Thomas Browne, laddove egli dice che il suo servizio è l’«atto più stolto che un uomo saggio possa commettere in vita sua; nulla maggiormente abbatte la sua immaginazione, ormai quietata, del considerare a quale strambo e indegno atto di follia egli si sia lasciato andare». Se, invece, egli vi si fosse accostato con minore solennità, prima di tutto non avrebbe sofferto di questo «abbattimento», e se la sua immaginazione non fosse stata sviata, il ritorno alla lucidità non avrebbe portato con sé un tal senso di repulsione. Ma venere conosce un’altra, e più feroce, vendetta.

La stessa venere è beffarda e maliziosa, molto più vicina agli elfi che non agli dèi, e ama farsi gioco di noi. Quando tutte le circostanze esterne sembrano oltremodo propizie per i suoi servizi, ella farà sì che uno, o entrambi gli innamorati, restino totalmente insensibili di fronte alle sue grazie. Nei momenti in cui è impossibile scambiarsi una qualsiasi manifestazione d’affetto, fosse anche solo un’occhiata tenera—sul treno, nei negozi, a quegli interminabili ricevimenti—essa è capace di assalirli con tutta la sua forza. Un’ora più tardi, al momento e nel luogo giusti, ella si ritirerà invece misteriosamente, magari abbandonando uno solo dei due innamorati. E che conseguenze possono derivarne per coloro che ne hanno fatto una dea: che risentimenti, autocommiserazioni, sospetti, vanità ferite, e tutti i discorsi che oggi vanno di moda sulla «frustrazione»! Gli innamorati intelligenti, invece, si mettono a ridere. Fa tutto parte del gioco; un gioco che assomiglia alla lotta libéra, in cui le fughe, i capitomboli e gli scontri frontali devono essere considerati come parte del divertimento.

Per questo non posso fare a meno di considerare una burla giocataci dal buon Dio il fatto che una passione così eterea, così trascendente come l’eros debba essere collegata, in incongrua simbiosi, con un appetito fisico che, come qualsiasi altro appetito, rivela senza discrezione i suoi legami con fattori mondani quali tempo, dieta, salute, circolazione e digestione. Sotto l’influsso dell’eros si ha, talvolta, la sensazione di volare; venere ci dà quell’improvviso strattone che ci rammenta che in realtà noi siamo dei palloncini frenati. Essa ci mette continuamente davanti all’evidenza che siamo creature composite, animali raziocinanti imparentati da un lato con gli angeli, e dall’altro con i gatti. È brutto non saper stare agli scherzi, e peggio ancora non sapere apprezzare uno scherzo divino, fatto, d’accordo, a nostre spese, ma anche (chi oserebbe metterlo in dubbio?) a nostro infinito beneficio.

Riguardo al proprio corpo, l’uomo ha formulato tre opinioni: la prima quella degli asceti pagani che lo consideravano la prigione, o la «tomba», dell’anima, e dei cristiani come Fisher’, per il quale esso non è nient’altro che un «sacco di letame», cibo per i vermi, sudicio, indecente, fonte di tentazione per i malvagi, e di umiliazione per i buoni. Poi ci sono i neo-pagani (che raramente conoscono il greco), i nudisti, e coloro che sono tormentati dai demoni oscuri, per i quali il corpo è qualcosa di glorioso. Infine, abbiamo l’opinione espressa da San Francesco, il quale chiamava il corpo «fratello asino».

Tutte e tre queste concezioni possono trovare una loro giustificazione—anche se personalmente non ne sono del tutto convinto—; quanto a me, datemi a scatola chiusa quella di San Francesco. Asino è esattamente la parola giusta, in quanto nessuna persona sana di mente si sognerebhe mai di rivivere o di odiare un mulo. Esso è una bestia utile, testarda, simpatica e smaniosa, che merita ora il bastone, ora la carota; patetica e assurdamente bella allo stesso tempo. Così è il corpo. Non potremo convivere con lui finché non riconosceremo che una delle sue funzioni nella nostra vita è quella di recitare la parte del buffone. Sono cose, queste, che chiunque sa—a meno che non intervenga qualche teoria, dall’esterno, a confondergli le idee - uomo, donna o bambino. Il fatto stesso di avere un corpo è lo scherzo più vecchio del mondo. L’eros, come la morte, il disegno del corpo umano e lo studio della medicina, può indurci in certi momenti a prenderlo troppo sul serio. L’errore consiste nel trarne la conclusione che è giusto che l’eros debba sempre essere così, e allontanare da lui lo scherzo.

Questo però nella realtà non accade: a convincercene bastano le facce di tutti gli innamorati felici che conosciamo. Gli innamorati, a meno che il loro non sia un affetto passeggero, sono perfettamente consapevoli di questo elemento non solo di commedia, ma addirittura di farsa, presente nelle manifestazioni fisiche dell’eros. Se così non fosse, il corpo finirebbe per farci sentire dei frustrati. Esso, infatti, è uno strumento troppo goffo per riprodurre la musica dell’amore, a meno che non si voglia considerare la sua goffaggine come un elemento di fascino stravagante che viene ad aggiungersi all’esperienza nella sua totalità—una trama secondaria, o un intermezzo grottesco—che, attraverso la sua esuberante sregolatezza, mima ciò che l’anima compie in modo più solenne. Così, nelle vecchie commedie, i trasporti lirici tra l’eroe e l’eroina erano, nello stesso tempo, parodiati e rinvigoriti da un rapporto molto più terreno che si siluppava tra un Touchstone e una Audrey, o tra un valletto e una cameriera.

Ciò che è in alto non si regge senza ciò che è in basso. In determinati moménti c’è davvero un’alta poesia nel ruolo della carne, ma anche, lasciatemelo dire, un elemento di ostinata e ridicola prosaicità. Prima o poi ne faremo certamente esperienza. È molto meglio accoglierlo stabilmente all’interno del dramma dell’eros, con funzione di riequilibrio comico, piuttosto che fingere di non averlo notato. La verità, infatti, è che noi abbiamo bisogno di qualche elemento di sollievo, della prosaicità che si va a innestare sulla poesia, della gravità di venere, ma anche della sua levità, del gravis ardor, il bruciante fardello del desiderio. Il piacere, spinto al suo estremo, ha su di noi lo stesso effetto devastante del dolore. Il desiderio di un’unione che soltanto la carne può mediare, ma che poi la stessa carne rende irraggiungibile per via dei nostri corpi che si escludono a vicenda, può avere la stessa grandiosità di un’indagine metafisica. La passione amorosa, come il dolore, può farci piangere.

Ma Venere non viene sempre così «tenacemente avvinta alla sua preda», e il fatto che ciò talvolta si verifichi dovrebbe farci riflettere, e indurci a conservare una sfumatura di giocosità nel nostro atteggiamento nei suoi confronti. Quando le cose terrene ci sembrano quasi divine, dietro l’angolo spunta il demonio.

Questo rifiuto di immergerci totalmente—questo riconoscere la levità anche laddove, sul momento, ci si mostra soltanto il lato solenne, è particolarmente importante in rapporto a un certo atteggiamento che venere, ai suo massimo di intensità, suscita nella maggior parte, se non proprio in tutte, le coppie di innamorati. Quest’atto può invitare l’uomo a un estremo, per quanto effimero, autoritarismo, a quell’atteggiamento dominatore tipico di chi ha conquistato o fa prigioniero qualcuno, e la donna a un estrema abiezione e a una resa corrispondenti. Da questo nasce la violenza, a volte persino la ferocia di certi giochi erotici: il «morso dell’amato, doloroso, eppure desiderato». Che giudizio dovrebbe dare, su questo, una coppia sana? come può accettarlo una coppia cristiana?

Personalmente ritengo che ciò sia innocuo e salutare soltanto a una condizione: essere pronti a riconoscere di trovarci davanti a quello che ho chiamato il «sacramento pagano». Nell’amicizia, come già notammo, ciascuno dei partecipanti rappresenta soltanto se stesso, il particolare individuo che egli è. Nell’atto d’amore, invece, noi non siamo più soltanto noi stessi, ma rappresentiamo qualcun altro. In questo caso, l’essere consapevoli che attraverso di noi operano forze più antiche e più impersonali non costituisce un impoverimento, ma un arricchimento. In noi si concentrano, per un momento, tutta la mascolinità e la femminilità dell’universo, tutto ciò che è assalitore e tutto ciò che è ricettivo. L’uomo interpreta il Padre-Cielo e la donna la Madre-Terra; lui personifica la forma, lei la sostanza.

Ma dobbiamo prestare attenzione alla parola personifica: è ovvio che nessuno dei due «recita una parte» nel senso che è un ipocrita; ognuno dei due, piuttosto, recita un ruolo in qualcosa che, ebbene sì, è paragonabile a un mistero medioevale o a un rituale per un verso, a una mascherata o perfino a una sciarada per un altro. Una donna che accettasse alla lettera, come propria, questa estrema arrendevolezza, diventerebbe un’idolatra che offre a un uomo quello che spetta soltanto a Dio. E un uomo sarebbe il peggiore dei bellimbusti, e per di più blasfemo, se arrogasse a sé, nell’umiltà della sua persona, quel tipo di sovranità alla quale venere, solo per un istante, lo ha innalzato.

Ma ciò che, invero, non può essere ceduto o reclamato, può tuttavia, a rigor di legge, essere recitato. Al di fuori di questo rituale, o dramma, lui e lei sono due anime immortali, due adulti liberi, due cittadini. Sbaglieremmo a credere che questa supremazia nell’atto d’amore venga esercitata e accettata soltanto in quei matrimoni nei quali, anche su un piano più generale, il marito esercita un certo predominio sul complesso della vita matrimoniale. È più probabile, addirittura, che sia vero il contrario. Ma, all’interno del rito, o dramma, essi si trasformano in un dio e in una dea, tra i quali non c’è uguaglianza, e le cui relazioni sono asimmetriche.

