1_Giovanni della Croce_Cantico Spirituale

 

 

Cantico spirituale (B)

 

 

 

 

 

IHS. + MAR.

 

 

 

Spiegazione delle strofe che trattano dell’esercizio d'amore tra l'anima e Cristo Sposo; vi si toccano e si spiegano alcuni punti ed effetti della preghiera, su richiesta della madre Anna di Gesù, priora delle Scalze di San Giuseppe a Granada, nell’anno 1584.

 

 

 

PROLOGO

 

 

1. Le seguenti strofe,[1] reverenda Madre, sembra siano state scritte con un certo fervore nato dall’amore di Dio, la cui sapienza e il cui amore sono così immensi, che, come afferma il libro della Sapienza, si estendono da un confine all’altro (Sap 8,1) della terra; l'anima, che da lui è ispirata e mossa, partecipa in certo qual modo della sua abbondanza e del suo impeto nel proprio dire. Per questo, non intendo ora spiegare tutta l'ampiezza e la ricchezza che lo spirito fecondo d'amore ha riversato in queste strofe. Anzi sarebbe un errore credere che le parole d'amore riguardanti l'intelligenza mistica, come quelle delle presenti strofe, possano essere, in qualche modo, spiegate con parole semplici. Difatti, come dice san Paolo, è lo Spirito che viene in aiuto alla nostra debolezza e, abitando in noi, intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili (Rm 8,26) riguardo a ciò che non possiamo penetrare né comprendere bene per renderlo manifesto.

Chi può descrivere ciò che egli fa capire alle anime innamorate, nelle quali dimora? E chi potrà esprimere a parole i sentimenti che ispira loro? E chi, infine, quanto fa loro desiderare?

Certo, nessuno, nemmeno quelle anime nelle quali si verificano questi favori celesti. Per questo motivo preferiscono far comprendere parte di ciò che sentono e rivelare qualcuno dei tanti misteri di cui conoscono il segreto attraverso figure, similitudini e immagini, anziché darne una spiegazione razionale.

Se tali similitudini non vengono lette con la semplicità dello spirito d'amore e dell’intelligenza che contengono, sembrano piuttosto spropositi che discorsi ordinati della ragione, come si può constatare nel divino Cantico dei Cantici di Salomone[2] e in altri libri della sacra Scrittura. Ivi, non potendo lo Spirito Santo far conoscere la profondità del loro significato per mezzo di termini comuni e usuali, si serve di figure e similitudini sorprendenti per parlarci dei misteri. Ne segue che i santi dottori, malgrado quanto abbiano detto e tutto ciò che si potrebbe ancora dire, non sono mai riusciti a chiarirne completamente il senso con le parole, come del resto non è stato possibile spiegarlo con parole umane. Così, ciò che di questo Cantico si può spiegare, di solito non è che la minima parte.

 

2. Ora, poiché queste strofe sono state composte in uno spirito d'amore, pieno di senso mistico, non possono essere spiegate adeguatamente, né questa è la mia intenzione.[3] Voglio solo offrire qualche chiarimento generale, come mi ha chiesto Vostra Reverenza. Credo che sia meglio così, perché è preferibile esporre i detti d'amore nella loro ampiezza affinché ciascuno, a suo modo e secondo le proprie capacità, ne tragga profitto, anziché dar loro un significato univoco, non adattabile a tutti i gusti. Anche se verrà offerta qualche spiegazione, non è il caso di sentirsi legati ad essa, perché la sapienza mistica che si manifesta attraverso l'amore, e di cui parlano le seguenti strofe, non occorre che sia intesa distintamente perché susciti nell’anima amore e affetto. In realtà essa agisce come la fede, mediante la quale amiamo Dio senza comprenderlo.

 

3. Sarò, quindi, brevissimo,[4] anche se non potrò fare a meno di dilungarmi in alcune parti, quando lo richiederà l’argomento e quando si offrirà l'occasione di trattare e di spiegare alcuni punti ed effetti della preghiera. poiché nelle strofe se ne toccano molti, non potrò fare a meno di esaminarne alcuni.

Lasciando da parte i più comuni, parlerò brevemente di quelli più straordinari che si verificano in coloro che, con l'aiuto di Dio, hanno superato lo stato di principianti. E questo per due motivi: anzitutto perché è già stato scritto molto per i principianti; in secondo luogo perché in questo scritto mi rivolgo a Vostra Reverenza che me ne ha fatto richiesta, a cui nostro Signore ha concesso la grazia di averla tratta da questi stati iniziali per introdurla nel seno del suo amore divino.

Spero quindi che, sebbene vengano qui affrontati alcuni aspetti della teologia scolastica sul rapporto interiore dell’anima con il suo Dio, non sia inutile averne parlato un po' allo spirito in un modo puramente teorico. Infatti, anche se a Vostra Reverenza manca l'esercizio della teologia scolastica, tramite la quale si comprendono le verità divine, tuttavia non manca quello della mistica, per cui conosciamo tramite l'amore, nel quale le cose non vengono solo conosciute ma anche gustate.

 

4. Tutto ciò che mi propongo di dire qui voglio sottoporlo al giudizio di persone competenti in materia e totalmente a quello della santa madre Chiesa. Per dare maggior credibilità al presente scritto, mi ripropongo di non affermare nulla di mio, né di affidarmi alla mia personale esperienza, né tanto meno a quella conosciuta o udita da altre persone spirituali, benché ritenga di avvalermi di queste due fonti di conoscenza. lo intendo qui proporre un’esposizione che sia confermata e chiarita da citazioni autorevoli[5] della sacra Scrittura, almeno per le cose che appaiono più difficili da capire. Seguirò quindi questo metodo: prima riporterò le frasi[6] in latino e poi ne farò l'applicazione relativamente al soggetto trattato.

Proporrò dapprima tutte le strofe insieme e poi, per una maggiore comprensione, nell’ordine le commenterò una per volta; le spiegherò verso per verso, riportando ogni verso prima della relativa spiegazione, ecc.

 

 

Fine del Prologo

 

 

 

 

STROFE TRA L'ANIMA E LO SPOSO

 

 

la sposa

1. Dove ti sei nascosto, Amato?

Sola qui, gemente, mi hai lasciata!

Come il cervo[7] fuggisti,

dopo avermi ferita;

gridando t'inseguii:[8] eri sparito!

 

2. Pastori, voi che andrete

lassù, per gli stabbi, al colle,

se mai colui vedrete

che più d'ogni altro amo,

ditegli che languo, peno e muoio.

 

3. In cerca dei miei amori,

mi spingerò tra i monti e le riviere,

non coglierò fiori

né temerò le fiere,[9]

ma passerò i forti e le frontiere.

 

4. O boschi e fitte selve,

piantati dalla mano dell’Amato!

O prato verdeggiante,

di bei fior smaltato,

ditemi se qui egli è passato!

 

5. Mille grazie spargendo,

qui pei boschi s’affrettava

e, mentre li guardava,

la sola sua presenza

adorni di bellezza li lasciava.[10]

 

6. Ah! Chi potrà guarirmi?

Alfin, concediti davvero:

e più non mi mandare

da oggi messaggeri,

che non sanno dirmi ciò che bramo.

 

7. E quanti intorno a te vagando,

di te infinite grazie raccontando,

ravvivan così le mie ferite,

e me spenta lascia non so cosa,

ch'essi vanno appena balbettando.

 

8. Ma come duri ancor,

o vita, se non vivi ove vivi,

se ti fanno morir

le frecce che subisci

da ciò che dell’Amato concepisci?

 

9. Perché, avendo questo cuor

piagato, poi non l'hai sanato?

E, avendolo rubato,

perché me l’hai lasciato

e non cogli la preda che hai rubato?

 

10. Estingui i miei affanni,

che nessuno vale ad annientarli,

ti vedan i miei occhi,

perché ne sei la luce,

per te solo desidero serbarli!

 

11. Scopri a me il tuo divin viso,

tua vista mi uccida,[11] tua bellezza;

tu sai che sofferenza

d'amore non si cura

se non con la presenza e la figura!

 

12. O fonte cristallina,[12]

se in questi tuoi riflessi inargentati

formassi all’improvviso

quegli occhi tuoi desiderati,

che porto nel mio intimo abbozzati!

 

13. Distoglili, Amato,[13]

ché a volo io vado!

 

lo sposo

Colomba mia, ritorna,

ché il tuo cervo ferito

spunta di sull'altura

e al soffio di tuo vol gode frescura!

 

la sposa

14. L'Amato le montagne,[14]

le boschive valli solitarie,

le isole inesplorate,

i fiumi gorgoglianti,

il sibilo dei venti innamorati,

 

15. la quiete della notte[15]

vicina allo spuntar dell’aurora,

musica silenziosa,[16]

solitudin sonora,

cena che ristora e innamora.

 

16. Cacciate via le volpi,[17]

che fiorita ormai è nostra vigna,

intanto che di rose

intrecceremo una pigna

nessuno appaia là, sulla collina.

 

17. Fermati, borea morto,

vieni, austro, a suscitar gli amori,

soffia pel mio giardino,

diffondine gli aromi

e pascerà l’Amato in mezzo ai fiori.

 

18. O ninfe di Giudea!

Intanto che tra i fiori e nei roseti

l'ambra i suoi aromi emana,

nei sobborghi restate,

toccar le nostre soglie non vogliate.

 

19. Nasconditi, Diletto,

il tuo viso volgi alle montagne,

non cercar di parlare,

ma guarda le compagne

di lei che va per isole lontane.

 

lo sposo

20. O leggerissimi uccelli,

leoni, cervi, daini saltatori,

monti, valli, riviere,

acque, venti, ardori

e delle notti vigili timori:

 

21. io, per le soavi lire

e il canto di sirene, vi scongiuro:

cessino le vostre ire

e non battete al muro,

ché la sposa dorma più sicura.

 

22. Entrata ormai è la sposa

nel giardino ameno desiato

e a suo piacer riposa,

il collo reclinato

sopra le dolci braccia dell’Amato.[18]

 

23. All’ombra di quel melo

a me fosti sposata,

qui ti porsi la mano

e fosti riscattata

dove tua madre fu violata.

 

la sposa

24. Fiorito è il nostro talamo,

da tane di leoni circondato,

con porpora tessuto,

di pace edificato,

di mille scudi d'oro coronato.

 

25. Dietro le tue vestigia

si lancian le giovani in cammino,

a un tocco di faville,

per l'aromato vino,

effondon un balsamo divino.

 

26. Nella segreta cella

io dell’Amato bevvi e,

quando uscita fui in questa valle,

null'altro più sapevo,

perduto era il gregge che pascevo.

 

27. Là mi offrì il suo petto,

là m'insegnò scienza assai gustosa,

a lui tutta mi detti,

me stessa per intero;

là gli promisi d'esser sua sposa.

 

28. L’alma mia s’è data

con tutta la ricchezza al suo servizio;

non pasco più le greggi,

non ho più altro uffizio:

solo in amar è il mio esercizio.

 

29. Se d'oggi in poi al prato

non fossi più veduta né trovata,

direte che mi son perduta,

che, errando innamorata,

volli perdermi e venni conquistata.

 

30. Di fiori e di smeraldi,

scelti nelle fresche mattinate,

intesserem ghirlande,

nel tuo amor sbocciate

e da un capello mio tutte legate.

 

31. Solo da quel capello

che sul collo svolazzar vedesti,

sul collo mio mirasti,

incantato rimanesti

e in uno dei miei occhi ti feristi.

 

32. Guardandomi, i tuoi occhi

lor grazia m'infondean;

per questo più m’amavi,

per questo meritavan

i miei occhi adorar quanto vedean.

 

33. Non disprezzarmi adesso,

ché, se colore bruno in me trovasti,

ormai ben puoi mirarmi

dopo che mi guardasti,

grazia e bellezza in me lasciasti.

 

lo sposo

34. La bianca colombella

all’arca con il ramo è ritornata

e già la tortorella

il suo compagno amato

sopra le verdi rive ha ritrovato.

 

35. In solitudine vivea,

in luogo solitario ha posto il nido,

sola così la guida

da solo il suo Amico,

d'amor in solitudine ferito.

 

la sposa

36. Orsù, godiam l'un l'altro, Amato,

a contemplarci[19] in tua beltade andiam

sul monte e la collina

dove pura sorgente d'acqua scorre,

dove è più folto dentro penetriam.

 

37. Poi alle profonde

caverne di pietra ce ne andremo,

son ben nascoste esse,

e lì ci addentreremo,

di melagrane il succo gusteremo.

 

38. Là tu mi mostrerai

ciò che l'alma mia desiderava

e dopo mi darai,

là, tu vita mia,

ciò che l’altro dì m'hai già donato:

 

39. dell’aure il respiro,

il canto della dolce filomena,

il bosco e il suo incanto

nella notte serena,

con fiamma che consuma e non dà pena.

 

40. Nessuno ciò guardava,

nemmeno Aminadab più compariva,[20]

l'assedio s'allentava

e la cavalleria

alla vista dell’acque giù venia.

 

 

 

ARGOMENTO

 

1. Queste strofe[21] si susseguono secondo un ordine che va dal tempo in cui un'anima comincia a servire Dio fino a quando arriva all’ultimo stadio della perfezione, cioè al matrimonio spirituale. In esse, quindi, vengono trattati i tre stati - o vie - di esperienza spirituale che l’anima percorre fino ad arrivare all’ultimo stato. Si parla, così, di via purgativa, illuminativa e unitiva. Di ciascuna via vengono spiegate alcune proprietà ed effetti.

 

2. Le strofe iniziali parlano della via purgativa propria dei principianti. Quelle successive trattano dei proficienti, che puntano al fidanzamento spirituale; questa è la via illuminativa.

Le altre strofe trattano della via unitiva, che è quella dei perfetti, dove si realizza il matrimonio spirituale. Questa via unitiva dei perfetti segue a quella illuminativa dei proficienti.

Le ultime strofe, infine, trattano dello stato beatifico, il solo che l'anima ormai desidera in questo stato di perfezione.

 

 

Inizia la spiegazione delle strofe d’amore

tra la sposa e lo Sposo Cristo

 

 

ANNOTAZIONE[22]

 

STROFA 1 (CA 1)

 

 

1. Quando l'anima si rende conto di quanto è obbligata a fare, allora vede che la vita è breve (Gb 14,5), che il sentiero della vita eterna è stretto (Mt 7,14) e che il giusto a stento si salva (1Pt 4,18); che le cose del mondo sono vane e fallaci, che tutto finisce e passa come l'acqua che scorre (2Sam 14,14), che il tempo è breve, il giudizio rigoroso, la dannazione molto facile, la salvezza molto difficile. D’altra parte conosce il grande debito di gratitudine che ha verso Dio che l’ha creata solo per se stesso, per cui gli deve il servizio di tutta la sua vita, e l'ha redenta solo da se, per cui gli deve tutto il resto e la risposta d'amore della sua volontà; e ancora mille altri benefici, per cui sa di essere obbligata verso Dio già prima di nascere, mentre gran parte della sua vita è trascorsa invano. Di tutto questo dovrà rendere esatto conto, dall’inizio alla fine, fino all’ultimo spicciolo (Mt 5,26), quando Dio perlustrerà Gerusalemme con lanterne (Sof 1,12), mentre ormai è tardi, forse l'ultima ora del giorno (Mt 20,6). Per rimediare a tanto male e a tanto danno, soprattutto sapendo che Dio è molto irritato e si è nascosto perché l’anima ha voluto dimenticarsi di lui fino a tal punto in mezzo alle creature, presa da paura e da dolore nell’intimo del cuore per così grande pericolo di perdersi, rinunciando a tutte le cose, trascurando ogni altra faccenda, senza rimandare né di un giorno né di un'ora, con ansie e gemiti del suo cuore ormai ferito d'amore per Dio, comincia a invocare il suo Amato ed esclama:

 

Dove ti sei nascosto, Amato?

Sola qui, gemente, mi hai lasciata!

Come il cervo fuggisti,

dopo avermi ferita;

gridando ti inseguii: eri sparito!

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. In questa prima[23] strofa l'anima innamorata del Verbo Figlio di Dio, suo Sposo, desiderando unirsi a lui con una visione chiara ed essenziale, espone le sue ansie d’amore, lamentandosi per la sua assenza. Si lamenta soprattutto perché, avendola ferita con il suo amore, a motivo del quale ella ha lasciato tutte le cose create e se stessa, deve poi patire l'assenza del suo Amato, che ancora non la libera dalla carne mortale onde permetterle di goderlo nella gloria eterna.[24] Per questo dice:

Dove ti sei nascosto?

 

3. È come se dicesse: Verbo, Sposo mio, mostrami dove sei nascosto. Con queste parole gli chiede di manifestarle la sua essenza divina, perché il luogo dove è nascosto il Figlio di Dio è, come dice san Giovanni, il seno del Padre (Gv 1,18), cioè l'essenza divina, inaccessibile a ogni occhio mortale e nascosta a ogni umana comprensione. Per questo Isaia, parlando con Dio, si è espresso in questi termini: Veramente tu sei un Dio nascosto (Is 45,15).[25]

Occorre dunque notare che, per quanto grandi siano le comunicazioni e le presenze di Dio nei confronti dell’anima e per quanto alte e sublimi siano le conoscenze che un'anima può avere di Dio in questa vita, tutto questo non è l'essenza di Dio, né ha a che vedere con lui. In verità, egli rimane ancora nascosto all’anima. Nonostante tutte le perfezioni che scopre di lui, l'anima deve considerarlo un Dio nascosto e mettersi alla sua ricerca, dicendo: Dove ti sei nascosto?

Né l'alta comunicazione né la presenza sensibile di Dio sono, infatti, una prova certa della sua presenza di grazia, come non sono testimonianza della sua assenza nell’anima l'aridità e la mancanza di tali interventi. Per questo il profeta Giobbe afferma: Mi passa vicino e non lo vedo, se ne va e di lui non m'accorgo (Gb 9,11).

 

4. Da ciò si può dedurre che se l'anima sperimentasse grandi comunicazioni, sensazioni o conoscenze spirituali, non per questo deve presumere che quanto sente è possedere o vedere chiaramente ed essenzialmente Dio, oppure è un possedere di più Dio o essere più dentro di lui, per quanto grande sia tutto questo. D'altra parte, se tutte queste comunicazioni sensibili e spirituali venissero a mancare e l’anima cadesse nell’aridità, nelle tenebre e nell’abbandono, non per questo deve pensare che le manchi Dio. In realtà, nel primo caso non può avere la certezza di essere nella sua grazia e nel secondo di esserne fuori, come dice il Saggio: L’uomo non conosce se sia degno di amore o di odio davanti a Dio (Qo 9,1).

L'intento principale dell’anima, quindi, in questo verso non è solo chiedere la devozione affettiva e sensibile, che non dà la certezza evidente che si possiede lo Sposo in questa vita. Domanda soprattutto la presenza e la chiara visione della sua essenza, di cui desidera avere la certezza e possedere la gioia nella gloria.

 

5. Questo appunto voleva dire la sposa nel Cantico dei Cantici allorché, desiderando unirsi alla divinità del Verbo, suo Sposo, si rivolse al Padre in questi termini: Dimmi dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al meriggio (Ct 1,7). Chiedergli di mostrare dove va a pascolare, significa chiedergli di mostrare l'essenza del Verbo divino, suo Figlio, perché il Padre si nutre solo nel suo unico Figlio, che è la gloria del Padre. Chiedergli, poi, di mostrare dove va a riposare, significa chiedere la stessa cosa, perché solo il Figlio è il diletto del Padre, che non riposa in nessun altro luogo né trova gioia in nessun'altra cosa che nel Figlio amato. In lui ripone le sue compiacenze, a lui comunica tutta la sua essenza, a mezzogiorno, cioè nell’eternità, dove da sempre lo genera e l'ha generato.

Questo nutrimento del Verbo Sposo, di cui il Padre si pasce nella gloria infinita, e questo petto fiorito, dove con infinito godimento d'amore si adagia, profondamente nascosto a ogni occhio mortale e ad ogni creatura, è ciò che l'anima sposa chiede in questi termini: Dove ti sei nascosto?

 

6. Va notato come quest'anima assetata alla fine riuscirà a trovare il suo Sposo e a unirsi a lui per amore, per quanto è possibile in questa vita, e disseterà la sua arsura con quella goccia che di lui si può assaporare qui e ora. È  opportuno, dunque, poiché si rivolge allo Sposo, che le si risponda al posto suo, indicandole il luogo più sicuro dove è nascosto; lì lo troverà di certo con tutta la perfezione e il piacere possibili in questa vita e così non dovrà vagare invano dietro le orme dei suoi compagni (Ct 1,7).

A tal fine dobbiamo ricordare che il Verbo Figlio di Dio, insieme con il Padre e lo Spirito Santo, risiede essenzialmente nell’intimo dell’anima, ove si è nascosto. Così, l'anima che desidera trovarlo deve staccare la sua volontà da tutte le cose create ed entrare in se stessa in un profondo raccoglimento,[26] come se tutto il resto non esistesse. Per questo sant'Agostino, rivolgendosi a Dio nei Soliloqui, gli dice: Non ti trovavo, Signore, fuori di me, perché sbagliavo a cercarti fuori: mentre tu eri qui dentro di me.[27] Dio, quindi, è nascosto nell’anima e il buon contemplativo deve cercarlo, dicendo: Dove ti sei nascosto?

 

7. Oh, anima, bellissima fra tutte le creature, che tanto desideri sapere dove si trova il tuo Amato per cercarlo e unirti a lui! Ora ti vien detto che tu sessa sei il luogo dove egli dimora, il rifugio e il nascondiglio dove si cela. È  motivo di grande gioia per te constatare che tutto il tuo bene e la tua speranza è tanto vicino a te da essere dentro di te, o per meglio dire, che tu non puoi stare senza di lui. Ecco, dice lo Sposo, il regno di Dio è dentro di voi! (Lc 17,21). E il suo servo, l'apostolo Paolo, dice: Voi siete il tempio di Dio (2Cor 6,16).

 

8. È una grande gioia per l'anima sapere che Dio non le manca mai:[28] anche se è in peccato mortale, tanto più se è in grazia! Cosa vuoi di più, o anima? Cos'altro cerchi fuori di te, se dentro di te hai la tua ricchezza, il tuo piacere, la tua soddisfazione, la tua pienezza e il tuo regno, cioè il tuo Amato, che la tua anima cerca e desidera? Rallegrati e gioisci nel tuo intimo raccoglimento con lui, giacche lo hai così vicino. Qui desideralo, qui adoralo e non andare a cercarlo fuori di te, perché ti distrarresti e ti stancheresti senza trovarlo né goderlo con più sicurezza o più presto, né più vicino che dentro di te! Ricorda solo una cosa, che cioè, anche se è dentro di te, rimane nascosto. Ma è già molto sapere dove è nascosto per andarlo a cercare a colpo sicuro; e questo è ciò che tu stessa chiedi, quando con passione d’amore domandi: Dove ti sei nascosto?

 

9. Ma tu insisti: se è in me colui che la mia anima ama, perché non lo trovo e non lo sento? Il motivo è che egli è nascosto e tu non ti nascondi come lui per trovarlo e sentirlo. Chi vuole trovare una cosa nascosta, infatti, deve addentrarsi altrettanto nascostamente fino al nascondiglio dove si trova la cosa e, trovatala, anch’egli si ritrova nascosto come quella cosa. Il tuo Sposo amato è il tesoro nascosto nel campo della tua anima, per il quale l'accorto mercante diede tutti i suoi averi (Mt 13,44); per poterlo trovare, sarà opportuno che abbandoni tutti i tuoi beni e, allontanandoti da tutte le creature, ti nasconda nel rifugio interiore del tuo spirito, poi, chiusa la porta dietro di te, cioè distolta la volontà da tutte le cose, preghi il Padre tuo nel segreto (Mt 6,6). Solo così, nascosta con lui, lo sentirai in segreto, lo amerai e ne godrai in segreto e in segreto con lui ti diletterai, più di quanto la lingua possa esprimere e i sensi comprendere.

 

10. Suvvia, dunque, anima beata! Ora che sai che nel tuo intimo dimora nascosto l'Amato dei tuoi desideri, cerca di rimanere ben nascosta con lui, e nel tuo cuore potrai avvertirlo e abbracciarlo con sentimenti d'amore. Ricorda che in questo nascondiglio egli t'invita per bocca di Isaia: Va', entra nelle tue stanze e chiudi fa porta dietro di te, distogli le tue facoltà dalle creature, nasconditi per un momento (Is 26,20), cioè in questo momento della vita terrena. Se, infatti, in questa breve vita, o anima, vigilerai con ogni cura sul tuo cuore, come dice il Saggio (Pro 4,23), senza alcun dubbio Dio ti concederà ciò che più avanti promette per bocca dello stesso Isaia: Ti consegnerò tesori nascosti e le ricchezze ben celate (Is 45,3). La sostanza di questi segreti è Dio stesso, perché Dio è la sostanza e il concetto della fede, mentre la fede è il segreto e il mistero. E quando si rivelerà, manifesterà ciò che ora la fede ci tiene segreto e velato, cioè la perfezione di Dio, come afferma san Paolo (1Cor 13,10). Allora si scopriranno all’anima la sostanza e i misteri dei segreti.

Ma in questa vita mortale, per quanto si nasconda, l'anima non arriverà mai a conoscerli con la medesima chiarezza dell’altra vita; tuttavia se si nasconderà come Mosè nella caverna della roccia (Es 33,22), che è la vera imitazione della vita perfetta del Figlio di Dio, Sposo dell’anima, se Dio la coprirà con la sua mano, meriterà di vedere le spalle di Dio (Es 33,22-23): giungerà cioè in questa vita a una perfezione tanto elevata da unirsi e trasformarsi per amore nel Figlio stesso di Dio, suo Sposo. Allora si sentirà talmente unita a lui e tanto istruita e saggia nei suoi misteri da non sentire più il bisogno di dire, per quanto riguarda la sua conoscenza in questa vita: Dove ti sei nascosto?

 

11. Ti è già stato suggerito, o anima, ciò che devi fare per trovare lo Sposo nel tuo nascondiglio. Ma se lo vuoi riascoltare, ecco una parola piena di sostanza e di verità sublime: cercalo nella fede e nell’amore, senza pretendere soddisfazione o gusto in nulla e senza voler comprendere più di quanto devi sapere. La fede e l’amore sono come due guide per te, che sei cieca, e ti guideranno dove non sai, fino al nascondiglio di Dio. La fede, infatti, che è il segreto, rappresenta i piedi con i quali l'anima va a Dio e l'amore è la guida che ve la porta. E mentre l'anima pondera a tentoni questi misteri e segreti della fede, meriterà che l'amore le sveli ciò che la fede racchiude in se, ossia lo Sposo che ella desidera: in questa vita per mezzo della grazia speciale, cioè l'unione con Dio; nell’altra vita per mezzo della gloria essenziale, godendolo faccia a faccia (1Cor 13,12), ormai non più nascosto. Nel frattempo, però, anche se l'anima perviene a quest'unione, che è lo stato più alto che si possa raggiungere in questa vita, tuttavia, ripeto, lo Sposo resta ancora nascosto all’anima nel seno del Padre, dove essa desidera goderlo nell’altra vita. Perciò continua a ripetere: Dove ti sei nascosto?

 

12. Fai molto bene, o anima, a cercarlo in tutta segretezza, perché glorifichi molto Dio e ti avvicini molto a lui stimandolo l'essere più alto e profondo di tutto quanto tu possa raggiungere. Intendo dire che non devi badare né poco né molto a ciò che le tue facoltà possano comprendere. Voglio dire: non ti accontentare mai di quanto comprenderai di Dio, ma di quanto di lui non comprenderai. Non indugiare mai nell’amare e nel godere quanto di Dio puoi comprendere o sentire, ma ama e gioisci di ciò che non puoi comprendere e sentire di lui: questo, ripeto, è cercarlo nella fede.[29] Dio è inaccessibile e nascosto (Is 45,15), come ho già detto,[30] e quantunque ti sembri di trovarlo, di sentirlo e di comprenderlo, lo devi ritenere sempre nascosto, e in quanto nascosto dovrai servirlo nel nascondimento. Non essere come molti insipienti che pensano a Dio come a una creatura umana, e quando non lo capiscono, non lo gustano o non lo sentono, ritengono che Dio sia più lontano e più nascosto. E invece è vero il contrario: quanto [meno] distintamente lo intendono, tanto più si avvicinano a lui, perché, come dice il profeta Davide, si avvolgeva di tenebre come di velo (Sal 17[18],12).[31] Così, se ti avvicini a lui, avvertirai per forza le tenebre a causa della debolezza del tuo occhio. Fai dunque bene, in ogni momento, sia di avversità che di prosperità, spirituale o temporale, a considerare Dio come nascosto e a invocarlo così: Dove ti sei nascosto,

Amato?

Sola qui, gemente, mi hai lasciata!

 

13. Lo chiama Amato per convincerlo meglio ad ascoltare la sua supplica; quando Dio è amato, esaudisce facilmente le richieste del suo amante. Lo afferma egli stesso per mezzo di san Giovanni: Rimanete nel mio amore... perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome velo conceda (Gv 15,9.16). L'anima lo può veramente chiamare Amato, quando è completamente[32] con lui, non avendo il cuore attaccato a nessuna cosa che non sia lui, sicché la sua mente è rivolta abitualmente a lui. Dalila disse a Sansone: Come puoi dirmi: «Ti amo», mentre il tuo cuore non è con me? (Gdc 16,15). Nel cuore, infatti, sono contenuti il pensiero e l'affetto. Ne segue che alcuni chiamano Amato lo Sposo, ma non è amato davvero, perché il loro cuore non è totalmente con lui, e così la loro richiesta agli occhi di Dio non ha molto valore. Per questo non ottengono subito ciò che chiedono, finché, perseverando nella preghiera, riescono a fissare più a lungo il loro animo in Dio e a nutrire passione d'amore solo per lui, perché da Dio non si ottiene nulla se non per amore.

 

14. Se aggiunge, subito dopo, sola qui, gemente, mi hai lasciata, occorre notare che l'assenza dell’Amato causa continui gemiti nell’amante, perché questa non ama niente al di fuori di lui, in nulla trova riposo e sollievo. Da ciò si può riconoscere chi ama davvero Dio: se non si contenta di qualcosa d'inferiore a Dio. Ma che dico: si contenta? Anche se possedesse tutti i beni insieme, l'anima non sarebbe contenta, anzi se più ne avesse, più sarebbe insoddisfatta: la soddisfazione del cuore non si trova nel possesso delle cose, ma nella loro mancanza e nella povertà di spirito. La perfezione d'amore,[33] infatti, consiste nel possedere Dio con una specialissima grazia unificante; quando l'anima raggiunge tale possesso vive in questa vita con una certa soddisfazione, anche se non in pienezza. Persino Davide, con tutta la sua perfezione, aspettava di essere pienamente soddisfatto in cielo, quando esclamava: Al risveglio mi sazierai della tua presenza (Sal 16[17],15).

All’anima non bastano quindi la pace, la tranquillità e la gioia del cuore che può godere in questa vita perché non abbia più dentro di sé questo gemito,[34] sia pure pacifico e indolore, nella speranza di ciò che ancora le manca. Il gemito infatti è legato alla speranza, come afferma l'Apostolo di se stesso e degli altri, anche se perfetti: Anche noi che possediamo le primizie dello Spinto) gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli (Rm 8,23). Questo è il gemito che l'anima ha dentro di se, nel cuore innamorato, perché dove [ferisce] l'amore, lì c'è il gemito di colei che, ferita, geme continuamente per il dolore dell’assenza; tanto più se, dopo aver gustato qualche dolce e piacevole comunicazione dello Sposo, questi si assenta e all’improvviso l'anima resta sola e assetata di lui. Per questo aggiunge subito:

Come il cervo fuggisti.

 

15. A questo punto occorre osservare che nel Cantico dei Cantici la sposa paragona lo Sposo al cervo e al capriolo, dicendo: Somiglia il mio Diletto a un capriolo o ad un cerbiatto (Ct 2,9). E questo non solo perché è schivo, solitario e rifugge la compagnia, come il cervo, ma anche per la rapidità nel nascondersi e nell’apparire; così si comporta di solito lo Sposo con le anime devote nelle visite[35] che fa loro per offrire diletto e incoraggiamento, e quando si allontana da loro o si rende assente dopo tali visite, per provarle, umiliarle e istruirle. In tal modo fa sentire loro la sua assenza con un dolore ancor più intenso, come fa capire L’anima con queste parole:

dopo avermi ferita.

