Scoprirsi nudi e non vergognarsene

 

 

La “Salita” di Giovanni della Croce

«Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna» (Gen 2, 24-25).

Certo «questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!» (Ef. 5, 32). Bisogna tornare a disporsi in Cristo, nella relazione con Dio, ad attingere alla realtà dell’unione. Senza provare vergogna per il fatto di essere nudi. Non possiamo fruire di questa unione se non spogli, nel senso di liberi nei confronti di tutto ciò che veste, nasconde la nudità.

Se «amiamo la nostra piccolezza», la nostra vulnerabilità, allora smettiamo di fidarci solo di noi stessi e finiamo per riporre tutta la nostra fiducia in Dio (cfr. Teresa di Gesù, Vita, 9, 3). Alla fine contano non tanto le nostre ‘coperture’, le nostre strategie di difesa, ma il fatto che Gesù verrà a cercarci … e ci trasformerà in fiamme d’amore» (Teresa di Gesù Bambino, Ultimi colloqui, 137).

Noi desideriamo in maniera diversa da come amiamo. In realtà è l’amore di Dio che gli uomini cercano tra loro. Quando ci si lamenta dell’‘amaro’, della ‘pesantezza’ dei nostri amori’, che pur amiamo cantare, è perché dimentichiamo le parole di Gesù: «il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11, 30). Che l’amore sia un giogo e un peso è indubbio: è infatti carico di aspettative. Quello vero tuttavia è ‘leggero’ e ‘dolce’. Impariamo ad essere po’ più giusti con noi stessi e a volerci più bene!

Un giovane ha scritto questa testimonianza dopo aver ascoltato un worship[1] postato su YouTube: “Ero un fan dei Pink Floyd e avevo il DVD di “The Wall”. Quel film spiega il modo in cui ci si costruisce un muro attorno per proteggersi dalla paura di ciò che sta fuori, da ciò che ci potrebbe ferire. Ti costruisci un luogo sicuro, dove ci sei solo tu e la tua solitudine. Ma sentendo dire che i muri cadono, qualcosa è accaduto in me. Perché sono stato così solo? Soltanto perché non volevo restare ferito”.

Se Roger Waters termina “The Wall” così: “Non è facile dopotutto battere il cuore contro un maledetto muro” (Outside the Wall), già Ezechiele metteva in bocca a Dio queste parole: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36, 26). Là fuori c’è tanta gente che vorrebbe amare davvero; abbattere quel “muro di separazione” (cfr. Ef 2, 14), “l’inimicizia” che c’è tra loro e, ancor prima, tra l’anima e Dio.

Ma, al più, resta il desiderio, non l’esperienza dell’amore di Dio: un amore senza paura e senza vergogna della propria vulnerabilità. Che consente di “agire”, non di “patire” «la gioia, la speranza, il timore e il dolore» (1S 13, 5), così come avvenne tutta la vita per Gesù, sino al suo “vivo morire” sulla croce. L’Amore incarnato di Dio, in Cristo, ce ne dà la possibilità. Quel giovane conclude la propria testimonianza così: “Ora so che Dio può abbattere i muri”.

Dobbiamo fidarci di Lui soltanto, diceva Teresa d’Avila: «ben poco si fa se non deponiamo ogni fiducia di noi stessi per riporla tutta nel Signore» (Vita 8, 12). Alle volte penso: cosa sarebbe accaduto se i nostri progenitori si fossero rivolti a Dio dopo aver parlato con il serpente?

Ed eccoci a Giovanni della Croce, ed alla Salita che comporta tale affidamento:

«Procuri l’anima di tendere sempre:

non al più facile, ma al più difficile;

non al più saporito, ma al più insipido;

non al più piacevole, ma al più disgustoso;

non al riposo, ma alla fatica;

non al conforto, ma allo sconforto;

non al più, ma al meno;

non al più alto e pregevole, ma al più vile e spregevole;

non a voler qualcosa, ma a non voler nulla;

non alla ricerca del meglio nelle cose terrene,

ma al peggio, e desiderare in tutto nudità, vuoto e povertà di quanto v’è al mondo per amore di Cristo» (1S 13, 6) che si spoglia di fronte a noi e, nudo, si unisce all’anima di ciascuno. Tutto quel che c’è nel mondo è dono dello Sposo e sarebbe nulla, se non ci fosse la Carità (cfr. 1Cor 13, 1-2).

I nostri rapporti con le cose e fra di noi chiedono questo: di «passare attraverso la notte oscura della fede per arrivare», spogli e purificati, «all’unione con l’Amato» (1S Argomento), ad attingere cioè in pienezza a questa unione. L’Amato, già una cosa sola col Padre (cfr. Gv 10, 30) attraversa l’anima coll’Amore suo e del Padre. Questo Amore si manifesta nella Carità. Perché non è nostro questo amore: è di Dio, è «il di più dell’amore» (P. Giuliano Bettati).

Si deve affermare che la Salita al Monte Carmelo di San Giovanni della Croce è «un libro contemplativo che parla di amore»[2]. «Occorre che l’anima abbracci di cuore queste norme e procuri di addestrarvi la volontà. Se, infatti, le metterà in pratica, in brevissimo tempo troverà in esse gran diletto e consolazione, e agirà con ordine e discrezione» (1S 13, 7). Ma l’abbracciare di cuore vuole affermare «il Tutto della Carità», che è sempre un «di più».

Perché amare una norma? Perché è normale! Nell’uomo si incontrano due dimensioni: una orizzontale ed una perpendicolare. La «perpendicolare»[3] è la norma: è ciò che rende umani, che spinge ad andare “oltre”. È da quel punto che alziamo l’asticella dello sguardo verso Dio. Per cui è solo l’inizio: la norma non è fine a sé stessa, è per l’uomo. Indica il punto da cui, ordinariamente, parte l’itinerario in salita più frequentemente seguito, e in genere il più facile, per raggiungere la vetta del monte, che è Cristo. Ma a seguire, e con discrezione (cfr. Regola, 21), si deve seguire nella libertà. Noi infatti l’amiamo per il fatto che essa è per l’uomo e non l’uomo per la legge: «E diceva loro: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!» (Mc 2, 27).

Questa libertà, propria dell’amore, è di Dio, anzitutto. Ce l’ha mostrata Gesù. Ecco: vorrei addentrarmi qui a descrivere il fatto dello svuotarsi di sé per riempirsi dell’amore di Dio che comporta l’esercizio della vita cristiana. Ce ne parla Giovanni della Croce. Si tratta dell’imitazione di Cristo che «svuotò sé stesso» (Fil 2, 7) perché diventassimo «ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8, 9). La nostra ricchezza consiste nella sua capacità, rivelata e perciò imitabile, di farsi povero, donando sé stesso «fino alla fine» (Gv 13, 1). Questo dono arricchisce il prossimo, per il fatto di non ostacolare il tutto. Come insegna la prima Beatitudine, la quale parla di povertà di spirito, non di spirito di povertà. Della scelta, cioè, per la povertà, conseguenza di una libera decisione interiore che fa entrare volontariamente il credente nella condizione di povero. Contrariamente a quanto affermato dal fatalismo popolare, il Signore non ha “creato” i poveri, e la sua volontà era che non ci fosse “alcun bisognoso nel paese” (Dt 15, 4). Proclamando «beati» i poveri, Gesù non tenta di idealizzare o sublimare la loro condizione, ma chiede ai suoi discepoli una scelta coraggiosa che consenta di eliminare le cause che provocano la povertà[4]. Le quali sono tutte legate al non voler darsi da fare, nel mentre che ci si relaziona a Dio, perché il prossimo abbia le stesse nostre cose. Come se Dio non fosse generoso e non chiedesse a noi di esserlo. Ricordate il serpente come dipinse Dio agli occhi dei Progenitori? Avaro e antagonista…. Come le creature; come il serpente, che è una creatura, e come siamo noi (fa leva su questa somiglianza con noi per convincerci) quando siamo distanti da Lui.

Le cose che ci rivestono, ora, non sono per nascondere la nudità ma per proteggerla. Ed è una protezione che ci offre il Signore: «Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì» (Gen. 3, 21). Quel che si va dicendo, allora, è che è necessario che ciascuno di noi “non trattenga per sé” alcuna cosa.

«Se ti fissi su qualcosa,

tralasci di slanciarti verso il tutto,

Se vuoi giungere per davvero al tutto,

devi rinnegarti totalmente in tutto.

E qualora giungessi ad avere il tutto,

devi possederlo senza voler nulla.

Se vuoi possedere qualcosa nel tutto

non hai il tuo unico tesoro in Dio» (1S 13, 12) e l’amore che porti non è il Suo.

L’anima è lì che “patisce” quando «brama qualcosa, proprio per questo si affatica» (1S 13, 13). Mentre il suo “peso” è “leggero” (cfr. Mt 11, 30).