Ad alcuni sarà sembrato strano che io abbia evidenziato un elemento di rituale o di mascherata in quell’atto che di solito viene considerato come il più realistico, il più a viso scoperto, il più autentico e genuino che si possa compiere. Non è forse vero che, quando siamo nudi, riveliamo la parte più vera di noi stessi? In un certo senso, no. La parola naked («nudo») era in origine un participio passato; l’uomo nudo era l’uomo che aveva subito il processo di denudazione, vale a dire di sbucciamento, o di pelatura (il verbo era usato in riferimento a noci e frutta). Fin dai tempi più remoti, l’uomo nudo è apparso ai nostri progenitori non come l’uomo naturale, ma come l’uomo innaturale; non come l’uomo che non si è vestito, ma come l’uomo che, per qualche ragione, è stato spogliato. Ed è un dato di fatto—chiunque potrà rendersene conto in un bagno pubblico maschile—che la nudità mette in risalto la comune umanità, e smorza i fattori di individualità. In questo modo noi siamo «più noi stessi» quando siamo vestiti. Nel momento della nudità gli innamorati cessano di essere semplicemente John e Mary, per lasciare il posto all’uomo e alla donna universali. Si potrebbe quasi dire che essi hanno indossato la nudità, come un manto cerimoniale, o come un costume per una sciarada.

Dobbiamo, infatti, evitare di atteggiarci al tipo sbagliato di serietà, soprattutto quando ci rendiamo partecipi, durante i momenti dell’amore, del sacramento pagano. Lo stesso Padre-Cielo non è altro che un sogno pagano di Qualcuno ben più grande di Zeus e di gran lunga più virile del maschio. L’uomo mortale, poi, non è nemmeno il Padre-Cielo, e non può certo portare la sua corona. Tutt’al più potrà fabbricarsene una di stagnola. E non lo dico in senso spregiativo: amo il rituale, mi piacciono le rappresentazioni teatrali in famiglia, e perfino le sciarade. Le corone di carta hanno un loro uso legittimo e (in certi contesti) serio. A ben vedere esse non sono di molto più inconsistenti («se l’immaginazione le corregge») di tutte le altre dignità terrene.

Ma non mi sembrerebbe prudente accennare a questo sacramento pagano senza poi mettere subito in guardia contro il pericolo di confonderlo con un mistero incomparabilmente più alto. Come la natura, in quel breve atto, pone sul capo dell’uomo una corona, così la legge cristiana lo incorona nel legame duraturo del matrimonio, assegnandogli—dovrei forse dire, infliggendogli?—una certa «supremazia». Questa è una incoronazione di tipo completamente diverso. Come è facile prendere troppo sul serio il mistero naturale, così si potrebbe cadere nella tentazione di non prendere il mistero cristiano con la dovuta serietà. Gii scrittori cristiani (e in particolare Milton) hanno parlato, talvolta, della supremazia che spetta al marito con una compiacenza tale da far gelare il sangue. È necessario ritornare alla Bibbia: il marito ha il dominio sulla moglie soltanto nella misura in cui egli è verso di lei ciò che Cristo è nei confronti della Chiesa. Egli è tenuto ad amarla come Cristo ha amato la Chiesa—continuiamo a leggere—«e ha sacrificato se stesso per lei» (Ef 5, 25).

Questa supremazia, allora, trova la sua più alta realizzazione non nel marito che tutti vorremmo essere, ma in quello il cui matrimonio è più simile a una crocefissione, in quello la cui moglie riceve sempre senza dare nulla, è al massimo indegna di lui, ed è—come carattere—meno amabile. Poiché la Chiesa non ha bellezza, se non quella che lo Sposo le conferisce, Egli non la trova, ma la rende, bella. Non è nelle gioie del matrimonio, ma nei suoi dolori, che scorgeremo il carisma di questa terribile incoronazione, nella malattia e nelle sofferenze di una buona moglie, nelle instancabili cure (mai fatte pesare) di un marito, o nella sua inesauribile disponibilità al perdono; perdono, non acquiescenza. Come Cristo vede nella Chiesa terrena, incrinata, orgogliosa, fanatica o tiepida, quella Sposa che un giorno sarà senza macchia e incrinature e si prodiga per questa realizzazione, così il marito, la cui supremazia è assai simile a quella di Cristo (e soltanto questa gli è concessa), non dispera mai. Egli assomiglia al re Cophetua che, dopo vent’anni, ancora spera che la piccola mendicante un giorno impari a non dire bugie e a lavarsi le orecchie.

Questo non significa, tuttavia, che vi sia necessariamente virtù, o saggezza, in quel matrimonio che comporta una tale sofferenza. Non è virtuoso, né saggio, andarsi a cercare un martirio che non è necessario, o sollecitare le tribolazioni; pure, è il cristiano perseguitato, il martire, colui che realizza in maniera esente da ambiguità lo schema del Maestro. E dunque in questi penosi matrimoni, se il cielo ha voluto caricarci di questa croce, che la «supremazia» del marito, se soltanto egli è in grado di sostenerne il peso, diviene più simile a quella di Cristo.

Le femministe più accese non devono sentirsi oltraggiate se è al mio sesso che è stata offerta questa corona, nel mistero pagano come in quello cristiano, poiché in un caso si tratta di una corona di stagnola, nell’altro, di spine. Il vero pericolo non è che i mariti se ne approprino con eccessiva cupidigia, ma che essi permettano, o costringano, le mogli ad usurparla.

Dopo aver parlato di venere, la componente carnale dell’eros, passerò a esaminare l’eros nella sua totalità. Anche qui vediamo ripetersi lo stesso schema: come venere, all’interno dell’eros, non ricerca esclusivamente il piacere, così l’eros non mira soltanto alla felicità. Talora ci sentiamo propensi a crederlo, ma una volta giunti al banco di prova, scopriamo che la verità è un’altra. Chiunque di noi conosce bene l’inutilità di cercare di separare due innamorati dimostrando che il loro matrimonio è destinato in partenza al fallimento, e non solo perché non ci crederebbero. Questo è quanto solitamente accade, ma anche supponendo che essi ci credessero, ciò non sarebbe sufficiente a dissuaderli. Infatti, il marchio tipico dell’eros è che, una volta in noi, ci fa preferire l’infelicità insieme all’amata alla felicità in qualunque altra condizione. Anche se i due innamorati fossero persone mature e piene di esperienza, consapevoli che i cuori spezzati col tempo guariscono, e in grado di prevedere che, se solo avessero la forza di affrontare, al presente, l’agonia della separazione, nel giro di dieci anni sarebbero molto più felici di quanto potrebbero mai esserlo con il matrimonio— anche in questo caso—non accetterebbero mai di separarsi.

L’eros è indifferente a tutti questi calcoli, esattamente come venere non tiene in nessun conto il giudizio freddamente calcolatore di Lucrezio.

Anche quando diventa chiaro, al di là di ogni possibile illusione, che il matrimonio con l’amata non potrà in nessun caso renderci felici—quando l’unica prospettiva che si apre davanti a noi è l’accudire a un’invalida permanente, una povertà senza speranza, l’esilio o il disonore—l’eros non esita a dire: «Sempre meglio che separarci; meglio essere infelici con lei, che felici senza di lei. Che i nostri cuori si spezzino pure, a patto che si spezzino insieme». Se la voce dell’eros, dentro di noi, non parla in questi termini, allora non è la voce dell’eros.

Questa è la grandezza, e il terrore, dell’amore. Ma notate che, anche qui come prima, accanto alla grandezza vi è la giocosità. Persino quando le circostanze in cui due innamorati vengono a trovarsi sono così tragiche che nessuno, che vi sia testimone, riesce a trattenere le lacrime, loro invece—nel bisogno, nella corsia di un ospedale, in prigione nei giorni in cui è permesso ricevere visite—saranno assaliti da un’improvvisa allegria che, a chi li osserva (ma non a loro) fa un effetto tragicamente patetico. Non c’è niente di più , falso dell’idea che il prendersi in giro sia necessariamente un sintomo di ostilità. Finché non avranno un bambino di cui sorridere, gli innamorati rideranno l’uno dell’altro.

È nella grandezza dell’eros che si annida il seme dannoso. Esso ci parla come farebbe un dio: la sua totale disponibilità, il suo incurante spregio della felicità, il suo passar sopra a qualsiasi considerazione personale, tutto ciò suona come un messaggio proveniente dal regno eterno. Nonostante ciò, così com’esso si presenta, l’eros non può essere la voce stessa di Dio, poiché esso, parlando con quella stessa grandezza e mostrando un uguale spregio delle nostre esigenze personali, può anche spingerci a compiere il male, oltre che il bene. Niente è più falso del giudizio secondo il quale l’amore che spinge a peccare è sempre qualitativamente inferiore—più animale, più superficiale—di quello che porta a un matrimonio cristiano improntato alla fedeltà e ricco di frutti. L’amore che culmina in un’unione crudele e spergiura, a volte persino in patti di suicidio o di omicidio, ha tutte le probabilità di non essere semplicemente un delirio di lussuria o frivolo sentimentalismo; può benissimo essere eros, in tutto il suo splendore, sincero fino a spezzare il cuore, pronto a qualunque sacrificio che non sia la rinuncia.

Ci sono state scuole di pensiero che hanno accolto la voce dell’eros come qualcosa di effettivamente trascendente, cercando di giustificare l’assolutezza dei suoi comandi. Platone può dunque dire che l’«innamoramento» equivale al mutuo riconoscimento, su questa terra, di due anime che erano state separate I’una dall’altra in una precedente esistenza celeste.

Incontrare l’amata significherebbe dunque rendersi conto che «ci siamo amati prima di nascere». Questo mito esprime in maniera superba ciò che gli innamorati provano, ma a volerlo prendere alla lettera, ci troveremmo a dover fare i conti con un’imbarazzante conseguenza. Dovremmo allora arrivare alla conclusione che in quella vita celeste e dimenticata, gli affari non erano sbrigati con più competenza di quanto accade qui sulla terra, poiché l’eros può accoppiare sotto lo stesso giogo due persone per altro incompatibili: molti matrimoni infelici, già in anticipo catalogabili come tali, si sono risolti in scontri d’amore.