 

16. È come se dicesse: non solo mi bastavano la pena e il dolore che soffro abitualmente per la tua assenza, ma dopo avermi ancor più ferita con la tua freccia d'amore e accresciuto l'ardente passione di vederti, fuggi con la velocità d'un cervo e non ti lasci afferrare neppure per poco.

 

17. Per chiarire ulteriormente questo verso è opportuno ricordare che, oltre alle molte visite che Dio fa all’anima in diversi modi, colpendola e accrescendo in lei l'amore, suole accordarle segreti tocchi d'amore che la feriscono e la trapassano come frecce di fuoco, tanto da lasciarla tutta incendiata d'un fuoco d'amore. Queste vengono giustamente chiamate ferite d'amore,[36] e di esse parla qui l'anima: infiammano talmente la volontà e il sentimento che l'anima arde di fiamma e fuoco d'amore, tanto che sembra consumarsi in quella fiamma. Tale fiamma la fa uscire fuori di sé e la rinnova tutta, dandole un nuovo modo di essere, come la fenice[37] che brucia e rinasce dalle sue ceneri.

A tale proposito Davide afferma: Il mio cuore era infiammato, i miei reni erano alterati, ero ridotto a un niente e non capivo (Sal 72[73],21-22 Volg.).

 

18. I desideri e le passioni, di cui parla qui il profeta adoperando il termine reni, si agitano e si trasformano tutti in divini nell’infiammarsi del cuore, e l'anima per amore si dissolve in nulla, non sapendo far altro che amare. A questo punto il cambiamento interiore avviene come un tormento e un desiderio così forte di vedere Dio, da sembrare all’anima intollerabile l'asprezza che l'amore usa nei suoi confronti. Questo non perché l'abbia ferita - anzi ritiene salutari tali ferite -, ma perché l'ha lasciata così, immersa nelle pene d'amore, e non l'ha ferita con più vigore uccidendola del tutto: in questo modo le avrebbe consentito di vederlo e unirsi a lui in una vita d'amore perfetto. Per questo, esaltando ed esprimendo il suo dolore, esclama: dopo avermi ferita.

 

19. Il che vuol dire: lasciandomi così ferita, morente per le ferite d'amore per te, ti sei nascosto con la rapidità di un cervo. Questo sentimento sopraggiunge con tale forza perché, nella ferita d'amore inflitta da Dio all’anima, si accende un improvviso slancio della volontà verso il possesso dell’Amato, dal quale si è sentita toccare. Con la stessa rapidità avverte la lontananza e l'impossibilità di possederlo quaggiù come desidera. Così, subito contemporaneamente, prova anche il dolore di quell'assenza, perché queste visite non sono come le altre in cui Dio ricrea e sazia L’anima; queste, infatti, egli le produce più per ferire che per guarire, più per addolorare che per rallegrare. Servono a ravvivare la conoscenza e ad accrescere il desiderio, quindi il dolore e l'ansia di vedere Dio.

Vengono chiamate ferite spirituali d'amore e sono piacevolissime e auspicabili per l'anima; essa vorrebbe morire mille volte per questi colpi lancinanti che la fanno uscire fuori di sé ed entrare in Dio. Ciò è quanto dà a intendere nel verso seguente:

gridando t'inseguii: eri sparito!

 

20. Per le ferite d'amore non c'è medicina se non da parte di colui che ha causato la ferita. Per questo l'anima ferita, spinta dalla forza del fuoco che le causò la ferita, rincorse l'Amato che l'aveva ferita, gridandogli di guarirla.

È bene ricordare che la parola «inseguire» (sp. salir tras, lett. «uscire dietro a») spiritualmente designa qui due modi di andare dietro a Dio. Il primo si verifica quando si viene fuori da tutte le cose, aborrendole e dis-prezzandole; l'altro, quando si esce da se stessi, dimenticandosi, per amore di Dio. Quando tale amore tocca l'anima con fervore, la eleva talmente che non solo la fa uscire da se stessa nel totale oblio di se, ma addirittura la strappa dai suoi desideri e inclinazioni naturali, facendole invocare l'amore di Dio. E così è come se dicesse: Sposo mio, con quel tuo tocco e quella ferita d'amore non solo hai distolto la mia anima da tutte le cose, ma 1'hai fatta uscire anche da se stessa; in verità, sembra che tu la faccia usci re persino dal corpo e la elevi a te, facendola gridare per te, ormai distaccata da tutto, per aggrapparsi a te che

eri sparito.

 

21. È come se dicesse: quando volli afferrare la tua presenza, non ti trovai, così rimasi senza sostegno da una parte e dall’altra, soffrendo perché ero come sospesa in aria, per amore, senza appoggio né in te né in me. Ciò che qui l'anima esprime con «inseguire-uscire» per andare in cerca dell’Amato, la sposa del Cantico lo dice con «alzarsi». Difatti, afferma: Mi alzerò e farò il giro della città, per le strade e per le piazze; voglio cercare l’Amato del mio cuore... Ho aperto allora al mio Diletto, ma il mio Diletto se n'era già andato, era scomparso... Mi hanno ferita (Ct 3,2; 5,6-7). L'«alzarsi» dell’anima sposa significa, parlando spiritualmente, muoversi dal basso verso l'alto e coincide con ciò che qui l'anima chiama «inseguire-uscire dietro a», cioè: dal suo imperfetto modo di amare verso l'amore perfetto di Dio.

Ma la sposa del Cantico dice che rimase ferita perché non lo trovò; anche qui l'anima dice di essere rimasta ferita d'amore e di essere stata poi abbandonata. L'innamorata vive sempre nel dolore per l'assenza dell’Amato, perché si è già consacrata a lui, e in cambio del dono di sé attende che a sua volta l'Amato le si doni; e tuttavia egli tarda a donarsi a lei. Avendo ormai perduto ogni cosa e se stessa per l'Amato, non ha trovato il guadagno del suo distacco, perché la sua anima non possiede ancora l'oggetto del suo amore.

 

22. Questo penoso sentimento dell’assenza di Dio di solito è così intenso in coloro che vanno avvicinandosi allo stato di perfezione, al tempo di queste ferite divine,[38] che se il Signore non li sostenesse, morirebbero. Avendo, infatti, il gusto della volontà purificato e lo spirito limpido e ben disposto verso Dio, e gustando già qualcosa della dolcezza dell’amore divino che essi bramano più d'ogni altra cosa, soffrono indicibilmente. Quasi attraverso uno spiraglio viene mostrato loro un bene immenso, senza che lo possano ricevere. Ciò provoca sofferenza e tormento indicibili.

 

 

 

STROFA 2 [CA 2]

 

Pastori, voi che andrete

lassù, per gli stabbi al colle,

se mai colui vedrete

che più d’ogni altro amo,

ditegli che languo, peno e muoio.

 

 

SPIEGAZIONE

 

1. In questa strofa[39] l’anima vuole servirsi di buoni intermediari presso il suo Amato, chiedendo loro di informarlo del suo profondo dolore. Infatti è proprio di chi ama comunicare con l’Amato servendosi dei mezzi migliori a sua disposizione, quando non può farlo di persona. Qui l'anima vuole servirsi [dei suoi] desideri, affetti e gemiti come di messaggeri che possono manifestare molto bene i segreti del cuore al suo Amato. Per questo chiede loro di andare, dicendo:

Pastori, voi che andrete.

 

2. Chiama pastori i suoi desideri, affetti e gemiti, in quanto essi pascono L’anima di beni spirituali: pastore, infatti, vuol dire colui che pasce. Per loro tramite Dio si comunica all’anima dandole un pasto divino, mentre senza di essi le si comunica poco. E dice: voi che andrete, come a dire: voi che procedete da amore puro, perché tra gli affetti e i desideri arrivano a Dio solo quelli che scaturiscono da vero amore.

Lassù, per gli stabbi al colle.

 

3. Chiama stabbi le gerarchie e i cori degli angeli, che di coro in coro portano i nostri gemiti e le nostre preghiere a Dio. Lassù designa Dio in quanto somma altezza e perché in lui, come dalla cima, si esplorano tutte le cose e le dimore superiori e inferiori; a lui vanno le nostre preghiere, offerte dagli angeli, come si diceva e come notificò l'angelo a Tobia: Quando pregavi tra le lacrime, io presentavo la tua preghiera davanti alla gloria del Signore (Tb 12,12).

Per pastori dell’anima si possono intendere qui anche gli angeli stessi, perché non solo portano a Dio i nostri messaggi, ma portano anche quelli di Dio alle nostre anime, nutrendole, da buoni pastori, di dolci comunicazioni e ispirazioni divine; Dio trasmette queste ultime anche tramite loro ed essi ci difendono dai lupi, che sono i demoni.

Or dunque, che per pastori intendiamo sia gli affetti sia gli angeli, l'anima desidera sempre che le facciano da intermediari presso l’Amato. Per questo a tutti si rivolge con queste parole:

se mai colui vedrete.

 

4. È come se dicesse: se per mia fortuna arrivaste alla sua presenza, in modo che egli vi veda e vi ascolti. Occorre osservare che, com’è vero che Dio tutto sa e conosce, vede e nota persino i pensieri dell’anima, come dice Mosè (Dt 31,21), è altrettanto vero che vede le nostre necessità e ascolta le nostre preghiere quando le esaudisce. Non tutte le necessità e le richieste arrivano al punto d'essere esaudite da Dio; deve arrivare il tempo opportuno ed esse devono raggiungere il numero adeguato perché si possa dire che Dio le vede e le ascolta, come si legge nel libro dell’Esodo: solo dopo quattrocento anni che i figli d'Israele avevano sofferto nella schiavitù d'Egitto Dio disse a Mosè: Ho visto la miseria del mio popolo in Egitto... Sono sceso per liberarlo (Es 3,7-8), sebbene la conoscesse da sempre.

Anche san Gabriele disse a Zaccaria di non temere, perché Dio aveva ascoltato la sua preghiera e gli concedeva il figlio che da molti anni continuava a chiedergli (Lc 1,13), anche se l'aveva da sempre udita. Così ogni anima deve capire che Dio, pur non venendo subito incontro alle sue necessità e preghiere, non mancherà di soccorrerla al momento opportuno. Colui che è un riparo, come afferma Davide, e in tempo di angoscia un rifugio sicuro (Sal 9,10), interverrà se l'anima non si scoraggia né si stanca di chiedere. Infatti questo vuol dire L’anima quando afferma: se mai colui vedrete, cioè: se per caso è giunto il momento in cui egli ritiene giusto esaudire le mie richieste.

Che più d'ogni altro amo.

 

5. Cioè colui che amo più d’ogni altra cosa. Questo si verifica quando nell’anima non vi è nulla che le impedisca di fare e soffrire qualsiasi cosa per il suo servizio. Quando l'anima può dire veramente ciò che esprime il verso seguente, è segno che lo ama sopra tutte le cose. Ecco il verso:

ditegli che languo, peno e muoio.

 

6. L'anima presenta tre necessità, cioè languore, sofferenza e morte. L'anima che ama davvero Dio d'un amore che vuole giungere alla perfezione, quando egli è assente soffre abitualmente in tre modi, secondo le tre facoltà dell’anima: l'intelletto, la volontà e la memoria.

Quanto all’intelletto, l'anima dice che langue perché non vede Dio, che è la salvezza dell’intelletto, come Dio stesso afferma per bocca di Davide: Sono io la tua salvezza (Sal 34[35],3).

Quanto alla volontà, l'anima dice di soffrire perché non possiede Dio che è il refrigerio e la delizia della volontà, come dice ancora Davide: Li disseti al torrente delle tue delizie (Sal 35 [36],9).

Quanto alla memoria, l'anima dice di morire perché, ricordandosi che manca di tutti i beni dell’intelletto, che consistono nel vedere Dio, e delle delizie della volontà, ossia del possesso di Dio, aggiunge che è più che mai possibile perderlo per sempre in mezzo ai pericoli e alle tentazioni di questa vita. Con tale ricordo soffre una sensazione simile alla morte, perché si rende conto di non avere un sicuro e perfetto possesso di Dio, che è vita dell’anima, come dichiara Mosè: È lui la tua vita (Dt 30,20).

 

7. Queste tre forme di necessità vengono molto bene espresse da Geremia a Dio nel libro delle Lamentazioni con queste parole: Il ricordo della mia miseria e del mio vagare è come assenzio e veleno (Lam 3,19).

La miseria si riferisce all’intelletto, perché ad esso appartengono le ricchezze della sapienza del Figlio di Dio, nel quale, come dice san Paolo, sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza di Dio (Col 2,3).

L'assenzio, erba amarissima, si riferisce alla volontà, perché a questa facoltà appartiene la dolcezza del possesso di Dio. Se viene a mancarle, resta con l'amarezza. Che l'amarezza appartenga, in senso spirituale, alla volontà, ce lo insegna l'Apocalisse quando l'angelo dice a san Giovanni: Mangia il libro, ti riempirà di amarezza le viscere (Ap 10,9), intendendo per viscere la volontà.

Il veleno non si riferisce solo alla memoria, ma a tutte le facoltà e forze dell’anima, perché il veleno significa la morte dell’anima, come lascia intendere Mosè parlando, nel Deuteronomio, dei ripudiati da Dio in questi termini: Tossico di serpenti è il loro vino, micidiale veleno di vipere (Dt 32,33), che in questo caso significa non avere Dio, il che equivale alla morte dell’anima.

Queste tre necessità e sofferenze sono fondate sulle tre virtù teologali: la fede, la carità e la speranza, che corrispondono alle tre facoltà suddette, nell’ordine che ho proposto: intelletto, volontà e memoria.[40]

 

8. Occorre osservare che L’anima, nel verso riportato, non fa che presentare i suoi bisogni e la sua sofferenza all’Amato, perché chi ama con discrezione non si preoccupa di chiedere ciò che gli manca oppure desidera, ma espone semplicemente i suoi bisogni affinché l’Amato faccia ciò che vuole. Così, infatti, si comportò la beata Vergine[41] con il Figlio amato alle nozze di Cana in Galilea, non chiedendogli direttamente il vino, ma dicendogli: Non hanno più vino (Gv 2,3). Allo stesso modo, le sorelle di Lazzaro non gli mandarono a dire di guarire il fratello, ma lo informarono che colui che egli amava era malato (Gv 11,3).

Questo per tre motivi: anzitutto perché il Signore sa meglio di noi ciò che ci serve; in secondo luogo perché l'Amato ha più compassione vedendo i bisogni di chi lo ama e la sua rassegnazione; infine perché l'anima è più al riparo dall’amor proprio e dall’egoismo nel presentare i, suoi bisogni piuttosto che nel chiedere ciò che, a suo avviso, le manca. È esattamente quanto fa qui l’anima manifestando le sue tre necessità. È come se dicesse: dite al mio Amato che, poiché languo e lui solo è la mia salvezza, mi conceda la salvezza; poiché soffro, e lui solo è la mia gioia, mi conceda la gioia; poiché muoio, e lui solo è la mia vita, mi conceda la vita.

 

 

STROFA 3 [CA 3]

 

In cerca dei miei amori

mi spingerò tra i monti e le riviere,

non coglierò fiori,

né temerò le fiere,

ma passerò i forti e le frontiere.

 

 

SPIEGAZIONE

 

1. L'anima, vedendo che per trovare l’Amato non le bastano gemiti e preghiere e nemmeno l'aiuto di buoni intermediari, come ha fatto nella prima e nella seconda strofa, proprio perché il desiderio con cui lo cerca è sincero e il suo amore grande, non vuole lasciare nulla di intentato da parte sua. L'anima che ama veramente Dio, infatti, non si lascia prendere dalla pigrizia nel compiere quanto può per trovare il Figlio di Dio, suo Amato; e anche dopo aver fatto tutto, non è contenta e pensa di non aver fatto nulla.

Così, in questa terza strofa [annuncia] di volerlo cercare lei stessa, con la propria opera, e come farà per trovarlo: si eserciterà nelle virtù e nelle pratiche spirituali[42] della vita attiva e contemplativa. A tale scopo, non ammetterà alcun piacere o comodità, né basteranno a fermarla o ad ostacolarle il cammino tutte le forze e le insidie dei tre nemici dell’anima: il mondo, il demonio e la carne. Perciò dice:

In cerca dei miei amori,

cioè del mio Amato, ecc.

 

2. L'anima qui fa capire in modo chiaro che per trovare veramente Dio non basta solo pregare con il cuore e con la lingua e neppure è sufficiente valersi dei benefici altrui, ma insieme a tutto questo è necessario da parte sua fare quanto le è possibile. Dio abitualmente stima più una sola opera compiuta dalla persona interessata che molte opere fatte da altri per lei. Per questo l'anima, ricordandosi del detto dell’Amato, cercate e troverete (Lc 11,9), decide lei stessa di uscire per cercarlo attivamente, senza fermarsi prima di averlo trovato. Ciò è quanto accade a molti che vorrebbero guadagnare Dio solo con le parole, e anche queste espresse male. In verità, per Dio non vogliono fare quasi nulla che costi loro un po'. Alcuni non vogliono neanche abbandonare, per lui, un posto a loro gradito, ma vorrebbero che il gusto di Dio scendesse nella loro bocca e nel loro cuore senza fare un passo e mortificarsi, rinunziando a qualche loro soddisfazione, consolazione o inutile voglia.

Ma finché non usciranno da se stessi per cercarlo, per quanto invochino Dio, non lo troveranno. Così lo cercava, infatti, la sposa del Cantico, e non lo trovò finché non uscì a cercarlo. Ecco le sue parole: Sul mio giaciglio, lungo la notte, ho cercato t'Amato del mio cuore, l'ho cercato, ma non l'ho trovato, Mi alzerò e farò il giro della città, per le strade e per le piazze; voglio cercare t'Amato del mio cuore (Ct 3,1-2). Dopo aver superato alcune traversie, dice che finalmente l'ha trovato (Ct 3,4).

 

3. Chi dunque cerca Dio e al tempo stesso vuole rimanere nelle sue piacevoli comodità, lo cerca di notte e non lo troverà. Chi invece lo cerca con l'esercizio e la pratica delle virtù, abbandonando il letto dei suoi piaceri e godimenti, lo cerca di giorno e lo troverà, perché ciò che non si riesce a trovare di notte, si può scoprire di giorno. Lo fa capire chiaramente lo stesso Sposo, nel libro della Sapienza, quando afferma: La sapienza è radiosa e indefettibile, facilmente è contemplata da chi l'ama e trovata da chiunque la cerca, previene, per farsi conoscere, quanti la desiderano, Chi si leva per essa di buon mattino non faticherà, la troverà seduta alla sua porta (Sap 6,12-14). Stando a queste parole, l'anima deve uscire dalla casa della propria volontà e dal letto del suo piacere; appena uscita, troverà immediatamente la Sapienza divina, il Figlio di Dio, suo Sposo.[43] Perciò dice qui: In cerca dei miei amori

mi spingerò tra i monti e le riviere.

 

4. Per monti, che sono alti, intende qui le virtù: da una parte per la loro altezza, dall’altra per le difficoltà e le fatiche che si affrontano per salirvi. Con il loro aiuto, dice che procederà esercitandosi nella vita contemplativa.

Per riviere, che sono basse, intende invece le mortificazioni, le penitenze e le pratiche spirituali. Con il loro aiuto, dice che andrà esercitando la vita attiva, insieme a quella contemplativa, come ha già detto prima. Difatti, per cercare con sicurezza Dio e acquisire le virtù, sono necessarie l'una e L’altra vita. il che equivale a dire: per cercare il mio Amato, metterò in opera le alte virtù e mi umilierò nelle basse mortificazioni e negli esercizi umili.

Dice questo perché il modo per cercare Dio consiste nel fare il bene in Dio e mortificare il male in se, come dicono i versi seguenti, per esempio:

non coglierò fiori.

 

5. poiché per cercare Dio si richiede un cuore spoglio e forte, libero da tutti i mali e da tutti i beni che non siano esclusivamente Dio, nel verso presente e nei seguenti l'anima parla della libertà e della forza necessarie per cercarlo. Sostiene, quindi, che non si fermerà a raccogliere i fiori che troverà lungo la strada e che rappresentano tutte le voglie, le soddisfazioni e i piaceri che le si possono offrire in questa vita: tutto questo potrebbe ostacolare il cammino, se volesse coglierli e goderli. Gli ostacoli sono di tre tipi: terreni, sensibili e spirituali.

Sia gli uni che gli altri occupano il cuore e le impediscono lo spogliamento spirituale richiesto per camminare direttamente nella via di Cristo, se l'anima dovesse soffermarvisi od occuparsene. Per cercarlo, afferma che non si attarderà a cogliere cose del genere. È come se dicesse: non riporrò il mio cuore nelle ricchezze e nei beni offerti dal mondo, né accoglierò le consolazioni e i piaceri della mia carne, né indugerò nei gusti e nei conforti del mio spirito, per non essere trattenuta nella ricerca dei miei amori per i monti delle virtù e delle fatiche.

Dicendo così, segue il consiglio che dà il profeta Davide a coloro che percorrono questo cammino: Divitiae si affluant, nolite cor apponere: Anche se abbondano le ricchezze, non attaccatevi il cuore (Sal 61[62],11). Questo vale sia per le soddisfazioni sensibili che per gli altri beni terreni e le consolazioni spirituali.

Ne segue che non solo i beni terreni e i piaceri corporali impediscono e ostacolano il cammino verso Dio; anche le consolazioni e i conforti spirituali, se cercati e posseduti con attaccamento, impediscono di seguire la via della croce[44] dello Sposo Cristo.

Chi vuole progredire, quindi, non deve attardarsi a cogliere questi fiori. Non solo, ma deve avere anche il coraggio e la forza per dire:

né temerò le fiere,

ma passerò i forti e le frontiere.

 

6. In questi due versi l'anima citai suoi tre nemici - il mondo, il demonio e la carne - che le fanno guerra e rendono difficile il suo cammino spirituale. Per fiere intende il mondo, per forti il demonio e per frontiere la carne.

 

7. Chiama fiere il mondo perché, all’anima che inizia il cammino di Dio, il mondo si presenta nell’immaginazione come una fiera che minaccia e spaventa, secondo tre maniere soprattutto. La prima le fa pensare che perderà il favore del mondo, gli amici, la stima, il prestigio e persino il patrimonio. La seconda, che è una fiera non meno terribile, le fa vedere quanto avrà da soffrire non avendo più le gioie e i piaceri del mondo e non provando più le sue lusinghe. La terza, ancora più grande, le fa pensare che le si solleveranno contro le male lingue, deridendola e beffeggiandola con motteggi e burle, e sarà stimata pochissimo. Simili minacce di solito si presentano ad alcune anime tanto da rendere loro difficilissima non solo la perseveranza contro queste fiere, ma anche la possibilità d'intraprendere il cammino.[45]

 

8. Ad alcune anime [più] generose, però, spesso si presentano altre fiere più interiori e spirituali: difficoltà e tentazioni, tribolazioni e prove di vario genere che esse dovranno affrontare. Dio invia tali fiere a coloro che vuole elevare a una perfezione maggiore, provandoli ed esaminandoli come l'oro sul fuoco, secondo quanto afferma Davide: Multae tribulationes iustorum, cioè: Molte sono le sventure dei giusti: ma li libera da tutte il Signore (Sal 33[34],20). Tuttavia l'anima profondamente innamorata, che stima il suo Amato più di ogni altra cosa, fidandosi del suo amore e del suo favore non teme di dire: né temerò le fiere,

ma passerò i forti e le frontiere.

 

9. Chiama forti il secondo nemico, i demoni, perché essi cercano con grande forza di sbarrare il passo di questo cammino e anche perché le loro tentazioni e astuzie sono più forti e dure da superare e più difficili da riconoscere rispetto a quelle del mondo e della carne. Inoltre i demoni si rafforzano con gli altri due nemici, il mondo e la carne, per muovere un'aspra guerra all’anima. Per questo Davide, parlando di loro, li chiama forti: Fortes quaesierunt animam meam: I forti insidiano fa mia vita (Sal 53 [54],5). A questa forza si riferisce anche il profeta Giobbe quando dice: Non vi è sulla terra potere paragonabile a quello del demonio e tale che di nessuna debba avere paura (Gb 41,24 Volg.), cioè nessun potere umano può essere paragonato al suo; solo il potere diVino, quindi, può vincerlo e solo la luce divina può svelare i suoi inganni. Ecco perché l'anima che deve vincere la sua forza non potrà riuscirvi senza la preghiera, né potrà scoprire i suoi inganni senza la mortificazione e l'umiltà. Per questo san Paolo, volendo mettere in guardia i fedeli, usa queste espressioni: Induite vos armaturam Dei, ut possitis stare adversus insidias diaboli, quoniam non est vobis colluctatio adversus carnem et sanguinem: Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo; la nostra battaglia, infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne (Ef 6,11-12). Per sangue intende il mondo e per armatura di Dio la preghiera e la croce di Cristo, ove risiedono l'umiltà e la mortificazione di cui ho parlato.

 

10. L'anima aggiunge che passerà oltre le frontiere, con le quali - ripeto - indica le ripugnanze e le ribellioni che la carne solleva naturalmente contro lo spirito. Come dice san Paolo; Caro enim concupiscit adversus spiritum: La carne ha desideri contrari allo Spirito (Gal 5,17) e si pone quasi sul confine ostacolando il cammino spirituale. L'anima deve andare oltre queste frontiere, superando le difficoltà e abbattendo con la forza e la determinazione dello spirito tutti gli appetiti sensuali e le affezioni naturali. Difatti, finché questi persisteranno nell’anima, lo spirito sarà talmente soggiogato da non poter andare avanti verso la vera vita e il diletto spirituale. Tutto questo ci fa ben comprendere san Paolo quando afferma: Si spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis: Se con l'aiuto dello spinto voi fate morire le opere della carne, vivrete (Rm 8,13).

Questo dunque è L’atteggiamento che, secondo la presente strofa, l'anima ritiene opportuno adottare lungo il cammino di ricerca del suo Amato. Vale a dire; costanza e arditezza per non abbassarsi a cogliere i fiori, coraggio per non temere le fiere e forza per superare i forti e le frontiere, con l'unico scopo di andare sui monti e lungo le riviere delle virtù, come ho spiegato sopra.

 

 

STROFA 4 (CA 4)

 

O boschi e fitte selve,

piantati dalla mano dell’Amato!

O prato verdeggiante

di bei fiori smaltato,

ditemi se qui egli è passato!

 

 

SPIEGAZIONE

 

1. In un primo momento l'anima ha illustrato il modo per disporsi a intraprendere questo cammino, cioè non andare in cerca di piaceri e soddisfazioni, e la forza che occorre per vincere le tentazioni e le difficoltà: in questo consiste l'esperienza della conoscenza di se, la prima cosa da fare se si vuole pervenire alla conoscenza di Dio. Ora, in questa strofa, comincia a camminare, mediante la considerazione[46] e la conoscenza delle creature, verso la conoscenza del suo Amato, che le ha create. Dopo l'esperienza della conoscenza di sé,[47] infatti, la considerazione sulle creature è la prima, in ordine di tempo, in questo cammino spirituale a favorire la conoscenza di Dio. L’anima può osservarne la grandezza ed eccellenza nelle cose create, come dice L’Apostolo: Invisibilia enim ipsius a creatura mundi: per ea quae facta sunt intellecta, conspiciuntur. Sarebbe a dire: le cose invisibili di Dio vengono conosciute dall’anima attraverso le cose create, visibili e invisibili (Rm 1,20),

L’anima quindi, in questa strofa, si rivolge alle creature interrogandole sul suo Amato.[48] Va rilevato che, come dice sant’Agostino, la domanda rivolta dall’anima alle creature è la considerazione attraverso di esse del loro Creatore. In questa strofa è contenuta, altresì, la riflessione sugli elementi e le creature inferiori e la riflessione sui cieli e le altre creature e cose materiali che Dio ha creato in essi, come anche la riflessione sugli spiriti celesti. Perciò dice:

O boschi e fitte selve.

 

2. L'anima chiama boschi gli elementi fondamentali, cioè la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco. Difatti, come amenissimi boschi, sono popolati da numerosissime creature, che qui chiama fitte selve per il loro grande numero e la molteplice varietà con cui sono presenti in ogni elemento: sulla terra, innumerevoli varietà di animali e di piante; nell’acqua, innumerevoli specie di pesci; nell’aria, grande varietà di uccelli; infine il fuoco, che concorre con gli altri elementi alla loro animazione e conservazione. Così, ogni specie degli animali vive nel proprio elemento e vi è collocata e come piantata nel suo bosco o regione dove nasce e si moltiplica. In realtà, così Dio dispose al momento della loro creazione, ordinando alla terra di produrre piante e animali, al mare e alle acque di produrre pesci, e fece dell’aria la dimora dei volatili (Gn 1,11-12.20-22.24-25,26-29). Per questo l'anima, considerando che egli ordinò così e che così fu fatto, canta nel verso successivo:

piantati dalla mano dell’Amato!

 

3. In questo verso viene riportata la seguente considerazione: solo la mano dell’Amato Dio poteva fare e creare tanta varietà di creature e tali grandezze! Si deve rilevare che volutamente dice: dalla mano dell’Amato, perché, sebbene Dio faccia molte altre cose per mano altrui, per esempio servendosi degli angeli e degli uomini, tuttavia la creazione 1 'ha fatta e la fa per mano propria. L’anima, quindi, si sente fortemente spinta ad amare il suo amato Dio attraverso la considerazione delle creature, vedendo che sono cose create dalla sua stessa mano. E prosegue:

O prato verdeggiante!

 

4. Questa è la considerazione sul cielo, che chiama prato verdeggiante, perché le cose create, poste in esso, conservano un rigoglio perenne, non finiscono né appassiscono con il tempo e in esse, come in un fresco prato, si rallegrano e gioiscono i giusti. In questa considerazione sono comprese anche le splendide stelle e gli altri pianeti celesti con tutta la loro varietà.[49]

 

5. Anche la Chiesa applica il termine «verdeggiante» alle cose celesti, quando, pregando Dio per le anime dei fedeli defunti, rivolgendosi a loro dice: Constituat vos Dominus inter amoena virentia: Vi ponga Dio nei deliziosi luoghi verdeggianti.[50] L'anima aggiunge che questo prato verdeggiante è

di bei fiori smaltato.

 

6. Per fiori intende gli angeli e le anime sante, che conferiscono ordine e bellezza a quel luogo [come] un grazioso e fine smalto su di un vaso d'oro purissimo.

Ditemi se qui egli è passato!

 

7. Questa domanda richiama la considerazione di cui si è parlato sopra, ed è come se dicesse: ditemi quali sublimi perfezioni ha creato in voi!

 

 

STROFA 5 (CA 5)

 

Mille grazie spargendo

qui pei boschi s’affrettava

e, mentre li guardava,

la sola sua presenza

adorni di bellezza li lasciava.

 

 

SPIEGAZIONE

 

1. In questa strofa le creature rispondono all’anima. La loro risposta, come dice anche sant'Agostino nel passo citato,[51] è la testimonianza che danno in se stesse della grandezza e dell’eccellenza di Dio all’anima dopo la considerazione che ha provocato la domanda. In sostanza, quindi, questa strofa ricorda che Dio ha creato tutte le cose con grande facilità e in breve tempo, e in esse ha lasciato una traccia del suo essere, non solo traendole dal nulla all’esistenza, ma dotandole altresì di innumerevoli grazie e virtù, abbellendole con ordine ammirevole e con l'immancabile subordinazione delle une rispetto alle altre. Tutto questo fece attraverso la sua Sapienza, per mezzo della quale le creò, cioè per mezzo del Verbo, suo unigenito Figlio. Per questo dice:

Mille grazie spargendo.

 

2. Con queste mille grazie che andava spargendo, allude alla moltitudine delle innumerevoli creature. Per questo motivo indica il numero più alto, mille, per rendere l'idea della loro enorme quantità. Le chiama grazie per le molte belle qualità di cui ha arricchito le creature; spargendo le grazie, cioè popolando il mondo,

qui pei boschi s'affrettava.

 

3. Passare per i boschi significa creare gli elementi, qui chiamati boschi. Dice di averli attraversati mille grazie spargendo, cioè adornandoli di tutte le creature, che sono colme di bellezza. Oltre a questo, spargeva in essi mille grazie, dando loro la possibilità di concorrere alla loro stessa generazione e conservazione.