«Tutto» è Dio come «sostanza d’amore». «Tutto» è anche, in maniera speculare, l’uomo «a sua immagine». Sia Dio che l’uomo sono definibili solo in termini di amore. Il dramma si pone quando l’uomo «s’inclina» a scegliersi e costruirsi, in maniera illusoria, una sua propria «totalità», a prescindere da Dio o contro di Lui. Questo lascia nell’uomo, a ogni livello del suo essere, l’ossessione della «voracità»: una serie di «appetiti» che lo portano ad appropriarsi in maniera ossessiva delle realtà create - e perfino di Dio e dei suoi doni - e a consumarli. Ma amare vuol dire, per essere tramite di Colui che «è amore» (1Gv 4, 8), «cercare di spogliarsi e privarsi … di tutto ciò che non è Lui» (2S 5, 7).

Dio è il solo ad avere consistenza propria nella realtà. L’essere umano non consiste in sé stesso. Tuttavia, di fatto, spesso si comporta come se la propria vita dipendesse soltanto da lui. Si mette una maschera, come rappresentazione di una menzogna. Anche se l’intento era di dire una cosa diversa, quando il termine fu assunto nel cristianesimo, diremmo che si comporta proprio come una persona[5]. Persona è in realtà l’uomo peccatore[6], che decide di comportarsi come dio. Come se non fosse un essere creato ma creatore di sé stesso. E si perde, di fatto, in una «disperata voracità», nel tentativo di “coprire” [7] la propria “mancanza”, (nudità, vulerabilità).   

Giovanni ricorre ad affermazioni ontologiche radicali usate non per togliere ogni buona consistenza alle creature (volute da Dio stesso!), ma chiamate in soccorso e poste a sostegno di tutta la questione dell’amore e delle sue irriducibili leggi interne: «L’amore crea somiglianza tra chi ama e l’oggetto amato». Ancora di più: «L’amore non solo rende uguali, ma assoggetta l’amante all’oggetto amato» (lS 4, 3). Se questo è vero[8], come non osservare la follia di chi sostituisce le creature a Dio?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

II

Mortificare gli appetiti significa sottrarsi alla loro “presa”[9].

 

È molto utile sottolineare che, fin dalle prime righe del libro (cfr. Argomento), Giovanni ci tiene a precisare che la cima del Monte a cui vuole guidare le anime non è genericamente «un sublime stato di perfezione», ma «quello che chiamiamo qui unione dell’anima con Dio». È una questione di amore: non si tratta dunque di una creatura che si purifica nel senso di innalzarsi e nobilitarsi, ma per unirsi all’Amato (1S 4, 2). È ciò che lo impedisce o che distrae da Esso a non doverci “prendere” più.

In questa meditazione, diamo uno sguardo al disegno del Monte tracciato da San Giovanni della Croce

 

«Per quel desiderio di Assoluto, di Dio, che l’uomo porta inscritto nel suo cuore, “perchè creato da Dio e per Dio” (Catechismo Chiesa Cattolica 27), l’uomo si sente sospinto a intraprendere liberamente la Sua ricerca, a fare in sé, a partire da sé stesso, il “vuoto di tutte le creature”. Il bisogno in cui si trovava all’inizio, ché «dopo aver intrapreso il cammino della virtù» non «riusciva ad andare avanti» (Salita, Prologo 3), verrà soddisfatto dalla “consegna dello Spirito” (cfr. Gv. 20, 30). Le virtù, infatti, devono essere quelle di Dio. Ci si svuota di una creatura quando non ci si lascia prendere da essa per aver in cambio qualcosa. Questo qualcosa non riempirà mai il vuoto che ci portiamo dentro. E il primo “pretendente” siamo proprio noi.

Nel grafico è dominante il sentiero del “vuoto di tutte le creature”, del “non legarsi a niente di ciò che esiste”. Un sentiero che facendosi sempre più stretto e ripido, sale verso la cima vasta e verdeggiante dell’unione con Dio, vissuta in “Pienezza”. Genesi ci dice che “il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto” (Gen. 3, 1), e sappiamo che l’astuzia delle creature (noi stessi siamo creature) sta nel coltivare il pensiero che, affidandoci ad esse, a tutto ciò che viene da esse (affidandoci prima di tutto a noi stessi, a tutto ciò che viene da noi), possiamo riempire quel vuoto che ci portiamo dentro. È un’illusione, centrata sui “piaceri della vita” e le “suggestioni del mondo”, che non sono assoluti e perciò non possono riempire il nostro bisogno di assoluto. Anziché caricarci di aspettative del tutto irrealistiche nei confronti delle creature occorre “Svuotarci di tutte le creature” che è in realtà “svuotarci di ciò che non riempie”. Noi usufruiremo sempre delle creature, realisticamente, non per riempire “quel” vuoto per cui non sono fatte.

 

Tre coppie di parallele partono dalla base del disegno e si protendono in alto verso la cima della circonferenza. Stanno ad indicare tre sentieri.

Quella di destra è la via di chi ama i beni della terra: essa non raggiunge la vetta, ma si perde fuori del Monte. Quella di sinistra è la via di chi ama i beni del cielo ed essa pure non raggiunge la vetta del monte, ma si ferma contro alcune rocce insormontabili. Anche qui due scritte ammoniscono che chi cerca e si compiace delle gioie dello spirito, non raggiungerà mai la vetta del puro amore di Dio, cioè all’unione con Lui, ad amare come Dio ama noi e in noi.

Il sei volte ripetuto “ni eso”, mediante frecce, dice relazione a determinati beni delle creature del “suelo”, ricchezze, gaudio, sapere, consolazione, riposo (poser, gozo, saber, consuelo, descanso); mentre i sei “ni esotro” alla stessa maniera si riferiscono ad altrettanti beni indicati quasi con gli stessi nomi, ma “del cielo”: gloria, gaudio, sapere, consolazione, riposo.

Sopra i “ni eso”, e i “ni esotro”, e conseguentemente sopra i beni del “suelo” e del “cielo”, leggiamo a destra: “quanto più ho voluto cercarne, con tanto meno mi sono ritrovata” (quanto mas buscar lo quise cotato menos me hallé. Quanto mas tener lo quise contanto menos me hallé). 

Verticalmente a destra: “quanto meno lo cercavo, ebbi tutto senza cercarlo” (quando menos lo quería, téngolo todo sin querer).

Verticalmente a sinistra: “Quanto già non lo cercavo, ebbi tutto senza cercarlo” (quando ya no lo quería téngolo todo sin querer).

Sia nel sentiero di destra e in quello di sinistra è scritto “camino de espiritu de imperfección”; in quello di mezzo invece, che più degli altri si spinge verso il centro, è scritto: “senda del Monte Carmelo espíritu de perfección”. È questo il cammino che all’uomo «conviene seguire, se vuole arrivare alla vetta del “Monte”» (Salita, Prologo, 7). È un peccato, infatti «che vi siano persone che lavorino e si affatichino molto, ma poi tornino indietro riponendo il frutto del loro progresso in ciò che non giova, anzi ostacola; mentre altre, con calma e serenità, progrediscono molto. Altre, poi, si sentono in imbarazzo e confuse per gli stessi doni e grazie che Dio concede loro per progredire. Molte e varie cose accadono in questo cammino a coloro che lo percorrono, come gioie, pene, speranze, dolori, che possono derivare sia dallo spirito di perfezione sia da quello di imperfezione». L’uomo deve perciò «in qualche modo conoscere la strada che sta percorrendo e quella invece che gli conviene seguire, se vuole arrivare alla vetta del “Monte”» (ibidem.).

Nel sentiero di mezzo è scritta successivamente per sei volte la parola “nada”, nulla, nel senso di “vuoto di tutte le creature”, e corrispondente ad ogni “nada”, negli intervalli che separano il sentiero di mezzo dai due laterali, è scritto, a destra “ni eso”, a sinistra “ni esotro”, né questo né quello.

Quella di centro è la via percorsa da chi “non vuole … qualcosa in niente”, “no quiere … algo en nada” cioè, all’infuori che in Dio Solo, che è il Todo. Non vuole gustare niente se non quel che viene da Dio. Costui segue la via stretta di cui parla Gesù: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano» (Mt 7, 13-14).

Il sentiero di mezzo termina all’esterno di una piccola circonferenza formata dalle parole “introduxi vos in terram Carmeli ut comederetis fructum ejus et bona illius”. Hier. 2”, nel cui centro sono scritte parole di solitudine e di gloria: “solo dimora in questo monte l’onore e la gloria di Dio” (solo mora en este monte honra y gloria de Dios).

Poi quasi a corona più ampia: “pace, gaudio, letizia, diletto, pietà, carità, fortezza, giustizia” (paz, gozo, alegria, deleite, sabiduria, justicia, fortaleza, charidad, piedad,). Posto preminente e centrale occupa la sapienza scritta verticalmente.