Una teoria che ai nostri giorni sembra più accettabile è quella cui si dà il nome di «romanticismo shawiano»—lo stesso Shaw avrebbe potuto chiamarlo «metabiologico». Secondo il romanticismo shawiano, la voce dell’eros è la voce dell’élan vital, o forza vitale, dell’«appetito evoluzionistico». Quando questa si riversa su una determinata coppia, è perché essa è alla ricerca di genitori (o progenitori) per il superuomo. In questo senso è indifferente alla felicità personale, come pure alle leggi della morale, poiché mira a qualcosa che Shaw reputa molto più importante: la futura perfezione della specie.

Ma se ciò fosse vero, non si capisce se—e in caso affermativo, perché— dovremmo obbedirle. L’immagine del superuomo che finora ci è stata offerta è così poco invitante che uno sarebbe tentato di votarsi immediatamente al celibato, per non correre il rischio di generare un simile mostro. In secondo luogo, questa teoria porta a concludere che la forza vitale non conosce molto bene il suo mestiere. Per quanto ne sappiamo, l’esistenza o l’intensità dell’eros tra due persone non è garanzia di una prole particolarmente dotata, né della venuta di una prole. Gli ingredienti indispensabili per ottenere dei bei bambini sono due buone «razze» (nella terminologia degli allevatori di bestiame), e non due buoni innamorati. E quale sarebbe stato il ruolo della forza vitale per tutte quelle generazioni, quando generare bambini dipendeva solo in maniera irrilevante dall’affetto reciproco, e quasi esclusivamente da matrimoni combinati, schiavitù e violenza carnale? Si sarebbe limitata ad avere la bella idea di migliorare la specie?

Né il tipo di trascendentalismo platonico, né quello shawiano, possono essere d’aiuto per un cristiano. Noi non siamo adoratori della forza vitale, e siamo all’oscuro di precedenti esistenze. Non dobbiamo prestare un’obbedienza incondizionata alla voce dell’eros, quando la sua voce più risuona come quella di un dio. Ma non dobbiamo nemmeno ignorare, o tentare di negare, le sue qualità divine: questo amore è davvero simile a colui che è l’amore stesso. La sua è una reale vicinanza a Dio (per somiglianza); ma non per questo necessariamente sarà una vicinanza di accostamento.

L’eros, venerato fin dove è consentito dall’amore verso Dio e dalla carità verso i nostri fratelli, può diventare per noi strumento di accostamento. La sua totale dedizione è un paradigma, o esempio, insito nella nostra natura, dell’amore che dovremmo praticare nei riguardi di Dio e dell’uomo. Come la natura, per l’amante della natura, dà contenuto alla parola gloria, così esso dà contenuto alla parola carità. È come se Cristo ci dicesse, attraverso l’eros: «Così, proprio in questo modo, con questa prodigalità, senza badare a quanto vi potrà costare, voi dovete amare me e l’ultimo dei miei fratelli».

Il nostro atto di venerazione condizionata nei confronti dell’eros varierà, naturalmente, a seconda delle condizioni in cui ognuno di noi si viene a trovare. Ad alcuni è richiesta una rinuncia totale (ma non un atteggiamento di disprezzo). Altri, per i quali l’eros costituisce un propellente e anche un modello di vita, possono imbarcarsi nella vita matrimoniale, sapendo però: che anche allora l’eros, di per sé, non sarà mai sufficiente, ma si limiterà a sopravvivere finché non arriverà a essere continuamente disciplinato e corroborato da più alti principi.

Quando, invece, l’eros viene onorato senza riserve e obbedito incondizionatamente, esso diviene un demone. E questo è esattamente il modo in cui esso pretende di essere onorato e obbedito: divinamente indifferente al nostro egoismo, egli è anche diabolicamente ribelle a qualunque pretesa, da parte di Dio o dell’uomo, di porsi in contrasto con lui. Da questo deriva che, come dice il poeta: «People in love cannot be moved by kindness, And opposition makes them feel like martyrs».

Martire è esattamente la parola giusta. Anni fa, quando scrissi sulla poesia d’amore medievale, nel descrivere la sua «religione d’amore» come strana e in parte fittizia, sono stato così cieco da considerarla come un fenomeno quasi esclusivamente letterario. Oggi so vedere meglio: è l’eros che, per sua natura incoraggia questo atteggiamento. Di tutti gli affetti è quello che, al suo massimo d’intensità, è più simile a un dio, e perciò più incline a esigere adorazione da parte nostra. Spontaneamente, esso tende a trasformare l’«essere innamorati» in una sorta di religione.

 

Capitolo sesto

CARITA’

William Morris scrisse una poesia intitolata L’amore è abbastanza, e sembra che qualcuno l’abbia recensita assai sbrigativamente con le parole «Non lo è». Ebbene, il mio libro si è fatto carico del fardello di chiarire proprio quest’ultimo concetto. Gli affetti naturali non sono autosufficienti; affinché il sentimento conservi la dolcezza iniziale è necessario che qualcos’altro, che in un primo momento avevamo descritto vagamente come «saper vivere e buon senso», che poi si rivela come bontà, e, infine, come pienezza di vita cristiana incarnata in un particolare rapporto, venga in soccorso del puro sentimento.

Dire questo non significa sminuire gli affetti naturali ma, anzi, indicare in che cosa consiste il loro autentico splendore. Non faremo certo torto a un giardino dicendo che esso non è in grado di recintarsi né di seminarsi né di potare i propri alberi da frutto né di spianare e tagliare i propri prati. Un giardino è una bella cosa, ma la sua è una bellezza che non gli è inerente: esso rimarrà un giardino, distinto da un terreno incolto, soltanto se vi sarà qualcuno che farà questi lavori per lui. Il suo vero splendore è di tipo completamente diverso, e di questo splendore è testimonianza proprio il fatto che esso necessiti di una semina e di una potatura costanti. Esso brulica di vita, risplende di colori, profuma come il paradiso, e in ogni ora dell’estate ci elargisce bellezze che l’uomo non avrebbe mai potuto creare con le sue sole risorse né sarebbe mai arrivato a immaginarsi.

Se volete capire la differenza che c’è tra il contributo del giardino e quello del giardiniere, provate a piantare la più comune delle erbe che in esso crescono accanto ai tubi di gomma, ai rastrelli, alle cesoie e ai diserbanti dell’uomo: vi accorgerete di aver posto la bellezza, l’energia e la fecondità accanto a cose morte, e sterili. Allo stesso modo, il nostro «saper vivere buon senso» ci appaiono cose grigie e morte accanto alla genialità dell’amore. E quando il giardino è nel suo pieno rigoglio, il contributo del giardiniere a quello splendore sembrerà pur sempre meschino in confronto a quello della natura. Il lavoro dell’uomo non servirebbe a niente senza la forza vitale che si sprigiona dalla terra, senza la pioggia, la luce e il calore dispensati dal cielo. Per quanto il giardiniere si sia prodigato, egli non ha fatto altro che incoraggiare in alcuni casi, scoraggiare in altri, quella forza e quella bellezza che provengono da ben altra fonte. Nondimeno, il suo contributo, per quanto piccolo, è indispensabile e impegnativo. Quando Dio piantò un giardino, egli pose un uomo sopra di esso, e l’uomo sotto di sé. Quando egli creò il giardino della natura umana, fece sì che in esso germogliassero affetti fiorenti e fruttuosi, ma affidò all’uomo il compito di «coltivare» quegli affetti. La nostra volontà, a loro confronto, è arida e fredda, e, a meno che la sua grazia non discenda dal cielo —come la pioggia e il sole—l’uso che potremo fare di questo strumento darà risultati poco soddisfacenti. Nonostante ciò, i suoi servizi, faticosi e spesso di esito negativo, ci sono indispensabili. Se già essi ci erano necessari quando il giardino era ancora il Paradiso, tanto più lo saranno ora che il suolo è diventato troppo acido e sembrano crescervi soltanto erbacce.

Ma il cielo non voglia che si debba lavorare con spirito di rassegnato stoicismo o con spirito di boria. Mentre ci diamo da fare a tagliare e a potare, dobbiamo essere pienamente consapevoli che ciò che noi tagliamo e potiamo è animato da un grande splendore e da una vitalità che la nostra volontà raziocinante non avrebbe mai potuto, da sola, conferirgli. Liberare questo splendore, aiutarlo a realizzare appieno le sue potenzialità, ottenere alberi vigorosi, e non esili arbusti, raccogliere mele dolci, e non mele selvatiche, fa parte dei nostri compiti.

Ma solo in parte. Giunto a questo punto, infatti, mi trovo costretto ad affrontare un argomento che, fino ad ora, ho sempre rimandato. Ben poco si è detto, in questa sede, degli affetti naturali come possibili rivali dell’amore dovuto a Dio. Tacere ancora su questo punto e divenuto adesso impossibile. Il ritardo con cui mi accingo ad affrontare la questione si collega a due motivi. Il primo—cui ho già accennato—è che, effettivamente, non sembra realistico, agli occhi di molti, prendere le mosse da questo aspetto del problema, che spesso appare non commisurato alla nostra condizione di esseri umani. Per la maggior parte degli uomini, infatti, il vero problema sembra risiedere nella rivalità tra se stessi e gli altri, più che tra gli altri e Dio. Può essere controproducente spronare un uomo a superare i legami degli affetti terreni, quando il suo problema più urgente consiste proprio nell’incapacità a stringere tali legami.