Dice che passava, perché le creature sono come un'impronta del passaggio di Dio; in esse s'intravedono la sua grandezza, la sua potenza, la sua saggezza e altre virtù diVine.

E dice che passava in fretta, perché le creature sono le opere minori di Dio, fatte quasi di passaggio. Quanto alle maggiori, quelle in cui egli si è meglio manifestato, e nelle quali si è intrattenuto più a lungo, sono state l'incarnazione del Verbo[52] e i misteri della fede cristiana, al cui confronto tutte le altre realtà sono state fatte come di passaggio, in fretta.

E, mentre li guardava,

la sola sua presenza

adorni di bellezza li lasciava.

 

4. Come dice san Paolo, il Figlio di Dio è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza (Eb 1,3). Va ricordato, allora, che nella sola immagine di suo Figlio Dio contemplò tutte le cose. In questo modo donò loro L’essere naturale, arricchito di molte grazie e doni naturali, facendole complete e perfette; come dice la Genesi: Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona (Gn 1,31). Vederle molto buone equivaleva a farle molto buone nel Verbo, suo Figlio. E non solo, ripeto, guardandole comunicò loro l'essere e i doni naturali, ma con la sola immagine del Figlio le lasciò rivestite di bellezza, partecipando loro l'essere soprannaturale. Questo avvenne quando egli si fece uomo, innalzando l'uomo alla bellezza di Dio, e di conseguenza innalzando in lui tutte le creature, perché si è unito alla natura di tutte le cose nell’uomo. Per questo lo stesso Figlio di Dio disse: Si ego exaltatus a terra fuero, omnia traham ad meipsum: Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me (Gv 12,32). Così, nella glorificazione dell’incarnazione di suo Figlio e della sua risurrezione secondo la carne, il Padre non solo abbellì in parte le creature, ma potremmo dire che le rivestì completamente di bellezza e di dignità.[53]

 

 

Annotazione per la strofa seguente[54]

 

STROFA 6 (CA 6)

 

1. Oltre a quanto detto sopra, se ora ci poniamo sul piano affettivo della contemplazione, bisogna sapere che nel vivo della contemplazione e nella conoscenza delle creature l’anima scopre una tale abbondanza di grazie, di virtù e di beltà di cui Dio le ha arricchite, da sembrarle tutte rivestite di straordinaria bellezza e virtù naturale, derivata e profusa dall’infinita bellezza soprannaturale della persona di Dio. Il suo sguardo riveste di bellezza e gioia il mondo e tutti i cieli; così, secondo le parole di Davide, aprendo la sua mano, Dio colma di bene ogni vivente (Sal 144[145],16). L’anima, dunque, ferita dall’amore, seguendo la traccia della bellezza del suo Amato che ha conosciuta attraverso le creature, presa dall’ansia di vedere l'infinita bellezza che ha causato questa bellezza visibile, dice la seguente strofa:

Ah! Chi potrà guarirmi?

Alfin concediti davvero;

e più non mi mandare

da oggi messaggeri

che non sanno dirmi ciò che bramo!

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. poiché le creature hanno offerto all’anima tracce del suo Amato, mostrando in sé l'impronta della sua bellezza e perfezione, è aumentato in lei l'amore e conseguentemente il dolore per la sua assenza; quanto più l'anima conosce Dio, tanto più aumenta il suo desiderio e l'ansia di vederlo.[55] Quando si accorge che nulla può curare la sua afflizione se non la presenza e la vista dell’Amato, diffidando di ogni altro rimedio, gli chiede in questa strofa di concederle il possesso della sua presenza. Gli chiede altresì di non volerla più, d'ora in poi, intrattenere con altri indizi, comunicazioni e tracce della sua bellezza, perché queste cose non fanno che accrescere la sua ansia e il suo dolore, [anziché] appagare la sua volontà e il suo desiderio. La sua volontà non si contenta né si soddisfa di nulla se non della sua vista e della sua presenza. Voglia quindi concedersi a lei veramente in uno slancio amoroso pieno e perfetto. Per questo dice:

Ah! Chi potrà guarirmi?

 

3. Come per dire che, fra tutti i piaceri del mondo, le soddisfazioni dei sensi, le delizie e le dolcezze dello spirito, nulla può sanarla o soddisfarla. Chiede allora:

Alfin concediti davvero.

 

4. Occorre osservare che qualsiasi anima che ami veramente, non può sentirsi appagata né può contentarsi finché non possiede veramente Dio. Tutte le altre cose, infatti, non solo non la soddisfano, anzi, come ho detto, accrescono la fame e il desiderio di vedere Dio così com'è. Per questo ogni visione dell’Amato, ricevuta attraverso la conoscenza o i sentimenti o qualsiasi altra comunicazione - che sono come messaggeri che portano all’anima notizie dell’essenza di lui -, aumentando e risvegliando il suo appetito, al pari delle briciole per uno che ha molta fame, le rende doloroso il doversi contentare di così poco. Ecco perché dice: Alfin concediti davvero.

 

5. Tutto ciò che di Dio si può conoscere in questa vita, per quanto elevato sia, non è vera conoscenza, perché è conoscenza parziale e molto remota; conoscerlo nella sua essenza è conoscenza vera, ed è questa che chiede l'anima, non contentandosi di altre conoscenze. Per questo aggiunge subito:

e più non mi mandare

da oggi messaggeri.

 

6. Sembra dire: d'ora in poi non volere che ti conosca così limitatamente per mezzo di messaggeri, di conoscenze e sentimenti che essi mi danno di te, così lontani e diversi da ciò che L’anima mia desidera di te. Sai bene, Sposo mio, quanto i messaggeri accrescano il dolore di chi soffre per un'assenza: anzitutto perché riaprono la piaga con le notizie che portano, e poi perché sembrano ritardare la venuta. D’ora innanzi, dunque, non mi mandare messaggeri, cioè conoscenze remote, perché, se finora potevo contentarmene, non conoscendoti e non amandoti molto, ora la grandezza dell’amore che sento non può contentarsi di questi messaggi. Or dunque, concediti davvero! Quasi volesse dire molto più chiaramente: mio Signore e Sposo, quello che in parte dai di te alla mia anima, dammelo finalmente per intero; e quello che le mostri attraverso spiragli, mostramelo infine apertamente; e ciò che le comunichi attraverso intermediari, che è quasi darti per celia, comunicamelo veramente dando te stesso. Nelle tue visite, a volte dai l'impressione di voler dare la gioia del tuo possesso; ma quando l'anima vuole accertarsene, se ne trova priva, perché glielo nascondi, il che è come darlo per celia. Concediti, dunque, veramente, dandoti tutto all’anima, perché lei tutta ti possieda interamente, e più non mi mandare da

oggi messaggeri,

che non sanno dirmi ciò che bramo.

 

7. In altre parole, ti voglio tutto, mentre essi non sanno né possono dirmi tutto di te. Nessuna cosa terrena o celeste, infatti, può dare all’anima la conoscenza che desidera avere di te; per questo non sanno dirmi ciò che bramo. Sii tu, invece, il messaggero e il messaggio.

 

 

STROFA 7 (CA 7)

 

E quanti intorno a te vagando,

di te infinite grazie raccontando,

ravvivan così le mie ferite,

e me spenta lascia non so cosa

ch'essi vanno appena balbettando.[56]

 

 

SPIEGAZIONE

 

1. Nella strofa precedente L’anima ha mostrato di essere malata o ferita d'amore per lo Sposo a motivo di quanto di lui ha conosciuto attraverso le creature irrazionali. In questa strofa lascia intendere che è ferita d’amore a motivo di una conoscenza più alta che ha dell’Amato, per mezzo delle creature razionali, cioè gli angeli e gli uomini, che sono più nobili delle altre. Non dice soltanto questo, ma aggiunge anche che sta morendo d'amore a causa dell’immensità straordinaria che le si svela attraverso queste creature, senza riuscire a scoprirla del tutto; la chiama qui non so che, perché non sa dire cosa sia, ma è tale da farla morire d’amore.

 

2. Possiamo dedurre che in questo interscambio d'amore vi sono tre forme di sofferenza per l’Amato, a seconda delle tre forme di conoscenza[57] che si possono avere di lui.

La prima si chiama ferita. È la più superficiale e guarisce più in fretta, come una ferita, perché nasce dalla conoscenza che L’anima riceve dalle creature, appunto le opere inferiori di Dio. Di questa ferita, che si può anche chiamare malattia, ne parla la sposa del Cantico, quando dice: Adiuro vos, filiae Ierusalem, si inveneritis Dilectum meum ut nuntietis ei quia amore langueo: Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se trovate il mio Diletto, ditegli che sono malata d'amore! (Ct 5,8). Per figlie di Gerusalemme intende le creature.

 

3. La seconda si chiama piaga: penetra nell’anima più della ferita e per questo dura di più, perché è come una ferita trasformata ormai in piaga, così che l'anima si sente veramente piagata d'amore. Questa piaga si forma nell’anima attraverso la conoscenza delle opere dell’incarnazione del Verbo e i misteri della fede. Sono queste le opere maggiori di Dio, le quali rispetto alle creature racchiudono in sé un amore più grande. Come tali producono nell’anima un effetto più profondo d'amore. La loro qualità è tale che, se la prima forma è come una ferita, questa seconda è come una piaga aperta, che dura a lungo. Parlando di essa, lo Sposo del Cantico dice all’anima: Tu mi hai piagato il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai piagato il cuore, con un solo tuo sguardo, con un solo capello del tuo collo! (Ct 4,9). Lo sguardo qui significa la fede nell’incarnazione dello Sposo e il capello l'amore per la stessa incarnazione.

 

4. La terza forma di sofferenza per amore è uguale al morire ed è come avere una piaga incancrenita nell’anima. Divenuta tutta una piaga purulenta, l’anima vive morendo fino a quando l’amore, uccidendola, la farà vivere della vita d'amore, trasformandola in amore. Questo morire d'amore avviene nell’anima mediante un tocco di somma conoscenza della Divinità, cioè quel non so cosa - di questa strofa - che vanno appena balbettando. Questo tocco non è continuo né intenso, perché altrimenti l’anima si separerebbe dal corpo, ma è brevissimo. In questo modo l'anima è sempre sul punto di morire, e tanto più muore quanto più si accorge di non morire d'amore. Questo si chiama amore impaziente.[58] Se ne parla nella Genesi, dove la Scrittura dice che era tale il desiderio che Rachele aveva di concepire, da dire al suo sposo Giacobbe: Da mihi liberos, alioquin moriar: Dammi dei figli, se no io muoio! (Gn 30,1).

Il profeta Giobbe diceva: Quis mihi det... ut qui coepit, ipse me conterat? che significa: Oh, avvenisse... che colui che ha cominciato mi finisca, lasci libera la sua mano e mi faccia morire! (Gb 6,8.9 Volg.).

 

5. Secondo la strofa, queste due forme di sofferenza d'amore, cioè la piaga e il morire, sono prodotte dalle creature razionali: la piaga, per il fatto che le vanno raccontando infinite grazie dell’Amato nei misteri e nella sapienza di Dio insegnati dalla fede; quanto al morire, esso è dovuto a ciò che, come riferisce la strofa, vanno appena balbettando, cioè il sentimento e la nozione della Divinità che alcune volte l'anima scopre in quello che sente raccontare di Dio. Dice allora:

E quanti intorno a te vagando.

 

6. Con coloro che vagano qui intende, come ho detto, le creature razionali, cioè gli angeli e gli uomini, perché solo costoro fra tutte le creature si dedicano a Dio prestandogli attenzione;[59] questo, infatti, vuol dire il termine vagano, che in latino sarebbe vacant. È come dire: tutti quanti attendono a Dio, gli uni contemplandolo in cielo e godendone, come gli angeli; gli altri amandolo e desiderandolo sulla terra, come gli uomini.

Siccome attraverso queste creature razionali l'anima conosce più chiaramente Dio, sia considerandone la superiorità che esse hanno su tutte le cose create, sia per ciò che esse ci insegnano di Dio - gli angeli interiormente con ispirazioni segrete, gli uomini esteriormente per mezzo delle verità della Scrittura -, dice:

di te infinite grazie raccontando.

 

7. Cioè: mi fanno capire cose stupende della tua grazia e della tua misericordia nell’opera della tua incarnazione e nelle verità di fede che mi parlano e mi riferiscono sempre più cose su di te, perché quanto più esse vorranno dirmi, tanto maggiori grazie potranno svelarmi di [te].

Ravvivan così le mie ferite.

 

8. Perché quanto più gli angeli mi ispirano e gli uomini mi insegnano di te, tanto più mi fanno innamorare di te, e così tutti mi feriscono ancor più d'amore.

E me spenta lascia non so cosa

ch’essi vanno appena balbettando.

 

9. È come se dicesse: oltre al fatto che queste creature mi feriscono con le infinite grazie che di te mi fanno conoscere, rimane sempre un non so che,[60] qualcosa che resta ancora da dire, qualcosa che si riconosce ancora inespresso. È una sublime impronta di Dio che si svela all’anima, che dev'essere ancora indagata. È un'altissima conoscenza di Dio che non si sa esprimere e che l'anima chiama un non so che. Se ciò che comprendo mi piaga e mi ferisce d'amore, quello che non riesco a comprendere, ma che avverto in modo così sublime, mi uccide.

Questo accade talvolta alle anime già progredite,[61] che Dio favorisce concedendo loro, attraverso quello che sentono o vedono o intendono - a volte solo con l’una o con l’altra di queste percezioni -, una chiara conoscenza in cui fa comprendere e sentire la sua sublimità e grandezza. In tale esperienza l'anima sente Dio in modo tanto sublime da riconoscere chiaramente che le resta tutto da comprendere. Questo capire e sentire che la Divinità è talmente immensa da non poter essere compresa interamente, è una forma di conoscenza molto elevata. Uno dei grandi favori transitori che Dio concede in questa vita a un'anima è quello di farle comprendere e sentire Dio in modo tanto sublime che essa si rende chiaramente conto che non potrà mai comprenderlo o sentirlo del tutto. Questo, in un certo qual modo, è simile alla visione di Dio in cielo, dove quelli che più lo conoscono, comprendono più chiaramente l'infinito che devono ancora comprendere, mentre a quelli che lo vedono meno, non appare tanto distintamente - come a quelli che più lo vedono - ciò che resta loro da vedere.

 

10. Questo, credo, non riuscirà a comprenderlo bene chi non l'ha sperimentato. L'anima invece che lo sperimenta, vedendo quanto dista dal comprendere ciò che sente così intensamente, lo chiama un non so che, perché come non si comprende, così neppure si sa esprimere, anche se è possibile sentirlo. Per questo l'anima dice che le creature lo vanno appena balbettando, proprio perché non riescono a farlo comprendere. Balbettare - atto tipico dei bambini - significa infatti non riuscire a esprimere in modo comprensibile ciò che si ha da dire.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 8 (CA 8)

 

1. Anche in relazione alle creature superiori vengono concesse all’anima illuminazioni simili a quelle accennate sopra,[62] quantunque non sempre così elevate, allorquando Dio accorda la grazia di rivelarle la conoscenza e il senso spirituale di esse. Sembra che tali illuminazioni facciano comprendere le grandezze di Dio ma non del tutto: è come se volessero far comprendere qualcosa e non vi riuscissero. Tutto questo è un non so cosa che I vanno appena balbettando. E allora l’anima prosegue nel suo lamento e nella strofa seguente parla con la vita della sua anima, dicendo:

Ma come duri ancor,

o vita, se non vivi ove vivi,

se ti fanno morir

le frecce che subisci

da ciò che dell’Amato concepisci?

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. L'anima, sentendosi morire d'amore,[63] come ha appena detto, ma non potendo morire per godere con libertà dell’amore, si lamenta per il fatto di essere costretta nella vita corporale, a motivo della quale le viene dilazionata quella spirituale. In questa strofa, quindi, parla con la vita stessa della sua anima, rimproverandole il dolore che le causa. Il senso della strofa è dunque il seguente: vita dell’anima mia, come puoi perseverare in questa vita di carne, che per te è morte e privazione della vita spirituale in Dio, nel quale per essenza, amore e desiderio tu vivi veramente, più che nel corpo? Anche se questo non fosse morivo perché tu esca e ti liberi da questo corpo di morte (Rm 7,24) per vivere e godere la vita del tuo Dio, come puoi permanere in questo corpo così fragile, dal momento che basterebbero a porre fine alla tua vita le ferite d’amore ricevute attraverso le grandezze a te comunicate da parte dell’Amato? Esse infatti ti lasciano profondamente ferita d'amore, e così tutto ciò che di lui senti e comprendi per te sono altrettanti tocchi e ferite mortali d'amore.

Si commentano i versi: Ma come duri ancor,

o vita, se non vivi ove vivi?

 

3. Per capire questi versi occorre sapere che l’anima vive più dove ama che nel corpo da essa animato,[64] perché non ha la sua vita nel corpo, ma è lei . che la comunica al corpo e vive per amore in ciò che ama.

Però, oltre a questa vita d'amore, in virtù della quale l'anima che ama Dio vive in lui, possiede altresì la sua vita originariamente e naturalmente in Dio, come tutte le altre cose create, secondo quanto afferma san Paolo: In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (At 17,28), che significa: in Dio abbiamo la nostra vita, il nostro movimento e il nostro essere. E san Giovanni aggiunge che tutto ciò che è stato fatto era vita in Dio (Gv 1,3.4). L'anima, vedendo che ha la sua vita naturale in Dio per l'essere che in lui possiede, come pure la vita spirituale per l'amore con cui lo ama, soffre e si affligge che una vita così fragile in un corpo mortale abbia tanto potere da impedirle di godere una vita così forte, vera e piacevole come quella che vive in Dio per natura e per amore.

In tutto questo, grande è l'insistenza dell’anima, perché qui ci fa capire che soffre per due cose di segno opposto, quali sono la vita naturale nel corpo e la vita spirituale in Dio, due cose contrarie in quanto l'una si oppone all’altra. Vivendole entrambe, l’anima deve necessariamente provare un grande tormento: la vita penosa le impedisce di godere quella piacevole, tanto che la vita naturale è come morte, perché la priva di quella spirituale, ove risiedono tutto il suo essere e la sua vita per natura, come pure tutte le sue opere e i suoi affetti per amore.

Per far meglio capire la durezza di questa vita fragile, subito aggiunge:

se ti fanno morir

le frecce che subisci.

 

4. È come se affermasse: oltre a quanto detto, come puoi permanere nel corpo, se per toglierti la vita bastano da soli i tocchi d'amore - che qui sono chiamati frecce - con cui l’Amato colpisce il tuo cuore? Tali tocchi fecondano talmente l'anima e il cuore di amorosa intelligenza di Dio, da poter ben dire che essa concepisce di Dio, come dichiara nel verso successivo:

da ciò che dell’Amato concepisci.

 

5. Cioè quello che riesci a comprendere riguardo alla sua grandezza, bellezza, sapienza, grazia e virtù.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 9 (CA 9)

 

1. Come il cervo[65] che, intossicato da erbe velenose, non trova riposo né si acquieta, ma corre qua e là in cerca di rimedio, ora immergendosi in un ruscello ora in un altro, e, nonostante tutti gli sforzi e i rimedi che prova, sente aggravarsi l'effetto del veleno finché s'impossessa del suo cuore e lo uccide, così l’anima ferita dall’erba dell’amore - qual è questa di cui sto parlando - non smette di cercare rimedi al suo dolore, e non solo non li trova ma, anzi, tutto ciò che pensa, dice e fa le procura ancora più dolore. E quando si accorge di non aver altro rimedio che andare a mettersi nelle mani di colui che l'ha ferita - affinché, togliendola dalla sua sofferenza, finisca davvero di ucciderla con la forza dell’amore - si rivolge allo Sposo,[66] causa di tutto questo, e [gli] dice la seguente strofa:

Perché avendo questo cuor

piagato, poi non l’hai sanato?

E avendolo rubato,

perché me l’hai lasciato

e non cogli la preda che hai rubato?

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. In questa strofa l'anima riprende a parlare con l'Amato,[67] continuando a lamentarsi della sua sofferenza, perché l'amore impaziente, quale l'anima dimostra d’avere, non tollera indugio né concede tregua alla sua pena, manifestando in tutti i modi le sue ansie fino a trovarne il rimedio.

Vedendosi ferita e sola, senza che alcuno l'aiuti e senz'altra medicina se non il suo Amato, proprio colui che l’ha ferita, gli chiede perché, avendole piagato il cuore con l'amore della sua conoscenza, non l'abbia poi sanato con la sua presenza visibile; e inoltre, avendole rubato il cuore con l'amore con cui l’ha fatto innamorare, sottraendolo al suo stesso potere, perché mai gliel’abbia lasciato così, cioè non più suo - chi ama, infatti, non è più padrone del suo cuore perché lo ha dato all’Amato -, e non l'abbia posto davvero nel proprio cuore, appropriandosene con totale e definitiva trasformazione amorosa[68] nella gloria. Perciò esclama:

Perché avendo questo cuor

piagato, poi non l’hai sanato?

 

3. L'anima non si lamenta perché l'Amato l'ha piagata - dal momento che l'innamorato quanto più è ferito d'amore, tanto più è contento - ma perché, dopo averle ferito il cuore, non l’ha guarito finendo di ucciderla. Le ferite d'amore, in realtà, sono tanto dolci e piacevoli che, se non fanno morire, non la possono appagare; e le sono tanto soavi che vorrebbe la ferissero profondamente fino a ucciderla.

Per questo dice: Perché avendo questo cuor / piagato, poi non l'hai sanato? come a dire: perché, dopo averlo ferito fino a piagarlo, non lo guarisci finendo di ucciderlo d'amore? poiché sei stato la causa della dolorosa piaga d’amore, sii anche la causa della salvezza nella morte per amore. In questo modo il cuore, ferito dal dolore della tua assenza, guarirà per il piacere e la gloria della tua dolce presenza. E aggiunge:

E avendolo rubato,

perché me l'hai lasciato?

 

4. Rubare non è altro che sottrarre al padrone ciò che è suo e impossessarsene come un ladro. Questo è il lamento che l'anima rivolge all’Amato: se egli le ha rubato il cuore per amore e lo ha sottratto al suo stesso potere e possesso, perché gliel'ha lasciato in quello stato, senza appropriarsene davvero prendendoselo, come fa il ladro con la refurtiva rubata, che di fatto porta via con se?

 

5. Di un innamorato, infatti, si dice che ha il cuore rubato o rapito da colui che ama, perché l'ha come fuori di se, riposto nella persona amata; quindi il suo cuore non è più suo, ma di colui che ama.

Da ciò l'anima potrà riconoscere chiaramente se ama davvero Dio oppure no: se lo ama, il suo cuore non è più suo e non pensa al proprio piacere o interesse, ma solo all’onore e alla gloria di Dio e a come compiacerlo; quanto più riserva il cuore per se, tanto meno lo possiede per Dio.

 

6. Che il suo cuore sia stato davvero rubato da Dio si evince da queste due cose: se l’anima prova dentro di sé ansie per Dio e se non gode al di fuori di lui, come manifesta in questa strofa. Questo perché il cuore non può stare in pace e tranquillo senza qualche possesso, e quando vi è profondamente affezionato, non possiede più sé né altra cosa. Ma se non possiede totalmente nemmeno ciò che ama, allora il suo tormento è grande, quanto la sua mancanza. Finché non lo possiede e si appaga, l'anima è come un vaso vuoto che attende di essere riempito, è come l'affamato che desidera il cibo, come l'infermo che geme per la salute o come colui che è sospeso a mezz'aria e non ha dove appoggiarsi. Così è il cuore profondamente innamorato. L’anima che sa tutto questo per esperienza, dice: perché me f hai lasciato così, cioè vuoto, affamato, solo, ferito e dolente d'amore, sospeso in aria?[69]

E non cogli la preda che hai rubato?

 

7. Vale a dire: perché non prendi il cuore che hai rubato con l'amore, per colmarlo, saziarlo, accompagnarlo e sanarlo dandogli sostegno e riposo pieno in te?

L'anima innamorata, per quanto possa conformarsi all’Amato, non può fare a meno di desiderare la paga e il salario del suo amore. È per questa ricompensa che serve l’Amato, altrimenti il suo non sarebbe vero amore, perché il salario e la paga dell’amore non è altro né l’anima può volere null'altro che un amore sempre più grande, fino ad arrivare alla perfezione stessa dell’amore. L'amore, infatti, si appaga solo con l'amore, come dà a intendere il profeta Giobbe quando, provando la stessa ansia e lo stesso desiderio che prova qui l’anima, dice: Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di dolore mi sono state assegnate. Se mi corico dico: «Quando mi alzerò?». E poi di nuovo dovrò aspettare la sera, pieno di affanni fino alla notte (Gb 7,2-4 Volg.).

Allo stesso modo, l'anima, accesa d'amore per Dio, desidera il compimento e la perfezione dell’amore per trovarvi pieno refrigerio. Come lo schiavo fiaccato dalla calura desidera il refrigerio dell’ombra e come il mercenario aspetta il termine del suo lavoro, così l’anima aspetta il termine del suo. Notiamo che il profeta Giobbe non dice che il mercenario aspetta la fine del suo lavoro, ma il suo salario, per far comprendere ciò che sto dicendo, che cioè l'anima innamorata non aspetta la fine del suo lavoro, ma la sua ricompensa, lo scopo del suo operare. Difatti la sua opera è amare, e di questo lavoro - l’amore - attende il fine e il coronamento, cioè la perfezione e il compimento dell’amore per Dio. Finché non raggiunge questo scopo, si comporta secondo la descrizione di Giobbe nel passo riportato sopra, ritenendo vuoti i giorni e i mesi, e contando le notti dolorose e interminabili. Da quanto detto si capisce come l'anima innamorata di Dio non deve pretendere né sperare altra ricompensa per i suoi servizi che la perfezione nell’amare Dio.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 10 (CA 10)

 

1. Quando l'anima giunge a quest'alto grado d'amore, somiglia a un malato molto affaticato che, avendo perso il gusto e l'appetito, rifiuta tutti i cibi e tutto lo disturba e lo infastidisce. Al di sopra di ogni cosa che gli si presenta al pensiero o allo sguardo, ha un solo appetito e un unico desiderio, quello della sua salute, e tutto ciò che ad essa non si riferisce gli risulta molesto e pesante. Così quest'anima, essendosi ammalata d'amore per Dio, mostra tre caratteristiche.[70] Qualsiasi cosa le si presenti o faccia, ha sempre presente la preoccupazione della sua salvezza, che è il suo Amato; e sebbene non possa fare a meno di occuparsi di queste cose, il suo cuore rimane sempre fisso in lui. Di qui deriva la seconda caratteristica, che è quella d'aver perso il gusto per tutte le cose. E anche la terza, per cui tutto le risulta fastidioso e qualsiasi conversazione pesante e noiosa.

 

2. Possiamo quindi trovare la ragione di tutto questo nel fatto che il palato della volontà dell’anima ha toccato e assaporato il cibo dell’amore  di Dio, quindi di fronte a ogni cosa o persona che le si presenta, immediatamente si volge a cercare e godere solo del suo Amato, senza badare ad altro piacere o senso di rispetto, come fece Maria Maddalena quando, con amore ardente, lo andava cercando nel giardino. Pensando che fosse l'ortolano, senza riflettere minimamente gli disse: Se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo (Gv 20,15). poiché l'anima ha questa grande ansia di trovarlo in tutte le cose - ma non lo trova subito come desidera, anzi al contrario! -, non solo non le gusta, ma le sono anche di tormento, a volte molto grande. Simili anime soffrono molto dovendo trattare con le persone o sbrigare altre faccende, perché le ostacolano invece di aiutarle nella loro ricerca.

 

3. La sposa del Cantico fa ben comprendere che possedeva queste tre caratteristiche quando cercava lo Sposo, dicendo: L’ho cercato ma non l’ho trovato… Mi hanno trovata le guardie che perlustrano la città; mi hanno percossa, mi hanno ferita mi han tolto il mantello le guardie delle mura (Ct 5,67). Coloro che circondano la città sono le conversazioni mondane; quando incontrano l'anima che cerca Dio, le procurano molte piaghe, pene, dolori e disgusti, perché essa non solo non vi trova quanto vuole, ma le sono anche di ostacolo. Coloro che difendono le mura della contemplazione, perché l'anima non vi entri, e cioè i demoni e gli affari del mondo, le tolgono il mantello della pace e la quiete della contemplazione amorosa. Da tutto questo l’anima innamorata di Dio riceve mille contrarietà e fastidi; e così, riconoscendo che non può liberarsi né poco né punto da questi fastidi, finché rimane in questa vita senza vedere il suo Dio, continua a supplicare il suo Amato con la seguente strofa:

 

Estingui i miei affanni,

che nessuno vale ad annientarli

ti vedan i miei occhi,

perché ne sei la luce,

per te solo desidero serbarli!

 

 

SPIEGAZIONE

 

4. L'anima prosegue in questa strofa chiedendo all’Amato di voler finalmente porre termine alle sue ansie e alle sue pene. Non vi è nessuno, infatti, all’infuori di lui, in grado di farlo, e allora faccia in modo che gli occhi dell’anima possano vederlo, perché solo lui è la luce a cui essi guardano e non vuole fissarli su nient’altro che non sia lui. Gli dice dunque:

Estingui i miei affanni!

 

5. Come si è detto, la concupiscenza d'amore possiede questa proprietà: tutto quello che non si accorda, a fatti e a parole, con ciò che la volontà ama, la stanca, l’annoia e la disturba, lasciandola disgustata, perché non vede realizzarsi ciò che desidera. Qui chiama affanni tutto questo e le fatiche che affronta per vedere Dio, e nulla può annientarli se non il possesso dell’Amato. Per questo gli chiede di eliminarli con la sua presenza, dando il suo refrigerio, come fa l'acqua fresca a chi è spossato dal caldo. Usa per l'appunto il termine estinguere, per far capire che essa sta soffrendo a causa di questo fuoco d’amore.

Che nessuno vale ad annientarli.

 

6. Per meglio commuovere e convincere l’Amato a esaudire le sue richieste, l’anima invita lui a estinguere le sue pene, perché nessun altro è in grado di soddisfare quanto lei chiede. Notiamo qui che Dio è ben di sposto a consolare l'anima e a soddisfare i suoi bisogni e le sue sofferenze, quando lei non ha né pretende altra soddisfazione o conforto al di fuori di lui. Così l'anima che non ha nulla che la trattenga all’infuori di Dio, non può rimanere a lungo senza la visita dell’Amato.

Ti vedan i miei occhi.

 

7. Cioè fa' che ti possa vedere faccia a faccia (1Cor 13,12), con gli occhi della mia anima,

perché ne sei la luce.

 

8. Dio oltre a essere luce soprannaturale degli occhi dell’anima, senza la quale essa è nelle tenebre, è affettuosamente chiamato dall’anima luce dei suoi occhi, come l'innamorato suole chiamare la persona amata «luce degli occhi miei» per mostrare l'affetto che le porta. Nei due versi citati sopra è come se dicesse: poiché gli occhi della mia anima non hanno altra luce, né per natura né per amore, se non tè, ti vedan i miei occhi, perché in ogni modo ne sei la luce. Davide sentiva la mancanza di questa luce quando, desolato, esclamava: Si spegne la luce dei miei occhi! (Sal 37[38],11); e Tobia quando diceva: Che gioia posso ancora avere? Sono un uomo cieco; non vedo la luce del cielo (Tb 5,10). Con tale espressione manifestava il desiderio della chiara visione di Dio, perché la luce del cielo è il Figlio di Dio, come afferma san Giovanni: La città non ha bisogno della luce del sole né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello (Ap 21,23).

Per te solo desidero serbarli!