È quindi una corona di virtù, doni e frutti dello Spirito Santo. All’esterno di questa corona, dall’una e dall’altra parte, si legge una affermazione di superamento e di liberazione: “nessuna cosa mi esalta, nessuna cosa mi rattrista” (no me da glia nada. No me da pena nada).

In vetta dunque la strada perde i propri confini e si confonde col Monte: “qui già non vi è sentiero perché per il giusto non vi è legge, egli è legge a se stesso” (Ya por aqui no hay camino por que para el justo no hay ley el pa si es ley).

Da quel momento Dio purifica fino alle ultime scorie e divinizza fin le ultime fibre dell’anima con le Sue stesse Virtù e con i Suoi Doni.

Ai piedi del Monte, per stimolare l’anima a prendere con coraggio la strada in salita, Giovanni della Croce aveva posto alcuni versetti:

“Per giungere a gustare il Tutto

non cercare gusto in niente.

Per giungere a possedere Tutto

non voler possedere niente.

Per giungere ad essere Tutto

non voler essere niente…”

 

Infonde coraggio sapere che sulla vetta del Monte si giungerà a gustare Tutto, possedere Tutto, essere Tutto…

È la pienezza, a fronte della delusione delle creature. Non che le creature non si cerchino, non si cerchi la loro compagnia, ma non ci si aspetta da loro quello che non possono dare, si “svuota” ogni aspettativa nei loro confronti.

Nell’anima che si è incamminata verso la vetta del Monte, man mano che sale, avviene una progressiva trasformazione per amore. All’inizio del cammino l’ “io” domina assolutamente la relazione con Dio, lo spirito umano, e la presenza di Dio, sostanziale, per il fatto del Battesimo, è relegata al margine dell’attività dell’anima; man mano che l’anima, con l’esercizio delle virtù teologali, progredisce nel far dentro di sé il vuoto di ogni attaccamento alle creature, Dio riempie questo vuoto finché, giunta al completo nulla di sé, ella si ritrova tutta riempita di Dio e trasformata in Lui: l’anima e Dio come: «due candele di cera unita insieme così perfettamente da formare una sola fiamma, oppure come se il lucignolo, la fiamma e la cera non siano che una cosa sola. Nondimeno le candele si possono separare, ricavandone due candele distinte: così pure il lucignolo dalla cera» (7M 2, 4). “Dio, come il sole, – dice Giovanni – sta sopra l’anima, per donarsi a lei” e se trova l’anima vuota e purificata “entrerà nell’anima e la riempirà dei suoi beni” (F 3, 46-47).

Da parte di Dio, vi è una progressiva presa di possesso dell’anima, un progressivo informare le relazioni dell’io con sé stesso e il mondo finché, quando questa relazione non avrà più un contenuto stabilito da noi, “quando ella si sarà ridotta a niente (di ciò che l’uomo stabilisce), Dio stesso compirà l’unione spirituale tra Lui e l’anima, unione che costituisce il più grande e più alto stato a cui si possa pervenire in questa vita” (2S 7, 11).

 

San Giovanni della Croce in un gioco espressivo, di linee e di frasi, ci ha dato tutta una sintesi di quella dottrina che, quando tracciava il rude disegno, non aveva ancora sviluppato nelle sue Opere, ma che aveva ben chiara nella sua esperienza vissuta.

Il sentiero del nulla, e solo esso, salendo ripido il Monte Carmelo, conduce all’altipiano solitario dove “solo dimora l’onore e la gloria di Dio”.

Ma per raggiungere la vetta dell’unione bisogna sapersi staccare dai beni terreni, “del suelo”, ed anche da quelli spirituali, “del cielo”. Bisogna saper dir di no a tutto quello che non è Dio. Perché quando si cerca quel che non è Dio il vuoto non si riempie, “quanto più volevo averne, con tanto meno mi ritrovai”, afferma l’anima che ne ha fatto l’esperienza.

«Tutte le affezioni che l’anima nutre per le creature sono tenebre fitte dinanzi a Dio. Fino a quando l’anima ne è avvolta, non potrà. essere illuminata e posseduta dalla pura e semplice luce di Dio» (1S 4, 1). «La bassezza delle creature è, infatti, distante dalla grandezza del Creatore molto più che le tenebre dalla luce». «Le tenebre sono nulla e meno di nulla perché sono una privazione della luce. Pertanto, come chi è avvolto dalle tenebre non può accogliere la luce, cosi non può accogliere Dio l’anima che ripone la sua affezione nelle cose create; finché non se ne sarà distaccata, non potrà possederlo quaggiù per trasformazione pura d’amore, né lassù mediante la visione beatifica» (1S 4, 3). «L’anima (...) finché rimane nel corpo, assomiglia a colui che, chiuso in un carcere oscuro, conosce solo ciò che riesce a vedere attraverso le finestre di tale carcere; se non vedesse nulla da lì, non gli resterebbe altro modo per vedere. Così l’anima non conosce nulla se non ciò che le viene comunicato attraverso i sensi, che sono come le finestre del suo carcere» (1S 3, 3).

La casa deve essere lasciata in ordine, tranquilla, dice Giovanni della Croce, perché possiamo uscire ed andare incontro, nel senso di “assomigliare sempre più”, a Dio che chiama con la forza del suo amore. Un “andare incontro” alle esigenze di questa rassomiglianza con la libertà donataci da Lui. Non opponiamoci dunque alla “notte” viene a portarci questa libertà.

Una volta che avremo «intrapreso il cammino delle virtù», esercitandoci in esse, verrà il momento in cui, a fronte della crisi inevitabile della scoperta che “da soli non ce la possiamo fare”, se lo accetteremo, sarà Dio a concederci «capacità e favori per andare avanti», le quali consistono nella privazione del «gusto», in tutte le cose. Prevarrà il senso della mancanza in esse.

È qui forse il punto in cui sentiremo incidere la notte in tutta la sua forza liberante. Perché se il gusto è il movente di tutte le nostre azioni, sia a livello materiale che spirituale, ci vuole coraggio per perseverare in una relazione quando questo viene a mancare. Il coraggio di ammettere che se «non dobbiamo, è vero, rinnegare i legittimi diritti della natura … dobbiamo però dar sempre la preferenza ai doni della grazia» (Ambrogio da Milano, In morte del fratello Satiro). È la ragione che dice a sé stessa: «non fare alcuna guerra allo spirito» (1S 15, 2), accetta di lasciarti guidare da Lui.

 

III

In una “trasformazione per amore”

 

Giovanni della Croce è l’evangelista della trasformazione per amore, da parte dell’amore di Dio. Questa espressione suggestiva, densa di sapienza contemplativa, appare per la prima volta sotto la sua penna proprio nella Salita al Monte Carmelo (cf. 1S 2, 4). È il grande tema che annuncia tutta quanta l’opera sua e la sua conoscenza del mistero dell’ascesa dell’anima verso la cima del Monte che è Cristo, sotto il cui sguardo luminoso cade la vergogna di essere nudi.

Giovanni sta parlando del timore di Dio che giunge ad essere perfetto quando se hace la transformación por amor del alma (con Dios). Il timore già per Omero una virtù, è il rispetto pieno di venerazione nei confronti dell’epifania divina, dice la consapevolezza del limite umano e della grandezza dell’oceano di misteri che ci avvolge e supera. Per questo ci si rapporta a sé e agli altri (anima) con l’intenzione di farlo entro questo abbraccio, sempre insieme a Lui. Così, “il timore del Signore è l’inizio della sapienza” (Pr 1,7) e l’appello costante che si rivolge ai credenti è questo: “Temete il Signore, o suoi santi perché non c’è indigenza per quelli che lo temono. Venite, o figli, e ascoltatemi: il timore del Signore io voglio insegnarvi” (Sal 34, 10.12). Per descrivere il successo della Chiesa delle origini Luca nella sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli, scrive: “La Chiesa era in pace e si edificava e progrediva nel timore del Signore, piena della consolazione dello Spirito Santo” (9, 31). Il timore genera pace, anzi – il paradosso va oltre – il timore coesiste con l’amore, come si legge nel Deuteronomio: “Che cosa chiede a te il Signore tuo Dio se non di temere il Signore tuo Dio, di seguire tutte le sue vie, di amarlo di servire il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima?” (19, 12).

Oltre la lunga notte di Cristo al Getsemani, l’anima viene associata alla vita di Dio e vive veramente nella luce, giunge ad essere realmente libera di fronte alle suggestioni, emancipata dagli incanti delle cose che “passano”. Tutto sembra convergere in questa regalità, prerogativa del Figlio di Dio, comunicata da lui al suo popolo[10], per comunione di amore.