Senza dubbio è facile amare di meno le persone che ci sono accanto con l’illusione che questo accada perché stiamo imparando ad amare meglio Dio, quando invece il motivo di fondo è un altro. Può darsi che abbiamo semplicemente «scambiato l’indebolirsi della natura per un aumento della grazia». Per molte persone, odiare le proprie mogli, o le proprie madri, non è affatto difficile. François Mauriac, in una bella scena, ha saputo descrivere con efficacia lo stupore e lo smarrimento di tutti i discepoli nell’udire questa strana esortazione, e la diversa reazione di Giuda, che, al contrario, è fin troppo lieto di seguirla.

C’è poi un secondo motivo per cui sarebbe stato prematuro sottolineare questa rivalità nei capitoli precedenti: la pretesa di divinità che i nostri affetti avanzano in maniera così frequente, può essere respinta senza dover ricorrere ad argomentazioni così impegnative. Gli affetti rivelano la loro inadeguatezza a sostituirsi a Dio già nel semplice fatto che non riescono nemmeno a rimanere se stessi e a portare a termine quanto promesso senza l’aiuto di Dio. Che bisogno c’è di dimostrare che un principe qualunque non è il legittimo imperatore, quando senza l’appoggio dell’imperatore egli non riuscirebbe a conservare il suo trono di subordinato e a mantenere la pace nella sua provincia nemmeno per metà anno? Va anche a vantaggio degli affetti il fatto che, se vogliono rimanere ciò che sono, essi devono riconoscere il loro carattere non primario. E questo giogo consente loro un’autentica libertà: «sono più alti quando si inchinano». Poiché, quando Dio regna nel cuore di un uomo, egli, pur trovandosi a volte costretto a rimuovere da lì alcune delle autorità che vi si erano insediate, più spesso conferma altre nei loro incarichi e, sottomettendo la loro volontà alla sua, dà loro per la prima volta un saldo fondamento.

Emerson ha detto: «Quando i semidei se ne vanno, arrivano gli dèi»; ma questa è una massima su cui io ho delle riserve. Piuttosto, si dovrebbe dire: «Quando arriva Dio (e soltanto allora) i semidei possono restare». Lasciati in balia di se stessi, essi finiscono per svanire, o diventano dei demoni. Solo nel suo nome essi possono, con bella sicurezza, «maneggiare i loro piccoli scettri». Lo slogan rivoluzionario «Tutto per amore», è in realtà la condanna a morte dell’amore—la data dell’esecuzione, per il momento, è lasciata in bianco.

Il problema di questa rivalità, comunque, per quanto a lungo posposto per diversi motivi, dobbiamo ora finalmente affrontarlo. Se questo libro fosse stato scritto in qualunque altra epoca (tranne che nel XIX secolo), ci saremmo già ripetutamente imbattuti in questo scoglio. Se i vittoriani avevano bisogno che qualcuno ricordasse loro che l’amore non è abbastanza, la vecchia scuola di teologia non si stancava di ripetere a gran voce che l’amore (naturale) corre sempre il rischio di eccedere. Nella mente di questi teologi il pericolo di amare troppo poco i nostri simili era meno urgente rispetto a quello di amarli con spirito idolatra. In ogni moglie, madre, figlio o amico, essi vedevano un possibile rivale di Dio. Lo stesso fa, naturalmente, il Signore (Lc 14, 26).

Tra i metodi per dissuaderci dall’amare smodatamente i nostri simili ce n’è uno che mi vedo costretto a respingere in partenza. E lo faccio non senza turbamento, poiché l’ho trovato proposto nelle pagine di un grande santo e pensatore, verso il quale nutro un debito incalcolabile.

Con parole che ancor oggi hanno il potere di commuovermi, Sant’Agostino descrive la desolazione in cui lo sprofondò la morte dell’amico Nebridio (Confessioni 4, 10). Da ciò egli trae una morale: questo è quanto accade egli ci dice a donare il nostro cuore a qualcuno che non sia Dio. Tutte le cose umane trapassano; non lasciamo che la nostra felicità dipenda da qualcosa che potremmo perdere. Se vogliamo che l’amore sia una benedizione, e non un tormento, dobbiamo indirizzarlo soltanto a quel bene che non tramonterà mai.

Questo è un ragionamento di certo dettato dal buon senso: non imbarcare i tuoi beni su un vascello che fa acqua; non spendere denaro su una casa da cui ti potranno cacciare. Nessun uomo al mondo meglio di me sa apprezzare e far tesoro di queste sagaci massime. Sono una creatura che guarda, prima di tutto, alla propria sicurezza. Di tutte le argomentazioni contro l’amore, nessuna ha più presa su di me di quella che raccomanda: «Prudenza! Questo potrebbe poi farti soffrire».

Questo, dicevo, in rapporto al mio carattere e alle mie disposizioni naturali, ma non alla mia coscienza. Quando io rispondo a questo appello, mi sento lontano mille miglia da Cristo. Se di qualcosa sono certo, è che il suo insegnamento non ha mai avuto il fine di rafforzare la mia già innata preferenza per gli investimenti sicuri e le responsabilità limitate. Direi quasi che nulla, in me, gli è meno gradito. E chi potrebbe seriamente incominciare ad amare Dio partendo da questi prudenti presupposti—perché questo sembra offrirci, per così dire, sufficienti garanzie? Chi si sentirebbe persino di includere questo motivo tra quelli che ci spingono ad amarlo? È con questo spirito che scegliereste una moglie, un amico, o addirittura un cane? Per essere capaci di un simile calcolo bisogna essere davvero al di fuori della dimensione dell’amore, o di qualunque altro affetto. L’eros, l’eros che si ribella alle regole, che preferisce l’amata alla felicità, è allora più simile a colui che è l’amore stesso.

Penso che questo passo delle Confessioni debba essere considerato più come un residuo delle aristocratiche filosofie pagane in cui Sant’Agostino fu educato, che non come una parte del suo credo cristiano. È qualcosa di più vicino alla «apatia» degli stoici o al misticismo neoplatonico, che non alla carità. Noi siamo seguaci di colui che pianse su Gerusalemme e davanti alla tomba di Lazzaro, e che, pur amando tutti, ebbe tuttavia un discepolo cui si sentiva legato da un affetto speciale.

San Paolo ci parla con un’autorità che fa presa su di noi più di quella di Sant’Agostino: San Paolo non cerca affatto di darci a intendere che non avrebbe sofferto come un uomo qualunque né che sarebbe stato ingiusto soffrire, se Epafrodito fosse morto (Fil 2, 27). Ammesso che la miglior politica da adottare fosse quella di assicurarci contro il rischio di avere il cuore spezzato, siamo poi sicuri che Dio ci offra questa possibilità? Sembrerebbe proprio di no; Cristo, prossimo alla fine, è arrivato a dire: «Perché mi hai abbandonato?».

Non c’è possibilità di fuga lungo la strada che Sant’Agostino ci suggerisce, né lungo altre strade. Non esiste investimento sicuro: amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili. Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrire per causa sua, e magari anche a spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno a un animale. Proteggetelo avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno, o nella bara, del vostro egoismo. Ma in quello scrigno—al sicuro, nel buio, immobile, sotto vuoto—esso cambierà: non si spezzerà; diventerà infrangibile, impenetrabile, irredimibile. L’alternativa al rischio di una tragedia, è la dannazione. L’unico posto, oltre al cielo, dove potrete stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli e i turbamenti dell’amore è l’inferno.

Sono convinto che il più sregolato e smodato degli affetti contrasta meno la volontà di Dio di una mancanza d’amore volontariamente ricercata autoproteggerci. È lo stesso che nascondere un talento in una buca sottoterra, e per le stesse ragioni: «So che tu sei un uomo duro». Cristo non ha sofferto per noi né ci ha dato í suoi insegnamenti affinché diventassimo, persino nei nostri affetti naturali, più preoccupati della nostra felicità personale. Se un uomo non riesce a non essere calcolatore nei confronti delle persone di questa terra che ama e conosce, è assai più improbabile che riesca a esserlo verso Dio, che non ha mai conosciuto. Non è cercando di evitare le sofferenze inevitabili dell’amore che ci avvicineremo di più a Dio, ma accettandole e offrendole a lui: gettando lontano la cotta di protezione. Se è stabilito che il nostro cuore debba spezzarsi, e se egli ha scelto questa via per farlo così sia.

Ciò non toglie, tuttavia, che qualunque affetto naturale possa essere smodato. Smodato non significa però «non sufficientemente prudente» né significa «troppo grande». Non si tratta di un termine quantitativo; direi anzi che è quasi impossibile amare semplicemente «troppo» un qualunque essere umano. Potremo amarlo troppo in proporzione al nostro amore per Dio; ma l’elemento di sproporzione è costituito dalla pochezza del nostro amore per Dio, non dalla grandezza del nostro amore per l’uomo.

Ma anche a questo proposito occorre fare una precisazione, per non rischiare di mettere inutilmente in allarme quanti si trovano già sulla buona strada, ma potrebbero angustiarsi per il fatto di non riuscire a sentire verso Dio quell’emozione così calda e consapevole che essi provano per l’amata di questa terra. Tutti dovremmo desiderare di poter arrivare a questo traguardo—o almeno questa è la mia opinione—in tutte le circostanze, e dobbiamo pregare affinché questo dono ci venga elargito. Ma il problema di chi amiamo «di più», se Dio o la nostra amata di questa terra, non è un problema—per lo meno fin dove arrivano i nostri doveri di cristiani—che comporta un confronto tra l’intensità dei due sentimenti. Il vero problema è: quale dei due (se si ponesse questa alternativa) servireste, o scegliereste, o mettereste al primo posto? A quale richiamo la vostra volontà, infine, si piegherebbe?

Come spesso accade, anche in questo caso le parole del Signore sono di gran lunga più violente, ma anche più tollerabili, di quelle dei teologi. Egli non parla della necessità di stare in guardia contro gli affetti terreni per paura che essi possano ferirci; Egli ci dice parole che sibilano come una frusta sulla necessità di calpestarli il momento stesso in cui ci trattenessero dal seguirLo. «Se uno viene a me e non ama meno di me il padre e la madre, e la moglie... ed anche la sua vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 26).