 

9. Con tale espressione l'anima vuole obbligare lo Sposo a lasciarle vedere questa luce dei suoi occhi, non solo perché non avendone un'altra rimarrebbe nelle tenebre, ma anche perché vuole conservarli solo per lui. Come viene giustamente privata di questa luce divina l'anima che vuole posare gli occhi su qualcosa al di fuori di Dio, in quanto vi occupa la vista che deve ricevere la luce di Dio, così altrettanto convenientemente merita di riceverla l’anima che chiude i suoi occhi a tutte le cose per aprirli solo al suo Dio.[71]

 

 

Annotazione per la strofa seguente[72]

 

STROFA 11

 

1. È opportuno ricordare che l’amoroso Sposo delle anime non può vederle soffrire a lungo in solitudine, come avviene a questa di cui sto parlando. Dice infatti, per mezzo di Zaccaria, che le loro pene e lamentazioni toccano le pupille dei suoi occhi (Zc 2,8), soprattutto quando le sofferenze delle anime avvengono per amor suo, come nel caso di quest’anima. Anche per bocca d'Isaia dice: Prima che mi invochino, io risponderò; mentre ancora stanno parlando, io già li avrò ascoltati (Is 65,24). E il Saggio dice: Se lo cercherai come l'argento... lo troverai (Pro 2,4.5).

Così a quest’anima innamorata, che lo cerca con più avidità che il denaro perché ha lasciato ogni cosa e se stessa per lui, sembra che di fronte a queste preghiere così ardenti Dio le abbia concesso una sua qualche presenza spirituale, nella quale le ha mostrato alcuni profondi barlumi della sua divinità e bellezza. Con ciò le ha accresciuto ancora di più il desiderio di vederlo e il fervore.

Infatti, come si suole gettare un po' d'acqua nella fornace perché il fuoco avvampi di più, così il Signore si comporta con alcune di queste anime infiammate d'amore. Manifesta loro qualche segno della sua divinità per infervorarle di più e per disporle meglio a ricevere le grazie che vuole fare loro in seguito.

L’anima pertanto, avendo visto e sentito in quella presenza oscura il sommo Bene e la bellezza ivi nascosti, morendo dal desiderio di vederli, dice la seguente strofa:

 

Scopri a me il tuo divin viso,

tua vista mi uccida, tua bellezza;

tu sai che sofferenza

d'amore non si cura

se non con la presenza e la figura!

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. L'anima, desiderando ormai essere posseduta da questo grande Dio, dal cui amore si sente rapito e piagato il cuore, non potendo più sopportare l’attesa, in questa strofa chiede con determinazione di svelarle e mostrarle la sua bellezza, che è la sua essenza divina, e di farla morire a tale visione, staccandola dalla carne, perché in essa non può vederlo e goderlo come desidera. Gli sottopone altresì la sofferenza profonda del suo cuore, in cui è immersa per amor suo, senza trovare rimedio se non nella visione gloriosa della sua divina essenza.

Si commenta il verso:

Scopri a me il tuo divin viso.

 

3. Per spiegare questa espressione, dobbiamo ricordare che vi possono essere tre forme di presenza di Dio nell’anima.[73]

La prima è la presenza essenziale, e si verifica non solo nelle anime più buone e sante, ma anche in quelle cattive e peccatrici e in tutte le altre creature. Con questa presenza Dio conferisce loro la vita e l'essere, e se questa presenza venisse a mancare, tutte ritornerebbero nel nulla cessando di esistere. Questa presenza non manca mai nell’anima

La seconda è la presenza per grazia, con la quale Dio dimora nell’anima contento e soddisfatto di essa. Non tutti hanno questa presenza, perché coloro che cadono nel peccato la perdono. L'anima non può sapere, per via naturale, di possederla.

La terza è la presenza di affetto spirituale; in molte anime devote Dio può essere presente in diversi modi, confortandole, ricreandole e rallegrandole.

Ma tutte queste presenze spirituali, come le altre, sono nascoste, perché Dio non si mostra in esse così com’è: la nostra condizione mortale non lo sopporterebbe. Così a ognuna di queste presenze si può riferire il verso riportato: scopri a me il tuo divin viso.

 

4. Poi che è certo che Dio è sempre presente nell’anima, almeno nel primo modo, l'anima non chiede che le si faccia presente, ma che questa sua presenza nascosta, sia essa naturale o spirituale o affettiva, si sveli e manifesti in modo che possa vederlo nella sua essenza e bellezza divina. Come con la sua presenza essenziale Dio conferisce l'essere naturale all’anima e con la sua presenza di grazia la perfeziona, così anche la glorifichi con la sua gloria manifesta.

Ma poiché l'anima arde di fervente passione d'amore per Dio, dobbiamo intendere questa presenza, che qui chiede all’Amato di rivelarle, soprattutto come una certa presenza affettiva che l’Amato concede qualche volta all’anima. Questa presenza è così sublime, che all’anima pare di sentire che in lei sta nascosto un essere immenso, della cui divina bellezza le sono comunicati alcuni riflessi chiaroscuri. Questi producono nell’anima  un effetto tale da farle bramare fino allo struggimento ciò che sente velato in quella presenza. Qualcosa di simile sentiva Davide quando esclamava: L'anima mia languisce e brama gli atri del Signore (Sal 83 [84],3).

In tali momenti, infatti, l'anima viene meno per il desiderio d'immergersi in quel sommo Bene che sente presente e nascosto; anche se nascosto, ne avverte molto profondamente il bene e il piacere presenti in esso. Per questo l'anima è attratta e rapita da questo bene più di quanto qualsiasi altra cosa lo sia dal proprio centro.[74] Con questo desiderio, avido e sviscerato, non potendosi più contenere l’anima esclama: Scopri a me il tuo divin viso!

 

5. Lo stesso accadde a Mosè sul monte Sinai. Mentre stava alla presenza di Dio, vide barlumi talmente alti e profondi della sublime bellezza della Divinità nascosta che, non riuscendo a contenersi, due volte pregò il Signore di manifestargli la sua gloria con le seguenti parole: Tu mi hai detto: «Ti ho conosciuto per nome, anzi hai trovato grazia ai miei occhi». Ora, se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi: indicami la tua via, così che io ti conosca e trovi grazia ai tuoi occhi (Es 33,12-13). Questo significa giungere al perfetto amore della gloria di Dio. Il Signore gli rispose: Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo (Es 33,20). Il che vuol dire: mi chiedi una cosa difficile, Mosè, perché è tanta la bellezza del mio volto e il piacere della vista del mio essere, che la tua anima non potrebbe sopportarli in questa vita così fragile.

L'anima è consapevole di questa verità, sia per le parole che Dio ha rivolto a Mosè, sia per quello che, ripeto, avverte nascosto nella presenza di Dio, cioè che non potrà vederlo in tutta la sua bellezza in questa vita dal momento che al solo suo trasparire si sente venir meno. L’anima stessa, allora, previene la risposta che le si potrebbe dare come a Mosè, ed esclama:

tua vista mi uccida, tua bellezza.

 

6. È come se dicesse: è così grande il piacere d'ammirare il tuo essere e la tua bellezza[75] che la mia anima non la può sopportare; ma se, vedendola, devo morire, allora mi uccida la vista della tua bellezza.

 

7. È noto che due viste o visioni uccidono l'uomo, perché incapace di sopportarne la forza e l’efficacia. Una è quella del basilisco che, a quanto dicono, uccide all’istante; l’altra è la visione di Dio. I motivi tuttavia sono molto diversi, perché la prima uccide per il potente veleno, la seconda per la salvezza immensa e l'intenso splendore.

Non bisogna, quindi, meravigliarsi se l'anima vuole morire alla vista della bellezza di Dio onde goderla per sempre. Se l’anima soltanto avesse il presentimento della sublime bellezza di Dio, non desidererebbe una sola morte per vederla per sempre, come si esprime qui, ma affronterebbe mille dolorosissime morti in grande allegria per vederla un solo istante e, dopo averla vista, chiederebbe di soffrirne altrettante per vederla un altro attimo.

 

8. Per spiegare meglio questo verso, occorre sapere che l'anima qui parla in modo condizionato quando si augura che la uccida la sua vista e la sua bellezza, supponendo di non poterla vedere senza morire; se questo potesse accadere senza morire, non chiederebbe di ucciderla. Voler morire, infatti, è un'imperfezione della natura. Ma dal momento che questa vita corruttibile dell’uomo non può coesistere con la vita imperitura di Dio, dice, mi uccida, ecc.

 

9. San Paolo spiega questa dottrina nella seconda lettera ai Corinzi con queste parole: Quanti siamo in questo corpo, sospiriamo come sotto un peso, non volendo venirne spogliati ma sopravestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita (2Cor 5,4). Vale a dire: non desideriamo essere spogliati della carne, ma essere sopravestiti di gloria. Vedendo però che non è possibile vivere contemporaneamente nella gloria e nella carne mortale, come sostengo, rivela ai Filippesi che desidera essere sciolto dal corpo per essere con Cristo (Fil 1,23).

Ma a questo punto sorge il dubbio: perché anticamente i figli d'Israele evitavano e temevano di vedere Dio per non morire, come disse Manoach a sua moglie (Gdc 13,22), mentre quest'anima alla vista di Dio desidera morire?

A ciò si risponde adducendo due ragioni. Anzitutto perché a quel tempo, anche se morivano in grazia di Dio, gli uomini non lo avrebbero visto finché non fosse venuto Cristo. Per loro quindi era molto meglio vivere nella carne, aumentando i meriti e godendo la vita naturale, che starsene nel limbo senza meritare, anzi soffrendo le tenebre e l’assenza spirituale di Dio. Per questo ritenevano allora una grande grazia e un favore di Dio vivere per molti anni.

 

10. La seconda ragione dipende dall’amore: poiché essi non erano ancora molto forti nell’amore e nemmeno molto vicini a Dio per amore, temevano di morire se l'avessero visto. Ma ora, sotto la legge della grazia, poiché l'anima, morendo il corpo, può vedere Dio, è più saggio voler vivere poco e morire per vederlo. E anche se non fosse così, quando un'anima ama Dio come l'ama, appunto, questa, non temerebbe di morire alla sua vista. L'amore vero, infatti, accetta tutto ciò che viene dall’Amato, sia le contrarietà che le prosperità, e persino i castighi se provengono da lui, con la stessa indifferenza e costanza d'animo, anzi con gioia e piacere, perché, come dice san Giovanni, l'amore perfetto scaccia il timore (1Gv 4,18).

Per l’anima che ama, fa morte non può essere amara, poiché in essa trova tutte le piacevoli dolcezze dell’amore. Non la può rattristare il pensiero della morte, perché con essa trova l'allegria; non le può essere dura e penosa, perché è la fine di tutti i suoi affanni e le sue pene come pure l’inizio di ogni suo bene. La considera amica e sposa e si rallegra al suo ricordo come del giorno del fidanzamento e delle nozze; desidera il giorno e l'ora in cui verrà la sua morte, più di quanto i re della terra desiderino i regni e i principati.

Di questo genere di morte dice il Saggio: O morte, è gradita la tua sentenza all’uomo indigente e privo di forze (Sir 41,2). Se essa è buona per l'uomo che sente bisogno delle cose di quaggiù, benché non supplisca alle sue necessità ma, anzi, lo spogli di ciò che possiede, quanto più sarà gradita la sua sentenza all’anima bisognosa d'amore, come questa che sta supplicando per avere più amore! La morte non solo non la spoglierà di ciò che ha, ma la condurrà al compimento dell’amore sospirato e alla soddisfazione di tutti i suoi bisogni. Ha quindi ragione l’anima quando osa dire senza paura: tua vista mi uccida, tua bellezza, perché sa che nell’istante stesso in cui la vedesse, sarebbe rapita dalla stessa bellezza, assorbita nella stessa bellezza e trasformata nella bellezza stessa, per essere bella come la stessa bellezza, appagata e ricca come la stessa bellezza.

Per questo Davide dice che preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suo i fedeli (Sal 115[116],15). Non sarebbe così se non partecipassero della sua stessa grandezza, perché di fronte a Dio non vi è nulla di prezioso se non ciò che egli è in se stesso. Questo è il motivo per cui l'anima non teme di morire quando ama, anzi lo desidera. li peccatore invece ha sempre paura di morire, terrorizzato che la morte gli porterà via tutti i beni e gli darà tutti i mali. La morte dei peccatori è orribile (Sal 33[34],22 Volg.) afferma Davide, e perciò, a detta del Saggio, per loro è amaro il suo ricordo (Sir 41,1): poiché amano profondamente la vita di questo mondo e poco quella dell’altro, temono molto la morte.

Al contrario, l’anima che ama Dio, vive più nell’altra vita che in questa: vive più dove ama che non dove anima,[76] quindi considera poca cosa questa vita terrena. Perciò dice: tua vista mi uccida, ecc.

Tu sai che sofferenza

d’amore non si cura

se non con la presenza e la figura!

 

11. Il motivo per cui la malattia d'amore non ha altra cura se non la presenza e la figura dell’Amato, come dice qui, è perché la sofferenza d’amore, essendo diversa dalle altre malattie, ha una medicina diversa. Nelle altre infermità, infatti, secondo una sana filosofia, si curano i contrari con i loro contrari, mentre l'amore si cura con cose conformi all’amore.

Questo perché la salvezza dell’anima è l’amore di Dio, ma quando quest'amore non è perfetto, ella non gode perfetta salute, quindi è malata. L’infermità, infatti, non è altro che mancanza di salute. Se l'anima non ha affatto amore, è morta; quando invece possiede qualche grado, anche minimo, d'amore per Dio è viva, ma molto debole e inferma per il suo poco amore. Quanto più, però, il suo amore andrà crescendo, tanta più salute godrà, e quando avrà un amore perfetto, la sua salute sarà perfetta.

 

12. Bisogna sapere che l'amore non è perfetto se non quando gli amanti diventano eguali tanto da trasformarsi l'uno nell’altro; solo allora l'amore è piena salute. E poiché qui l’anima sente di avere in sé un certo abbozzo d’amore, che è la sofferenza di cui parla, desidera adeguare perfettamente la figura all’immagine di cui è l'abbozzo, cioè al suo Sposo, il Verbo Figlio di Dio, che, come dice la Scrittura, è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza (Eb 1,3): questa è l'impronta in cui l'anima intende trasformarsi per amore, perciò dice:

tu sai che sofferenza

d’amore non si cura

se non con la presenza e la figura!

 

13. l’amore imperfetto si chiama giustamente sofferenza perché, come il malato è troppo debole per agire, così l'anima debole nell’amore lo è pure nell’esercitare le virtù eroiche.

 

14. Possiamo anche dire che colui che sente in sé la sofferenza d'amore, cioè la mancanza d'amore, ha tuttavia un po' d'amore, e secondo quanto ha, riesce a vedere quello che gli manca. Chi non prova nessuna sofferenza, è segno che non ha affatto amore oppure è ormai perfetto in esso.

 

 

Annotazioni perla strofa seguente

 

STROFA 12 (CA 11)

 

1. A questo punto l'anima si sente attratta con grande veemenza verso Dio, come la pietra che si avvicina sempre più al suo centro[77] oppure come la cera che ha cominciato a ricevere l'impronta del sigillo, ma non ancora compiutamente; così, riconoscendosi come immagine o abbozzo di prima mano, invoca colui che l'ha appena tratteggiata perché porti a compimento la figura dandole piena forma. Infatti, possedendo ora una fede talmente illuminata da farle intravedere alcuni splendidi, divini riflessi della sublimità del suo Dio, non sa fare altro che rivolgersi alla stessa fede, come a quella che racchiude e custodisce in sé l'immagine e la bellezza del suo Amato, e dalla quale riceve anche questi abbozzi e pegni d'amore. Parlando con essa, dice la seguente strofa:

 

O fonte cristallina,

se in questi tuoi riflessi inargentati

formassi all’improvviso

quegli occhi tuoi desiderati

che porto nel mio intimo abbozzati!

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. poiché l'anima desidera così ardentemente l'unione con lo Sposo e non trova mezzi né rimedio in nessuna creatura, si rivolge alla fede e le parla, come a quella che può darle più efficacemente lumi sul suo Amato, assumendola come mezzo per raggiungere questo scopo. In realtà non esiste altro mezzo per arrivare alla vera unione e allo sposalizio spirituale[78] con Dio, com'egli ci fa capire per bocca di Osea: Ti farò mia sposa nella fede (Os 2,20 Volg.). E con il desiderio di cui arde, dice alla fede ciò che la strofa significa: O fede del mio sposo Cristo, le verità sul mio Amato che hai infuso nella mia anima, nell’oscurità e nelle tenebre - perché la fede, come dicono i teologi, è un abito oscuro -, degnati di manifestarmele in tutta chiarezza! Queste verità di fede, conoscenze confuse e oscure per me - perché la [fede] è coltre e velo delle verità di Dio -, degnati di mostrarmele e scoprirmele distintamente e perfettamente, presentandomele in un istante come esse appariranno nella gloria!

Dice allora il verso:

O fonte[79] cristallina.

 

3. Chiama cristallina la fede per due motivi: anzitutto perché è di cristo suo Sposo, e poi perché ha le proprietà del cristallo, cioè pura nella verità, forte e luminosa, limpida da errori e da forme naturali.

La chiama fonte perché da essa scaturiscono per l’anima le acque di tutti i beni spirituali. Per questo Cristo nostro Signore, parlando con la samaritana, chiamò «fonte» la fede, dicendo che a chiunque avesse creduto in lui avrebbe dato dell’acqua, anzi l'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna (Gv 4,14). Quest'acqua era lo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui (Gv 7,39).

Se in questi tuoi riflessi inargentati.

 

4. Chiama riflessi inargentati le proposizioni e gli articoli che ci propone la fede. Per capire questo e gli altri versi, occorre sapere che la fede è paragonata all’argento[80] nelle proposizioni che ci insegna; quanto alle verità stesse e alla loro sostanza, sono paragonate all’oro. Questa stessa sostanza che ora crediamo, vestita e coperta con l'argento della fede, la vedremo e la godremo nell’altra vita apertamente, nell’oro puro della fede. Davide, parlando di essa, dice: Mentre voi dormite fra gli ovili splendono d'argento le ali della colomba, le sue piume di riflessi d'oro (Sal 67[68],14). Ciò vuol dire: se chiudiamo gli occhi dell’intelletto alle realtà del cielo e della terra, ciò che Davide chiama dormire in mezzo, resteremo nella fede. Questa è la colomba, le cui ali, cioè le verità che annuncia, splendono d'argento, perché in questa vita la fede ce le propone oscure e velate. Questo è il motivo per cui nel presente verso tali verità sono chiamate riflessi inargentati.

Ma quando la fede avrà termine, cioè quando sfocerà nella chiara visione di Dio, rimarrà la sostanza della fede spoglia del velo di quest’argento e avrà riflessi d'oro. La fede, quindi, ci dà e ci comunica Dio stesso, ma coperto con l’argento della fede. Nondimeno ce lo dà realmente. È come se qualcuno offrisse un vaso d'oro, ma placcato d'argento: non perché il vaso è ricoperto d'argento si può dire che egli non doni un vaso d'oro. Per questo, quando la sposa nel Cantico dei Cantici desiderava il possesso di Dio, lo Sposo glielo promise, compatibilmente con la condizione terrena, in questi termini: Farò per te pendenti d’oro, con grani d’argento (Ct 1,11). Con queste parole le promise di donarsi a lei sotto il velo della fede.

Ecco perché l'anima rivolgendosi alla fede dice: Oh, se in questi tuoi riflessi inargentati (cioè gli articoli della fede menzionati sopra) - con i quali ricopri l'oro dei raggi divini, cioè gli occhi desiderati, di cui parla subito dopo -

formassi all’improvviso

quegli occhi tuoi desiderati!

 

5. Per occhi, ripeto, s'intendono i raggi e le verità divine che ci vengono proposte negli articoli di fede in modo confuso e oscuro. L’anima sembra dunque dire: Oh, se queste verità, che mi insegni in un modo confuso, oscuro e nascosto negli articoli di fede, finissi per darmele chiaramente e completamente palesi in essi, come reclama l’ardore del mio desiderio!

Qui chiama occhi queste verità, perché le fanno sentire la presenza dell’Amato così intensamente da sembrarle di essere continuamente l’oggetto dei suoi sguardi. Per questo dice:

che porto nel mio intimo abbozzati.

 

6. L’anima dice di avere tali verità dentro di sé solo abbozzate, per mezzo dell’intelletto e della volontà,[81] per che è l'intelletto a possedere queste verità, in esso infuse dalla fede. Ma poiché non si possono conoscere perfettamente, l'anima dice che sono abbozzate. Come l'abbozzo non è pittura perfetta, così la cognizione di fede non è conoscenza perfetta. Per questo motivo, le verità infuse nell’anima dalla fede sono come abbozzate, mentre quando saranno viste con visione chiara, allora saranno nell’anima come una pittura perfetta e compiuta, come dice l’Apostolo: Cum autem venerit quod perfectum est, evacuabitur quod ex parte est, che significa: Quando verrà ciò che è perfetto, cioè la chiara visione, quello che è imperfetto scomparirà, cioè la cognizione di fede (1Cor 13,10), cioè la conoscenza della fede.

 

7. Ma nell’anima innamorata, oltre a questo abbozzo di fede, vi è un altro abbozzo, quello dell’amore, che opera attraverso la volontà. In quest'ultima, quando c'è unione d'amore, l'immagine dell’Amato viene riprodotta in maniera così viva e perfetta da poter dire in tutta verità che l’Amato vive nell’amante e l'amante nell’Amato. L’amore crea una tale somiglianza nella trasformazione degli amanti da poter dire che ciascuno di loro è l'altro e che entrambi sono uno. Questo perché nell’unione e nella trasformazione d'amore l'uno si dà in possesso all’altro, l'uno si abbandona e si scambia con l'altro; così l'uno vive nell’altro, l'uno è nell’altro ed entrambi sono uno per trasformazione d'amore.[82] Questo voleva dire san Paolo quando scriveva: Vivo autem iam non ego; vivit vero in me Christus: Vivo però non più io, ma vive in me Cristo (Gal 2,20). Dicendo vivo, ma non più io, vuol farci capire che, sebbene lui vivesse, la vita non era la sua, perché era trasformato in Cristo, e così la sua vita era più divina che umana; per questo dice che non è lui che vive, ma Cristo in lui.

 

8. In base a questa somiglianza e trasformazione, possiamo dunque dire che la sua vita e tutta la vita di Cristo erano una vita sola per unione d'amore. In cielo si realizzerà perfettamente quest'unione nella vita divina per tutti coloro che avranno meritato di vedersi in Dio. Trasformati in lui, vivranno la vita di Dio e non la propria vita, anche se sarà vita propria, perché la vita di Dio sarà la loro vita. Allora potranno dire veramente: viviamo, ma non più noi, perché Dio vive in noi. Questo stato è possibile anche in questa vita, come lo fu per san Paolo, tuttavia non è perfetto né assoluto, anche se l'anima perviene a quella trasformazione d'amore propria del matrimonio spirituale, lo stato più elevato a cui si possa giungere in questa vita. Tutto questo può essere chiamato abbozzo d'amore a confronto dell’immagine perfetta che si compie nella trasformazione della gloria.

Ma quando in questa vita si raggiunge questo abbozzo di trasformazione è una grande fortuna, perché di ciò si compiace moltissimo l’Amato, tanto da desiderare che la sposa lo metta come segnacolo nella sua anima, come le dice nel Cantico: Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio (Ct 8,6). Qui il cuore significa l'anima,[83] nella quale in questa vita Dio è presente come sigillo di abbozzo di fede, come ho ricordato sopra; e il braccio significa la volontà forte, in cui, come ho appena detto, si trova come sigillo d'amore.

 

9. In simili frangenti lo stato dell’anima è tale che, sia pur brevemente, voglio dirne qualcosa,[84] anche se è impossibile spiegarlo a parole. L’anima ha l'impressione che la sua sostanza corporea e spirituale s'inaridisca per la sete di questa fonte viva di Dio, perché la sua sete è simile a quella di Davide quando diceva: Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente; quando verrò e vedrò il volto di Dio? (Sal 41[42],2-3). Questa sete tormenta così tanto l'anima che non esiterebbe a irrompere in mezzo ai filistei, come fecero i prodi di Davide, per riempire d'acqua il suo recipiente nella Cisterna di Betlemme (1Cr 11,18), che è figura di Cristo. Non esiterebbe ad affrontare tutte le difficoltà del mondo, le furie dei demoni e le pene dell’inferno per immergersi in questa fonte abissale d'amore. A questo proposito si dice nel Cantico: Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione (Ct 8,6).

È incredibile quanto veemente sia la brama e la sofferenza che l'anima prova quando si vede vicina a gustare quel bene, e non le è concesso! Quanto più vede vicino e a portata di mano ciò che desidera e le viene negato, tanto maggiori sono la sua pena e il suo tormento. È in questo senso spirituale che Giobbe afferma: Al posto del cibo entra il mio gemito, e i miei ruggiti sgorgano come acqua (Gb 3,24), intendendo per brama del cibo Dio, perché proporzionata alla brama del cibo e alla conoscenza di lui è la sofferenza che si prova.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 13 (CA 12)

 

1. In queste circostanze l'anima soffre tanto per Dio perché si sta unendo di più a lui e quindi sente maggiormente la privazione di Dio e tenebre densissime nel suo intimo. Oltre a questo avverte dentro di sé come un fuoco spirituale che la prosciuga e purifica, affinché, mondata, possa unirsi a Dio. Fin quando non le comunica qualche raggio della sua luce soprannaturale, Dio le appare come tenebra insopportabile, quantunque le sia vicino nello spirito, perché la luce soprannaturale con la sua sovrabbondanza oscura quella naturale. Davide ci permette di capire tutto questo quando dice: Nubi e tenebre lo avvolgono... davanti a lui cammina il fuoco (Sal 96[97],23). In un altro salmo precisa a tale riguardo: Si avvolgeva di tenebre come di velo, acque oscure e dense nubi lo coprivano; davanti al suo splendore si dissipavano le nubi con grandine e carboni ardenti (Sal 17[18],12-14). Questo vale per l'anima che si va avvicinando a Dio: quanto più si avvicina a lui, tanto più prova dentro di sé tutto quello che ho espresso, finché Dio la introduce nei suoi divini splendori per trasformazione d'amore. E intanto essa, come Giobbe, continua a dire: Oh, potessi sapere dove trovarlo, potessi arrivare fino al suo trono! (Gb 23,3). Tuttavia Dio, nella sua immensa pietà, concede consolazioni e doni pari alle tenebre e allo smarrimento dell’anima, perché sicut tenebrae eius, ita et lumen eius: Il buio e la luce sono la stessa cosa per lui (Sal 138[139],12). Difatti, nel momento in cui Dio esalta e glorifica le anime, le umilia e le deprime. Per questi motivi invia all’anima, in mezzo agli affanni, alcuni suoi raggi divini con tale gloria e forza d'amore da commuoverla tutta, sconvolgendo la sua natura. E così, con grande timore e naturale apprensione, l'anima rivolge all’Amato i primi versi della strofa[85] seguente; l’Amato stesso poi le risponde con gli altri versi:

Distoglili Amato,

che a volo io vado!

 

Lo Sposo

 

Colomba mia, ritorna,

ché il tuo cervo ferito

spunta di sull’altura,

e al soffio di tuo vol gode frescura!

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. Quando l'anima è animata dai grandi desideri e slanci d'amore espressi nelle strofe precedenti, l’Amato è solito visitare la sua sposa in modo elevato, delicatamente e affettuosamente, comunicandole la forza del suo amore. Abitualmente, infatti, questi slanci e ansie d'amore sono seguiti da grazie e visite straordinarie che Dio concede all’anima. Ora, poiché l'anima ha manifestato un vivo desiderio di vedere gli occhi divini, come ha appena detto nella strofa precedente, l’Amato le mostra qualche raggio della sua grandezza e divinità, come essa desiderava. Sono raggi talmente elevati e comunicati con tale intensità da farla uscire fuori di sé in rapimento ed estasi d'amore. Questo fenomeno, all’inizio, provoca nell’anima una grande sofferenza e un terribile spavento per la sua natura. Così, debole com'è, non potendo sopportare tale eccesso, esclama:

Distoglili Amato!

Cioè allontana questi tuoi occhi divini, perché mi fanno volare fuori di me verso la somma contemplazione, insopportabile da parte della natura. La sposa si esprime così perché la sua anima sembra staccarsi dalla carne, come essa desiderava. Ora lo prega di distogliere gli occhi, cioè di smettere di comunicare quei raggi divini nella carne, nella quale non li può sopportare né godere come vorrebbe; gli chiede, invece, di mostrarglieli quando con il suo volo andrà fuori della carne. Ma lo Sposo le impedisce subito quel desiderio di volo, dicendole: Colomba mia, ritorna, perché la comunicazione che ora ricevi da me, sebbene non appartenga a quello stato di gloria al quale tu aspiri, tuttavia ti fa voltare verso di me. Sono io quello che tu, ferita d'amore, stai cercando; anch'io, ferito d'amore come il cervo, comincio a mostrarmi a te nella tua sublime contemplazione, perché è una gioia e un sollievo per me quest'amore che mi mostri nella tua contemplazione. L’anima dice, dunque, allo Sposo: Distoglili, Amato!

 

3. Come ho detto,[86] conformemente ai grandi desideri che l'anima aveva di questi occhi divini, che significano la Divinità, ha ricevuto interiormente dall’Amato una comunicazione e una conoscenza di Dio talmente sublime da farle esclamare: Distoglili Amato!

La miseria della natura in questa vita è tale che, quando le viene concesso ciò che è essenzialmente vitale per l'anima e che essa tanto desidera, cioè la comunicazione e la conoscenza del suo Amato, non può accoglierlo senza che le costi quasi la vita. Così, di quegli occhi che con tanta sollecitudine, tanta ansietà e in tanti modi cercava, nel momento in cui sta per contemplarli, arriva a dire: Distoglili: Amato!

 

4. A volte, infatti, è talmente grande il tormento che si prova in simili visite e rapimenti, che non v'è alcun altro tormento che allo stesso modo sloghi le ossa e metta alle strette la natura. Se Dio non provvedesse, l'anima perderebbe anche la vita. E in verità così pare all’anima in questo stato, perché si sente come staccare dalla carne e abbandonare il corpo. Il motivo di tutto ciò sta nel fatto che simili grazie non possono essere sopportate a lungo nella carne, perché lo spirito viene elevato per unirsi con lo Spirito divino che si dà all’anima e quindi necessariamente deve in qualche modo abbandonare la carne. Di conseguenza la carne deve soffrire, quindi l'anima deve soffrire nel suo corpo, a causa della loro unione nello stesso individuo. Il grande tormento che l'anima prova in occasione di queste visite e la grande paura che l’afferra vedendosi trattata in maniera soprannaturale le fanno dire: Distoglili, Amato!

 

5. Ma se l'anima chiede all’Amato che distolga lo sguardo da lei, non per questo vorrebbe che lo distogliesse davvero: la sua è un'espressione d'istintivo timore, come ho detto prima. Anzi, malgrado tutto ciò che potrebbe costarle, non vorrebbe perdere queste visite e questi favori dell’Amato. Sebbene la natura ne soffra, il suo spirito prende il volo in un raccoglimento soprannaturale ove gode dello Spirito dell’Amato, che è quanto essa desiderava e chiedeva. L’anima, però, non chiede di ricevere questi favori fintanto che abita in una carne fragile, dove non è possibile goderne se non imperfettamente e con sofferenza, ma chiede di riceverli laddove il suo spirito, avendo spiccato il volo fuori del corpo, potrà goderne liberamente. Per questo dice: Distoglili, Amato! cioè non me li comunicare nel corpo,

che a volo io vado!

 

6. Sembra dire: a volo fuggo dalla carne, affinché me li comunichi fuori di essa, essendo i tuoi occhi la causa che mi fa volare fuori del corpo.

Per meglio comprendere cosa sia questo volo,[87] si consideri che, come ho detto, in questa visita dello Spirito divino, lo spirito umano viene elevato con veemenza per comunicare con lo Spirito, abbandona il corpo e cessa di sentire e di agire in esso, perché agisce solo in Dio. San Paolo dice che durante il rapimento non sapeva se la sua anima stesse ricevendo da Dio nel corpo o fuori del corpo (2Cor 12,2).

Con questo non si vuol dire che l'anima abbandoni il suo corpo e gli tolga la vita naturale, ma semplicemente che cessa di agire in lui. Per questo, tali rapimenti e voli privano il corpo dei suoi sensi, come pure gli impediscono di sperimentare grandi sofferenze. Questo stato non è come certe sofferenze o svenimenti naturali, nei quali il dolore fa riprendere i sensi.