È una regalità dell’uomo su di sé, sulle proprie passioni e su quanto lo rendeva schiavo e inetto a ricevere la potente impronta del suo Salvatore. È una libertà che nella Fiamma viva d’amore si estenderà sul fronte completo della vita e della morte e renderà indipendente, in misura sovrana, dai terrori che di solito accompagnano la morte, anticipandola anzi nel desiderio ardente della visione di Dio. La trasformazione pura d’amore anticipa su questa terra la visione chiara di Dio, essendone la più diretta preparazione (cf. 1S 4, 3). Passano sotto la penna meditativa del santo i primi effetti di questa trasformazione e in misura speciale l’affermarsi della libertà, dell’intima liberazione del cuore, innalzato dalla grazia al di sopra di ogni possesso: questa sembra essere qui la meta privilegiata: “arrivare alla vera libertà dello spirito, che si raggiunge nell’unione divina” (1S 4, 6). Espressioni che sono come anticipazioni profetiche di quella celebrazione esultante della intima libertà e felicità che avrà il suo compimento nel Cantico e nella Fiamma viva d’amore.

Fondamentale per la sua importanza e per il disegno generale della trasformazione e per la indicazione delle sue esigenze spirituali è 1S, 5. Vi si prospetta subito il soggetto della trasformazione unitiva, l’uomo nella sua condizione presente, grezza e decaduta, nella sua ripugnante difformità dalla assoluta perfezione di Dio. L’uomo, posto di fronte al suo divino Creatore, direbbe Agostino, è il soggetto dell’opera trasformativa di Dio. Il soggetto, co-protagonista, non un termine passivo.

In questo passo della Salita al Monte Carmelo, l’uomo riconosce umilmente questa sua condizione con accenti che ricordano la implorazione del profeta nell’imminenza della purificazione delle labbra (cf. Is 7). Giovanni li trova nello Pseudo-Agostino le cui parole trascrive: “Tu sei stato veramente buono e io cattivo; tu pio, io empio; tu santo, io miserabile; tu giusto, io ingiusto; tu luce, io cieco; tu vita, io morte; tu medicina, io infermità; tu somma verità, io tutta vanità” (1S 5, 1). Son già di fronte, dunque, la luce e le tenebre, la santità e il peccato, la veracità e la menzogna, la somma ignoranza dell’uomo, incompatibile con la sapienza del Verbo di Dio. Qui la trasformazione per amore viene definita come un intimo stato dal quale l’uomo peccatore è sommamente lontano:

“Infatti infinita è la distanza che vi è fra queste cose e ciò che viene concesso in questo stato, cioè la pura trasformazione in Dio” (1S 5, 2).

E Giovanni insiste spiegando che egli intende riferirsi non a una qualunque intima trasformazione, ma a quella totale, alla “pura transformación”, quella propria dell’autentico discepolo del Signore, che ha seguito il Maestro fino alle ultime conseguenze del suo gesto. È il passo, potentemente profetico, sigillato da quella parola del Cristo in cui si formula la condizione dura e assoluta della sequela evangelica, il prezzo totale dell’adesione al Signore.

Prima di incamminare l’anima verso le spogliazioni più ardue bisogna imprimere nel lettore una immensa stima di Dio e sapere dove si va prima di mettersi in cammino, verso la divina trasformazione unitiva. Appoggiandosi a un passo del Genesi, come per significare l’origine del cammino, desumendolo dal primo dei libri ispirati, Giovanni apre nuovi schemi e orizzonti sul mistero della trasformazione per amore. Essa si profila qui sul piano del sacrificio, dell’offerta a Dio di questo gesto tipico dell’anima cristiana, potentemente sacerdotale per la sua stessa vocazione. E veramente dal suo principio al suo compiersi, la trasformazione per amore è un sacrificio: è un “per”, è l’amore che consuma.

Dapprima impone la rinuncia a “condurre il gioco”. Il che comporta una spogliazione amare e costosa, perché si tratta di riconoscere di essere già nudi, posti nell’indigenza radicale, e che quella spogliazione serve solo a far emergere la verità. Lo sguardo su noi stessi esige di essere purificato (cfr. 1S 5, 6). Infine dalle nostre vive relazioni personali salgono, come da un altare a Dio, le lodi, la riverenza pura e l’amore (ib.).

La vocazione evangelica è di essere associati al sacrificio di Gesù, nella somiglianza con lui sul piano della carità che offre al Padre gli atti e le opere dell’amore. Poiché amare è un atto eminentemente sacerdotale. Quanto bene lo mostrerà la Fiamma viva d’amore, questo poema dell’offerta continua degli atti d’amore al Signore! (cfr. F 1, 34). Non si può offrire a Dio un fuoco profano, ma l’altare deve essere riservato a lui solo: vi arderà un fuoco perenne di olocausto che brucerà interamente la vittima. Cammino lungo e difficile, aiutato da molteplici grazie trasformative, tracciato da Giovanni in questi primi abbozzi della Salita al Monte Carmelo e completato nelle ultime, fiammeggianti pagine della Llama. Una conquista pura di Dio, che lascia dietro a sé tutto quello che non è lui: “que no es Dios puramente” (1S 5, 6).

Si cambieranno gli abituali modi di intendere e di operare. La mutazione di abiti, qui commentata e presa dal passo del Genesi (35, 2), sarà opera di Dio che andrà comunicando all'anima un nuovo intendere e un nuovo amare, divinizzato:

“Egli porrà in essa una nuova conoscenza di Dio in Dio, facendole porre da parte l’antico modo umano di conoscere; le infonderà un nuovo amore di Dio in Dio, poiché la volontà è spoglia di tutti i suoi antichi affetti e gusti umani” (1S 5, 7).

Sono passi che annunciano l'ardente e luminosa celebrazione del Cantico, la conoscenza nuova di Dio e di tutte le cose: Dio, compreso e amato in dimensioni diverse, rare e superiori: come immensità di monti elevati, solitudini di valli silenziose, mistero di isole lontane, delicata armonia di suoni e musiche: quella che Giovanni chiamerà la “conoscenza del mattino”, l’ardua, inesprimibile conoscenza contemplativa di Dio (cfr. C 14).

 

In un altro passo della Salita torna l’espressione “trasformazione per amore”, passo in cui viene ribadita la persuasione profonda, l’ammonimento profetico ad armonizzare la propria volontà con quella di Dio:

“Lo stato di questa divina unione consiste nel tenere l’anima, secondo la volontà, con tale trasformazione nella volontà di Dio, da non esserci più cosa alcuna contraria alla volontà di lui” (1S 11, 2).

E poco oltre, riprendendo profeticamente l’ammonimento ad aderire totalmente al Signore:

“La volontà, se si imbarazza e riempie di qualcosa, non rimane libera come si richiede per la divina trasformazione” (1S 11, 6).

Dalla perseverante direzione di questo linguaggio si comprende che Giovanni intende riferirsi soprattutto alla volontà e quindi all’amore e che la sua sapienza spirituale va piuttosto nella direzione dell’amore: particolare prezioso, che ha le sue origini nella vocazione di quest’uomo. Egli veramente appartiene a quegli spiriti amanti che rispondono all’invito di irradiare l’amore di Dio: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6, 36-38).

Quella misura magnifica, segnalata dal Signore nel Vangelo, è conseguita dando abbondantemente all’altro la possibilità di aiutarci, e dandoci la possibilità di aiutarlo. Quel non giudicare e non condannare sono qualcosa di irrinunciabile perché sono per-il-dono. Chi ho difronte, incluso me stesso, mi deve sentire libero di domandarmi come supplire alla sua indigenza; non se merita il mio aiuto[11].

Noi di solito andiamo in aiuto a chi pensiamo meriti questo. È solo un aspetto, seppur il più importante, del più vasto tema della “negra honra” tanto disprezzata da Teresa di Gesù. Giovanni lo sa fin dall’infanzia. Lui che per amore volle rimanere povero. «L’involontaria penuria vissuta per ragioni sociali in famiglia, insieme ai poveri di ogni epoca, diverrà, in lui la risposta gioiosa al Figlio di Dio, venuto al mondo non per essere servito ma per servire»[12]. La scelta è tra il voler essere serviti (e in questo caso si giudica, si condanna) e il voler servire (e in questo caso si perdona).

Un atteggiamento, questo di voler servire, che con parole semplici, Giovanni spiegherà un giorno a suo fratello maggiore, Francesco, venuto a trovarlo nel povero convento di Duruelo. A volte Francesco lo accompagnava tra i casolari all’intorno ove padre Juan, scalzo e spesso digiuno, andava a istruire i contadini.