Ma come dobbiamo intendere le parole: «non ama meno di me»? Forse che colui che è l’amore stesso ci comanda di provare per loro un sentimento quale l’odio comunemente inteso, di godere dell’altrui disgrazia, di provare piacere nell’offendere? In questo caso avremmo quasi una contraddizione di termini. Penso che l’«odio» cui si riferisce il Signore è quello che egli provava per San Pietro, allorché gli disse: «Va’ lontano da me». Odiare significa rifiutare, affrontare, non fare concessioni alla creatura amata quando questa pronuncia—non importa con che tono dolce e suadente—i suggerimenti del demonio. Gesù ha detto che un uomo che vuol servire due padroni finirà per «odiare» uno e «amare» l’altro. Qui non si tratta semplicemente di provare sentimenti di avversione o di attrazione: bisogna mantenersi fedeli, dare il proprio assenso, lavorare per l’uno o per l’altro.

Prendiamo in considerazione un altro esempio: «Io amai Giacobbe, e presi in avversione Esaù» (Ml 1, 2-3). Come si concretizza, nella narrazione biblica, l’«avversione» di Dio per Esaù? Di certo, non come ci aspetteremmo. Non vi è alcuna prova che Esaù abbia fatto una brutta fine e abbia perso l’anima: il Vecchio Testamento, qui come altrove, non ci dice nulla in proposito. E, da quanto ci viene detto, apprendiamo che la vita terrena di Esaù fu, nell’accezione comune, molto più fortunata di quella di Giacobbe. E Giacobbe a patire tutte le delusioni, le umiliazioni, i terrori e le privazioni. Ma ha qualcosa che Esaù non ha: egli è un patriarca, e come tale è custode della tradizione, trasmette la vocazione e la benedizione, diviene progenitore del Signore. L’«amore» per Giacobbe sembra tradursi nello sceglierlo per un’alta (e penosa) missione; l’«odio» per Esaù, nello scartarlo. Egli viene «accantonato», non riesce a «farcela», viene ritenuto inadatto a quello scopo.

Così, alla fine, noi dobbiamo mettere da parte, escludere, le persone che ci sono più vicine e più care se esse si interpongono tra noi e la nostra obbedienza a Dio. Il cielo è testimone che ad essi ciò sembrerà quasi una manifestazione d’odio, ma non dobbiamo agire in base alla pietà che proviamo; dovremo restare ciechi alle lacrime e sordi alle suppliche. Ciò non significa che questo compito sia sempre arduo: alcuni, lo trovano fin troppo facile; altri, penoso oltre i limiti della sopportazione. Quello che per tutti è difficile, è riconoscere il momento in cui diviene necessario far ricorso a questo «odio». In questo la nostra indole spesso è ingannatrice: i più miti e teneri—i mariti succubi, le mogli sottomesse, i genitori indulgenti, i figli rispettosi-non troveranno facile individuare il momento giusto. Le persone troppo sicure di sé, magari anche prepotenti, lo individueranno con troppo anticipo. Questo è il motivo per cui è importante riordinare preventivamente i nostri affetti, in modo tale che questi momenti non si presentino addirittura.

Come sia possibile giungere a questo ce lo dimostra, in un contesto certo meno elevato, un poeta «cavalier» quando, partendo per la guerra, confessa alla donna amata: «I could not Iove thee, dear, so much, Loved I not honour much».

Ci sono donne alle quali questa dichiarazione suonerebbe del tutto incomprensibile, per le quali l’onore non rappresenta nient’altro che una di quelle stupidaggini di cui parlano gli uomini; una scusa verbale, e quindi un’aggravante, per quell’offesa contro la «legge dell’amore» che il poeta è in procinto di commettere. Lovelace può farne uso con fiducia, poiché la sua donna è una dama «cavalier» che, in quanto tale, si piega come lui alle rivendicazioni dell’onore. Egli non ha bisogno di odiarla né di fronteggiarla, poiché lui e lei si sottomettono alla stessa Iegge. Questa per loro è una questione da lungo tempo appianata e sulla quale si trovano d’accordo. Non è ora che si pone il dovere di convertire la donna alle leggi dell’onore—non ora che la necessità di una decisione li sovrasta.

È proprio questo tipo di accordo preventivo che è necessario quando sono in gioco rivendicazioni ben più importanti dell’onore. Quando si è ormai giunti alla crisi, è troppo tardi per cominciare a far capire a una moglie, a un marito, a una madre, o a un amico che il vostro amore per lui era fin dall’inizio soggetto a una limitazione—«sottomesso a Dio», «fin dove Io consente un amore più alto». Essi avrebbero dovuto essere avvisati prima, certo non esplicitamente, ma attraverso i mille discorsi fatti insieme, in conformità a un principio che doveva essersi manifestato con evidenza attraverso le tante decisioni prese insieme riguardo a questioni di poca importanza. La verità è che un disaccordo insanabile su questo principio dovrebbe trapelare molto prima, in modo da consentire la rinuncia, in partenza, a un matrimonio o a un’amicizia: in entrambi i casi il vero amore non è mai cieco.

Oliver Elton, parlando a proposito di Carlyle e di Mill, disse che essi non si trovavano d’accordo sul concetto di giustizia, e che una tale divergenza di opinioni era necessariamente fatale «a qualunque amicizia degna di tal nome». Se nell’atteggiamento della creatura amata è implicito il concetto: «Tutto—ma veramente tutto—per amore», allora il suo affetto (o l’affetto di lui) non è degno di essere conservato, poiché non è collegato nella giusta maniera a colui che è l’amore stesso.

Questo argomento mi conduce ai piedi dell’ultima, ardua salita che è mio compito affrontare in questo libro. Dobbiamo cercare di rapportare quelle attività umane che prendono il nome di affetti a quell’amore che si incarna in Dio, con più precisione di quanto non abbiamo fatto finora. Questa recisione, naturalmente, può essere soltanto quella parziale di un modello o di un simbolo, che a lungo andare certamente verrà meno e che, nel momento stesso in cui ce ne serviamo, ha bisogno di essere corretto mediante il ricorso ad altri modelli.

Il più umile di noi, sorretto dalla grazia, potrà avere una certa «conoscenza per esperienza» (connaître), un certo «assaggio» di colui che è l’amore stesso; ma nessun uomo, per quanto sia giunto vicino ai vertici della sanità e dell’ingegno, ha una «conoscenza diretta» (savoir) dell’essere ultimo—solo analogie. Non possiamo vedere la luce, anche se, attraverso la luce, possiamo vedere le cose. Le affermazioni che riguardano Dio sono estrapolazioni derivate dalla conoscenza di altre cose che l’illuminazione divina ci consente di comprendere.

Queste valutazioni negative che faticosamente vado elaborando sono necessarie in quanto, nelle pagine che seguono, i miei sforzi per essere chiaro (senza essere insopportabilmente prolisso) potrebbero suggerire una fiducia che io sono ben lungi dal provare. Sarei pazzo se la provassi. Prendetela piuttosto come il sogno a occhi aperti di un uomo, quasi come il mito fabbricato da un uomo. Se ne potrete ricavare qualcosa di utile, servitevene pure, altrimenti, non perdeteci sopra altro tempo.

Dio è amore. E ancora: «E tale amore consiste in questo: non siamo noi che abbiamo amato Iddio, ma è Dio che ha amato noi» (1 Gv 4, 10). Non dobbiamo partire dal misticismo, dall’amore della creatura per Dio, dalle splendide anticipazioni del godimento di Dio concesse ad alcuni nella loro esistenza terrena. Cominciamo, piuttosto, dal vero inizio, dall’amore che emana dall’energia divina.

Questo amore originario è un «amore dono»: in Dio non vi è fame che debba essere saziata, ma solo pienezza che desidera donare. La dottrina secondo la quale Dio non aveva necessità di creare, non è un’arida speculazione scolastica, al contrario è essenziale. Senza di essa non riusciremmo a evitare quella concezione di Dio che non posso definire altrimenti che «dirigenziale», basata su un essere il cui compito, o natura, sarebbe quello di «far funzionare» l’universo, con il quale Egli si porrebbe nel rapporto di un preside con una scuola, o di un direttore con un albergo. Per Dio è poca cosa essere sovrano dell’universo. In se stesso, in quella che è la «terra della Trinità», egli è sovrano di un regno incomparabilmente più grande. Dobbiamo sempre aver presente davanti ai nostri occhi quella visione di Lady Julian, nella quale Dio teneva in mano un piccolo oggetto, della grossezza di una noce, e quella noce era «tutto ciò che è stato creato».

Dio, che non ha bisogno di nulla, attraverso l’amore chiama in vita creature completamente superflue per poterle amare e perfezionare. Egli crea I’universo già prevedendo—o dovremmo dire «vedendo», perché in Dio non c’è distinzione di tempi?—il nugolo ronzante di mosche che circonda la croce, la schiena flagellata e compressa contro il legno scabroso, i chiodi infissi nei nervi mediani, il ricorrente senso di incipiente soffocamento mentre il corpo si affloscia sempre più, il ripetuto tormento delle braccia e delle gambe ogni qualvolta egli si solleva per poter respirare. Se mi è concesso usare una similitudine dal mondo biologico, Dio è un «ospite» che deliberatamente crea i suoi parassiti. Ci fa esistere cosicché possiamo sfruttare e «trarre vantaggio» da Lui. In questo consiste I’amore. Questo è il diagramma da seguire, tracciato da colui che è l’amore stesso, l’inventore di tutti gli affetti.