Provano queste sensazioni durante tali visite divine quelli che non sono ancora giunti allo stato di perfezione, ma si trovano nello stato dei proficienti. Coloro invece che sono già arrivati allo stato di perfezione, ricevono le comunicazioni divine nella pace e nella serenità dell’amore sereno. Non hanno più queste estasi, il cui scopo era preparare l'anima all’unione totale con Dio.

 

7. A questo punto sarebbe opportuno trattare dei diversi rapimenti ed estasi e di altre elevazioni e sottili voli dello spirito che avvengono ordinariamente alle persone spirituali. Ma poiché mio intento è solo quello di spiegare brevemente queste strofe, come ho promesso nel Prologo, lascio questa trattazione a chi sappia farlo meglio di me, e anche perché fa beata Teresa di Gesù, nostra madre, ha già scritto pagine stupende su queste esperienze dello spirito; spero in Dio che vengano pubblicate presto.[88]

Quello che l'anima qui chiama volo, è il rapimento estatico dello spirito in Dio. Ecco perché l'Amato le dice immediatamente:

Colomba mia, ritorna!

 

8. L'anima si sarebbe separata molto volentieri dal corpo in quel volo spirituale, pensando ormai che la sua vita stesse finendo, e così avrebbe potuto godere per sempre del suo Sposo in una contemplazione faccia a faccia. Ma lo Sposo l'ha fermata dicendole: Colomba mia, ritorna![89]

Come se dicesse: colomba, nel volo alto e leggero della tua contemplazione, nell’amore che ti consuma e nella semplicità che ti è propria - sono queste le [tre] proprietà della colomba -, ritorna da questo sublime volo con cui vorresti possedermi per davvero, perché non è ancora giunto il momento di conoscermi in questo modo sublime. Contèntati della conoscenza inferiore che ora ti comunico in questo tuo rapimento,

ché il tuo cervo ferito...

 

9. Lo Sposo si paragona al cervo:[90] qui, infatti, per cervo intende se stesso. Si sa che è tipico del cervo[91] salire su luoghi alti e, quand'è ferito, in tutta fretta correre a cercare refrigerio in acque fresche. Se sente la compagna lamentarsi e si accorge che è ferita, le va subito vicino, l'accarezza e la conforta. Così fa ora lo Sposo: vedendo la sposa ferita dal suo amore, sentendone il gemito, viene ferito dal gemito d'amore di lei. Fra gli innamorati, infatti, la ferita di uno è la ferita d'entrambi e ciò che prova l'uno lo prova anche l'altro. Per questo è come se dicesse: ritorna a me, mia sposa, perché se tu sei ferita d'amore per me, anch'io, come il cervo, ferito d'amore dalla tua stessa piaga, vengo a te affacciandomi dalle alture. Ecco perché dice:

spunta di sull’altura.

 

10. Cioè dall’altura della contemplazione che tu raggiungi in questo volo. La contemplazione, infatti, è un luogo elevato da cui Dio, in questa vita, comincia a comunicarsi e a mostrarsi all’anima, ma non completamente. Per questo non dice che si mostra totalmente, ma che spunta, cioè si affaccia. Per quanto sublimi siano le conoscenze da Dio offerte all’anima in questa vita, sono tutte anticipazioni molto imperfette. Segue la terza caratteristica del cervo, già menzionata, contenuta nel verso seguente:

e al soffio di tuo vol gode frescura.

 

11. Per volo dell’anima s'intende la contemplazione che essa gode nell'estasi della quale ho parlato, e per soffio lo spirito d'amore che causa nell’anima il volo della contemplazione. Molto giustamente viene designato soffio l'amore causato da questo volo, perché anche lo Spirito Santo, che è amore, nella sacra Scrittura è paragonato al soffio, in quanto spira dal Padre e dal Figlio. E come in Dio l'amore è espresso dal soffio che procede dalla contemplazione e dalla sapienza del Padre e del Figlio, per via di spirazione, così qui lo Sposo chiama soffio quest'amore dell’anima, perché procede dalla contemplazione e dalla conoscenza che in questo momento ha di Dio.

C'è da notare che in questo verso lo Sposo non dice di essere attirato dal volo della colomba, ma dal soffio di tuo vol. Dio, infatti, non si comunica propriamente all’anima attraverso il volo dell’anima, che, come si è visto, significa la conoscenza che essa ha di Dio, ma attraverso l'amore della conoscenza. Come l’amore è unione del Padre e del Figlio, così è unione dell’anima con Dio. Per cui, se un'anima avesse una conoscenza di Dio assai sublime, una contemplazione altissima, e conoscesse tutti i misteri, ma non avesse l'amore, come dice san Paolo (1Cor 13,2), tutto ciò non le servirebbe a nulla per unirsi a Dio. Lo stesso san Paolo dice ancora: Charitatem abete, quod est vinculum perfectionis, cioè: Abbiate fa carità, che è il vincolo della perfezione (Col 3,14). La carità e l'amore dell’anima, quindi, fanno correre lo Sposo a dissetarsi alla fonte d'amore della sua sposa, come le acque fresche attirano il cervo assetato e ferito in cerca di refrigerio. Per questo continua:

gode frescura.

 

12. Come l'aria offre freschezza e refrigerio a colui che è sopraffatto dal calore, così quest'aria d'amore offre refrigerio e ristoro a chi arde del fuoco d'amore. Questo fuoco, infatti, ha una tale proprietà, che l'aria che gli procura fresco e refrigerio è un fuoco d'amore più grande. In realtà, l’amore dell’innamorato è fiamma che tende ad ardere sempre più, come la fiamma del fuoco naturale. Così, per soddisfare il desiderio di ardere sempre più al fuoco d'amore della sua sposa, rappresentato dal soffio del suo volo, dice di godere del fresco del suo passaggio. È come se dicesse: il mio amore aumenta all’ardore del tuo volo, perché un amore accende un altro amore.

Da qui si può arguire che Dio pone nell’anima la sua grazia e il suo amore secondo i desideri e l’amore di quest’anima. Quindi, chi è veramente innamorato deve fare in modo che non gli manchi l'amore, perché tramite esso, ripeto, solleciterà di più il Signore, se ci si può esprimere così, a dimostrargli più amore e a riporre sempre più le sue compiacenze nella sua anima.

Per conseguire questa carità è necessario mettere in pratica le raccomandazioni dell’Apostolo: La carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non fa del male, non s’insuperbisce, non cerca il suo interesse, non si adira, non pensa male, non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità. Tutto ciò che è da soffrire soffre, tutto crede, ossia ciò che si deve credere, tutto spera e tutto sopporta, ossia tutto ciò che si addice alla carità (1Cor 13,4-7).

 

 

Annotazione per le strofe seguenti

 

STROFE 14 e 15 (CA 13-14)

 

1. poiché questa piccola colomba[92] dell’anima andava volando al soffio dell’amore sulle acque del diluvio dei suoi affanni e delle sue ansie d'amore manifestate fin qui, senza trovare dove posare il piede, ecco che all’ultimo volo, di cui si è parlato, il pietoso padre Noè stese la mano della sua misericordia, la prese e l'accolse nell’arca (Gn 8,8-9) della sua carità e del suo amore. Questo è avvenuto nel momento in cui, nella strofa precedente, le ha detto: Colomba mia, ritorna!

In quel raccoglimento l’anima, trovando tutto ciò che desidera e più di quanto si possa dire, comincia a cantare lodi al suo Amato, riferendo le grandezze che sente e gode in quest'unione con lui, nelle due strofe seguenti:

L'Amato le montagne,

le boschive valli solitarie,

le isole inesplorate,

i fiumi gorgoglianti,

il sibilo dei venti innamorati,

 

la quiete della notte

vicina allo spuntar dell’aurora,

musica silenziosa,

solitudin sonora,

cena che ristora e innamora.

 

 

AVVERTENZA

 

2. Prima di entrare nella spiegazione di queste strofe, occorre premettere, per una loro migliore comprensione, e anche di quelle che seguiranno, che per volo spirituale - di cui ho appena parlato - si indica un alto stato di unione d’amore in cui Dio suole stabilire l’anima dopo molti sforzi spirituali; viene chiamato, altresì, stato di fidanzamento spirituale con il Verbo, Figlio di Dio. La prima volta che Dio accorda all’anima questa grazia, le comunica grandi lumi sul suo essere; l'adorna di magnificenza e di maestà; l’arricchisce di doni e di virtù; le offre come vestito la conoscenza di sé e del suo onore, come avviene per una futura sposa nel giorno del suo fidanzamento.[93]

In quel giorno felice cessano per l’anima le affannose ricerche d’amore che la tormentavano prima. Essa viene altresì arricchita di tutti quei beni di cui si parla qui. Inizia per lei uno stato di pace, di delizie e d’amore pieno di dolcezza, come fa capire in queste strofe in cui non fa che raccontare e cantare le meraviglie del suo Amato, da lei conosciute e godute in lui dopo l'unione del fidanzamento.

Ecco perché nelle strofe che seguono non parla più, come prima, di sofferenze e di ansie, ma solo di scambio d'amore che nutre per l'Amato, traboccanti di pace e di soavità. Una volta elevata a questo stato, finiscono tutte le sue pene.

Ricordiamo che in queste due strofe sono descritti i favori più alti che Dio ordinariamente accorda in questo tempo a un'anima. Ma non si deve pensare che a tutte le anime elevate a questo stato vengano concessi tutti i favori di cui si parla in queste due strofe, né che allo stesso modo o nella stessa misura esse partecipino della conoscenza e dei sentimenti d'amore comunicati in tali favori. Ad alcune anime viene dato di più, ad altre meno, ad alcune in un modo e ad altre diversamente, anche se si trovano nella stessa situazione di fidanzamento spirituale. Qui, però, viene indicato tutto ciò che di più importante racchiude questo stato, in modo che tutto venga incluso in esso.

Segue la spiegazione.

 

 

SPIEGAZIONE DELLE DUE STROFE

 

3. Come nell’arca di Noè, stando a quanto narra la sacra Scrittura, c'erano molti scomparti, data la grande varietà di animali, e tutte le specie di cibo che si potevano mangiare (Gn 6,14-21), così l'anima, nel suo volo verso l’arca, cioè il petto di Dio, vede le molte dimore della casa del Padre, indicate dal Signore per bocca di san Giovanni (Gv 14,2). Non solo, ma essa vede e conosce lì tutti i diversi cibi, cioè tutte le grandezze che può gustare e che sono elencate nelle due strofe riferite sopra secondo un linguaggio comune. Sostanzialmente sono le seguenti.

 

4. In quest'unione divina l’anima vede e gusta un’abbondanza di ricchezze inestimabili; vi trova tutto il riposo e il sollievo che desidera; comprende segreti e straordinarie conoscenze di Dio, e questo è per lei uno dei cibi che assapora più di altri. Sente in Dio un tremendo potere e una terribile forza, superiori a qualsiasi altro potere o forza, e vi gusta una meravigliosa dolcezza e delizia spirituale. Qui ritrova il vero riposo e la luce divina. Gode profondamente della sapienza di Dio che risplende nell'armonia delle creature e nelle opere del Creatore. Si sente colma di beni, lontana e libera dal male e soprattutto comprende e gode l'inestimabile ristoro d'amore, che la conferma nell’amore. Questo sostanzialmente è il contenuto delle due strofe riportate sopra.

 

5. La sposa dice che il suo Amato è tutte queste cose in se stesso e per lei. Difatti, ciò che Dio suole comunicare in simili rapimenti fa conoscere all’anima la verità di quel detto di san Francesco: «Mio Dio e mio tutto!».[94] Ora, poiché Dio è tutto per l'anima e il bene di tutte le cose, spiegherò come egli si comunichi in questi trasporti straordinari, applicando per similitudine la bontà delle creature menzionate nelle suddette strofe, delle quali illustrerò verso dopo verso. Resta inteso che le perfezioni di cui parlerò sono presenti in Dio in forma infinitamente eminente o, per meglio dire, ognuna di queste grandezze di cui si parla è Dio e tutte insieme sono Dio.

Poiché l’anima in questo stato si unisce a Dio, sente che tutte le cose sono Dio, come percepì san Giovanni quando disse: Quod factum est, in ipso et vita erat, ossia: Ciò che fu fatto, in lui era vita (Gv 1,3.4). Questa sensazione dell’anima non significa, però, che essa veda le cose nella luce della gloria ovvero le creature in Dio, ma che in quel possesso sente che Dio è per lei tutte le cose. Allo stesso modo, poiché l’anima sente di Dio, in modo sublime, ciò che sto dicendo, non si deve concludere che lo veda essenzialmente e chiaramente. Si tratta solo d'una intensa e sovrabbondante conoscenza di Dio, penombra di ciò che egli è in se. L'anima sente allora la bontà racchiusa nelle creature tute, come spiegherò nei versi che seguono:

L'Amato le montagne.

 

6. Le montagne sono alte, immense, spaziose, belle, graziose, cosparse di fiori e profumate. Queste montagne per me sono il mio Amato.

Le boschive valli solitarie.

 

7. Le valli solitarie sono quiete, amene, fresche, ombrose, ricche di acque dissetanti. La varietà dei boschi e il dolce canto degli uccelli provocano grande distensione e godimento ai sensi; la solitudine e il silenzio che vi regnano offrono refrigerio e riposo. Queste valli sono per me il mio Amato.

Le isole inesplorate.

 

8. Le isole inesplorate,[95] e perciò misteriose, sono circondate dal mare e sperdute negli oceani lontani, del tutto fuori mano e distanti dalle comunicazioni degli uomini. In esse nascono e crescono cose molto diverse da quelle delle nostre regioni, con forme strane e proprietà mai viste dagli uomini: suscitano grande sorpresa e ammirazione in chi le vede. A motivo, quindi, delle profonde, meravigliose, nuove e sorprendenti conoscenze, diverse da quelle comuni, che l'anima ritrova in Dio, lo paragona alle isole inesplorate.

Inesplorata o misteriosa si dice, infatti, di una persona per due motivi: o perché è lontana, non «alla mano» delle altre persone, o perché è al di sopra di esse per l’eccellenza e la perfezione dei suoi atti e delle sue opere. Per questi due motivi qui l’anima dice che Dio è inesplorato: non solo perché è tutta la bellezza rara delle isole mai viste, ma anche perché le sue vie, i suoi consigli e le sue opere sono eccezionalmente straordinari, insoliti e ammirevoli per gli uomini.

Non stupisce che Dio sia inesplorato per gli uomini, che non l'hanno mai visto, perché lo è anche per gli angeli e per le anime che lo contemplano. Difatti gli uni e le altre non possono e non potranno mai vederlo nella sua totalità. Fino all’ultimo giorno del giudizio scopriranno in lui, nella profondità dei suoi disegni e nelle opere della sua misericordia e giustizia, tante novità, che riusciranno sempre nuove e meravigliose per loro. Ecco perché non solo gli uomini ma anche gli angeli possono chiamarlo isola inesplorata. Solo per se stesso non è inesplorato e nemmeno nuovo.

I fiumi gorgoglianti.

 

9. I fiumi hanno tre caratteristiche: anzitutto, inondano e sommergono tutto ciò che incontrano; in secondo luogo, riempiono tutte le cavità e le zone basse che trovano; infine, fanno un tale fragore da dominare e coprire qualsiasi altro rumore. Ora, poiché l’anima nella conoscenza di Dio percepisce in lui, con molta soavità, queste tre caratteristiche, dice che il suo Amato è i fiumi gorgoglianti.

Quanto alla prima proprietà, di cui l’anima gode, ricordo che essa si sente investire dal torrente dello spirito di Dio, che s'impadronisce di lei con tanta forza da sembrarle di essere sommersa da tutti i fiumi del mondo. Sente allora che tutte le azioni e le passioni in cui prima si trovava sono come annegate. Ciò nonostante, la veemenza del torrente non è causa di sofferenza, perché questi sono fiumi di pace, come Dio stesso dà a intendere nelle parole di Isaia a proposito di questa inondazione nell'anima: Ecce ego declinabo super eam quasi fluvium pacis, et quasi torrentem inundantem gloriam: Ecco io farò scorrere verso di lei come un fiume di pace, come un torrente che ridonda gloria (Is 66,12). Questa inondazione di Dio nell'anima, come fiumi gorgoglianti, la colma tutta di pace e di gloria.

La seconda proprietà, di cui l'anima gode, è che l'acqua divina in questo momento riempie i bassifondi della sua umiltà e colma i vuoti dei suoi desideri, come dice san Luca: Exaltavit humiles, esurientes implevit bonis: Ha innalzato gli umili: ha ricolmato di beni gli affamati (Lc 1,52-53).

La terza proprietà, che l’anima sente quando è sommersa da questi fiumi gorgoglianti del suo Amato, consiste in un rumore o voce spirituale che è superiore a qualsiasi altro suono o voce. La voce dell’Amato copre ogni altra voce e domina ogni altro suono del mondo. Per spiegare come avvenga questo, bisogna soffermarsi un po'.

 

10. Questa voce e questo suono rimbombante dei fiumi, di cui parla l'anima, sono una pienezza così abbondante di beni, una forza tanto vigorosa che s'impadroniscono di lei, da sembrarle non solo fragore di fiumi, ma piuttosto rombo di tuoni. Questa voce, però, è una voce spirituale, quindi non comporta rumori materiali né causa sofferenza o molestia. Indica, invece, la maestà, la forza, la potenza, la delizia e la gloria. È come una voce e un immenso suono interiore che rivestono l’anima di potenza e di forza.

Tale è la voce spirituale, tale è il suono che echeggiò nello spirito degli apostoli quando lo Spirito Santo discese su di loro come un torrente impetuoso, come si narra nel libro degli Atti. Per far comprendere la voce spirituale che faceva loro sentire interiormente, egli produsse all’esterno quel rumore come di forte vento (At 2,2), tale da essere udito da tutti quelli che si trovavano in Gerusalemme. Grazie ad esso, come dicevo, si capiva quello che gli apostoli ricevevano interiormente, cioè una pienezza di potenza e di forza.

Anche quando il Signore Gesù pregava il Padre, come riferisce san Giovanni, nell'angoscia e nella sofferenza cagionategli dai suoi nemici, udì interiormente una voce dal cielo che lo rafforzava nella sua umanità. Il rumore percepito esteriormente dai giudei era così forte e veemente che alcuni dicevano che era stato un tuono. Altri dicevano: «Gli ha parlato un angelo» (Gv 12,29) dal cielo. In realtà quella voce udita esternamente significava la forza e il potere conferiti interiormente all’umanità di Cristo. Non per questo si deve concludere che l'anima non percepisca nell'intimo il suono della voce spirituale.

Anzi si deve notare che la voce spirituale è l'effetto prodotto nell'anima, come la voce materiale percepita dall’udito indica ciò che significa allo spirito. Ciò è quanto intendeva dire Davide con le parole: Ecce dabit voci suae vocem virtutis, che significa: Ecco, tuona con voce potente (Sal 67[68],34). Questa potenza è la voce interiore. Davide dice: Tuona con voce potente, cioè: alla voce che tuona all’esterno Dio darà voce di potenza che si senta interiormente.

Dio, quindi, è potenza infinita e, quando si comunica all’anima nel modo che ho riferito, produce in essa l'effetto di una voce la cui potenza è immensa.

 

11. San Giovanni nelL’Apocalisse udì questa voce. Dice che la voce venuta dal cielo erat tamquam vocem aquarum multarum et tamquam vocem tonitrui magni: La voce che udì era come la voce di molte acque e come voce di un forte tuono (Ap 14,2). E per evitare l'impressione che una voce così forte fosse penosa perché aspra, aggiunge subito che quella voce era talmente soave che erat sicut citharoedorum citharizantium in citharis suis: la voce che udì era come quella di suonatori di arpa che si accompagnano nel canto con le loro arpe (Ap 14,2). Ezechiele, dal canto suo, dice che questo suono come di molte acque erat quasi sonum sublimis Dei, come il tuono dell’Onnipotente (Ez 1,24). Questo vuoI dire che quella voce infinita gli si comunicava in modo sublime e con infinita dolcezza. Questa voce è infinita, perché, come sto dicendo, è Dio stesso che si comunica facendosi voce nelL’anima. Ma adattando la sua potenza a ciascun’anima, si fa sentire con delizie inesprimibili e una sovrana grandezza. Per questo la sposa del Cantico dice: Sonet vox tua in auribus meis, vox enim tua dulcis: Fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave (Ct 2,14).

Si commenta il verso:

il sibilo dei venti innamorati.

 

12. In questo verso l'anima richiama l'attenzione su due cose: il sibilo e i venti. Per venti innamorati qui s'intendono le virtù e le grazie dell’AmatO, le quali, in seguito all’unione con lo Sposo, investono l'anima comunicandole un amore profondo nelle fibre recondite della sua sostanza.

Il sibilo di questi venti rappresenta l'altissima e soavissima conoscenza di Dio e delle sue virtù, che ridonda nell'intelletto, in seguito al tocco[96] che queste virtù divine suscitano nella sostanza dell’anima. Questo è il di letto più elevato fra tutti quelli che l'anima possa gustare in questo stato.

 

13. Per meglio comprendere quanto detto, si ricordi che come nel vento si sentono due cose, cioè il tocco e il sibilo o suono, così anche in questa comunicazione dello Sposo si avvertono due cose, cioè una sensazione di piacere e la conoscenza delle delizie spirituali. Come il tocco del vento è percepito dal tatto e il suo sibilo dall’udito, così anche il tocco delle virtù dell’Amato si sente e si gode nel tatto dell’anima, cioè nella sua stessa so stanza; quanto alla conoscenza delle virtù di Dio, essa è percepita dall’u dito dell’anima, cioè dall’intelletto.

Spirano veramente i venti innamorati quando accarezzano soavemente soddisfacendo il desiderio di tale refrigerio, perché il tatto prova allora pia cere e sollievo. Assieme al tatto anche l'udito riceve un senso d'intensa delizia dal suono o sibilo del vento, molto più che il tatto dal tocco del vento. Difatti il senso dell’udito è più spirituale, o meglio si avvicina di più; ciò che è spirituale, quindi il piacere che procura è più spirituale di quel lo causato dal tatto.

 

14. L’anima - poiché questo toc-co divino le procura una profonda soddisfazione, colma di delizie la sua sostanza, appaga con soavità il desiderio di pervenire all’unione divina - chiama tale unione o tocchi venti innamorati. Difatti in quest'unione le vengono comunicate, molto amorosa mente e dolcemente, le perfezioni dell’Amato, e ciò provoca nell'intelletti il soffio della comprensione.

E lo chiama sibilo, soffio, perché come il soffio causato dal vento pene tra acutamente nell'interno dell’orecchio, così questa sottilissima e delicata conoscenza penetra nell'intimo della sostanza con un diletto e una soavità straordinari, superiori a ogni altro piacere.

Il motivo sta nel fatto che viene comunicato all’anima una sostanza gi tutta compresa e libera da ogni accidente e fantasma; viene comunicata all’intelletto che i filosofi chiamano passivo o possibile, perché la riceve passivamente, senza far nulla da parte sua.

Ciò costituisce la più grande gioia per l'anima, perché avviene nell'intelletto, sede della fruizione, come dicono i teologi, che consiste nel vedere Dio, poiché questo sibilo rappresenta detta conoscenza, ricevuta nella sostanza dell’anima, alcuni teologi pensano che il nostro padre Elia abbi visto Dio nel mormorio di vento leggero sentito all’imboccatura della grotta sul monte (1Re 19,12). La Scrittura lo chiama mormorio di vento leggero perché dalla sottile e delicata comunicazione dello spirito il suo intelletto ricevette tale conoscenza. Qui l’anima lo chiama sibilo di venti innamorati perché dall’amorosa comunicazione delle virtù del suo Amato si riversa nel suo intelletto; per questo, dunque, lo chiama sibilo di venti innamorati.

 

15. Questo soffio divino che entra attraverso l'udito dell’anima, non solo è sostanza, come ho detto, tutta compresa, ma anche svelamento di verità sulla Divinità o rivelazione dei suoi segreti più reconditi. Infatti, ordinariamente, tutte le volte che nella sacra Scrittura si parla di qualche comunicazione di Dio, che passa attraverso l'udito, si tratta di manifestazione di queste verità nude all’intelletto o rivelazione di segreti di Dio; rivelazioni o visioni puramente spirituali,[97] che vengono date esclusivamente all’anima senza il concorso e l'aiuto dei sensi. Ecco perché le conoscenze che Dio comunica all’anima attraverso l'udito interiore sono molto elevate e sicure. Per questo san Paolo, volendo farci comprendere la sublimità della sua rivelazione, non disse: Vidit arcana verba, e nemmeno: Gustavit arcana verba, ma: Audivit arcana verba, quae non licet homini loqui, cioè: Udì parole segrete che non è lecito all’uomo proferire (2Cor 12,4). Da questo si può arguire che anche lui, come il nostro padre Elia,[98] abbia visto Dio nel soffio del vento.

Perché come la fede, insegna ancora san Paolo (Rm 10,17), ci giunge attraverso l'udito fisico, così pure quanto ci dice la fede, cioè la sostanza stessa della verità, ci giunge attraverso l’udito spirituale. Ce lo fa capire molto bene Giobbe, quando, parlando con Dio dopo che gli si era rivelato, dice: Auditu auris audivi te, nunc autem oculus meus videt te: lo ti avevo udito con il mio orecchio, ma ora il mio occhio ti vede (Gb 42,5 Volg.). Queste parole mostrano chiaramente che udire Dio con l'udito dell’anima significa vederlo con l'occhio dell’intelletto passivo. Per questo non dice: ti udii con le mie orecchie, ma: con il mio orecchio; e neppure ti vedo con i miei occhi, ma: con il mio occhio, che è l'intelletto. Di conseguenza, questo udire dell’anima è la stessa cosa che vedere con l'intelletto.

 

16. Il fatto che l'anima riceva questa conoscenza sostanziale spoglia di ogni accidente, non significa che essa possieda la fruizione di Dio perfetta e chiara come in cielo. Anche se spoglia di accidenti, non per questo è chiara, ma oscura, perché è una contemplazione, e la contemplazione, in questa vita, come dice san Dionigi, è raggio di tenebra.[99] Possiamo, quindi, dire che essa è un raggio o un'immagine di fruizione, in quanto è nell'intelletto, ove ha luogo la fruizione. Questa sostanza ricevuta pienamente, e che l’anima qui chiama sibilo, corrisponde agli occhi desiderati: quando l’Amato glieli fece vedere, non riuscendo a sopportarli con i suoi sensi, esclamò:

Distoglili: Amato!

 

17. Mi sembra calzi molto a proposito riportare qui un'affermazione di Giobbe, che conferma in gran parte ciò che ho detto su questo rapimento e fidanzamento.[100] Voglio citarla, anche se dovrò dilungarmi un po', spiegandone le parti che riguardano il nostro argomento. Riporterò dapprima tutto il testo in latino, poi ih lingua volgare. Fatto questo, spiegherò brevemente quanto attiene al nostro argomento. Riprenderò poi la spiegazione dei versi dell’altra strofa.

Elifaz il temanita, nel libro di Giobbe, prende la parola e dice: Porro ad me dictum est verbum absconditum et quasi furtive suscepit auris mea venas susurri eius. In horrore visionis nocturnae, quando solet sopor occupare homines, pavor tenuit me et tremor, et omnia ossa mea perterrita sunt: et cum spiritus, me presente, transiret, inhorruerunt pili carnis meae: stetit quidam, cuius non agnoscebam vultum, imago coram oculis meis, et vocem quasi aurae lenis audivi. Tradotto significa: A me fu recata, furtiva, una parola e il mio orecchio ne percepì il lieve sussurro. Nei fantasmi, tra visioni notturne, quando grava sugli uomini il sonno, terrore mi prese e spavento e tutte le ossa mi fece tremare; un vento mi passò sulla faccia e il pelo si rizzò sulla mia carne... Stava là ritto uno di cui non riconobbi l’aspetto, un fantasma stava davanti ai miei occhi... un sussurro... e una voce mi si fece sentire... (Gb 4,12-16).

In questo passo è contenuto quasi tutto ciò che ho detto finora sul rapimento, partendo dalla strofa 13 che dice: Distoglili, Amato! Qui, infatti, Elifaz il temanita dice che gli fu recata furtiva una parola; essa indica quella conoscenza nascosta, offerta all’anima. Non potendone, però, sopportare la grandezza dice: Distoglili: Amato!

 

18. Affermare che l'orecchio ne percepì il lieve sussurro equivale a dire che l'intelletto riceve la conoscenza pura e sostanziale di cui si è parlato. Lieve qui indica la sostanza interiore, mentre sussurro la comunicazione e il tocco di attributi divini con cui viene offerta all’intelletto la suddetta conoscenza. Qui la chiama sussurro, perché la comunicazione è molto soave, come altrove l'anima la chiama venti innamorati, perché s'infonde con grande amore. Dice che fu una comunicazione furtiva, perché era un segreto del tutto estraneo all’uomo, dal punto di vista naturale, e quindi ricevette qualcosa che non era della sua natura. E così non gli era lecito ricevere tale segreto, come neppure a san Paolo era lecito rivelare il suo segreto. Per questo un altro profeta ripete due volte: Il mio segreto è per me (Is 24,16 Volg.).

E quando dice: Nei fantasmi, tra visioni notturne, quando grava sugli uomini il sonno, lascia intendere il timore e il tremore che si producono naturalmente nell'anima quando riceve, nell'estasi, quella conoscenza di cui sopra, visto che la sua natura non può sopportare la comunicazione dello spirito di Dio. Qui il profeta parla del momento in cui gli uomini si apprestano a dormire e vengono di solito assaliti e spaventati da visioni che chiamano incubi e che si presentano tra il sonno e la veglia, quando sta per arrivare il sonno. Allo stesso modo, al momento di questo passaggio spirituale dal sonno dell’ignoranza alla veglia della conoscenza soprannaturale, cioè all’inizio del rapimento o dell’estasi, la visione spirituale che allora si presenta incute timore e spavento.

 

19. E aggiunge: Tutte le ossa mi fece tremare. Come se dicesse che si scossero e si staccarono dalle giunture, volendo significare il grande slogamento di ossa che si soffre in questi momenti, come ho accennato. Ne parla anche Daniele quando vide l'angelo: Domine, in visione tua dissolutae sunt compages meae: Signore mio, al vederti le mie giunture si sono slogate (Dn 10,16 Volg.).

Subito dopo Elifaz continua dicendo: Un vento mi passò sulla faccia - cioè quand'esso trasportò il mio spirito fuori dei suoi limiti e vie naturali per collocarlo nel rapimento - il pelo si rizzò sulla mia carne. In questo trasporto il corpo rimane gelido e irrigidito, come se fosse morto.

 

20. E prosegue: Stava là ritto uno di cui non riconobbi l’aspetto, un fantasma stava davanti ai miei occhi. Quello di cui parla era Dio che si comunicava nel modo suddetto. E dice che non riconobbe il suo aspetto, per far capire che in quella comunicazione e visione, anche se altissima, non si conoscono né si vedono il volto e l'essenza di Dio. Dice però che quest'immagine o fantasma era davanti ai suoi occhi, perché, come ho detto, l'intelligenza di parole segrete era molto profonda, quale immagine e riflesso di Dio; ma questo non era vedere Dio nella sua essenza.

 

21. Infine conclude in questi termini: Un sussurro e una voce mi si fece sentire, in cui si riconosce il sibilo dei venti innamorati, che qui l'anima dice essere il suo Amato. Non dobbiamo pensare che queste visite generino sempre simili timori e sofferenze naturali. Come ho già detto, questo avviene solo per coloro che cominciano a entrare nello stato d'illuminazione e di perfezione e in questo genere di comunicazione, mentre negli altri avviene piuttosto con grande soavità.

Continua la spiegazione:

la quiete della notte.

 

22. In questo sonno spirituale che si gode sul petto dell’Amato, l'anima possiede e gusta tutta la tranquillità, il riposo e la quiete di una notte pacifica. Nello stesso tempo riceve una conoscenza estremamente profonda ma oscura di Dio. Per questo dice che il suo Amato è per lei la quiete della notte

vicina allo spuntar dell’aurora.

 

23. Questa quieta notte, dice, non è come la notte fonda, ma come la notte ormai vicina allo spuntar dell’aurora, cioè al sorgere del mattino. Questa tranquillità e questa quiete in Dio non sono, per l'anima, completamente buie, come la notte fonda, ma riposo e quiete nella luce divina, in una nuova conoscenza di Dio, in cui lo spirito gode di una dolcissima quiete, perché elevato alla luce divina.