«Un uomo li aveva raggiunti presso una fontana dove, di ritorno al convento, avevano fatto sosta per inumidire il pane che avevano portato nella bisaccia. Veniva da parte del curato del vicino villaggio di Mancera che li invitava a passare da lui per il pranzo, ma padre Juan, pur esortando quell’uomo a ringraziare il sacerdote della cortesia, aveva detto di non poter accettare. “Non raccolgo l’invito”, disse al fratello stupito e, forse, anche deluso per l’occasione persa, “perché lavoro per il Signore e desidero essere ringraziato solo da lui»[13]. Avevano già il pane da inumidire: era il ringraziamento del Signore, ciò di cui realmente avevano bisogno. Giovanni non rifiutò un aiuto ma un invito[14]. L’aiuto lo aveva già.

Ancor più in profondità quel curato si rivolgeva al frate che meritava tutto il suo onore per la scelta di vita che aveva fatto, frate stimato da tutti per quel suo modo di vivere che, all’apparenza, corrispondeva alla “moda” del tempo. Ma Giovanni non era quel tipo di persona. Si adattò tutta la vita cercando la povertà, non la miseria. In compagnia di Gesù si balla al suono del flauto e ci si piange di fronte a un lamento (cfr. Lc 7, 32; Mt 11, 17). Si impara ad amare così: venendo incontro di cuore ai bisogni di chi è a noi prossimo. Come nel Figlio fa il Padre nostro che è nei cieli. Il Figlio, che noi non si giudica alla maniera dei farisei: «È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e dicono: “È indemoniato”. È venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco, è un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori”».

Anzi non lo si giudica affatto. Lo si segue. Infatti «la Sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie» (Mt 11, 18-19).

Termino questa breve meditazione con le parole di Francesco: «È davvero possibile amare come ama Dio ed essere misericordiosi come Lui? […] È evidente che, rapportato a questo amore che non ha misura, il nostro amore sempre sarà in difetto. Ma quando Gesù ci chiede di essere misericordiosi come il Padre, non pensa alla quantità! Egli chiede ai suoi discepoli di diventare segno, canali, testimoni della sua misericordia […] La misericordia si esprime, anzitutto, nel perdono […] È il perdono infatti il pilastro che regge la vita della comunità cristiana, perché in esso si mostra la gratuità dell’amore con cui Dio ci ha amati per primo. […] Nella misura in cui si riceve da Dio, si dona al fratello, e nella misura in cui si dona al fratello, si riceve da Dio! […] Così il cuore si allarga, si allarga nell’amore. Invece l’egoismo, la rabbia, fanno il cuore piccolo, che si indurisce come una pietra[15]». Non conta quanto si dà: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9, 7). Fossero anche soltanto pochi pani da bagnare. La trasformazione per amore interessa principalmente la liberazione della volontà per cui l’anima verrà dichiarata Cantico: “libera e sicura da ogni turbamento e vicenda umana, nuda e purificata dalle imperfezioni, miserie e nebbie...” (C 39, 8).

 

 

 

IV

Spogliarsi, dunque

 

Il termine “spogliarsi” si incontra per la prima volta nel II libro della Salita, quando «l’anima canta la sorte fortunata che le è toccata nel liberare lo spirito da ogni imperfezione e da ogni brama di appropriarsi dei beni spirituali». Per cui «ha messo a tacere la sua parte spirituale e razionale» (2S 1, 1.2), abbandonando «tutti i modi umani di giudicare e di comprendere con la ragione» (2S 1, 5). Accetta di morire riconoscendo che «noi non abbiamo una visione completa, abbiamo una visione parziale delle cose e consideriamo la morte come una sventura. Ma non conosciamo poi la verità, siamo aggrappati al noto perché l’ignoto ci fa paura. La verità è che noi moriamo e quindi l’ignoto è più importante del noto. E potrebbe esserci una ragione che noi non abbiamo capito»[16].

Giovanni è estremamente chiaro: «quanto più un’anima è sedotta, affettivamente e abitualmente, dalle creature e dalle proprie capacità, tanto meno … offre … a Dio la possibilità di trasformarla soprannaturalmente» (2S 5, 4).

Le capacità umane riguardano l’intelletto, la memoria e la volontà. Spogliarsi di dette capacità è esercizio (Tale è) di fede, speranza e carità. Ed è «la notte dello spirito, … attiva, perché l’anima fa ciò che le è possibile per entrarvi» (2S 6, 6). «La fede crea il vuoto nell’intelletto, impedendogli di comprendere; la speranza spoglia di ogni possesso la memoria; e la carità opera il vuoto nella volontà per spogliarla di ogni affetto e piacere riguardo a tutto ciò che non è Dio» (2S 6, 2).

Quello che le nostre relazioni personali troveranno, grazie all’esercizio delle virtù teologali è «perfetta sicurezza contro le astuzie del demonio e contro la forza dell’amor proprio e le sue ramificazioni così sottili da ingannare e ostacolare il cammino delle persone spirituali» (2S 6, 7).

Teniamo ben ferma questa affermazione. Essa dice che non sta a noi andare contro “le astuzie del demonio e contro la forza dell’amor proprio”. A noi sta la lotta con Dio, l’esercizio delle sue virtù.

«A tale proposito è opportuno considerare le parole del Signore riportate in san Matteo circa questo cammino:[17] Quam angusta porta, et arcta via est, quae ducit ad vitam, et pauci sunt qui inveniunt eam, cioè: Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita e quanto pochi sono quelli che la trovano! (Mt 7, 14). Occorre notare che all’autorità di queste parole si aggiunge l'efficacia intensiva contenuta nella particella quam. È come se il Signore volesse dire: è davvero molto stretta, più di quanto pensiate!

Va inoltre osservato come egli in primo luogo affermi che stretta è la porta, il che permette di capire che per entrare in questa porta di Cristo, che è l'inizio del cammino, l'anima deve anzitutto mortificare e spogliare la sua volontà di tutte le cose sensibili e temporali, amando Dio al di sopra di tutto. Questo lavoro si compie nella notte dei sensi, di cui si è già parlato.

 

Subito dopo aggiunge che angusta è la via, cioè quella della perfezione. Con tale espressione vuol far capire che per avanzare nel cammino della perfezione l’anima non solo deve passare attraverso la porta stretta, privandosi dei beni sensibili, ma deve altresì mortificarsi, espropriarsi e sbarazzarsi completamente dei beni spirituali. Ciò che dice della porta stretta va, quindi, riferito alla parte sensitiva della persona, e a quella spirituale o razionale ciò che dice della via angusta. La causa, poi, dell’espressione: Pochi sono quelli che la trovano, va ricercata nel fatto che pochi sanno e vogliono entrare in questa estrema nudità e vuoto dello spirito. poiché questo sentiero verso il sublime “Monte della perfezione” sale verso l’alto ed è angusto, può essere percorso soltanto da viandanti che non portano pesi aggravanti la parte inferiore, cioè i sensi [la relazione alle cose e alle creature prive di coscienza di sé ndr.], né impedimenti che ingombrano quella superiore, cioè lo spirito [la relazione a Dio, la religione ndr.]. poiché si tratta di un impegno in cui si cerca e si raggiunge solo Dio, Dio solo va cercato e posseduto.

Da ciò risulta chiaro che l’anima deve sbarazzarsi non solo di ogni affezione verso le cose create, ma deve altresì essere libera e distaccata dai beni riguardanti il suo spirito. Per istruirci e guidarci in questo cammino il Signore, nel vangelo di san Marco, c'insegna quella mirabile dottrina che è tanto meno praticata dalle persone spirituali quanto più è loro necessaria. Per questo motivo e poiché fa al nostro caso, la riporto tutta, spiegandone il genuino e spirituale significato. Il Signore afferma, dunque, così: Si quis vult me sequi, deneget semetipsum, et tollat crucem suam, et sequatur me. Qui enim voluerit animam suam salvam facere, perdet eam: qui autem perdiderit animam suam propter me... salvam faciet eam, cioè: Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà (Mc 8, 34-35).