Dio, in quanto creatore della natura, impianta in noi sia gli «affetti dono» sia gli «affetti bisogno». Gli «affetti dono» sono immagini naturali di lui, fattori di vicinanza a lui per somiglianza, che non sono necessariamente, né in tutti gli omini, fattori di vicinanza per accostamento. Una madre devota, un politico, o un insegnante caritatevoli possono dare e poi ancora dare, mostrando continuamente tale somiglianza, senza però avvicinarsi a lui. Gli «affetti bisogno», per quanto ho potuto sperimentare, non assomigliano a colui che è l’amore stesso. Essi rappresentano piuttosto dei correlativi, finanche degli opposti, non nel senso in cui il male è l’opposto del bene, naturalrnente, ma in cui la forma del bianco-mangiare è l’opposto dello stampo in cui è stato fatto rassodare.

Ma in aggiunta a questi affetti naturali, Dio può concederci un dono infinitamente più grande, o meglio—visto che la nostra mente deve sempre distinguere e classificare—due doni.

Egli comunica agli uomini una parte del suo stesso «amore dono», che è diverso dagli «amori dono» che egli ha infuso nella loro natura. Questi ultimi difficilmente cercano il bene dell’oggetto amato per puro amore verso l’oggetto; essi propendono per quei beni che essi stessi sono in grado di elargire, o per quelli che personalmente preferiscono, o per quelli che meglio si accordano con la visione ideale della vita che essi vorrebbero che l’oggetto conducesse. Ma l’«amore dono» di provenienza divina che è nell’uomo—colui che è l’amore stesso all’opera nell’uomo—è del tutto disinteressato, e desidera semplicemente ciò che è meglio per l’amata.

Anche in questo caso l’«amore dono» naturale è diretto sempre verso oggetti che l’innamorato considera intrinsecamente amabili, oggetti verso cui lo sospingono l’affetto, l’eros, o un punto di vista comune, o, in mancanza di questo, verso coloro che sappiamo capaci di riconoscenza, o verso coloro che forse lo meritano, magari verso esseri indifesi che per questo esercitano su di noi un certo fascino e richiamo. Ma il divino «amore dono» che è nell’uomo gli permette di amare ciò che, per sua natura, non è amabile: i lebbrosi, i criminali, i nemici, gli imbecilli, i burberi, chi si atteggia a uomo superiore, chi si fa beffe del prossimo. Infine, per quello che appare un gigantesco paradosso, Dio permette all’uomo di nutrire un «amore dono» verso se stesso.

In un certo senso, nessuno può dare a Dio qualcosa che non sia già suo; e se è già suo, che cosa gli abbiamo donato? Ma dal momento che è fin troppo ovvio che possiamo anche rifiutarci di dare il nostro cuore e la nostra mente a Dio, possiamo anche, in un certo senso, donarglieli. Egli, dunque, ha reso nostro quello che sarebbe suo di diritto e che non si manterrebbe vivo un solo istante se cessasse di essere suo (come la canzone appartiene al cantante), di modo che a noi è possibile offrirlo nuovamente a lui: «La nostra volontà è nostra, perché divenga la tua».

Oltre a questo, come qualunque cristiano saprà, c’è un altro modo di donare a Dio: ogni estraneo cui noi diamo da mangiare o da vestire, è Cristo. E questo, palesemente, è un «amore dono» verso Dio, che ce ne rendiamo conto o meno. Colui che è l’amore stesso può operare dentro coloro che non sanno nulla di lui. Le «pecore» della parabola non immaginavano che Dio si celasse nel prigioniero cui fecero visita, né che Dio si celasse in loro stesse mentre facevano quella visita. Secondo la mia interpretazione, la parabola riguarda il giudizio dei pagani; essa si apre infatti, nel testo greco, con l’annuncio che il Signore radunerà tutte le «nazioni» dinanzi a sé—presumibilmente, i gentili, i Goyim.

Che questo «amore dono» giunga a noi attraverso la grazia, e che si debba dargli il nome di carítà, è qualcosa su cui tutti ci troviamo d’accordo. Ma devo aggiungere ora un’altra cosa che non tutti saranno pronti ad ammettere con la stessa facilità.

Dio, secondo il mio modo di vedere, concede altri due doni: un soprannaturale «amore bisogno» verso di lui e un soprannaturale «amore bisogno» verso gli altri. Il primo non coincide con I’«amore di apprezzamento» nei suoi confronti, il dono dell’adorazione. Quanto ho da dire su questo argomento, ben più alto—anzi, il più alto—verrà fra poco. Qui mi riferisco a un amore che non presume di essere disinteressato, a un’indigenza estrema. Come un fiume che da solo si scava il canale, come un vino fatato che, non appena versato, crea nello stesso tempo il bicchiere che lo deve contenere, Dio trasforma il nostro bisogno di lui in «amore bisogno» per lui. Quello che è ancora più strano, è che Egli crea in noi una ricettività più che naturale alla carità che ci viene dai nostri simili. Il bisogno è così vicino alla voracità, e noi siamo già tanto voraci, che potrà sembrare una strana grazia; eppure non riesco a togliermi dalla testa che questo è quanto accade.

Consideriamo, per prima cosa, questo soprannaturale «amore bisogno» di lui che ci è stato concesso dalla grazia. Naturalmente, la grazia non crea il bisogno. Esso è già là, «dato» (come dicono i matematici) per il semplice fatto che siamo creature, e potenziato oltre misura per il fatto che siamo creature cadute. Ciò che la grazia ci dà è il pieno riconoscimento, la saggia consapevolezza, la completa accettazione—anche, con le dovute riserve, la lieta accettazione—di questo bisogno. Infatti, senza la grazia i nostri desideri e le nostre necessità rimarrebbero sempre in conflitto tra loro.

Tutte quelle espressioni di indegnità che la pratica cristiana mette in bocca al fedele sembrano, al mondo esterno, gli inchini vili e ipocriti del sicofante davanti al tiranno, o, nella migliore delle ipotesi, una façon de parler simile all’autodeprezzamento del gentiluomo cinese che, parlando di sé, dice: «questa rozza e ignorante persona». In realtà, invece, essi rappresentano il tentativo, continuamente rinnovato in quanto continuamente necessario, di negare quell’errata concezione di noi stessi e del rapporto con Dio verso cui la natura ci indirizza continuamente. Non appena arriviamo a credere che Dio ci ama, subito nasce l’impulso a credere che ciò avvenga non perché egli è l’amore, ma perché noi siamo intrinsecamente amabili. I pagani si abbandonavano a quest’impulso in una maniera che rasentava l’impudenza: per loro il giusto era «caro agli dèi perché giusto». Noi, invece, più scaltriti, ricorriamo a un sotterfugio. Lungi da noi il pensare che possediamo virtù per le quali Dio potrebbe amarci; però, com’è stato sublime il nostro pentimento! Come dice Bunyan, descrivendo la sua prima illusoria conversione: «I thought there was no man in England that pleased God better than I».

Caduta questa illusione, offriamo allora a Dio, perché l’ammiri, la nostra umiltà. Di certo quella gli sarà gradita! E se neanche quella, allora il riconoscimento, accorto e sottomesso, del fatto che ancora manchiamo di umiltà.

Così, scavando in profondità, sotto a tutti i nostri cavilli, aleggia ancora la vaga convinzione di possedere un certo fascino personale. È facile ammettere di essere specchi la cui luminosità, se esiste, deriva totalmente dal sole che splende sopra di noi, ma è poi quasi impossibile conservare a lungo questa consapevolezza. Di sicuro un po’ di quella luminosità—magari solo una frazione minima—deve essere stata nostra fin dalla nascita. Non è possibile che siamo in tutto e per tutto esseri creati!

Al posto di quel bisogno assurdamente intricato, che a volte è anche «amore bisogno», ma non ammette mai del tutto il bisogno che gli è connaturato, la grazia ci dona un’accettazione piena, fanciullesca e gioiosa, del nostro bisogno, una gioia che deriva dalla totale dipendenza: grazie ad essa diventiamo degli «spensierati mendicanti». Il giusto si dispiace dei peccati che fanno aumentare il suo bisogno, ma non è del tutto dispiaciuto dell’innocente bisogno che è inerente alla sua condizione di creatura. Infatti quell’illusione, alla quale la natura si attacca come all’ultimo tesoro che le è rimasto, quella pretesa di possedere qualcosa, o di potere almeno per un’ora conservare, con le nostre sole forze, quel po’ di bontà che Dio può aver infuso in noi, è ciò che ci impedisce di essere felici in qualunque circostanza. In questo assomigliamo a quei bagnanti che non rinunciano a tenere i piedi—o un piede, magari un solo dito—sul fondo, quando invece la rinuncia a quell’appoggio significherebbe abbandonarsi a uno stupendo tuffo nella spuma dei marosi. Gli esiti della nostra rinuncia a quell’ultima pretesa di possedere una nostra intrinseca libertà, potenza o valore, si traducono nell’acquisizione della vera libertà, potenza e valore, che questa volta saranno davvero nostri, in quanto ci sono dati da Dio, e perché sappiamo che essi, in un altro senso, non sono «nostri». Anodos si è liberato della sua ombra.

Ma Dio trasforma anche il nostro «amore bisogno» per gli altri; e questa è un’operazione altrettanto necessaria. La realtà è che tutti noi in alcuni momenti—certuni, sempre—abbiamo bisogno di quella carità degli altri che, essendo espressione di colui che è l’amore stesso all’opera nei nostri cuori, ama anche ciò che non è amabile. Ma questo tipo di amore, per quanto ne sentiamo il bisogno, non è esattamente il genere di amore che vogliamo noi. Noi desideriamo essere amati per la nostra intelligenza, bellezza, generosità, belle maniere, utilità. Non appena ci accorgiamo, invece, che qualcuno ci sta offrendo il più alto di tutti gli affetti—la carità—siamo colti da un autentico malore. Questa reazione è così familiare, che certe maligne persone fingono di amarci con carità, proprio perché sanno che in questo modo riusciranno a ferirci. Rivolgerci a qualcuno che si aspetta da noi una dichiarazione di affetto, di amicizia o di eros, con le parole: «Come cristiano, ti perdono», Semplicemente un altro modo per mandare avanti la lite. Chi parla a questo modo mente, è ovvio, ma volendo fare del male a qualcuno, non ricorreremmo a un’affermazione falsa se non fossimo sicuri che, presa per vera, essa ha il potere di ferire.