Giustamente qui chiama questa luce divina lo spuntar dell’aurora, cioè del mattino. Come il sorgere del mattino fuga le oscurità della notte e annuncia la luce del giorno, così questo spirito che gode della calma e della quiete in Dio viene elevato dalle tenebre della conoscenza naturale alla luce mattutina della conoscenza soprannaturale di Dio![101] non del tutto chiara, ma, come è stato detto, semioscura, simile allo spuntar dell’aurora. Difatti, come la notte vicina all’aurora non è del tutto notte né del tutto giorno, ma è, come si suoI dire, tra due luci, così è per l'anima in questa solitudine e quiete che trova in Dio: non gode con tutta chiarezza della luce divina, ma ne partecipa in qualche modo.

 

24. In tale quiete l'intelletto si vede elevato, con sua grande sorpresa, al di sopra di ogni conoscenza naturale verso la luce divina. È simile a colui che, dopo un lungo sonno, apre gli occhi alla luce che non si aspettava. Di questa luce credo che intendesse parlare Davide quando diceva: vigilavi, et factus sum sicut passer solitarius in tecto: Mi svegliai, e divenni come un passero solitario sul tetto (Sal 101[102],8 Volg.). In altri termini: aprii gli occhi del mio intelletto e mi trovai al di sopra di tutte le conoscenze naturali, solitario, senza di esse, su un tetto, cioè al di sopra di tutte le cose di quaggiù.

Il testo dice che è divenuto simile a un passero solitario,[102] perché, nella contemplazione di cui si parla qui, lo spirito ha le stesse caratteristiche di quel passero, che sono cinque.

Anzitutto, il passero abitualmente cerca i luoghi più alti. Così fa lo spirito in questo stato: si eleva fino ai più alti vertici della contemplazione.

In secondo luogo, tiene sempre rivolto il becco verso la direzione donde viene il vento. Così fa lo spirito: volge il becco dell’affetto là donde gli viene lo spirito d'amore, che è Dio.

In terzo luogo, il passero abitualmente se ne sta solo e non permette ad altri uccelli di avvicinarsi; anzi se qualcuno gli si posa accanto, se ne va. Anche lo spirito, in questa contemplazione, si trova nella solitudine di tutte le cose, completamente spoglio, né consente in sé altra cosa che la solitudine in Dio.

La quarta caratteristica del passero è quella di cantare in maniera molto dolce. Così pure fa lo spirito rivolto a Dio in questo stato: le lodi che innalza a Dio sono pregne di soavissimo amore, gustosissime per il medesimo spirito e molto preziose per Dio.

La quinta caratteristica del passero è quella di non avere un colore ben definito. Anche lo spirito perfetto, in questo stato di estasi, non solo non nutre alcun affetto sensuale e amor proprio, ma rimane estraneo a qualsiasi riflessione su cose spirituali o terrene e non può parlare assolutamente di ciò che prova, perché, come ho detto, la conoscenza ch'egli possiede di Dio è tutta un abisso.

Musica silenziosa.

 

25. Nella quiete e nel silenzio di questa notte, come anche nella conoscenza della luce divina, l'anima riesce alla fine a percepire le meravigliose convenienze e disposizioni della Sapienza, riflesse nella varietà di tutte le creature e di tutte le opere.[103] Tutte e ciascuna, secondo la modalità propria, manifestano la loro dipendenza da Dio; ciascuna, a suo modo, canta ciò che Dio è in essa; così l'anima sembra udire l'armonia di una musica dolcissima, che trascende tutte le danze e le melodie del mondo. Dice che questa musica è silenziosa, perché è conoscenza serena e quieta, senza rumore di voci; in essa assapora la dolcezza della musica e la quiete del silenzio. E dice che il suo Amato è musica silenziosa, perché in lui conosce e gusta quest’armonia di musica spirituale. Non solo, ma la chiama anche

solitudin sonora.

 

26. Questa è quasi come la musica silenziosa, perché quantunque quella musica sia silenziosa per i sensi e le facoltà naturali, è nondimeno solitudine sonora per le facoltà spirituali. Queste, infatti, essendo sole e vuote di tutte le forme e conoscenze naturali, possono ben ricevere il suono spirituale che risuona in esse con tutta la sonorità per cantare quanto Dio è grande in sé e nelle sue creature, come aveva sentito san Giovanni nell’Apocalisse: La voce di suonatori d'arpa che si accompagnano nel canto con le loro arpe (Ap 14,2). Questo avveniva in spirito e non su arpe materiali. Si tratta di una conoscenza delle lodi che ciascun beato, secondo il suo grado di gloria, innalza incessantemente a Dio. Tutto questo è come una musica, perché, possedendo ciascuno doni diversi dagli altri, ognuno canta le proprie lodi in maniera diversa, ma formando tutti un'armonia d'amore, come avviene nei concerti.

 

27. Allo stesso modo, l'anima vede risplendere quella divina sapienza in tutte le creature, superiori e inferiori. Ognuna di esse, in base ai doni ricevuti da Dio, rende la sua testimonianza di ciò che Dio è, e ognuna a suo modo esalta Dio, secondo quanto la loro capacità permette di averlo in se. E così tutte queste voci si fondono in un'unica voce che canta la grandezza di Dio, la sua sapienza e scienza straordinaria.

Ciò è quanto volle dire lo Spirito Santo nel libro della Sapienza: spiritus Domini replevit orbem terrarum, et hoc quod continet omnia, scientiam habet vocis: Lo spirito del Signore riempie l'universo e, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce (Sap 1,7), cioè la solitudine sonora che, come dicevo, l'anima conosce in questo stato, e che è la testimonianza che tutte le creature danno di Dio.

E poiché l'anima riceve questa musica sonora, nella solitudine e nel distacco da tutte le cose esteriori, la chiama musica silenziosa e solitudine sonora, dicendo che è il suo Amato. Egli è inoltre

cena che ristora e innamora.

 

28. La cena per gli amanti è ricreazione, sazietà e amore. poiché l'Amato produce questi tre effetti in questa comunicazione piena di soavità, l'anima la chiama qui cena che ristora e innamora.

Occorre ricordare che nella sacra Scrittura il termine cena indica la visione divina. Difatti, come la cena è la conclusione del lavoro del giorno e inizio del riposo della notte, così questa conoscenza riposante, di cui ho parlato, fa sperimentare all’anima la fine certa dei suoi mali e il sicuro possesso dei beni; ragion per cui l'anima s'innamora di Dio ancora più di prima. Per questo l’Amato è per lei cena che ristora, mettendo fine ai suoi mali, e la fa innamorare, mettendola in possesso di tutti i beni.

 

29. Ma per meglio comprendere come sia per l'anima questa cena,[104] che, come ho detto, è il suo Amato, si deve ricordare quello che lo stesso Sposo amato dice nell’Apocalisse, e cioè: Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui cenerò con lui ed egli con me (Ap 3,20). È con se stesso - egli fa capire - che porta la cena, e questa non è altro che il suo stesso sapore e i diletti di cui egli stesso gode: unendosi all’anima glieli comunica e anch'essa ne gode. Questo vuoI dire: Cenerò con lui ed egli con me. Con queste parole spiega l’effetto della meravigliosa unione dell’anima con Dio, nella quale i beni di Dio diventano anche beni della sposa, cui egli si comunica, ripeto, con immensa grazia e in abbondanza. Così egli stesso è per lei la cena che ristora e innamora; la ristora con la sua abbondanza e la fa innamorare con la sua grazia.

 

AVVERTENZA

 

30. Prima di entrare nella spiegazione delle altre strofe[105] è opportuno osservare che, sebbene abbia detto che in questo stato di fidanzamento l'anima gode di ogni tranquillità e che le viene comunicato il massimo che si possa avere in questa vita, tale tranquillità va intesa solo in riferimento alla parte superiore; la parte sensitiva, infatti, fino allo stato di matrimonio spirituale, non finisce mai di liberarsi dai suoi difetti nonché di assoggettare completamente le sue energie, come dirò più avanti. Quanto le viene dato è il massimo che possa essere comunicato nello stato di fidanzamento; nel matrimonio spirituale, invece, ci sono vantaggi ben superiori. Nel fidanzamento, anche se l'anima sposa in queste visite gode di molti beni, tuttavia soffre assenze, turbamenti e molestie provenienti dalla parte inferiore e dal demonio; tutto questo cessa nello stato di matrimonio.

 

 

Annotazione per la strofa seguente[106]

 

STROFA 16 (CA 25)

 

l. Ormai la sposa possiede nell'anima le virtù alloro grado perfetto e gode una pace abituale nelle visite dell’Amato. A volte assapora in modo sublime la soavità e la fragranza di tali virtù, allorché l’Amato la tocca, come si gusta la soavità e il profumo dei gigli e dei fiori quando sono sbocciati e vengono toccati. In molte di queste visite, infatti, l'anima vede dentro di sé tutte le sue virtù, alla luce che l’Amato le concede; e allora, con sommo piacere e dolcezza d'amore, le riunisce tutte e le offre all’Amato come un mazzo di bei fiori; a sua volta l’Amato, ricevendole -perché realmente le riceve -, ne prova grande soddisfazione.

Tutto questo avviene dentro l'anima, dove sente che l'Amato riposa come nel proprio letto, perché l'anima gli si offre insieme alle virtù. Questo è il più grande ossequio che può rendergli; nello stesso tempo, uno dei maggiori piaceri che nel rapporto interiore con Dio essa può avere è proprio il dono di sé all’Amato.

 

2. Il demonio, conoscendo questa felicità dell’anima - nella sua grande malizia egli invidia tutto il bene che vede -, in queste circostanze ricorre a tutte le sue abilità ed esercita tutte le sue arti per poter turbare in lei almeno una piccola parte di questo bene. Egli, infatti, preferisce impedire un minimo della sua ricchezza e del suo glorioso piacere a quest'anima piuttosto che farne cadere molte altre in numerosi e gravi peccati. Le altre anime, infatti, hanno poco o nulla da perdere, mentre questa può perdere molto, perché ha avuto un guadagno grande e assai prezioso; perdere una piccola quantità d'oro purissimo è peggio che perdere grande quantità di altri metalli vili.

In tutto ciò il demonio si serve degli appetiti sensitivi, sebbene con essi il più delle volte possa fare poco o niente in questo stato, perché sono già mortificati; se con essi non raggiunge il suo scopo, presenta all’immaginazione una molteplicità di cose. A volte suscita nella parte sensitiva molte inquietudini, come dirò più avanti, e provoca un'infinità di molestie sia spirituali che sensibili. L'anima non riesce a liberarsene finché, come dice un salmo, l’angelo del Signore non si accampa attorno a quelli che lo temono e li salva (Sal 33[34],8), e così restituisce pace e tranquillità sia alla parte sensitiva che a quella spirituale dell’anima.

Per esprimere tutto ciò e chiedere quest'aiuto, diffidando, per esperienza, delle astuzie usate dal demonio per procurarle danni in queste circostanze, rivolgendosi agli angeli, il cui compito è di proteggerla mettendo in fuga i demoni, l’anima dice la seguente strofa:

Cacciate via le volpi,

ché fiorita ormai è nostra vigna,

intanto che di rose

intrecceremo una pigna

nessuno appaia là, sulla collina.

 

 

SPIEGAZIONE

 

3. L'anima, desiderosa che questo diletto interiore dell’amore, che è il fiore della vigna della sua anima, non le venga impedito né dagli invidiosi e astuti demoni, né dai furiosi appetiti della sensualità, né dalle immagini ricorrenti della fantasia, né da altre conoscenze e presenza di cose, invoca gli angeli chiedendo loro di cacciare e tenere lontane tutte queste cose, in modo che non disturbino il suo esercizio dell’amore interiore. In esso, assaporandone il piacere, l'anima e il Figlio di Dio si comunicano e godono le virtù e le grazie. Per questo dice:

Cacciate via le volpi,

che fiorita ormai è nostra vigna.

 

4. Qui per vigna s'intende il vivaio di tutte le virtù di quest'anima santa, le quali le danno un vino dal dolce sapore. Questa vigna dell’anima è fiorita quando, mediante la volontà, è unita allo Sposo e si applica a riporre la sua gioia in lui e le sue delizie in tutte queste virtù riunite insieme. A volte si affacciano alla memoria e alla fantasia molte rappresentazioni e diversi pensieri, mentre nella parte sensitiva si sollevano molteplici moti e svariati appetiti. Essi sono di tal fatta, differenti e vari, che quando Davide, assetato profondamente di Dio, stava bevendo questo gustoso vino dello spirito, accortosi del fastidio e dell’intralcio recatogli da stimoli così diversi per genere e forma, disse: Di te ha sete l’anima mia; a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz'acqua (Sal 62[63],2).

 

5. l’anima chiama tutto questo insieme di appetiti e di moti sensitivi volpi, per la grande somiglianza che in questo caso hanno con esse. Come le volpi, infatti, quando escono a caccia si fingono addormentate per lasciar avvicinare la preda, così tutti questi appetiti e impulsi sensitivi se ne stanno quieti e sopiti, finché non spuntano nell'anima, si aprono e cominciano ad agire i fiori delle virtù. A questo punto sembra che si sveglino e appaiano nella sensualità anche i fiori degli appetiti e delle forze sensuali per opporsi allo spirito e dominare. La bramosia arriva a tale estremo, che san Paolo dice che la carne ha desideri contrari allo Spirito (Gal 5,17); data la sua grande inclinazione alle cose sensitive, quando si gustano le cose dello spirito, la carne diventa insipida e disgustosa.[107] In tutto ciò tali appetiti recano grande molestia alle dolcezze dello spirito, che esclama: Cacciate via le volpi.

 

6. Ma gli astuti demoni,[108] da parte loro, recano molestia all’anima in due modi: sospingono e sollecitano gli appetiti con veemenza e, servendosi di essi e di altre immaginazioni, ecc., muovono guerra al regno pacifico e fiorito dell’anima; in secondo luogo - ed è peggio! - quando non la vincono in questo modo, l'assalgono con tormenti e rumori sensibili per distrarla. Ma il male maggiore è che la combattono con timori e orrori spirituali, che procurano a volte grande tormento. In questo periodo, se viene loro consentito, possono agire molto facilmente, perché, siccome l'anima si dispone in una grande nudità di spirito a questa esperienza spirituale, il demonio, anch'egli spirito, può facilmente farsi presente a lei.

Altre volte il demonio assale l’anima con terrori prima che cominci a gustare questi dolci fiori, quando Dio inizia a farla uscire un po' dalla casa dei suoi sensi per introdurla con la suddetta esperienza interiore nell'orto dello Sposo. n demonio sa che, una volta entrata in quel raccoglimento, è più al sicuro e, per quanto faccia, non può recarle danno. Spesso avviene che, quando il demonio esce per sbarrarle il passo, l’anima si ritira prontamente nel profondo nascondiglio del suo intimo, dove trova grande diletto e riparo; avverte allora quei terrori molto alla lontana, così che non solo non la spaventano, ma le procurano gioia ed esultanza.

 

7. Di questi terrori parla la sposa nel Cantico quando dice: La mia anima si turbò a causa dei carri di Aminadab (Ct 6,11 Volg.), intendendo qui per Aminadab il demonio[109] e chiamando carri i suoi violenti assalti, per la veemenza, la confusione e il rumore che con essi produce.

L'anima quindi chiede: Cacciate via le volpi.

La medesima cosa dice la sposa nel Cantico, allo stesso scopo, chiedendo: Prendeteci le volpi piccoline che devastano le vigne, perché la nostra vigna è in fiore (Ct 2,15). E non dice «prendetemi», ma «prendeteci», poiché parla per sé e per l’Amato, perché si trovano insieme e godono il fiore della vigna.

Qui dice che la vigna è in fiore e non in frutto, perché le virtù, in questa vita, anche se raggiungono tanta perfezione come quella dell’anima di cui sto parlando, sono come in fiore;[110] solo nell'altra vita si godranno come in frutto.

Subito dopo aggiunge:

intanto che di rose

intrecceremo una pigna.

 

8. In questo tempo in cui l'anima gode dei fiori di questa vigna e trova le sue delizie sul petto dell’Amato, accade che le virtù dell’anima le si manifestino in tutta evidenza, come ho detto, e in un istante; mostrandosi all’anima, le procurano una grande dolcezza e una gioia ineffabile. L'anima sente queste virtù in sé e in Dio, per cui le sembra di essere una vigna tutta in fiore e gradita, dove lei e il suo Amato si nutrono e si dilettano. E allora l'anima raccoglie tute queste virtù, emettendo atti d'amore assai gradevoli con ciascuna di esse in particolare e con tutte quante insieme; una volta che le ha riunite, le offre all’Amato con grande tenerezza d'amore e soavità. In tutto questo l’aiuta l’Amato stesso, perché senza il suo favore e il suo sostegno non potrebbe raccogliere e offrirgli queste virtù; per questo dice: intrecceremo una pigna, cioè l’Amato e io insieme.

 

9. Chiama pigna quest'insieme di virtù, perché come la pigna è un insieme compatto, costituito da molti pezzi strettamente congiunti, i pinoli, così questa pigna di virtù intrecciata dall’anima per il suo Amato è un insieme di perfezioni dell’anima, che racchiude saldamente e ordinatamente molte perfezioni, robuste virtù e ricchi doni. Tutte le perfezioni e le virtù, infatti, si armonizzano e convengono in un'unica perfezione dell’anima; tale perfezione si sta formando per mezzo dell’esercizio delle virtù e, una volta formata, viene offerta dall’anima all’Amato nello spirito d'amore di cui sto parlando. Occorre quindi cacciare via le volpi, perché non ostacolino l'intima comunicazione tra questi due interlocutori.

In questa strofa la sposa non chiede solo di poter intrecciare bene la pigna, ma chiede altresì ciò che è detto nel verso seguente:

nessuno appaia là, sulla collina.

 

10. Per questa divina esperienza interiore sono, inoltre, necessarie la solitudine e il distacco da tutte le cose che potrebbero turbare l'anima, sia nella sua parte inferiore, cioè quella sensitiva, che nella parte superiore, ossia quella razionale. Queste due parti racchiudono tutta l'armonia delle potenze e dei sensi dell’uomo. Tale armonia è qui chiamata collina, perché in essa dimorano tutte le conoscenze e gli appetiti della natura, come la selvaggina sul monte. Proprio qui il demonio suole dar la caccia e far preda di tali appetiti e conoscenze, a danno dell’anima.

Chiede che nessuno appaia sulla collina, cioè che nessuna rappresentazione o figura di qualsiasi oggetto appartenente a qualcuna delle potenze o dei sensi, di cui ho parlato, appaia dinanzi all’anima e allo Sposo. È come se dicesse: in tutte le facoltà spirituali dell’anima, la memoria, l'intelletto e la volontà, non ci sia conoscenza o affetto particolare né alcun'altra distrazione; in tutti i sensi e le facoltà corporali, sia interni che esterni, come l'immaginazione, la fantasia, ecc., la vista, l'udito, ecc., non ci siano altre distrazioni e forme, immagini e figure, né rappresentazioni di oggetti all’anima, né altre operazioni naturali.

 

11. L'anima dice questo perché, per godere perfettamente della comunicazione con Dio, è necessario che tutti i sensi e le facoltà, interni ed esterni, siano inattivi e interrompano le loro operazioni, insomma siano privi dei loro oggetti abituali. In questa circostanza, infatti, quanto più agiscono tanto maggior disturbo recano. Quando l'anima perviene a una certa forma d'intima unione d'amore con Dio, non operano più le facoltà spirituali e ancor meno quelle corporali, perché si è già realizzata in lei l’unione d'amore: l'anima di fatto è nell'amore. Le altre potenze cessano quindi di agire, perché, una volta raggiunta la meta, l'azione dei mezzi diventa inutile. L’anima in questa condizione altro non fa che restare alla presenza di Dio, cioè ama in continuazione di amore unitivo.[111]

Nessuno appaia, dunque, sulla collina. Appaia solo la volontà, alla presenza dell’Amato, per offrire se stessa e tutte le virtù nel modo sopra descritto.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 17 (CA 26)

 

1. Per una migliore comprensione della strofa seguente è opportuno ora ricordare che le assenze dell’Amato durante questo stato di fidanzamento spirituale procurano all’anima molta sofferenza, a volte una sofferenza senza confronti. Questo perché l'amore che nutre per Dio nella presente situazione è grande e forte, quindi altrettanto grande e forte è il tormento arrecatole dall’assenza dell’Amato. A ciò si aggiunga una considerevole molestia che in questo tempo prova per qualsiasi rapporto o comunicazione con le creature. Ora, poiché l'anima sperimenta con potente impulso un desiderio vivissimo dell’unione con Dio, qualsiasi ritardo le risulta insopportabilmente fastidioso, proprio come alla pietra risulterebbe violento qualsiasi ostacolo in cui incappasse o le si parasse davanti quando precipita velocemente verso il suo centro.[112] L’anima che ha già assaporato queste dolci visite, le considera più desiderabili dell’oro e di qualsiasi bellezza (Sal 18[19],11). Per questo motivo, timorosa di restare priva, anche solo per un momento, di una presenza così preziosa, parlando con la propria aridità di spirito e con lo Sposo, pronuncia la strofa seguente:

Fermati, borea morto,

vieni, austro, a suscitar gli amori,

soffia pel mio giardino,

diffondine gli aromi

e pascerà l'Amato in mezzo ai fiori.

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. Oltre a quanto detto nella strofa precedente, anche l'aridità di spirito impedisce all’anima di gustare la dolcezza interiore di cui ha parlato prima. Temendo questo, l'anima nella presente strofa fa due cose.

Anzitutto cerca d'impedire l'aridità, sbarrandole il passo per mezzo della continua preghiera e della devozione.

In secondo luogo invoca lo Spirito Santo perché allontani da lei l'aridità, mantenga e accresca in lei l'amore dello Sposo e la induca a praticare interiormente lei virtù. Tutto questo serve perché il Figlio di Dio, suo Sposo, provi gioia e sempre più si compiaccia di lei, che desidera solo contentare l'Amato.

Fermati, borea morto.

 

3. Borea[113] è un vento molto freddo che fa seccare e appassire i fiori e le piante o, quanto meno, li fa rattrappire e richiudere su se stessi quando li investe. E poiché l'aridità spirituale e l'assenza di affetto da parte dell’Amato producono nell'anima questo stesso effetto, togliendole il gusto, il sapore e la fragranza delle virtù che stava gustando, chiama tutto questo borea morto. Dal momento che ha mortificato tutte le virtù e lo sviluppo degli affetti, l'anima esclama: Fermati borea morto.

Tali parole pronunciate dall’anima si devono intendere come un atto di orazione e di esercizio spirituale per tener lontana l'aridità. Ma poiché in questo stato le realtà sublimi che Dio comunica all’anima sono talmente interiori che l’anima non può porle in atto e gustarle unicamente con l’esercizio delle proprie facoltà, se lo Spirito dello Sposo non suscita in lei una mozione d'amore, essa lo invoca subito, dicendo:

vieni, austro, a suscitar gli amori.

 

4. L’austro è un altro vento, comunemente detto libeccio. È piacevole, porta la pioggia, fa germogliare erbe e piante, fa sbocciare i fiori e spande i loro profumi; ha quindi effetti contrari a quelli della tramontana o borea. Questo vento simboleggia per l'anima lo Spirito Santo,[114] che, dice, suscita gli amori. Quando questo vento divino investe l’anima, la penetra in modo tale da infiammarla tutta: l'accarezza, la ravviva, ne risveglia la volontà, conduce all’amore di Dio i suoi affetti, che erano affievoliti e sopiti. Ben si può dire, allora, che suscita gli amori dell’Amato e dell’anima.

Quanto quest'ultima chiede allo Spirito Santo è espresso nel verso seguente:

soffia pel mio giardino.

 

5. Questo giardino è l’anima stessa. Come prima ha chiamato l’anima vigna fiorita, perché i fiori delle sue virtù producono vino dal dolce sapore, così qui la chiama giardino, perché in essa sono piantati, nascono e crescono i fiori della perfezione e delle virtù.

Osserviamo che qui la Sposa non dice: spira nel mio giardino, ma: spira per il mio giardino, perché vi è una grande differenza tra lo spirare di Dio nell'anima e lo spirare per l'anima. Spirare nell'anima è infondervi grazie, doni e virtù. E spirare per l’anima esprime il tocco e il movimento che Dio dà alle virtù e alle perfezioni che essa già possiede, rinnovandole ed eccitandole in modo che effondano una meravigliosa fragranza e soavità nell’anima, proprio come quando, rimestando le erbe aromatiche, si spande la loro fragranza, che prima non era né si sentiva così forte. Non sempre l’anima avverte o gode effettivamente le virtù che possiede in se, acquisite o infuse, perché, come dirò in seguito, in questa vita esse sono nell’anima come fiori in boccio, ancora chiusi, o come erbe aromatiche in un sacchetto, il cui aroma non si sente finché non ne vengono estratte e agitate.

 

6. A volte, però, Dio accorda tali grazie all’anima sposa. Spirando con il suo Spirito per questo suo giardino fiorito, schiude tutti i boccioli delle virtù e scopre tutte queste piante aromatiche di doni, perfezioni e ricchezze dell’anima; e, manifestandone il tesoro e l’abbondanza interiore, ne svela tutta la bellezza. Allora è meraviglioso vedere e soave sentire la ricchezza dei doni che si scopre all’anima e la bellezza di questi fiori di virtù, ormai tutti sbocciati nell'anima. Ognuno di essi, secondo le sue proprietà, le comunica la soave, inestimabile fragranza che ha in se.

Questa è l'effusione dei profumi nel giardino, di cui parla nel verso seguente:

diffondine gli aromi.

 

7. Tali aromi, a volte, sono talmente abbondanti che l'anima ha l'impressione di essere vestita di delizie e immersa in una gloria inestimabile. li profumo è così forte che è provato non solo dentro l’anima, ma suole riversarsi altresì all’esterno: lo sanno riconoscere coloro che ne hanno fatto esperienza. L’anima sembra a costoro come un giardino meraviglioso, pieno di delizie e di ricchezze divine. Non solo quando questi fiori di virtù sono schiusi si riesce a scorgere tutto ciò in tali anime sante, ma esse mostrano abitualmente in sé un non so che di grandezza e dignità che, negli altri, ispira venerazione e rispetto: è un effetto soprannaturale, questo, che si diffonde in loro per l'intima e familiare comunicazione con Dio. Il libro dell’Esodo (Cfr. 34,30) ce ne offre un esempio. Ivi si legge che gli ebrei non potevano guardare il volto di Mosè (2Cor 3,7) per l'onore e la gloria che irradiava, dopo aver parlato faccia a faccia con Dio.

 

8. Lo Sposo, il Figlio di Dio, si serve del soffio dello Spirito Santo per far nell'anima una visita amorevole e comunicarsi a lei in modo assai sublime. È a questo scopo che le invia, come fece per gli apostoli, dapprima lo Spirito Santo, suo precursore,[115] perché gli prepari una dimora nell'anima, sua sposa: la colma di delizie, dispone a suo piacere il giardino della sua anima, vi fa sbocciare i fiori e risplendere i suoi doni; insomma, la riveste dell’insieme delle sue grazie e delle sue ricchezze. E così, con il desiderio più ardente possibile, l'anima sposa anela a tutto questo, cioè che cessi la tramontana, venga l’austro e soffi per il suo giardino, perché in questo modo ella guadagna molte cose insieme. Ottiene, infatti, di godere delle sue virtù, pervenute al punto in cui sono esercitate con la soavità dell’amore. Vi guadagna di vedere l'Amato compiacersi in mezzo a queste virtù, perché per loro tramite si comunica all’anima con un amore più intenso e le concede grazie più singolari di prima. Vi guadagna che l’Amato si compiaccia di più in lei, che si esercita nella pratica delle virtù, ed è ciò che rallegra maggiormente l'anima, cioè volere quello che piace al suo Amato. Vi guadagna, altresì, il favore di veder permanere il sapore e la soavità delle virtù. Ciò perdura nell'anima tutto il tempo in cui lo Sposo rimane in essa nel modo suddetto, mentre la sposa gli dona la soavità delle sue virtù, come essa medesima afferma nel Cantico: Mentre il re è sul suo giaciglio, cioè nell’anima, il mio alberello fiorito e odoroso spande il suo dolce profumo (Ct 1,11 Volg.). Per Alberello odoroso qui s'intende l'anima stessa che con il fiore delle sue virtù spande odore di soavità per l’Amato tutto il tempo che dimora in essa attraverso questa forma di unione.

 

9. È molto desiderabile, dunque, questo soffio divino dello Spirito Santo; perciò ogni anima chieda che soffi per il suo giardino e si di/fondano i suoi aromi. Essendo questa una cosa tanto necessaria, sorgente di tanta gloria e tanto bene per l'anima, la sposa la desiderò e la chiese nel Cantico con le stesse parole di questa strofa, dicendo: Levati: aquilone, e tu, austro, vieni, soffia per il mio giardino, si effondano i suoi aromi e le sue preziose spezie (Ct 4,16). Tutto questo desidera l'anima, non per il piacere e la gloria che le viene, ma perché sa che di questo si compiace il suo Sposo. Inoltre, tutto questo è preparazione e preannuncio affinché il Figlio di Dio venga a dilettarsi in lei. Perciò aggiunge subito:

e pascerà l’Amato in mezzo ai fiori.

 

10. L'anima dà il nome di pasto a queste delizie che il Figlio di Dio mette in lei in questo periodo: nulla di più appropriato, perché il pasto o nutrimento è cosa che non solo piace, ma anche sostiene. Infatti il Figlio di Dio trova le sue delizie nelle stesse delizie dell’anima; si sostenta in essa, cioè continua a dimorare in essa, come in un luogo profondamente piacevole, perché l’anima si delizia davvero di lui. Ciò è quanto ha voluto dirci egli stesso per bocca di Salomone nel libro dei Proverbi con queste parole: Le mie delizie sono con i figli dell’uomo (Pro 8,31), cioè quando il loro piacere è stare con me, che sono il Figlio di Dio.[116]

Occorre qui osservare che l’anima non dice che l’Amato si pascerà dei fiori, ma in mezzo ai fiori, perché lo Sposo si comunica all’anima per mezzo dello splendore delle virtù, come si è detto. Ciò di cui egli si pasce è l'anima stessa trasformata in lui, preparata, abbellita ed esaltata dai fiori delle sue virtù, doti e perfezioni, che sono come il condimento con cui e in mezzo al quale Dio la nutre. Questi fiori, per mezzo dello Spirito che lo precede - ne ho già parlato -, offrono al Figlio di Dio e all’anima sapore e dolcezza, perché possa nutrirsi sempre più nell'amore di lei. La caratteristica dello Sposo è, infatti, quella di unirsi all’anima nella fragranza di questi fiori. La sposa del Cantico descrive questa situazione, come una che la conosce bene: Il mio Diletto era sceso nel suo giardino fra le aiuole del balsamo a pascolare il gregge nei giardini e a cogliere gigli (Ct 6,2). E un'altra volta aggiunge: Il mio Diletto è per me e io per lui. Egli pascola il gregge fra i gigli (Ct 6,3), cioè si nutre e si compiace nella mia anima, che è il suo giardino, tra i gigli delle mie virtù, perfezioni e grazie.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 18 (CA 31).

 

1. In questo stato di fidanzamento spirituale l’anima si avvede delle sue doti straordinarie e delle sue grandi ricchezze; si rende altresì conto di non possederle e goderle come vorrebbe, perché si trova ancora nella carne. Soffre quindi spesso e intensamente, soprattutto quando ne ha più viva coscienza. Si rende conto, infatti, di trovarsi nel corpo come un gran signore in carcere, sottoposto a mille miserie: vede che l'hanno spogliato dei suoi regni ed escluso dall’esercizio del suo potere e delle sue ricchezze, e che non gli è concesso, di tutti i suoi beni, che un misero vitto; tutti possono facilmente immaginare il suo stato d'animo, soprattutto per il fatto che anche i suoi domestici non gli sono soggetti come dovrebbero, anzi, a ogni occasione, i suoi servi e i suoi schiavi gli si scagliano contro senza alcun rispetto, fin quasi a togliergli il boccone dal piatto. La stessa cosa accade all’anima. Difatti, quando Dio le concede la grazia di gustare un assaggio dei beni e delle ricchezze preparato per lei, subito insorge nella parte sensitiva un servo cattivo dell’appetito, oppure uno schiavo, cioè un moto disordinato, o altre ribellioni di questa parte inferiore, per impedirle quel bene.