Oh!, chi potrà far comprendere, praticare e gustare tutta l'importanza di questo consiglio del nostro Salvatore? Egli chiede di rinnegare se stessi, affinché le persone spirituali vedano quanto il modo di comportarsi in tale cammino sia diverso da quello che molte di loro immaginano[18]. Alcune, infatti, pensano che basti una qualsiasi forma di ritiro o di riforma della vita; altre si limitano a esercitarsi in qualche modo nella virtù, nella pratica dell’orazione e della mortificazione, ma senza arrivare allo spogliamento e alla povertà, all'abnegazione e alla purezza spirituale - che sono un tutt'uno - consigliatici qui dal Signore. Si preoccupano, infatti, più di nutrire e ricoprire la loro natura di consolazioni e sentimenti spirituali che di spogliarla e privarla di ogni conforto per amore di Dio. Pensano che basti mortificarla nei piaceri del mondo e non che debba essere annientata e purificata anche nella parte spirituale. Avviene dunque che, quando si presenta loro l'opportunità di compiere un atto di virtù solido e perfetto, come l’annullamento di ogni soavità in Dio, la permanenza nell’aridità, nelle avversioni, nelle sofferenze - cose in cui consiste la pura croce spirituale, la nudità e la povertà di spirito del Cristo[19] -, tali persone rifuggono tutto questo come se fosse la morte e vanno solo in cerca di dolcezze e soavità nei rapporti con Dio. Ma questo non è rinnegare sé stessi né nudità di spirito, bensì golosità spirituale! Agendo così, esse si rendono nemiche della croce di Cristo (Fil 3,18), perché il vero spirito cerca nel Signore più l’amaro che il dolce, propende più per la sofferenza che per la consolazione, più per la mancanza di ogni bene per amore di Dio che per il possesso, più per le aridità e le afflizioni che per le dolci comunicazioni, sapendo che questo significa seguire Cristo e rinnegare sé stessi; il resto, invece, è cercare sé stessi in Dio, cosa molto contraria all’amore. Infatti, cercare sé stessi in Dio significa ricercare i doni e le consolazioni di Dio, mentre cercare unicamente Dio non è solo voler rinunciare a tutto per amore di Dio, ma essere propensi a scegliere per Cristo quanto di più disgustoso vi possa essere, sia da parte di Dio che del mondo. Questo è amore di Dio.

 

Chi potrà far comprendere fin dove il Signore vuole che arrivi questa rinuncia? Essa dev’essere, certamente, come una morte e un totale annientamento temporale, naturale e spirituale in relazione alla volontà, nella quale si opera ogni rinuncia.

Ciò è quanto intende dirci il Signore quando afferma: Chi ama la sua vita la perde (Gv 12,25), cioè: chi vorrà possedere qualcosa o ricercarla e tenerla gelosamente per sé, la perderà. Ma chi avrà perduto la sua vita per causa mia) la troverà (Mt 10,39), cioè: chi per amore di Cristo rinuncia a tutto ciò che può desiderare e gustare, scegliendo ciò che più assomiglia alla croce - il Signore stesso nel vangelo di san Giovanni chiama quest'atteggiamento odiare la propria vita (Gv 12,25) -, costui la guadagnerà.

Tale è l’insegnamento che il Signore offrì a quei due discepoli che gli chiedevano di sedere alla sua destra e alla sua sinistra. Egli non diede loro alcuna speranza di raggiungere la gloria richiesta, ma offrì il calice, che egli stesso avrebbe bevuto, come la cosa più preziosa e più sicura su questa terra, piuttosto che il godimento (Mt 20, 20-22).

Bere questo calice significa morire alla propria natura, spogliandola e mortificandola in tutto ciò che riguarda i sensi, come ho detto, e in tutto ciò che riguarda lo spirito, come ora dirò, cioè nel suo modo d'intendere, di gustare e di sentire, perché la persona possa camminare per lo stretto sentiero. Così non solo sarà liberata da ciò che viene dai sensi e dallo spirito, ma, in ciò che riguarda quest'ultimo, essa non inciamperà in nessun ostacolo lungo l'angusto cammino. Qui, infatti, c'è posto solo per l'abnegazione - come lascia intendere il Signore - e per la croce, il bastone cui appoggiarsi, che rende il cammino più facile e agevole. Per questo il Signore afferma nel vangelo di san Matteo: Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero (Mt 11,30). il giogo è la croce che l'uomo deve impegnarsi a portare, il che significa decidersi davvero a voler cercare e sopportare ogni sorta di fatiche per amore di Dio. Solo così troverà in esse grande sollievo e dolcezza nel percorrere questo cammino, privo di tutto, senza volere nulla. Se, invece, pretende di appropriarsi di qualcosa, proveniente da Dio o da altrove, non procede spoglio e distaccato da tutto e, pertanto, non potrà imboccare né percorrere questo stretto sentiero sino alla vetta.

Per questo motivo vorrei convincere le persone spirituali circa il fatto che questo cammino che porta a Dio non consiste nella molteplicità delle meditazioni, nei metodi, negli esercizi, nei gusti - sebbene tutto questo sia in qualche modo necessario ai principianti -, ma in una sola cosa indispensabile: nel saper rinnegare davvero sé stessi, esteriormente e interiormente, offrendosi alla sofferenza per amore di Cristo e annientandosi in tutto. Esercitandosi in tali cose, si possono acquisire tutti quei beni e di più grandi; se, invece, si trascurano, siccome esse sono compendio e radice delle virtù, ogni altra pia pratica è dispersione inutile, anche se quelle persone abbiano meditazioni e comunicazioni pari a quelle degli angeli. In realtà, si fa progresso solo imitando Cristo, che è la via, la verità e fa vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me, come dice egli stesso nel vangelo di Giovanni (Gv 14, 6). E altrove: lo sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo (Gv 10, 9). Di conseguenza, non riterrei per buono quello spirito che volesse camminare attraverso dolcezze e agiatezze, e rifiutasse d’imitare Cristo.

Ho detto che Cristo è la via, e questa via è la morte alla nostra natura sia sensitiva che spirituale. Ora voglio far comprendere come questo avvenga in noi, a imitazione di Cristo nostro modello e nostra luce.

In primo luogo è certo che egli morì ai sensi, in modo spirituale, durante la sua vita, e fisicamente, alla fine della sua vita, poiché, come egli stesso afferma, in vita non aveva dove posare il capo (Mt 8,20) né tanto meno lo ebbe in croce.

In secondo luogo è certo che Cristo al momento della morte fu annientato anche nell'anima, quando fu lasciato senza conforto e sollievo alcuno, abbandonato dal Padre nella più profonda aridità affettiva. Allora egli sentì il bisogno di gridare: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mt 27,46). Questo fu l'abbandono più desolante, a livello affettivo, da lui provato durante la sua vita. In esso, però, compì l'opera più grande di [tutta] la sua vita, quella che sorpassa i miracoli e ogni altro evento compiuto sulla terra e in cielo, cioè la riconciliazione del genere umano e la sua unione con Dio per mezzo della grazia. Come dico, tutto questo accadde nel tempo e nel momento in cui nostro Signore toccò il massimo dell’annientamento: nella stima degli uomini, che vedendolo morire, anziché apprezzarlo, si burlavano di lui; nella natura, per mezzo della quale si annientò morendo; nel sostegno e nel conforto spirituale del Padre, che in quella circostanza lo abbandonò, affinché pagasse interamente il debito e unisse l'uomo a Dio, lasciandolo annientato e ridotto quasi al nulla. Davide dice di lui: Ad nihilum redactus sum, et nescivi: Ero ridotto un niente e non capivo (Sal 72[73], 22). Comprenda, perciò, l'uomo spirituale il mistero della porta e della via di Cristo per unirsi a Dio e sappia che quanto più per amor suo si annienterà, nelle sue parti sensitiva e spirituale, tanto più si unirà a Dio e più grande sarà la sua opera. Quando si sarà ridotto al nulla, avrà cioè raggiunto l'estrema umiltà, allora realizzerà la sua unione spirituale con Dio, che è lo stato più grande ed elevato al quale si possa pervenire in questa vita.

Tale unione non consiste, quindi, nelle gioie, nelle consolazioni o nei sentimenti spirituali, ma in una vera morte di croce, sensitiva e spirituale, cioè esteriore e interiore.

Non voglio dilungarmi oltre su questo argomento, anche se non smetterei mai di parlarne, perché vedo che Cristo è assai poco conosciuto da coloro che si considerano amici suoi. Li vediamo, infatti, cercare in lui dolcezze e consolazioni e amare molto sé stessi, piuttosto che cercare le sue amarezze e la sua morte, segno di coloro che lo amano molto.

Parlo di quelli che si ritengono suoi amici, non degli altri che vivono lontani e separati da lui, grandi letterati, potenti e tutti gli altri che vivono là nel mondo, preoccupati di soddisfare le loro ambizioni e le loro manìe di grandezza, perché di costoro posso dire che non conoscono Cristo e che avranno una fine, per quanto buona, molto amara. Non parlo di loro in questo scritto. Di essi si parlerà nel giorno del giudizio, perché costoro soprattutto avevano il dovere di annunciare la parola di Dio, essendo stati da lui posti in alto dinanzi agli uomini per cultura e dignità. Ora, però, parlo all’intelligenza dell’uomo spirituale» (2S 7, 2-12).

«Sapete voi che cosa vuol dire esser veramente spirituali? Vuol dire essere gli schiavi di Dio, tali che, segnati con il suo ferro, quello della croce, Egli li possa vendere come schiavi di tutto il mondo, com’è stato per Lui» (Teresa di Gesù, 7M 4, 8).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V

E non avere vergogna

 

Qual è il senso del consiglio di “rinunciare a noi stessi”, accettando di spogliare le nostre relazioni dei propri “abiti”?