Un caso limite servirà a farci capire quanto sia difficile ricevere, e continuare a ricevere, dagli altri un affetto che non dipende dal nostro valore personale. Immaginate di essere un uomo che sia stato colpito, subito dopo il matrimonio, da una malattia incurabile, che però potrebbe anche protrarsi per anni: d’un tratto vi ritrovate inutile, impotente, odioso, disgustoso, dipendente da vostra moglie, ridotto in miseria—dopo che avevate sognato di far fortuna—, indebolito anche nello spirito, e tormentato da attacchi di incontrollabile malumore, pieno di esigenze che non vi è possibile sopprimere. Supponete anche che la dedizione e la pazienza di vostra moglie siano senza riserve. L’uomo che riesce ad accettare tutto questo di buon grado, che può ricevere tutto senza dare mai niente, e non provarne risentimento, che riesce perfino a evitare quelle fastidiose espressioni di autocommiserazione, che in realtà sono soltanto una richiesta di affetto e di rassicurazione, è riuscito a fare qualcosa che l’«amore bisogno» nella sua condizione naturale non è in grado di portare a compimento. L’altra faccia della medaglia è che una moglie simile compie anch’essa qualcosa che è al di là della portata di un «amore dono» naturale; ma per il momento è l’altro aspetto della questione che ci interessa.

In una situazione simile, ricevere è più duro e forse più santo che non donare. Ciò che ho illustrato attraverso questo caso estremo ha un valore universale. Tutti noi siamo oggetto di carità, in quanto in ciascuno di noi vi sono alcuni aspetti che gli altri spontaneamente non sono portati ad amare. Non è colpa di nessuno se amare questi lati della nostra personalità richiede uno sforzo volontario; si può amare con naturalezza soltanto ciò che per natura è amabile. Sarebbe come chiedere a una persona di farsi piacere il sapore del pane ammuffito, o il rumore di un trapano elettrico. Non c’è altra possibilità se non quella di essere perdonati, compatiti, e ciò nonostante amati, per mezzo della carità. Chiunque abbia dei buoni genitori, una buona moglie o marito, o dei bravi figli, potrà essere sicuro che, in determinate circostanze—magari anche sempre, per quanto riguarda un suo particolare atteggiamento o abitudine—egli è oggetto di carità, e non amato perché è amabile, ma perché colui che è l’amore stesso è nel cuore di chi lo ama.

In questo modo Dio, ammesso nel cuore dell’uomo, trasforma non soltanto l’«amore dono», ma anche l’«amore bisogno»; non soltanto l’«amore bisogno» verso di lui, ma anche il nostro «amore bisogno» per gli altri. Ovviamente, questa non è l’unica eventualità che può verificarsi. Egli può giungere in noi per una missione molto più terribile, ed esigere la totale rinuncia, da parte nostra, a un affetto naturale. Un’alta, ma terribile vocazione, come quella di Abramo, può costringere un uomo a voltare le spalle al proprio popolo e alla casa del padre. Magari toccherà all’eros essere sacrificato, se diretto a un oggetto proibito. In questi casi, è facile comprendere il processo in atto, anche se è duro sostenerlo. Ciò che è più facile ci sfugga è la necessità di una trasformazione anche in quei casi in cui all’affetto naturale è comunque concesso di continuare a esistere.

In questo caso la legge divina non si sostituisce a quella naturale: sarebbe lo stesso che voler gettare via l’argento che abbiamo per far posto all’oro. Agli affetti naturali viene richiesto di diventare tramite di carità, pur restando quello che sono, cioè affetti naturali. In questo si può scorgere, con immediatezza, un’eco, una rima, o un corollario, dell’incarnazione stessa. Ciò non sorprende, poiché l’autore di entrambi è il medesimo. Come Cristo è vero Dio e vero Uomo, così gli affetti naturali sono chiamati a diventare perfetta carità e anche perfetti affetti naturali. Come Dio si è fatto uomo «Non convertendo la Divinità nella carne, ma assumendo su di Sé l’Umanità», così accade arche in questa occasione: la carità non scade a semplice affetto naturale, ma è l’affetto naturale che viene elevato a strumento obbediente e accordato da colui che è l’amore stesso.

Come questo accada, lo sanno più o meno tutti i cristiani. Tutte le attività (ad eccezione del peccato) connesse agli affetti naturali possono, in un istante benedetto, diventare i frutti di un «amore bisogno» lieto, senza vergogna, riconoscente, oppure di un «amore dono» altruista e informale: entrambi sono carità. Niente è troppo insignificante, o troppo animalesco, perché non possa subire questa trasformazione. Un gioco, uno scherzo, una bevuta in compagnia, chiacchiere futili, i piaceri di venere, qualunque cosa può diventare un mezzo attraverso il quale dare, o accettare perdono, con il quale consolare o venire rappacificati, oppure dimenticare il nostro profitto personale. In questo modo proprio nei nostri istinti, nei nostri appetiti e svaghi l’amore prepara per sé un «corpo».

Sempre che quello sia un «istante benedetto», come dicevo prima. Il tempo trascorre rapido. La trasformazione completa e stabile di un affetto naturale in uno strumento di carità è un compito talmente difficile, che forse nessun mortale è ancora riuscito a portarlo a termine in maniera perfetta. Nonostante ciò, la legge secondo la quale l’affetto deve subire questa trasformazione è, ne sono convinto, inesorabile.

Anche in questo ambito è facile cadere in un fraintendimento, o prendere una strada sbagliata. Un circolo o una famiglia di cristiani—che a parole si professano tali—, dopo aver afferrato il principio, possono voler manifestare davanti a tutti, attraverso il comportamento esteriore, o a parole, di aver raggiunto tale meta, con risultati davvero imbarazzanti e penosi. Queste persone trasformano la questione più banale in una faccenda di carattere eminentemente spirituale, proclamandolo a gran voce, e gli uni agli altri; se almeno ne avessero parlato in ginocchio con Dio, o dietro una porta chiusa, il caso sarebbe stato diverso. Essi invece sono sempre lì a chiedere inutilmente perdono, o a offrirlo agli altri con modi insopportabili.

Chi non preferirebbe, piuttosto, vivere con la gente comune, che sa superare i propri (e i nostri) accessi di collera in maniera meno drammatica, lasciando che un buon pasto, una dormita o una battuta di spirito, rimettano le cose a posto? Il nostro compito è, di tutti i lavori, il più segreto; persino noi stessi, fin dove è possibile, dovremmo rimanerne all’oscuro. La mano destra non deve sapere quello che fa la mano sinistra. Non è sufficiente giocare a carte con i bambini per l’unica ragione che così essi si divertono o capiscono di essere stati perdonati. Se questo è il massimo che riusciamo a fare, è bene che continuiamo su questa strada; ma sarebbe meglio se una carità più profonda, meno consapevole, ci mettesse nella condizione mentale per cui, in quel momento, divertirsi un po’ con i bambini diventa spontaneamente la cosa che più ci piace fare.

Tuttavia, un aiuto per compiere questo necessario lavoro ci viene proprio da quell’aspetto della nostra esperienza di cui abbiamo maggiormente a lamentarci. L’invito a trasformare i nostri affetti naturali in carità non viene mai meno: esso ci viene fornito da quelle frizioni e frustrazioni che in loro sperimentiamo continuamente, prova inconfutabile che il nostro affetto (naturale) non sarà mai di per sé sufficiente; inconfutabile, certo, a meno che l’egoismo non ci renda ciechi. Se lo saremo diventati useremo i nostri affetti in maniera irragionevole. «Se fossi stata più fortunata con i miei figli (quel bambino assomiglia ogni giorno di più a suo padre), allora potrei voler loro bene in maniera perfetta». Ma tutti i bambini, in un modo o nell’altro, sanno essere indisponenti; la maggior parte di loro può arrivare addirittura a rendersi odiosa! «Se mio marito fosse più premuroso, meno pigro, meno strambo»... «Se solo mia moglie avesse più buon senso e meno grilli per la testa; se fosse meno lunatica»... «Se mio padre fosse meno noioso e spilorcio». Ma in tutti, compresi noi stessi, c’è qualcosa che richiede dagli altri pazienza, tolleranza, perdono. La necessità di mettere in pratica questa virtù ci fa intraprendere, ci costringe a intraprendere, il compito di trasformare—sarebbe meglio dire, lasciare che Dio trasformi—il nostro amore in carità.

Queste inquietudini e difficoltà tornano perciò a nostro beneficio. Potrà avvenire, addirittura, che dove esse si riducono divenga più difficile la conversione dell’affetto naturale. Quando il loro numero è grande, allora la necessità di sollevarci al di sopra di esse diventa ovvia. Invece, sollevarci al di sopra di esse quando tale conversione ci appare già pienamente realizzata o ostacolata solo quel tanto che le circostanze terrene rendono inevitabile—riuscire a capire che dobbiamo levarci più in alto quando tutto sembra già andare così bene—, questo può richiedere una conversione più sottile e una più affinata capacità di penetrazione. Questo è un altro dei motivi per cui può essere difficile al «ricco» riuscire a entrare nel regno dei cieli.

Nonostante tutto questo, io rimango fermamente convito della ferrea necessità di questa conversione; per lo meno, se vogliamo che i nostri affetti naturali entrino a far parte, con noi, della vita eterna. E che questo sia il loro destino, quasi tutti ne sono convinti. La nostra speranza è che la resurrezione dei corpi significhi anche la resurrezione di quello che potremmo chiamare il nostro «corpo maggiore», l’edificio generale della nostra vita terrena, con i suoi affetti e le sue relazioni. Ma ciò può avvenire solo a una condizione, che non è una condizione arbitrariamente imposta da Dio, ma necessariamente inerente al carattere del regno dei cieli: niente vi può entrare che non possa acquistare un carattere celeste. «Carne e sangue», la semplice natura, non può ereditare il regno dei cieli. L’uomo può ascendere al cielo soltanto perché Cristo, che è morto e asceso al cielo, ha preso dimora in lui. E perché non dovremmo credere che ciò sia vero anche degli affetti umani? Solo quegli affetti nei quali è entrato colui che è l’amore stesso ascenderanno verso colui che è l’amore stesso. E potranno innalzarsi con lui soltanto se avranno, in una certa misura e in un certo modo, condiviso la sua morte: se l’elemento naturale in loro si sarà sottomesso—anno dopo anno, o con un’improvvisa agonia—alla trasfigurazione.