 

2. In tale stato l'anima ha l'impressione di trovarsi in terra nemica, schiavizzata tra estranei e quasi morta tra i morti, ben sperimentando quanto il profeta Baruc lascia intendere quando lamenta tale disgrazia nella cattività di Giacobbe: Perché, Israele, perché ti trovi in terra nemica e invecchi in terra straniera? Perché ti contamini con i cadaveri e sei annoverato tra coloro che scendono negli inferi? (Bar 3,10-11). Anche Geremia, provando in sé questo misero stato patito dall’anima a causa della schiavitù del corpo, rivolgendosi a Israele dice in senso spirituale: Israele è forse un servo o uno schiavo di nascita perché è divenuto una preda? Contro di lui ruggiscono i leoni (Ger 2,14-15), ecc. Qui per leoni intende gli appetiti e le ribellioni, a cui si accennava, di questo re tiranno, cioè della sensualità. L’anima, per mostrare quale molestia ne riceva e quanto desideri che questo regno della sensualità, con tutti i suoi eserciti e tutte le sue molestie, abbia ora fine o le si sottometta del tutto, alzando lo sguardo verso lo Sposo come a colui che deve operare tutto questo, e apostrofando questi moti e ribellioni,[117] pronuncia la strofa seguente:

 

O ninfe di Giudea!

Intanto che tra i fiori e nei roseti

l’ambra i suoi aromi emana,

nei sobborghi restate,

toccar le nostre soglie non vogliate.

 

 

SPIEGAZIONE

 

3. È la sposa che parla in questa strofa. Vedendo la sua parte superiore e spirituale arricchita di doni tanto preziosi e colmata di delizie così benefiche, desidera conservare, in modo sicuro e permanente, quel possesso che lo Sposo le ha concesso, come si è visto nelle strofe precedenti[118]. Ma la sua parte inferiore, ossia la sensualità, potrebbe impedire questo favore divino e di fatto ostacola e disturba il possesso di un bene così grande. Per questo motivo la sposa chiede alle potenze e ai sensi della parte inferiore che si acquietino e cessino le loro operazioni e gli stimoli; chiede, altresì, che non vadano oltre i confini del loro ambito, quello della sensitività, turbando e gettando inquietudine nella parte superiore e spirituale dell’anima, in modo da non impedirle, neppure con il più piccolo moto, il bene e la soavità di cui gode. Difatti, se i moti della parte sensitiva e le potenze entrano in azione, mentre lo spirito gode, quanto più sono attivi e vivaci tanto più lo molestano e lo turbano.

Dice, dunque, così:

O ninfe di Giudea!

 

4. Chiama Giudea la parte inferiore dell’anima, quella sensitiva. La chiama Giudea perché è debole, carnale e di per sé cieca, come il popolo ebraico.[119]

Chiama ninfe tutte le immaginazioni, le fantasie, i moti e gli affetti di questa parte inferiore. Le chiama tutte ninfe perché [come le ninfe] con il loro affetto e le loro grazie attirano a sé gli amanti, così le operazioni e i moti della sensualità cercano in maniera piacevole e insistente di attirare a sé la volontà della parte razionale, per distoglierla dalle realtà interiori verso gli oggetti esteriori che esse ricercano e desiderano; nello stesso tempo sommuovono anche l'intelletto, attirandolo perché si sposi e si unisca a loro agendo in modo vile, nel tentativo di conformare e unire la parte razionale con quella sensitiva.

L’anima, dunque, dice: oh!, voi, operazioni e moti sensuali,

intanto che tra i fiori e nei roseti...

 

5. I fiori, come ho detto, sono le virtù dell’anima; i roseti le sue potenze: memoria, intelletto e volontà, che racchiudono in sé e coltivano fiori di pensieri divini e atti di amore, oltre le suddette virtù.

Fintanto che in queste virtù e potenze della mia anima, ecc.,

l’ambra i suoi aromi emana.

 

6. L'ambra rappresenta qui lo Spirito divino dello Sposo che dimora nell'anima. Quest'ambra divina emana aromi tra i fiori e nei roseti, quando si spande e si comunica, in modo dolcissimo, nelle facoltà e nelle virtù dell’anima, donandole attraverso di esse profumi di soavità divina.

Ora, mentre questo Spirito divino colma la mia anima di soavità spirituale,

nei sobborghi restate.

 

7. Nei sobborghi della Giudea, che, come ho detto, è la parte inferiore o sensitiva dell’anima; e i suoi sobborghi sono i sensi interni, come la memoria, la fantasia e l'immaginazione, ove s'imprimono e si conservano le forme, le immagini e i fantasmi degli oggetti, per mezzo dei quali la sensualità muove i suoi appetiti e le sue brame. Queste forme, ecc., sono quelle che qui chiama ninfe; finché esse sono quiete e assopite, anche gli appetiti dormono. Esse penetrano nei sobborghi dei sensi interni attraverso le porte dei sensi esterni, cioè l'udito, la vista, l'olfatto, ecc., così che possiamo chiamare sobborghi tutte le facoltà e i sensi, sia interni che esterni, della parte sensitiva; si chiamano sobborghi perché sono i quartieri situati fuori delle mura della città. Difatti ciò che viene chiamato città nell'anima è la sua parte più interna, cioè quella razionale, che ha la capacità di comunicare con Dio e le cui operazioni sono contrarie a quelle della sensualità.

Vi è, però, un collegamento naturale tra gli abitanti di questi sobborghi della parte sensitiva, le ninfe di cui ho parlato, e la parte superiore, la città, in modo che quanto si fa nella parte inferiore ordinariamente si avverte in quella più interna, richiamandone l’attenzione e distraendola nel suo rapporto spirituale con Dio. Per questo l’anima chiede loro di restare nei sobborghi, cioè di starsene quietamente nei loro sensi interni ed esterni.

Toccar le nostre soglie non vogliate.

 

8. Cioè non toccate la parte superiore nemmeno con moti primi. I moti primi dell’anima, infatti, sono la porta d'ingresso e la soglia attraverso cui vi si penetra dentro, e quando questi primi moti arrivano fino alla ragione, [hanno già varcato la soglia. Ma se questi moti primi restano ciò che sono], allora toccano solo la soglia o bussano alla porta. Ciò avviene quando la parte sensitiva attacca la ragione con qualche atto disordinato. Ecco perché l’anima non solo desidera che questi moti non la tocchino, ma che non si debba dare spazio neppure alle considerazioni che non conducono alla quiete e al bene di cui essa gode.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 19 (CA 32)

 

1. In questo stato l’anima è diventata talmente nemica della parte inferiore e delle sue operazioni, che vorrebbe che Dio non le partecipasse nulla delle comunicazioni fatte alla parte superiore: infatti, o si tratta di piccola cosa, o altrimenti quella non è in grado di sopportare per la debolezza della sua condizione, e così la natura viene meno. Di conseguenza, anche lo spirito ne soffre e se ne affligge, e non può godere in pace. Dice, infatti, il Saggio: Un corpo corruttibile appesantisce l’anima (Sap 9,15). E poiché l'anima desidera le [più] alte ed eccellenti comunicazioni di Dio, ma non può riceverle insieme alla parte sensitiva, desidera che Dio gliele conceda senza che quella ne partecipi.[120]

Quanto alla sublime visione del terzo cielo, lo stesso san Paolo afferma di non sapere se l'ebbe nel corpo o fuori del corpo (2Cor 12,2). In ogni caso, essa avvenne senza il corpo: se questo vi avesse preso parte, certamente l'avrebbe saputo, e la visione stessa non sarebbe potuta essere così alta come egli sostiene, affermando che udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare (2Cor 12,4). Per questo l'anima, ben sapendo che favori così grandi non possono essere ricevuti in un vaso tanto angusto, desidera che lo Sposo glieli conceda al di fuori di esso o almeno senza di esso. E rivolgendosi a lui direttamente, gli chiede in questa strofa:

 

Nasconditi Diletto,[121]

il tuo viso volgi alle montagne,

non cercar di parlare,

ma guada le compagne

di lei che va per isole lontane.

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. Quattro cose chiede l'anima sposa allo Sposo in questa strofa.

La prima, che voglia comunicarsi a lei nelle sue massime profondità.

La seconda, che investa e informi le sue facoltà con la gloria e l'eccellenza della sua divinità.

La terza, che questi favori le siano accordati in forma tanto eccelsa e profonda che ella non abbia né il desiderio né la facoltà di parlarne, e non siano raggiungibili dalla sua parte esteriore e sensibile.

La quarta, che lo Sposo s'innamori alla vista delle numerose virtù e grazie che ha posto in lei e con le quali essa si dirige e si eleva a Dio per mezzo di conoscenze molto alte e sublimi della divinità e per mezzo di trasporti d’amore molto più insoliti e straordinari di quelli che si hanno abitualmente.

Dice quindi:

Nasconditi Diletto.

 

3. Intende dire: amato Sposo mio, raccogliti nel più intimo della mia anima; comunicati a lei segretamente; manifestale le tue meraviglie nascoste, che nessun occhio mortale[122] ha mai contemplato.

Il tuo viso volgi alle montagne.

 

4. Il volto di Dio è la sua divinità e le montagne rappresentano le potenze dell’anima: memoria, intelletto e volontà. Ciò vuol dire: rivesti con la tua divinità il mio intelletto, dandogli l'intelligenza delle verità divine; rivestine anche la mia volontà, donandole e comunicandole l'amore divino; rivestine, infine, la mia memoria, offrendole il possesso della gloria divina.

In questo modo l’anima chiede tutto ciò che può chiedere, perché non si contenta più di una conoscenza e di una comunicazione di Dio simili a quelle concesse a Mosè quando lo vide di spalle (Es 33,23), il che significa conoscere Dio attraverso i suoi effetti e le sue opere. Ma l’anima vuole vedere il volto di Dio, cioè possedere una conoscenza essenziale della divinità senza intermediari, per un certo contatto con la divinità stessa; questa è cosa del tutto estranea ai sensi e agli accidenti, trattandosi di un contatto tra la sostanza pura dell’anima e quella della divinità. Per questo l'anima aggiunge immediatamente:

non cercar di parlare.

 

5. Ciò vuol dire: non cercar di parlare come prima, quando le comunicazioni che mi concedevi erano tali da passare attraverso i sensi esterni. Si trattava allora di grazie non tanto elevate né profonde, così che essi potessero riceverle. Ora invece ti chiedo che tali comunicazioni siano talmente elevate, sostanziali e intime da essere ignote ai sensi, e che questi restino nell'impossibilità di percepirle. La sostanza spirituale, infatti, non può essere comunicata ai sensi, quindi tutto ciò che è comunicato ai sensi, soprattutto in questa vita, non può essere puro spirito, perché essi non ne sono capaci.

A questo punto l'anima, desiderando questa comunicazione di Dio così sostanziale ed essenziale che trascende i sensi, chiede allo sposo di non cercare di parlarne. Il che significa: sia tale la profondità di questo nascondiglio di unione spirituale che i sensi non riescano né a dirla né a sentirla, come i segreti uditi da san Paolo che non era lecito ad alcuno ripetere (2Cor 12,4).

Ma guarda le compagne.

 

6. Il guardare di Dio è amare e concedere grazie.[123] Le compagne che l’anima chiede a Dio di guardare sono la moltitudine delle virtù, dei doni, delle perfezioni e delle altre ricchezze spirituali che egli ha posto in lei come pegni, regali e gioielli di fidanzata. Ella sembra dunque dirgli: volgiti piuttosto, o mio Diletto, verso l'intimo della mia anima; guarda con amore le ricchezze che hai dato come compagne all’anima mia, perché, innamorandoti di lei per mezzo loro, tu ti nasconda e ti stabilisca in essa. È vero che tali virtù sono tue, ma dal momento che le hai donate alla mia anima sono anche

di lei che va per isole lontane.

 

7. Sono cioè della mia anima, che sale a te per mezzo di conoscenze straordinarie, per modi e vie inusitate ed estranee a tutti i sensi e alla maniera ordinaria di conoscere. La sposa sembra dunque dire, quasi per obbligarlo: poiché la mia anima si eleva a te attraverso conoscenze spirituali, inusitate ed estranee ai sensi, degnati di comunicarti anche a me in modo così intimo e sublime da essere estraneo a tutti loro.

 

 

Annotazione per le strofe seguenti

 

STROFE 20 e 21 (CA 29-30)

 

1. Per raggiungere uno stato così alto di perfezione come quello desiderato qui, cioè il matrimonio spirituale, non basta che l’anima sia monda e purificata da tutte le imperfezioni, ribellioni e abitudini imperfette proprie della parte inferiore, la quale, spogliata dell’uomo vecchio, è ormai tutta sottomessa a quella superiore. L’anima ha pure bisogno di una grande forza e di un amore sublime per poter ricevere un abbraccio così forte e intimo da parte di Dio. In questo stato, infatti, l’anima raggiunge non solo un alto grado di purezza e di bellezza, ma anche una forza formidabile, a motivo dell’intimo e forte vincolo che si stringe tra lei e Dio tramite questa unione.[124]

 

2. Per poter giungere a Dio, occorre che l'anima abbia conseguito il necessario grado di purezza, di forza e d'amore. Per questo motivo lo Spirito Santo, che è colui che interviene e realizza quest'unione spirituale, desiderando che l’anima arrivi ad avere le qualità per meritarla, parlando con il Padre e il Figlio, nel Cantico dice: Una sorella piccola abbiamo, e ancora non ha seni. Che faremo per la nostra sorella nel giorno in cui se ne parlerà? Se fosse un muro, le costruiremmo sopra un recinto d'argento; se fosse una porta, la rafforzeremmo con tavole di cedro (Ct 8,8-9)Qui per recinto d'argento s'intendono le virtù forti ed eroiche, rivestite di fede, rappresentata dall’argento. Queste virtù eroiche appartengono già al matrimonio spirituale e si fondano sull'anima forte, designata qui dal muro, al cui riparo può riposare serenamente lo Sposo senza essere disturbato da nessuna debolezza. Per tavole di cedro s'intendono gli affetti e le espressioni dell’amore sublime, qui rappresentato dal cedro, ed è l’amore proprio del matrimonio spirituale.

Per essere adornata di tutto ciò, è necessario che la sposa sia porta, cioè che lasci entrare lo Sposo, aprendogli la porta della volontà con un totale e autentico d’amore, che è il del fidanzamento, espresso prima del matrimonio spirituale; i seni della sposa rappresentano l'amore perfetto che essa deve avere per comparire davanti allo Sposo Cristo e consumare il matrimonio.

 

3. Il Cantico dei Cantici, però, dice che la sposa, spinta dal desiderio di quest'incontro, rispose subito: lo sono come un muro e i miei seni sono come torri! (Ct 8,10), che è come dire: la mia anima è così forte e il mio amore tanto sublime da non esservi ostacoli per tale incontro. Ciò è quanto l’anima sposa, spinta dal desiderio di questa unione e trasformazione perfetta, è andata esprimendo nelle strofe precedenti, soprattutto in quella appena commentata, nella quale espone allo Sposo le virtù e le splendide attitudini che ha ricevuto da lui, quasi a obbligarlo ancora di più. Per questo lo Sposo, volendo portare a termine l'opera, pronuncia le due strofe seguenti, nelle quali completa la purificazione dell’anima, la rende forte e la prepara per tale stato, sia nella parte sensitiva che in quella spirituale, liberandola da tutte le contrarietà e le ribellioni, tanto della parte sensitiva quanto del demonio.

O leggerissimi uccelli

leoni, cervi, daini saltatori,

monti, valli, riviere,

acque, venti, ardori

e delle notti vigili timori:

 

io, per le soavi lire

e il canto di sirene, vi scongiuro:

cessino le vostre ire

e non battete al muro,

ché la sposa dorma più sicura.

 

 

SPIEGAZIONE

 

4. In queste due strofe lo Sposo Figlio di Dio dona all’anima sposa il possesso della pace e della tranquillità,[125] rendendo la parte inferiore conforme a quella superiore: la purifica da tutte le sue imperfezioni, mettendo sotto controllo le potenze e le facoltà naturali dell’anima e acquietando tutte le altre passioni, di cui si fa menzione nelle due strofe citate. n significato è il seguente.

Anzitutto lo Sposo scongiura e ordina alle divagazioni inutili della fantasia e dell’immaginazione di cessare in avvenire. Riduce, inoltre, a ragione le due potenze naturali, quella irascibile e quella concupiscibile, che prima affliggevano alquanto l'anima. Eleva, poi, a una funzione perfetta, per quanto è possibile in questa vita, le tre potenze dell’anima, cioè la memoria, l'intelletto e la volontà.

Oltre a ciò, scongiura e comanda alle quattro passioni dell’anima, che sono la gioia, la speranza, il dolore e il timore, di restare d'ora innanzi calme e sottomesse alla ragione.

Tutte queste cose sono significate dai termini che troviamo nella prima strofa.

Lo Sposo fa in modo che cessino tutte le moleste attività e le inquietudini di queste forze, grazie a una grande dolcezza, un grande diletto e una grande forza che l'anima possiede nella comunicazione e nel dono spirituale che Dio le fa di sé in questo periodo. Poiché Dio trasforma vivamente l’anima in sé con questo dono, tutte le potenze, le passioni e le inquietudini dell’anima perdono la loro naturale imperfezione e si trasformano in divine. Per questo lo Sposo dice:

O leggerissimi uccelli.

 

5. Chiama leggerissimi uccelli le divagazioni dell’immaginazione che, leggere e rapide, volano da una parte alI altra; quando la volontà gode, m una pace profonda, le dolci comunicazioni dell’Amato, esse di solito le creano disgusto e cercano di soffocare la sua gioia con le loro sottili agitazioni. Ma lo Sposo le scongiura per le soavi lire, ecc., di cessare; vale a dire: ora che la dolcezza e il diletto dell’anima sono tanto abbondanti e frequenti che esse non li potranno impedire com'erano solite fare un tempo, quando l'anima non aveva ancora raggiunto tale stato, chiede loro che cessino i voli irrequieti e gli slanci sfrenati. Questo comando vale anche per le altre parti di questa strofa, che ora verranno spiegate. Cominciamo dal verso seguente:

leoni, cervi, daini saltatori.

 

6. Per leoni intende gli assalti impetuosi della potenza irascibile, perché questa potenza è audace e ardita nei suoi atti, come i leoni.

I cervi e i daini saltatori rappresentano l'altra potenza dell’anima, quella concupiscibile, cioè la facoltà dell’appetito, che ha due modi di procedere: il primo è quello tipico dei codardi, l’altro dei temerari. Manifesta codardia quando le circostanze le sono contrarie, e allora si ritira e si chiude pavida in se stessa. Qui è paragonata ai cervi: questi, infatti, hanno una disposizione alla concupiscenza più marcata di molti altri animali, ma sono anche molto codardi e timidi. Manifesta temerarietà quando le cose sono favorevoli, e allora non si intimorisce né si scoraggia, ma si fa ardita e ricerca tali cose con tutto l’ardore dei suoi desideri e affetti. In tale temerarietà è paragonata ai daini, che dimostrano tanta concupiscenza per ciò che desiderano che non solo ci vanno incontro di corsa, ma vi si precipitano saltando; ecco il motivo per cui qui li chiama saltatori.

 

7. Ora, scongiurare i leoni vuol dire mettere un freno agli impeti e agli assalti dell’ira; scongiurare i cervi significa fortificare la concupiscenza nella codardia e nelle pusillanimità dov'era prima; scongiurare, infine, i daini saltatori significa soddisfare e smorzare i desideri e gli appetiti che prima procuravano irrequietezza, balzando come daini da un oggetto all’altro per appagare la concupiscenza; questa, ormai, è soddisfatta dalle soavi lire, di cui gode la dolcezza, e dal canto di sirene, nelle cui delizie si sazia.

Osserviamo che lo Sposo qui non scongiura l'ira e la concupiscenza, perché queste potenze non possono mai mancare nell’anima; piuttosto, egli si rivolge ai loro atti molesti e disordinati, rappresentati dai leoni, cervi e daini saltatori, che nello stato di matrimonio spirituale non devono assolutamente esistere.

Monti, valli, riviere.

 

8. Con questi tre termini vengono indicati gli atti difettosi e disordinati delle tre potenze dell’anima, cioè memoria, intelletto e volontà. Questi atti sono disordinati e difettosi quando sono troppo alti o troppo bassi e deboli, o quando, pur senza cadere negli eccessi, inclinano o verso l'uno o verso l'altro. I monti, che sono molto alti, simboleggiano gli atti imperfetti per eccesso. Le valli, che sono basse, rappresentano gli atti di queste tre potenze quando non raggiungono la misura loro conveniente. Le riviere, che non sono né alte né basse, e non essendo pianeggianti partecipano un po' d'entrambi gli eccessi, significano gli atti delle potenze quando eccedono o non raggiungono affatto la linea della giusta misura. Questi atti, pur non essendo estremamente disordinati - il che costituirebbe peccato mortale -, tuttavia lo sono in una certa misura: a volte sono peccati veniali o imperfezioni, per quanto piccole, dell’intelletto, della memoria e della volontà.

Ora, lo Sposo scongiura che tutti questi atti, che non stanno nella giusta misura, cessino per le soavi lire e il canto, di cui si è parlato sopra. In realtà, le lire e il canto mantengono le tre potenze dell’anima così ben accordate e a tal punto giusto che esse agiscono con tutta la perfezione che loro compete: non solo non cadono in eccessi, ma neppure li rasentano.

Si commentano gli altri versi:

acque, venti, ardori

e delle notti vigili timori.

 

9. Questi quattro termini designano gli affetti delle quattro passioni, che sono il dolore, la speranza, la gioia e il timore.[126]

Le acque indicano le inquietudini del dolore che affliggono l’anima e penetrano in essa come l’acqua. Per questo Davide, rivolgendosi a Dio, dice a tale proposito: Salvum me fac, Deus, quoniam intraverunt aquae usque ad animam meam: Salvami, o Dio, le acque sono penetrate fin nell’anima mia (Sal 68[69],2).

I venti rappresentano gli affetti della speranza, perché, come il vento, volano verso l'oggetto assente, che bramano e sperano. A questo riguardo dice ancora Davide: Os meum aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua desiderabam, come a dire: Apro anelante fa bocca e sospiro, perché spero e desidero i tuoi comandamenti (Sal 118[119],131).

Gli ardori contraddistinguono gli affetti della passione della gioia, che infiammano il cuore come il fuoco. Davide afferma a questo proposito: Concaluit cor meum intra me, et in meditatione mea exardescet ignis: Ardeva il cuore nel mio petto, al ripensarci è divampato il fuoco (Sal 38[39],4), vale a dire: nella mia meditazione si accenderà la gioia.

I vigili timori delle notti sono gli affetti dell’altra passione, il timore. Abitualmente sono molto vivi nelle persone spirituali non ancora giunte allo stato di matrimonio spirituale, di cui sto parlando. Talvolta essi provengono da Dio, nel momento in cui vuole concedere loro alcuni favori, come ho detto sopra: di solito lo spirito è in preda al timore e alla paura, mentre la carne e i sensi sono turbati, perché la loro natura non è ancora fortificata, perfezionata né tanto meno abituata a simili grazie. Altre volte questi timori vengono anche da parte del demonio: quando l'anima è chiamata da Dio a raccogliersi in lui e a saggiare la sua dolcezza, il demonio è talmente invidioso e dispiaciuto del bene e della pace dell’anima che cerca d'insinuare in lei orrore e timore per impedire che ne goda, anzi a volte arriva quasi a minacciarla nella sua parte spirituale; quando vede che non può penetrare nell'intimo dell’anima, perché essa è tutta raccolta e unita a Dio, cerca quanto meno di attaccarla dall’esterno, nella sua parte sensitiva, e così insinua distrazioni e divagazioni, provoca angosce, dolori e orrori nei sensi, nel tentativo di turbare la sposa nel suo talamo.

Tali timori sono detti delle notti perché vengono dal demonio e perché con essi il demonio briga per diffondere tenebre nell'anima, per oscurare la luce divina di cui essa gode.[127]

Chiama vigili questi timori perché loro scopo è tenere desta l’anima e sottrarla al suo dolce sogno interiore; d’altra parte il demonio, causa di tali timori, è sempre all’erta per istillarli nell'anima. Detti timori entrano passivamente, da parte di Dio oppure del demonio, nelle persone già spirituali. Non parlo qui di altri timori temporali o naturali, perché non è tipico delle persone spirituali il soffrirne; è tipico, invece, provare i suddetti timori spirituali.

 

10. L'Amato, dunque, scongiura le quattro forme di affetti delle quattro passioni dell’anima perché cessino e si acquietino. Infatti egli dona alla sposa, giunta a questo stato, abbondanza di beni, forza e felicità; grazie alle soavi lire, le fa gustare la sua dolcezza, e grazie al canto delle sirene la colma delle sue delizie. In questo modo le passioni non solo non regnano nell'anima, ma non possono nemmeno recarle il minimo dispiacere.

In questo stato, infatti, la grandezza e la stabilità dell’anima sono talmente possenti che, se prima essa veniva raggiunta dalle acque del dolore per un motivo qualsiasi, come anche per i peccati suoi o per quelli degli altri - cosa che fa soffrire di più le persone spirituali -, ora, anche se valuta la gravità del peccato, non ne ricava sensazioni dolorose. Essa non ha neppure la compassione, cioè il sentimento che. questa virtù produce, sebbene ne possegga le opere e la perfezione. L’anima, a questo punto, non presenta più la debolezza che manifestava prima nella pratica delle virtù; le rimane soltanto la loro forza, costanza e perfezione. L'anima si comporta come gli angeli: questi si rendono perfettamente conto di tutto ciò che causa dolore, senza sentire mai dolore; praticano le opere di misericordia, senza provare il sentimento di compassione. Così è delle anime elevate a questa trasformazione d’amore. A volte, tuttavia, e in alcune circostanze, Dio le lascia in questa loro sensibilità e permette che soffrano, perché possano acquistare meriti e crescere nell’amore, o per altri motivi, come fece con la Vergine, sua Madre, con san Paolo[128] e con altri; ma lo stato presente di per sé non comporta tale sentimento.

 

11. I desideri della speranza non procurano all’anima più alcuna afflizione, perché, soddisfatta com'è dell’unione con Dio, per quanto è possibile in questa vita, nulla di terreno le resta da sperare, come anche nulla di spirituale le resta da desiderare. In realtà, si vede e si sente colma delle ricchezze di Dio. Così, sia che viva sia che muoia, è conformata alla volontà di Dio e in perfetta armonia con essa. Va ripetendo con i suoi sensi e il suo spirito: Fiat voluntas tua: Sia fatta la tua volontà (Mt 6,10), senza eccessi di desideri e di appetiti. E così il desiderio di vedere Dio è privo di sofferenza.

Anche gli affetti della gioia, che di solito suscitavano nell’anima sentimenti instabili, ora le appaiono né troppo esigui né eccessivi. È tale la gioia che prova, infatti, da rassomigliare al mare, che non diminuisce a causa dei fiumi che escono né cresce a causa di quelli che vi entrano. Tale è l'anima, divenuta quella sorgente di cui parla Cristo per bocca di san Giovanni: La sua acqua zampilla per la vita eterna (Gv 4,14).

 

12. poiché ho detto che l'anima non riceve niente di nuovo in questo stato di trasformazione, può sembrare che le vengano tolte le gioie accidentali, che non mancano nemmeno nei beati. Occorre, invece, sapere che, pur non mancandole queste gioie e dolcezze minori, che anzi possiede numerosissime, non per questo le viene aumentata la comunicazione sostanziale dello spirito. Tutto ciò che le può venire di nuovo, essa lo possiede già. E così è più ciò che possiede in sé che non quanto le viene dato di nuovo.

Di conseguenza, ogni volta che a quest'anima vengono offerti godimenti e gioie, sia esteriori che spirituali e interiori, immediatamente si rivolge a godere le ricchezze che già possiede, rimanendo più contenta e felice in esse e in quelle che le vengono comunicate. In un certo senso, in questo l'anima ha una qualche proprietà di Dio: sebbene egli trovi diletto in tutte le cose, non gode di esse quanto di se stesso, perché possiede in sé il bene eminente, superiore a tutte le cose. Allo stesso modo, tutte le nuove gioie e delizie servono all’anima più da richiamo perché goda di ciò che possiede e sente in se, che in quanto novità stesse; torno a ripetere: quanto possiede è più di quelle cose nuove.

 

13. È naturale, infatti, che quando una cosa dà gioia e contentezza all’anima, se questa ne possiede un'altra che stima di più e le dà più gioia, subito se ne ricorda, riponendo in essa il suo diletto e la sua gioia. l’aspetto accidentale di queste novità spirituali e quanto recano di nuovo all’anima è tanto irrilevante, a confronto della sostanza che essa possiede in se, da poter dire che è un niente.[129] L'anima pervenuta a questa completa trasformazione, in cui è perfettamente cresciuta, non cresce per altre novità spirituali, come le altre anime che non sono ancora arrivate a quello stato. Ma è meraviglioso notare come, pur non ricevendo quest'anima nuove delizie, crede sempre di riceverne di nuove e di possederle già. Questo perché le gusta sempre di nuovo, perché il suo bene è sempre nuovo; le sembra quindi di ricevere sempre nuove gioie, senza aver bisogno di riceverle.

 

14. Se si volesse, ora, parlare dell’illuminazione di gloria, in cui Dio a volte avvolge l'anima in questo abituale abbraccio, che è un certo volgersi spirituale ad essa, in cui le fa godere e vedere insieme quest'abisso di delizie e di ricchezze poste in essa, non potremmo trovare parole adatte per descriverlo. Come il sole, quando splende a picco sul mare, ne rischiara persino le profonde insenature e caverne, facendone apparire le perle e le ricchissime vene d'oro e d'altri minerali preziosi, ecc., così questo sole divino che è lo Sposo, volgendosi verso la sposa, porta alla luce le ricchezze dell’anima in modo che anche gli angeli ne rimangono meravigliati e ripetono le parole del Cantico: Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati? (Ct 6,10). In questa illuminazione, anche se così eccelsa, nulla è aggiunto all’anima; essa ne viene solo illuminata perché goda quanto già possedeva.

 

15. Infine, i vigili timori delle notti non raggiungono l'anima, perché è già così illuminata e forte e ben ancorata in Dio che i demoni non possono offuscarla con le loro tenebre, né spaventarla con i loro terrori, né svegliarla con i loro assalti. Nulla può avvicinarla né disturbarla, essendo ormai distaccata da tutte le cose ed entrata nel suo Dio,[130] ove gode ogni pace, gusta ogni soavità e prova piacere in ogni diletto, per quanto gliene consente la condizione del presente stato di vita. A quest'anima possiamo riferire ciò che dice il Saggio: Per un cuore felice è sempre festa (Pro 15,15); come in un banchetto si gustano il sapore di tutti i cibi e la soavità di tutte le musiche, così l'anima, in questa festa conviviale che tiene sul petto dello Sposo,[131] gode ogni diletto e gusta ogni soavità. Ma di ciò che qui avviene, ben poco si è detto e si può esprimere a parole; per quanto si faccia, si dirà sempre la minima parte di ciò che avviene nell'anima giunta a questo stato felice. Se, infatti, l'anima riesce a conquistare la pace di Dio, che, come dice la Chiesa, sorpassa ogni sentire,[132] resterà muta, incapace di parlare.

Si commentano ora i versi della seconda strofa:

 

io, per le soavi lire

e il canto di sirene, vi scongiuro.

 

16. Come ho già detto, per soavi lire qui lo Sposo intende la dolcezza che egli stesso comunica all’anima nello stato di matrimonio spirituale. Come l'armonia delle lire riempie l'anima di gioia e la ricrea, la rapisce e la tiene così in sospeso da farle dimenticare ogni dispiacere e sofferenza, allo stesso modo questa soavità tiene talmente raccolta l'anima in se stessa che nessuna pena la può toccare.

Quindi è come se dicesse: per la soavità che io metto nell'anima, cessino tutte le cose che per l’anima non sono soavi.