In Genesi si dice: «Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì» (3, 21). Lo fece perché mentre «passeggiava nel giardino alla brezza del giorno» (3, 8), si erano nascosti da Lui. Nel vestirli si avvicinò loro come aveva sempre fatto, mentre erano nudi. Col vestirli non avvalla di certo il fatto che ne provino vergona. Anche se a loro questo poteva sembrare[20]. Lo fa per aiutarli a stare alla sua Presenza. A Lui importava e importa infatti solo di stare con noi: «Mentre li guardava, la sola sua presenza, adorni di bellezza li lasciava», leggiamo nel Cantico Spirituale (str. 5). Niente riprovazione per il fatto che siamo nudi. E infatti gli dà la possibilità di offrirsi a noi. Noi invece non partecipiamo al suo sguardo di Dio tra noi[21]. Per entrare in relazione con Lui e stare alla sua Presenza, dobbiamo orffrire sacrifici. Non ci sentiamo in comunione con Lui.

Ora: nel libro della Genesi leggiamo che «il patriarca Giacobbe volle salire sul monte Betel per edificare un altare a Dio e offrirgli un sacrificio. Per prima cosa impose alla sua gente tre condizioni: la prima, che gettassero via tutti gli dèi stranieri; la seconda, che si purificassero; la terza, che cambiassero gli abiti: Abiicite deos alienos qui in medio vestri sunt, et mundamini ac mutate vestimenta (Gn 35, 1-2).

Queste tre condizioni ci permettono di comprendere ciò che ogni anima, che vuole salire questo “Monte”, deve compiere per fare di sé un altare sul quale offrire a Dio un sacrificio di amore puro, di lode e di profonda adorazione. Prima di salire sulla cima di tale “Monte”, essa deve adempiere perfettamente le condizioni analoghe a quelle riferite sopra.

La prima consiste nel respingere tutti gli dei stranieri, cioè tutti gli affetti e gli attaccamenti estranei a Dio.

La seconda consiste nel purificarsi, per mezzo della notte oscura dei sensi … dalle scorie lasciate in essa dagli appetiti suddetti, mortificandoli e pentendosene abitualmente.

La terza condizione, infine, necessaria per giungere a questo “Monte” sublime, consiste nel cambiare gli abiti. Una volta adempiute le prime due condizioni, sarà Dio stesso a sostituirli con abiti nuovi. Egli, infatti, infonderà nell’anima un nuovo modo di conoscere e di amare Dio com’è in sé stesso, facendole accantonare il modo di conoscere dell’uomo vecchio, dopo aver liberato la volontà da tutti gli antichi affetti e seduzioni umane. Egli, inoltre, stabilirà l’anima in nuove conoscenze, perché ormai sono state bandite le altre conoscenze e i ricordi del passato. Metterà fine a tutto ciò che appartiene all’uomo vecchio, cioè le sue capacità naturali, e la rivestirà, secondo le sue potenze, di nuove attitudini soprannaturali. Così il modo di operare dell’anima non sarà più umano, ma divino. Ecco ciò che si raggiunge nello stato di unione. Ivi l’anima serve solo da altare, dove Dio viene adorato in pura lode e amore e dove egli abita solo. Per questo motivo Dio aveva ingiunto che l’altare sul quale dovevano essergli offerti i sacrifici fosse vuoto all'interno (Cfr. Es 27,8). Egli voleva far capire all’anima che la vuole libera da tutte le cose create, per essere degno altare di sua Maestà. Egli non permetteva mai che su quell’altare bruciasse un fuoco illegittimo né che vi mancasse quello sacro (Cfr. Lv 6, 12-13). Perciò, quando Nadab e Abiu, figli del sommo sacerdote Aronne, offrirono un fuoco illegittimo, il Signore, irritato, li colpì a morte proprio lì, davanti all’altare (Cfr. Lv 10, 1-2). Da tutto ciò possiamo comprendere che l’anima, per essere un altare degno di Dio, non deve trovarsi priva dell’amore di Dio, né tanto meno deve permettere che a questo si mescoli un amore profano» (1S 5, 6-8).

Le nostre relazioni interpersonali non devono essere improntate ad altra aspettativa nei confronti gli uni degli altri che non sia l’amore che appartiene a Dio (di Dio), “puro spirito di Dio”. Ciò è reso possibile da Dio stesso lungo il cammino dell’Orazione che ci dispone a ricevere da Lui tutto quello che abbiamo da offrirGli, e lo spirito con cui Glielo offriamo, e le relazioni stesse (anima) sono condotte da Lui: «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20).

Quando siamo noi a condurre le nostre relazioni interpersonali, anzitutto quella con Dio (spirito)[22], finiamo per nasconderci a Lui e reciprocamente tra di noi.

Ma sulla cima del Monte che è Cristo Signore non siamo più soggetti alle «astuzie del demonio» e alla «forza dell’amor proprio» con «le sue ramificazioni», che ci spingono a giudicare, al contrario di quello che ci dice di fare Gesù, e ci fanno reagire con vergogna alla scoperta di essere nudi. Dio ha infuso nelle nostre relazioni un nuovo modo di conoscere e di amare Dio com’è in sé stesso. Non dubitiamo più di Lui. il nostro rapporto con Lui è di abbandono confidente.

Sulla cima del monte si produce un cambiamento di mentalità (conversione). Riconosciamo non solo di essere peccatori, ma di non esserlo soltanto, per il fatto di essere sempre in sua compagnia.

Così ci abbandoniamo sempre più ai suoi richiami[23], lasciando che sia sempre più Lui il protagonista nelle nostre relazioni. Tanto che verificheremo queste sue parole: «Voi farete quello che compio io e cose più grandi» (Gv 14, 12).

È il “di più” dell’amore[24]. Ciò che ci impediva di uscire da noi stessi è che il vuoto che ognuno di noi si porta dentro, non era pieno. Avevamo qualcosa senza cui saremmo rimasti vuoti ancora. Quel che hanno da offrirci le creature, a partire da noi, è qualcosa di finito. Con Dio sperimentiamo il di più dell’amore: qualcosa che riempie il nostro vuoto ma non finisce mai, fuoriesce sempre dal suo bordo, come da un bicchiere strapieno, riempito continuamente.

La scelta volontaria di accettare il cambio d’abito, mettendo da parte la vergogna quando stiamo alla sua Presenza[25], ci rende testimoni della Sua povertà e perseguitati come Luipresenza nel mondo, che è quella dei poveri-perseguitati delle Beatitudini evangeliche.

Rivestiti dell’amore di Dio “amiamo i nostri nemici”, e con il Crocifisso “preghiamo per coloro che ci perseguitano”; addirittura “facciamo del bene a quelli che ci odiano” (cfr. Mt 5, 44; Lc 6, 27). Quando ci fanno notare i peccati e le incoerenze, mostriamo il “di più” che “nonostante noi” si manifesta, nella nostra vicenda personale, come nella storia di tutto il popolo fedele di Dio. Noi non ce ne siamo andati (cfr. Gv 6, 67), noi non ci siamo nascosti dalla sua presenza; «Questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (1Gv 5, 4). Noi non ci vergogniamo della nostra nudità, e di ciò a cui essa ci espone: ne abbiamo fatta, appunto, una scelta[26].

È giusto che non vi sia alcuna passione della carne o di altro genere che ti impedisca di uscire da te stessa» (cfr. 1S 1, 4) e stare con Dio. Dove Lui sta: nel mezzo.

Ricordo da adolescente quando per le prime volte mi scoprivo nudo. Tendevo a nascondermi nella mia stanza, nel mio mondo. Mio padre mi faceva ascoltare “Meddle” dei Pink Floyd. Per dirmi con il linguaggio della mia età, di non vergognarmi e di stare sempre insieme agli amici, di stare in mezzo alla gente. Mi trasmetteva il fatto che, nonostante io fossi così, lui stava dalla mia parte, stava sempre con me. Dovevo solo imparare a ricevere.

«Non è umano voler essere soltanto nell’attitudine di donare: come creatura impastata di ricchezza e povertà, l’uomo deve avere anzitutto anche la semplicità di accogliere il dono, di permettere che nella ricchezza e nella bellezza dell’altro gli sia donato l’amore creativo di Dio». «Le ore della … inadeguatezza, mettono l’uomo di fronte a Dio non meno delle ore della compiutezza, nelle quali ci si scopre destinatari di un dono attraverso l’amore e diventa comprensibile in maniera eminente che cosa sia la grazia»[27].

Amare una cosa, dopo che la si è conosciuta è un’occorrenza sempre alla portata dell’uomo: si percepisce una cosa, la si conosce e, amandola, si finirà per conoscerla fino in fondo. Ma quando Dio appare, ciò che occorre percepire è solo un amore. Se per amare una persona bisogna anzitutto conoscerla, quando si tratta di Dio, non si può percepire altro che un atto di amore. Un amore che può essere misconosciuto[28] e che, quindi può portare a un interesse per Dio che non si accompagna alla minima disposizione ad amarlo.