Le mode di questo mondo passano; lo stesso termine per indicare la natura implica transitorietà. Gli affetti naturali possono aspirare all’eternità solo nella misura in cui hanno acconsentito a essere assimilati all’eternità di Cristo, o in cui hanno, almeno, permesso che questo processo avesse inizio su questa terra, prima che l’arrivo della notte rendesse vano ogni lavoro. Non esiste via di scampo. Nell’affetto verso mia moglie o il mio amico, l’unico elemento di eternità è la presenza trasformatrice di colui che è l’amore stesso. Grazie alla sua presenza, ci resta qualche speranza che anche gli altri elementi, come pure il nostro corpo fisico, possano risorgere dai morti. Questo soltanto, in loro, è santo, questo soltanto è il Signore.

I teologi si sono più volte posti il problema se in cielo le persone potranno «riconoscersi», e se là continueranno ad avere valore i particolari rapporti instauratisi sulla terra. La risposta che mi sembra più ragionevole è la seguente: «Dipende da ciò che l’affetto era diventato, o stava diventando, sulla terra». Poiché, di sicuro, incontrare nel regno eterno qualcuno verso cui avevamo provato, in vita, un forte affetto, ma di tipo esclusivamente naturale, non sarebbe (su questo piano) nemmeno interessante. Sarebbe lo stesso che incontrare da adulti un compagno di scuola con il quale eravamo a quel tempo grandi amici, per via di interessi e di attività comuni. Se allora non ci fosse stato niente di più, se non si fosse trattato di un’anima gemella, ora ci sembrerebbe un perfetto estraneo. Nessuno di voi due gioca più alle biglie, e passato è il tempo in cui gli offrivate il vostro aiuto per i compiti di francese, in cambio del suo aiuto in matematica. Allo stesso modo, credo che in cielo sembrerebbe irrilevante un affetto che non fosse mai stato, sulla terra, il riflesso di colui che è l’amore stesso. La natura, infatti, sarebbe ormai del tutto tramontata: ciò che non è eterno è eternamente sorpassato.

Ma non mi sento di chiudere su queste note; non oso—anche se anch’io sono condizionato dai miei desideri e terrori—confermare nel lettore afflitto per la perdita di una persona cara, l’ïllusione, così comune, che la riunione con l’amata sia lo scopo della vita cristiana. Negarlo potrà apparire crudele e irrealistico a chi ha il cuore affranto, ma è una smentita necessaria.

Sant’Agostino ha detto: «Tu ci hai creati per te, e il nostro cuore è inquieto finché non trova riposo in te». Questo pensiero, cui sembra così facile credere davanti a un altare o magari in un boschetto d’aprile, durante una sosta di meditazione o di preghiera, suona come una beffa al capezzale di un moribondo. Ma rimarremmo ancor più beffati se respingendo questo pensiero, appuntassimo le nostre speranze di consolazione sul fatto che— magari con I’aiuto di una seduta spiritica o di una negromante—un giorno saremo in grado, e magari per sempre, di godere indefinitamente della presenza dell’amata. E difficile resistere alla tentazione di vedere in un tale indefinito prolungamento della felicità terrena il massimo di appagamento desiderabile.

Ma, se devo fidarmi della mia esperienza personale, in poco tempo giunge la dura smentita. Il momento in cui proviamo a usare la nostra fede in un altro mondo per questi scopi, essa si affievolisce. I momenti della mia vita in cui l’ho sentita più salda sono stati quelli in cui Dio era al centro dei miei pensieri. Credendo in lui, potevo poi credere nel suo regno, come a un corollario. Il processo inverso—credere prima nella riunione con l’amata e poi, per il bene di questa riunione, nel paradiso, e infine, per il bene del paradiso, in Dio—non funziona. Possiamo pure far lavorare la fantasia, ma se minimamente siamo dotati di senso critico verso noi stessi, prima o poi ci renderemo conto che ciò che immaginiamo è una nostra creazione personale, una semplice trama della fantasia. Le anime più semplici troveranno questi fantasmi, cui si erano attaccati, privi del potere di consolare e di nutrire, e cercheranno di conferire loro una parvenza di realtà con pietosi sforzi di autoipnosi, e magari con l’aiuto di ignobili segni, inni, e (il che è peggio) fattucchiere.

L’esperienza insegna, dunque, che non serve rivolgerci al cielo se si cerca conforto su questa terra. Il cielo può soltanto darci un conforto celeste, nient’altro. Nemmeno la terra può darci un conforto terreno: alla lunga, non esiste possibilità di consolazione su questa terra.

Il sogno, infatti, di trovare il nostro fine, la cosa per cui siamo stati creati, in un paradiso di affetti puramente umani, non può avverarsi, a meno di non ammettere che tutta la nostra fede è un errore. Noi siamo stati creati per Dio: le persone che abbiamo amato su questa terra hanno risvegliato il nostro affetto solo in quanto avevano qualche elemento di somiglianza con lui, manifestazioni della sua bellezza, della sua tenera benevolenza, della sua saggezza e bontà. Il nostro errore non è stato quello di amarli troppo, ma di non esserci resi conto di che cosa veramente stavamo amando. Non ci verrà chiesto di abbandonare quei visi così familiari per rivolgerci a uno sconosciuto. Quando vedremo il volto di Dio, Capiremo di averLo sempre conosciuto. Egli ha fatto parte di tutte le nostre innocenti esperienze d’amore terreno, creandole, sostenendole, e muovendole, istante dopo istante, dall’interno. Tutto ciò che in esse era autentico amore, anche qui sulla terra, è stato più suo che nostro, e nostro soltanto perché suo.

In cielo non ci sarà l’angoscia né il dovere di staccarci dalle persone che abbiamo amato sulla terra. Prima di tutto perché ci saremo già staccati da loro, volgendoci dai ritratti all’Originale, dai rivoletti alla Fonte, dalle creature rese amabili a Colui che è I’Amore stesso. In secondo luogo, perché li ritroveremo, tutti, in lui. Amando lui più di loro, li ameremo pìù di quanto non facciamo ora.

Ma tutto questo accade in un mondo lontano, nella «terra della Trinità», non qui nell’esilio, nella valle di lacrime. Quaggiù tutto è perdita e rinuncia. Il vero scopo della privazione (quando essa ci coinvolge personalmente) può essere quello di spingerci, forzatamente, a compiere una rinuncia. Solo in questo caso saremo costretti a cercare di credere in ciò che non possiamo sentire: che Dio è il nostro unico bene. Ecco perché, a volte, la privazione è più facile da sostenere per un non credente che non per noi. Egli potrà infuriarsi e abbandonarsi alla collera, levare il pugno contro l’universo, o (se è un uomo di genio) scrivere poesie come quelle di Housmari o di Hardy. Noi invece, giunti al culmine della bassa marea, quando il minimo sforzo ci appare troppo gravoso per le nostre forze, dobbiamo cominciare a cercare di compiere l’impossibile. «È facile amare Dio?» si domanda un autore antico, e risponde: «È facile per coloro che lo amano».

Nel termine carità io ho incluso due grazie, ma ce n’è una terza che Dio può elargirci: Egli può risvegliare nell’uomo un «amore di apprezzamento» soprannaturale verso di lui. Questo, di tutti i doni, è quello che dovremmo desiderare maggiormente. È qui, e non nei nostri affetti naturali—nemmeno nell’etica—che risiede il centro della vita umana e angelica. Se possediamo questo, tutto ci sarà possibile.

E qui, dove un libro migliore comincerebbe, il mio deve terminare. Non oso procedere oltre. Dio soltanto sa se io sia effettivamente arrivato a gustare di questo amore: io non posso saperlo. Forse, ho solo immaginato di averne gustato. Quelli che, come me, posseggono un’immaginazione che di molto eccede la loro obbedienza, sono soggetti a una giusta punizione: facilmente s’immaginano una condizione spirituale più alta di quella che hanno effettivamente raggiunto. Se riusciamo a descrivere ciò che abbiamo immaginato, possiamo far credere agli altri, e a noi stessi, di averne effettivamente fatto esperienza. Ma se anche si fosse trattato soltanto di un frutto della mia immaginazione, sarebbe un’ulteriore delusione il fatto che la nostra immaginazione, in alcuni momenti, ci abbia fatto sembrare tutti gli altri oggetti desiderabili—sì, perfino la pace, perfino il superamento di tutte le paure—come giocattoli rotti, o fiori appassiti? Forse. Forse, per molti di noi, tutte le esperienze servono soltanto a definire i contorni di quell’abisso che dovrebbe essere colmato dal nostro amore verso Dio.

Non è abbastanza, ma è già qualcosa. Se non siamo capaci di «praticare la presenza di Dio», sarà pur sempre qualcosa praticare l’assenza di Dio, divenire sempre più consapevoli della nostra inconsapevolezza, fintanto che continueremo a sentirci come uomini che, in piedi accanto a una cascata, non ne sentono il rumore, o come l’uomo del racconto che sí guarda allo specchio e non scorge il proprio volto, o come quell’uomo che in sogno allunga le braccia verso gli oggetti che vede, e non percepisce, al tatto, alcuna sensazione. Sapere di stare sognando già significa non essere più completamente addormentati. A pensatori migliori di me il compito di illustrarvi il mondo del completo risveglio.

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