Perché possiamo riconoscere e credere «all’amore che Dio ha per noi» (1GV 4, 16), Giovanni ci ricorda e spiega queste parole del Salmo: «Apri la tua bocca, la voglio riempire (Sal 80[81],11). L’appetito è come la bocca della volontà, che si apre quando non è ingombra di altri bocconi che le danno soddisfazione; quando invece l’appetito si ferma su qualcosa, allora si chiude, perché fuori di Dio tutto è angusto.

La volontà, dunque, deve tenere la sua bocca sempre aperta a Dio, libera da ogni boccone appetitoso, perché Dio possa riempirla con il suo amore e le sue dolcezze. Abbia sempre fame e sete di Dio solo, senza cercare altre soddisfazioni, perché quaggiù non possiamo gustare Dio com'è. Ciò che essa può gustare, se desidera qualcosa, sarebbe un ulteriore ostacolo all’amore divino. Ciò è quanto insegna Isaia con queste parole: O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente (Is 55,1). Ivi il profeta invita all’abbondanza delle acque divine dell’unione a tu per tu con Dio soltanto coloro che hanno sete di Dio [solo] e sono distaccati dai loro appetiti» (3S 47, 2-3).

Quando perdiamo il gusto degli alimenti che ci sono offerti dalle creature, a partire da quelli che offriamo noi a noi stessi, come creature, iniziamo a comportarci come quell’umanità che è di Cristo, che appartiene a Lui.

Dobbiamo accogliere il fatto di avere fame solo della volontà di Dio, che è incomprensibile, come una felice ventura, qualcosa che accade e che è bene che accada. L’umanità di Cristo (tanto amata da Teresa di Gesù) non riempie di sé, o delle creature in genere, la propria mancanza, il proprio vuoto, ma di Dio, e di tutto ciò che viene da Lui. Come Gesù. Amen.



[1] Hillsong United - Tear Down The Walls.

[2] A. M. Sicari, Il «Divino Cantico», pag. 355.

[3] dal lat. normalis «perpendicolare»: il punto da cui ordinariamente parte l’itinerario di salita più frequentemente seguito, e in genere il più facile, per raggiungere la vetta di un monte.

[4] Mediante l’uso del plurale (“i poveri”/”di essi”), poi, l’evangelista indica che il Signore non chiama a una povertà individuale, ascetica, che favorisca la santificazione del singolo individuo, ma lancia a tutti una proposta capace di trasformare radicalmente la società (cfr Mt 13, 33): Gesù invita i credenti a farsi volontariamente tutti poveri perché nessuno più sia povero.

[5] Il termine persona proviene del latino persōna, e questo probabilmente dall’etrusco phersu (‘maschera dell'attore', ‘personaggio’), il quale procede dal greco πρóσωπον [prósôpon]. la filosofia prese in prestito dal teatro greco il termine πρόσωπον [prósôpon], e lo trasformò in un termine filosofico, definendo il Λóγος (Logos) come Persona divina. Per affinità, il concetto fu in seguito applicato allo Spirito Santo, agli angeli e agli uomini.

[6] Peccatum, da cui peccato, traduce dal greco biblico il termine “amartia”, che vuol dire (è un termine sportivo): “tirando con l’arco, io sbaglio il colpo” o “ho preso una strada sbagliata”. Nella Bibbia la parola “peccato” significa, dunque, primariamente “fallire il bersaglio”, come chi scocca la freccia sbagliando clamorosamente il centro. Insomma: è quando siamo noi a decidere chi siamo, anziché obbedire, accettando il fatto di ricevere da un altro l’essere; il fatto che la realtà ci precede, decide di noi, anziché noi decidere di essa.

[7] Nudo è anche Dio, ma non ne prova vergogna. Dio infatti, la vita, ha «il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo» (Giovanni 10, 18).

[8] Giovanni della Croce vi insiste ripetutamente: «Occorre ricordare che l’affezione e l’attaccamento che l'anima nutre per le creature la rendono simile a queste e, quanto più grande è l'affezione, tanto più essa è resa uguale e simile»; «Chi ama, quindi, la creatura, si pone al livello della creatura e in qualche modo, anche più in basso» (1S 4, 3).

[9] Per liberarci della vergogna della nostra nudità.

 

[10] E, per il servizio comune, in specie, propria dei laici: «Per la loro appartenenza a Cristo Signore e Re dell'universo i fedeli laici partecipano al suo ufficio regale e sono da Lui chiamati al servizio del Regno di Dio e alla sua diffusione nella storia. Essi vivono la regalità cristiana, anzitutto mediante il combattimento spirituale per vincere in se stessi il regno del peccato (cf. Rom 6, 12), e poi mediante il dono di sé per servire, nella carità e nella giustizia, Gesù stesso presente in tutti i suoi fratelli, soprattutto nei più piccoli (cf. Mt 25, 40) […] Con la carità verso il prossimo i fedeli laici vivono e manifestano la loro partecipazione alla regalità di Gesù Cristo, al potere cioè del Figlio dell'uomo che «non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mc 10, 45): essi vivono e manifestano tale regalità nel modo più semplice, possibile a tutti e sempre, ed insieme nel modo più esaltante, perché la carità è il più alto dono che lo Spirito offre per l'edificazione della Chiesa (cf. 1 Cor 13, 13) e per il bene dell'umanità. La carità, infatti, anima e sostiene un'operosa solidarietà attenta alla totalità dei bisogni dell'essere umano» (Christifideles Laici nn. 14.41).

[11] Se è necessario e voluto, s’intende.

[12] Bruno Moriconi, Il prigioniero di Toledo, Edizioni OCD Roma, 2018, pp. 17-18.

[13] Ibid. Pag. 18.

[14] Gli inviti delle creature sono lacci. Gli aiuti, per quanto poveri (qualcuno provvidenzialmente gli aveva fatto avere quel pane duro), soddisfano ai bisogni reali.

[15] Francesco, Udienze 21 settembre 2016.

[16] TVSat2000, Intervista di Monica Mondo a Mogol del 18 novembre 2017.

[17] Occorre, insomma, «portare la croce» (2S 7, 2-4), cioè «entrare» nell'«oscurità interiore» (2S 1, 1), nello spogliamento e nella povertà di Cristo (1S 13, 6), morire con lui sulla croce (2S 7,5-8). I nn. 9-11, che seguono, contengono la sintesi di tutto il pensiero sangiovanneo circa le notti. «Non si tratta di una semplice ed esteriore imitazione del Cristo. Ciò che il santo dottore propone è il com-patire con Cristo, il patire con lui per arrivare sulla vetta del "Monte" attraverso la via che è lo stesso Cristo. Tutto dipende da questo» (P. Garcia Muñoz, Cristologia de san Juán de la Cruz, Madrid 1982, p. 174).

[18] Come in 1S 8,4, segue la critica di un falso concetto di sequela Christi, accarezzato da molte persone. Esse non avanzano verso il «Monte», perché non arrivano a rinnegare sé stesse, a spogliarsi dei gusti e delle consolazioni spirituali.

[19] S'intende la povertà di spirito nel senso delle beatitudini evangeliche (Mt 5,3).

[20] E a tutte le religioni.

[21] L’essere come Dio, conoscendo il bene e il male non li rende capaci di fare il bene e di evitare il male (essi mancano il bersaglio, sono peccatori). E questo perché essi, pur essendo a sua immagine e somiglianza, non sono Dio. Il primo bersaglio che verranno a mancare sarà il frutto dell’albero della vita. Non ne mangeranno più e sarà la morte. Alla realtà si sostituirà un immaginario.

[22] Appropriandoci di una conoscenza che non possiamo portare senza uccidere l’anima, l’armonia delle nostre relazioni.

[23] Cfr. Teresa di Gesù, IIM 1, 3.

[24] «“Amare di più”… Forse siamo al mondo per imparare proprio questo. E ci vuole una vita» (P. Giuliano Bettati).

[25] Cfr. Teresa di Gesù, V 7, 1.

[26] Si aprirebbe qui la considerazione del fatto che così diveniamo partecipi della regalità del Signore, superiore al nostro essere nudi, e che rende reciprocamente superiori ad essa; il che è proprio dei laici nel mondo.

 

[27] Joseph Ratzinger, Per una teologia del matrimonio, Marcianum Press, 2018, ristampa di una conferenza del 1968, p. 37

[28] Eva, prima di mangiare del frutto, abbia avuto un confronto con Dio. Evidentemente già non si riconosceva amata da Lui. Il serpente non ha insinuato dubbi, si è insinuato in dubbi che già c’erano. Li ha confermati, come in una sorta di contro alleanza.

 

 

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