Riguardo al canto di sirene, esso rappresenta il diletto che abitualmente l'anima possiede. Lo Sposo chiama questo diletto canto di sirene perché, secondo ciò che dicono, il canto delle sirene è così piacevole e ammaliante da rapire e innamorare chi lo ode, tanto da fargli dimenticare, come estasiato, tutto il resto. Allo stesso modo, il diletto di quest'unione assorbe e ricrea talmente l’anima da renderla come insensibile a tutte le molestie e i turbamenti delle cose dette sopra e incluse nel seguente verso:

cessino le vostre ire.

 

17. Lo Sposo chiama ire tutti i turbamenti e le molestie degli affetti e delle attività disordinate, di cui si è parlato sopra. Come l'ira è un impulso che turba la pace, facendola uscire dai suoi limiti, così tutti i suddetti affetti, ecc., con i loro moti, vanno oltre i confini della pace e della tranquillità dell’anima, turbandola ogni volta che la toccano. Per questo dice:

e non battete al muro.

 

18. Per muro intende la cerchia della pace e il baluardo delle virtù e delle perfezioni di cui l’anima stessa si circonda e si protegge, essendo lei il giardino - di cui si è parlato[133] - dove il suo Amato si pasce in mezzo ai fiori, giardino circondato e custodito solo per lui. Per questo motivo lo Sposo del Cantico chiama la sposa «giardino chiuso»: Giardino chiuso tu sei, le dice, sorella mia (Ct 4,12). Esorta quindi a non toccare neppure la cerchia e il muro di questo suo giardino,

ché la sposa dorma più sicura.

 

19. Cioè: perché ella assapori meglio la quiete e la soavità che gode nell’Amato. A questo punto - è opportuno ricordare - non c'è più porta chiusa per l'anima. Dipende da lei godere di questo soave sonno d'amore quanto e quando vuole, come lascia intendere lo Sposo nel Cantico: lo vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l'amata, finché essa non lo voglia (Ct 3,5).

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 22 [CA 27]

 

1. Era talmente forte il desiderio dello Sposo di liberare e riscattare la sua sposa dalle mani della sensualità e del demonio, che appena l’ha fatto ne gioisce, come si rallegra il buon pastore[134] per la pecora smarrita che ora porta sulle spalle, dopo averla cercata ovunque (Lc 15,5). Oppure come la donna che fa festa per la dramma che ora ha in mano, ma che prima ha cercato accendendo il lume e rovistando per tutta la casa; allora chiama i vicini e gli amici ed esulta con loro dicendo: Rallegratevi con me, ecc. (Lc 15,9). Allo stesso modo, è meraviglioso constatare il piacere e la gioia che questo pastore e Sposo amoroso dell’anima dimostra nel vederla ormai tanto arricchita e perfezionata, al sicuro sulle sue spalle e tenuta con le sue mani nell'unione tanto desiderata.

Egli non gode da solo, ma rende partecipi anche gli angeli e i santi della sua allegria dicendo, come nel Cantico: Uscite, figlie di Sion, guardate il re Salomone con la corona che gli pose sua madre, nel giorno delle sue nozze, nel giorno della gioia del suo cuore (Ct 3,11). Con queste parole chiama l'anima corona, sposa e gioia del suo cuore, portandola sulle sue braccia e procedendo con lei come Sposo dal suo talamo (Sal 18[19],6), Tutto questo egli lascia intendere nella strofa seguente:

 

Entrata ormai è la sposa

nel giardino ameno desiato

e a suo piacer riposa,

il collo reclinato

sopra le dolci braccia dell’Amato.

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. l’anima ha già fatto di tutto per cacciare le volpi, fermare la tramontana e acquietare le ninfe: disturbi, questi, e inconvenienti che le impedivano la gioia perfetta dello stato di matrimonio spirituale. Ha, altresì, invocato e ottenuto il soffio dello Spirito Santo, come ha fatto nelle strofe precedenti, condizione necessaria e adeguata per arrivare alla perfezione di questo stato. Non ci resta ora che trattarne nella presente strofa, in cui a parlare è lo Sposo, che ormai si rivolge all’anima chiamandola sposa e dicendo due cose. La prima è che, dopo essere riuscita vittoriosa su tutti i suoi nemici, l’anima ha raggiunto il felice stato del matrimonio spirituale, tanto desiderato sia dallo Sposo che da lei. E la seconda espone i privilegi di tale stato, di cui gode l'anima in sua compagnia, come quello di poter riposare a suo piacere e tenere il collo reclinato sopra le amorose braccia dell’Amato, come ora spiegherò.

Entrata ormai è la sposa.

 

3. Per spiegare più chiaramente l'ordine di queste strofe[135] e far comprendere il cammino solitamente percorso dall’anima per arrivare al matrimonio spirituale, lo stato più elevato, di cui ora, con l'aiuto di Dio, parlerò, si deve osservare che, prima di raggiungerlo, l'anima si è anzitutto esercitata nelle prove e nelle amarezze della mortificazione, non che nella meditazione delle cose spirituali, di cui ha parlato all’inizio fino alla strofa in cui dice: Mille grazie spargendo. Poi è entrata nella via contemplativa, in cui ha attraversato i sentieri stretti dell’amore, come ho raccontato nel susseguirsi delle strofe fino a quella che dice: Distoglili, Amato, in cui è avvenuto il fidanzamento spirituale. Successivamente ha proseguito per la via unitiva, dove ha ricevuto numerose e magnifiche comunicazioni, visite, doni e gioie dallo Sposo. Proprio come una fidanzata, è andata crescendo e perfezionandosi nell'amore di lui, come ha cantato dalla strofa del fidanzamento: Distoglili, Amato, fino alla strofa presente, che inizia con: Entrata ormai è la sposa. Non resta, ormai, che celebrare il matrimonio spirituale tra quest'anima e il Figlio di Dio.

Il matrimonio è uno stato incomparabilmente superiore al fidanzamento spirituale, perché è una trasformazione totale dell’anima nell'Amato. In questa trasformazione entrambe le parti si donano l’una all’altra, in maniera totale, con una certa consumazione dell’unione d'amore, in cui l'anima è resa divina e Dio per partecipazione, per quanto è possibile in questa vita. Penso che questo stato non si realizzi se l’anima non è confermata in grazia di Dio, perché, confermandosi qui la fedeltà di Dio nell'anima, si conferma quella d'entrambe le parti. Ne consegue che questo è lo stato più elevato che si possa raggiungere nella vita presente.

Come in virtù del matrimonio sulla terra i due sposi formano una sola carne, come dice la sacra Scrittura (Gn 2,24), così, quando si consuma il matrimonio spirituale tra Dio e l'anima, vi sono due nature nell'unico spirito e amore di Dio. San Paolo, adducendo questo paragone, afferma a tale proposito: Chi si unisce al Signore, forma con lui un solo spirito (1Cor 6,17). Così, per esempio, quando la luce di una stella o di una candela si unisce e confonde con quella del sole, ciò che brilla non è più la stella o la candela, ma il sole, che contiene in sé unite tutte le altre luci.

 

4. Di questo stato parla lo Sposo nel presente verso, dicendo: Entrata ormai è la sposa. Ciò vuol dire che ella è stata elevata al di sopra di tutto ciò che è temporale e naturale, al di sopra di tutti gli affetti, maniere o forme di spiritualità. Lasciate da parte tutte le tentazioni, i turbamenti, le pene, le sollecitudini e le preoccupazioni, è trasformata in questo sublime abbraccio.

Si commenta perciò il verso seguente:

nel giardino ameno desiato.

 

5. È come se dicesse: si è trasformata nel suo Dio, denominato qui giardino ameno per il delizioso e dolce riposo che l’anima trova in lui. A questo giardino, dove si verifica una trasformazione totale che consiste nella gioia, nelle delizie e nella gloria del matrimonio spirituale, non si giunge senza passare prima attraverso il fidanzamento spirituale e l’amore sincero, abituale tra fidanzati. Infatti, dopo che l'anima si è mostrata per qualche tempo fidanzata piena d'amore assoluto e soave per il Figlio di Dio, Dio la chiama e la introduce nel giardino fiorito a consumare questo stato felicissimo del matrimonio con lui. Qui si compie una tale unione delle due nature e una tale comunicazione della natura divina alla natura umana che, pur non mutando il loro essere, ognuna sembra Dio. Sebbene nella vita presente questo non possa avvenire perfettamente, tuttavia è superiore a tutto ciò che si possa dire o pensare.

 

6. Ciò è quanto lo Sposo lascia intendere molto bene nel Cantico dei Cantici, quando invita a questo stato l’anima divenuta ormai sua sposa dicendole: Veni in hortum meum, soror mea, sponsa; messui myrrham meam cum aromatibus meis: Vieni ed entra nel mio giardino, sorella mia, sposa, poiché ho già raccolto la mia mirra e il mio balsamo (Ct 5,1). La chiama sorella e sposa, perché lo era già per l’amore e il dono di sé che le aveva fatto prima di chiamarla allo stato di matrimonio spirituale. Egli ha già raccolto la sua mirra e il suo balsamo, cioè i frutti ormai maturi prodotti dai fiori e pronti per l’anima. Questi frutti sono le delizie e le magnificenze che lo Sposo possiede in sé e che comunica all’anima in questo stato.

Ecco perché egli è per l'anima giardino ameno e desiato: quello che l'anima desidera in tutte le sue opere è la consumazione e la perfezione di questo stato, scopo che essa persegue insieme a Dio. Ciò spiega perché l'anima non si concede nessun riposo fino a quando non raggiunge questo stato, dove trova un'abbondanza e pienezza di Dio molto più grande, una pace più sicura e stabile e una dolcezza più soave, incomparabilmente più perfetta di quella del fidanzamento spirituale. Ormai al sicuro tra le braccia dello Sposo, l’anima sente di avere con lui uno stretto abbraccio spirituale, un vero abbraccio, attraverso il quale vive la vita di Dio.

In quest'anima si verifica ciò che dice san Paolo: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2,20). Vivendo ormai una vita così felice e gloriosa, come è la vita di Dio, consideri ciascuno - se può - quanto piena di dolcezza dev'essere la vita che quest’anima vive, vita in cui, come Dio non può provare alcun dispiacere, così neppure essa lo sente. Al contrario, essa gode di Dio, gusta le sue delizie e la sua gloria nella sua sostanza, tra! sformata com'è in lui.

Per questo il seguito dice:

e a suo piacer riposa,

il collo reclinato...

 

7. Qui il collo significa la forza dell’anima, mediante la quale, come ho detto, si realizza quest'intima unione tra la sposa e lo Sposo, perché l'anima non potrebbe tollerare un abbraccio tanto stretto se non fosse già molto forte. E poiché grazie a questa forza l’anima ha lavorato, ha praticato le virtù e ha vinto i vizi, è giusto che si riposi dopo tali sforzi e vittorie:

il collo reclinato

sopra le dolci braccia dell’Amato.

 

8. Reclinare il collo tra le braccia di Dio è aver già unito la propria forza, o meglio, la propria debolezza, alla forza di Dio, perché le braccia di Dio simboleggiano la sua forza, sulla quale la nostra debolezza, appoggiandosi e lasciandosi trasformare, acquista la forza stessa di Dio.

Molto appropriatamente, dunque, questo stato del matrimonio spirituale viene rappresentato dall’abbandono tra le dolci braccia dell’Amato: Dio è ormai la forza e la dolcezza dell’anima; in lui essa trova la sua protezione, viene posta al riparo da tutti i mali e gusta la soavità di tutti i beni. Per questo, nel Cantico dei Cantici, la sposa che desidera pervenire a questo stato dichiara allo Sposo: Oh, se tu fossi mio fratello, allattato al seno di mia madre! Trovandoti fuori ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi! (Ct 8,1). Il fatto di chiamarlo fratello fa comprendere l'uguaglianza che vige nel fidanzamento d’amore tra i due prima di arrivare a questo stato.

Dicendo: allattato al seno di mia madre, vuol significare: inaridisci ed estingui in me gli appetiti e le passioni, cioè i seni e il latte della madre Eva nella nostra carne, che sono di ostacolo al matrimonio. Dopo aver fatto questo, ti possa io trovare fuori, cioè fuori di tutto il creato e di me stessa, nella solitudine e nella nudità di spirito. Una volta pacificati i suddetti appetiti, a tu per tu, ti possa finalmente baciare, cioè possa unire direttamente a te, senza intermediari, la mia natura ormai sola e libera da ogni impurità temporale, naturale e spirituale. Simile unione si compie solo nel matrimonio spirituale, che è il bacio dell’anima a Dio,[136] in cui nessuno la disprezza né oserebbe farlo. Raggiunto questo stato, né il demonio né la carne né il mondo né le passioni la disturbano. Qui si compie quanto si dice ancora nel Cantico dei Cantici: L’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata, i fiori sono apparsi nei campi (Ct 2,11-12).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 23 [CA 28]

 

1. Nel sublime stato di matrimonio spirituale, con grande facilità e frequenza lo Sposo rivela all’anima, quale sua fedele consorte, i suoi meravigliosi segreti, perché l'amore vero e totale non sa nascondere nulla alla persona amata. Le comunica soprattutto i dolci misteri della sua incarnazione, i mezzi e le vie da lui impiegati per la redenzione dell’umanità, una delle opere più eccelse di Dio e perciò tra le più squisite per l'anima. Per questo, pur comunicandole molti altri misteri, lo Sposo nella strofa seguente ricorda solo quello dell’incarnazione, come il più importante di tutti.[137] E così, parlando con lei, dice:

All’ombra di quel melo

a me fosti sposata,

qui ti porsi la mano,

e fosti riscattata

dove tua madre fu violata.

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. In questa strofa lo Sposo spiega all’anima il piano ammirabile e i mezzi adoperati per redimerla e sposarla unendola a se: quegli stessi mezzi con cui la natura umana fu sviata e perduta. Dice che, come per mezzo dell’albero proibito nel paradiso la natura umana fu perduta e corrotta da Adamo, così nell’albero della croce è stata redenta e riscattata:[138] qui le ha offerti la mano del suo favore e della sua misericordia attraverso la sua passione morte, eliminando l'inimicizia esistente, dal peccato originale[139] in poi, tra l'uomo e Dio. Perciò dice:

All’ombra di quel melo.

 

3. Cioè sotto la protezione dell’albero della croce, simboleggiato qui d melo, sul quale il Figlio di Dio ci redense e, di conseguenza, sposò unendo a sé la natura umana, quindi ogni anima, donandole sulla croce la sua grazia e i suoi favori. E aggiunge:

a me fosti sposata,

qui ti porsi fa mano.

 

4. Vale a dire: ti ho concesso il mio favore e il mio aiuto, elevandoti dalla tua vile condizione per vivere in mia compagnia ed essere unita me come sposa.

E fosti riscattata

dove tua madre fu violata.

 

5. Come tua madre, cioè la natura umana,[140] fu violata nei tuoi progenitori sotto l'albero, così tu sei stata riscattata sotto l'albero della croce. S tua madre ai piedi dell’albero ti ha dato la morte, io sotto l'albero della croce ti ho donato la vita. In questo modo Dio le svela a poco a poco le disposizioni e il piano della sua sapienza; le mostra come egli sappia tanto saggiamente e ammirabilmente far nascere il bene dal male e volgere al maggior bene ciò che fu causa del male.

Quanto è contenuto in questa strofa corrisponde letteralmente alle prole proferite dallo Sposo alla sposa nel Cantico dei Cantici: Sub arbore malo suscitavi te; ibi corrupta est mater tua, ibi violata est genitrix tua: Sotto il melo ti ho svegliata; là dove tua madre fu corrotta, là dove colei che ti generò fu violata (Ct 8,5 Volg.).[141]

 

6. Lo sposalizio celebrato sulla croce non è quello di cui sto parlando ora: quello è lo sposalizio avvenuto una volta sola, quando Dio concesse all'anima la prima grazia, al momento del battesimo; questo, invece, avviene per via di perfezione, e si compie a poco a poco, nei suoi gradi.[142] Anche se si tratta, in fondo, della stessa cosa, la differenza tra i due consiste nel fatto che uno si realizza secondo il passo dell’anima e quindi procede lenta mente; l'altro, invece, secondo il passo di Dio, e quindi si realizza tutto in una volta.

Il matrimonio di cui sto parlando è quello descritto da Dio per bocca di Ezechiele, quando si rivolge all'anima in questi termini: Nel giorno in cui nascesti fosti gettata in aperta campagna come oggetto di ripugnanza. Io ti passai vicino, ti vidi immersa nel tuo sangue e ti dissi: «Vivi, nonostante il tuo sangue, e cresci come l’erba del campo». Crescesti, ti facesti grande, giungesti al fiore della giovinezza. Crebbero i tuoi seni e si moltiplicarono i tuoi capelli: ma eri ancora nuda e piena di confusione. Ti passai vicino e ti vidi:. eri proprio nel tempo dell’amore. Allora stesi il mio mantello su di te, coprii la tua nudità, ti feci un giuramento; feci con te un patto, oracolo di Dio, mio Signore, e fosti mia. Ti feci il bagno, lavai il tuo sangue e ti unsi con olio, ti misi una veste variopinta, ti infilai calzature preziose, ti cinsi con una fascia di bisso e ti ricoprii di seta. Ti abbellii di ornamenti: ti misi braccialetti alle braccia e una collana al collo, ti misi un anello al naso e pendenti alle orecchie e una corona elegante sulla testa: ti ornai d’oro e d’argento; bisso, veli preziosi e stoffe variopinte erano il tuo vestiario; mangiavi farina purissima, miele e olio. Diventasti molto, molto bella e giungesti fino a essere regina. Si diffuse la tua fama tra le genti per la tua bellezza: eri semplicemente perfetta (Ez 16,5-14), Fin qui le parole di Ezechiele. Questo avviene all'anima di cui sto parlando.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 24 [CA 15]

 

1. Dopo questa deliziosa mutua donazione della sposa e dell’Amato, parlerò immediatamente del loro talamo, nel quale essa gode molto più stabilmente delle delizie dello Sposo. Per questo motivo, nella strofa che segue essa parla del loro talamo, che è divino, puro e casto, ove l'anima giace divina, pura e casta. Il talamo infatti non è che il suo stesso Sposo, il Verbo, Figlio di Dio, come dirò subito, nel quale si adagia, grazie alla suddetta unione d'amore. L'anima lo chiama talamo fiorito, perché il suo Sposo non solo è fiorito, ma, com'egli stesso dice di sé nel Cantico dei Cantici, è un narciso di Saron, un giglio delle valli (Ct 2,1). L'anima, allora, non si adagia solo sul talamo fiorito, ma sul fiore stesso, che è il Figlio di Dio, il quale racchiude in sé profumo divino, fragranza, grazia e bellezza, come dice egli stesso per bocca di Davide: La bellezza dei campi è con me (Sal 49[50],11 Volg.). Perciò l'anima canta le proprietà e le grazie del suo talamo, dicendo:

 

Fiorito è il nostro talamo,

da tane di leoni circondato,

con porpora tessuto, di pace edificato,

di mille scudi d’oro coronato.

 

SPIEGAZIONE

 

2. Nelle due strofe precedenti[143] l'anima sposa ha cantato le grazie e le grandezze del suo Amato, il Figlio di Dio. In questa, non solo continua, ma canta anche il felice ed eccelso stato in cui si vede posta e la sicurezza che vi gode.

In terzo luogo canta la ricchezza di doni e di virtù di cui si vede colmata e ricoperta nel talamo del suo Sposo; dice infatti di vivere ormai in unione con Dio e in lui di possedere le virtù in tutta la loro pienezza.

In quarto luogo dichiara di possedere la perfezione della carità.

Infine dice di godere una perfetta pace spirituale e di essere tutta arricchita e abbellita di doni, per quanto è possibile possederli e goderli in questa vita, come dirò spiegando i singoli versi.[144] La prima cosa che l'anima canta, quindi, è il diletto che prova nell’unione con l’Amato, quando dice:

Fiorito è il nostro talamo.

 

3. Ho detto che questo talamo è lo sposo Figlio di Dio, che per l’anima è fiorito. È qui che l'anima, divenuta sua sposa, è unita e adagiata in lui. È qui ove le si concedono il petto e l'amore dell’Amato. Ciò vuol dire che le vengono comunicati la sapienza, i segreti, le grazie, le virtù e i doni di Dio, favori che la riempiono di bellezza, di ricchezza e di delizie, al punto che le sembra di essere in un letto di svariatissimi e soavi fiori divini che la dilettano con il loro contatto e la ricreano con il loro profumo. Molto giustamente l'anima designa quest'unione d'amore con Dio come talamo fiorito, perché così lo chiama la sposa parlando con lo Sposo nel Cantico dei Cantici: Lectulus noster floridus: Il nostro letto è coperto di fiori (Ct 1,15 Volg.).

Lo chiama nostro perché le stesse virtù e lo stesso amore, quello dell’Amato, sono ormai d'entrambi, ed entrambi condividono lo stesso diletto, come dice lo Spirito Santo nei Proverbi: Le mie delizie sono tra i figli dell’uomo (Pro 8,31). L'anima dice anche che questo talamo è fiorito, perché in questo stato le sue virtù sono ormai perfette ed eroiche; non poteva essere così finché questo letto non fosse fiorito per la sua unione perfetta con Dio.

Subito dopo canta la seconda proprietà nel verso seguente: da tane di leoni Circondato.

 

4. Per tane di leoni s'intendono le virtù che l'anima possiede in questo stato d'unione con Dio. Le tane dei leoni, infatti, sono molto sicure e al riparo da tutti gli altri animali. Questi, temendo la forza e il coraggio del leone che vi sta dentro, non solo non ardiscono entrare, ma nemmeno osano sostare nei dintorni. Così è di ogni virtù: quando l’anima possiede una virtù in modo perfetto, questa diventa per lei come una tana di leoni, in cui dimora sicuro lo Sposo Cristo, unito all'anima per mezzo di quella virtù e di ciascun'altra, come un forte leone. L'anima, da parte sua, unita allo Sposo per mezzo di quelle stesse virtù, è forte come un leone, perché partecipa delle perfezioni di Dio.

In questo stato l'anima è così ben fortificata da ciascuna virtù in particolare e così ben protetta da tutte le virtù insieme, che nel talamo fiorito dell’unione con Dio i demoni non solo non osano attaccarla, ma nemmeno comparirle dinanzi a motivo del grande timore che provano nel vederla tanto elevata, decisa e coraggiosa, perfetta nelle virtù, dentro il talamo dell’Amato. Da quando è unita a Dio per trasformazione d'amore, la temono come lui stesso e non osano nemmeno guardarla. Il demonio[145] ha molta paura dell’anima veramente perfetta.

 

5. Dice anche che il talamo è circondato da queste tane, cioè dalle virtù. In questo stato, infatti, le virtù sono talmente collegate fra loro, che si rafforzano a vicenda e confluiscono tutte nella più alta perfezione dell’anima, sostenendosi le une con le altre, al punto che non resta alcuna parte sguarnita o debole. Così, non solo il demonio non può entrarvi, ma nessuna cosa di questo mondo, né dall’alto né dal basso, la può turbare, molestare o anche solo toccare. Essendo ormai libera da ogni schiavitù delle passioni naturali, estranea alle tempeste di quaggiù e distaccata dalle vicissitudini degli affanni temporali, gode in tutta sicurezza della partecipazione di Dio.

La stessa cosa desiderava la sposa del Cantico dei Cantici, quando diceva: Oh, se tu fossi mio fratello, allattato al seno di mia madre! Trovandoti fuori ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi (Ct 8,1). Questo bacio è l’unione di cui sto parlando, nella quale l’anima si fa uguale a Dio per amore. Per questo dice che desidererebbe tanto che l’Amato fosse suo fratello, cioè uguale a lei, e che fosse allattato al seno di sua madre, cioè consumasse tutte le [im]perfezioni e le passioni della sua natura, ereditate dalla madre Eva. Allora, trovandolo fuori da solo, potrebbe unirsi a lui libera da tutte le cose, spoglia, nella volontà e nell’appetito, di tutto. E nessuno la disprezzerebbe, cioè né il mondo né la carne né il demonio oserebbero attaccarla. Essendo l'anima libera, purificata da tutte le cose e unita a Dio, niente potrebbe infastidirla. Ne consegue che, in questo stato, l'anima gode ormai d'una soavità e pace abituale che non perderà mai più.

 

6. Ma oltre a quest'abituale e pacifica serenità sogliono aprirsi nell’anima e spandere il loro profumo i fiori delle virtù del giardino di cui si parlava sopra, in modo tale che l'anima ha la sensazione d'essere colma delle delizie di Dio.

Ho detto che i fiori delle virtù sogliono sbocciare nell’anima, perché, sebbene l'anima sia ricolma di virtù perfette, non sempre le gode effettivamente. Ripeto: abitualmente essa gode della pace e della tranquillità che le recano, ma si può dire che le virtù, in questa vita, sono nell’anima come fiori ancora in boccio, chiusi nel loro giardino. A volte è un incanto vederle aprirsi sotto l'azione dello Spirito Santo e spandere il loro fragrante profumo in tutta la loro varietà.

Difatti all'anima potrà accadere di vedere in sé i fiori delle montagne, di cui si è parlato, cioè l'abbondanza, la grandezza e la bellezza di Dio. Intrecciati con essi, potrà scorgere i gladioli delle boschive valli, cioè il riposo, il refrigerio e la protezione; e, in mezzo ad essi, le rose olezzanti delle isole inesplorate, cioè le conoscenze straordinarie di Dio. Essa si vedrà altresì penetrata dal profumo dei gigli dei fiumi gorgoglianti, cioè dalla maestà di Dio, che riempie tutta l'anima. Mescolato a questo profumo troverà quello delicato del gelsomino, che diffonde il suo odore sotto il sibilo dei venti innamorati, di cui si diletta l'anima in questo stato. In una parola, essa gode di tutte le altre virtù [e doni] menzionati, cioè della conoscenza tranquilla, della musica silenziosa, della solitudine sonora e della cena che ristora e innamora. A volte il piacere che tutti questi fiori insieme danno alL’anima è tale che essa può veramente dire: Fiorito è il nostro talamo, / da tane di leoni circondato. Beata l'anima che in questa vita ha meritato di sentire talvolta il profumo di questi fiori divini!

E aggiunge che questo talamo è

con porpora tessuto.[146]

 

7. Nella sacra Scrittura la porpora indica la carità; di essa si vestono e si servono i re. L’anima dice che questo talamo fiorito è tessuto con porpora, perché tutte le sue virtù, le sue ricchezze e i suoi beni crescono, fioriscono e sono oggetto di godimento nella carità e nell’amore del Re del cielo. Senza quest'amore l'anima non potrebbe godere di questo talamo e dei suoi fiori. Così, tutte queste virtù nell’anima sono in qualche modo tessute con l’amore di Dio, come su un fondo dove si conservano perfettamente; tutte e ciascuna sono come immerse nell’amore, perché inducono l’anima a innamorarsi sempre più di Dio; in tutte le cose e le azioni operano con amore per il maggior amore di Dio.

Ecco cosa significa l'espressione tessuto con porpora. Il Cantico dei Cantici lo lascia intendere chiaramente quando dice che il baldacchino o talamo che Salomone si costruì, lo fece di legno del Libano, le sue colonne d’argento, d’oro la sua spalliera, i gradini coperti di porpora, tutto ordinato mediante la carità (Ct 3,9-10 Volg.). Le virtù e le doti che Dio pone nel talamo dell’anima, raffigurate dal legno del Libano e dalle colonne d'argento, hanno una spalliera d'amore, che è l'oro. Infatti le virtù si adagiano e si conservano nell’amore; e tutte, tramite la carità di Dio e dell’anima, operano m armonia reciproca.

Dice anche che questo talamo

è di pace edificato.

 

8. L'anima espone ora il quarto pregio di questo talamo, che in ordine dipende dal terzo, di cui ha appena parlato: il terzo era il perfetto amore [che viene dall’Amore perfetto], la cui proprietà è scacciare ogni timore, come dice san Giovanni (1Gv 4,18); di qui deriva la perfetta pace dell’anima, che è la quarta proprietà di questo talamo.

Per comprendere meglio, occorre sapere che ognuna delle virtù è, per sua natura, pacifica, mite e forte, quindi produce nell’anima che la possiede questi tre effetti: pace, mansuetudine,fortezza. Ora, poiché questo talamo è fiorito, composto cioè dai fiori delle virtù, come ho detto, e tutte queste virtù sono pacifiche, miti e forti, ne consegue che è di pace edificato e l'anima è pacifica, mite e forte. Sono queste le tre proprietà contro cui il mondo, il demonio e la carne non possono combattere. Per mezzo delle virtù l’anima è posta in una tale pace e sicurezza da sembrarle di essere tutta edificata di pace. Espone poi la quinta proprietà di questo talamo fiorito, che è

di mille scudi d’oro coronato.

 

9. Questi scudi sono le virtù e i doni dell’anima, che, sebbene siano i fiori e le altre cose di questo talamo, le sono anche corona e premio per la fatica sostenuta nell’averle guadagnate. Non solo, ma costituiscono anche la sua difesa, come forti scudi, contro i vizi sconfitti con la pratica delle virtù e dei doni. Per questo il talamo fiorito della sposa è coronato dalle virtù, che sono premio per la sposa e suoi scudi di protezione.

Dice che sono d’oro per indicare il grande valore della virtù. Lo stesso dice la sposa del Cantico dei Cantici: Ecco la lettiga di Salomone: sessanta prodi le stanno intorno, tra i più valorosi d'Israele... Ognuno porta la spada al fianco contro i pericoli della notte (Ct 3,7-8).

E aggiunge che sono mille, per indicare la moltitudine delle virtù, delle grazie e dei doni di cui Dio arricchisce l'anima in questo stato. Anche per significare le innumerevoli virtù della sposa usa lo stesso termine, dicendo: Come la torre di Davide il tuo collo, costruita a guisa di fortezza; mille scudi vi sono appesi: tutte armature di prodi (Ct 4,4).

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 25 [CA 16]

 

1. Giunta a questo stato di perfezione, l'anima non si contenta di esaltare e lodare le magnificenze del suo Amato, il Figlio di Dio, né di cantare e ringraziare per i favori che da lui riceve e per la gioia che in lui gode. Essa fa riferimento, altresì, ai favori che egli accorda alle altre anime,[147] perché in questa beata unione d'amore conosce queste e quelli. Ecco perché, mentre lo loda e lo ringrazia per i favori concessi alle altre anime, di ce la seguente strofa:

 

Dietro le tue vestigia

si lancian le giovani in cammino,[148]

a un tocco di faville,

per l’aromato vino,

effondon un balsamo divino.

 

SPIEGAZIONE

 

2. In questa strofa la sposa loda l’Amato per tre favori che egli accorda alle anime devote allo scopo d'incoraggiarle maggiormente e condurle a un più alto amore di Dio. poiché essa li conosce per esperienza in questo stato, ne fa menzione qui.

Il primo favore divino è una soavità di sé che Dio dona alle anime e che è talmente efficace da farle camminare molto rapidamente nella via della perfezione.

Il secondo è una visita amorosa con cui tutto a un tratto accende d'amore le anime.

Il terzo è un’abbondanza di carità che infonde nelle anime, per mezzo della quale le inebria talmente che il loro spirito viene sospinto, sia da questa ebbrezza che dalla visita amorosa, a innalzare a Dio lodi e soavi affetti d'amore. L'anima si esprime dunque così:

Dietro le tue vestigia.

 

3. Le vestigia sono le impronte lasciate da chi le ha impresse e consentono di seguire chi si sta cercando. Ora, la soavità e la conoscenza che Dio concede di sé all'anima che lo cerca sono vestigia o impronte da cui si può riconoscere e cercare Dio. Ecco perché l'anima qui dice al Verbo suo Sposo: dietro le tue vestigia, cioè seguendo la scia di dolcezza che imprimi e infondi e ti profumo che spargi,

si lancian le giovani in cammino.

 

4. Si tratta delle anime devote che, nel giovanile vigore ricevuto dalla soavità delle tue vestigia, corrono qua e là, cioè si muovono verso molte parti e per vie differenti, ciascuna secondo lo spirito che ha ricevuto da Dio o lo stato di vita in cui si trova. Vi sono differenze tra le loro pratiche di pietà e opere spirituali, ma tutte seguono il cammino della vita eterna, cioè la perfezione evangelica. Così, dopo aver praticato la nudità di spirito e il distacco da tutte le cose create, alla fine s'incontrano con l’Amato per unirsi a lui nell’amore.

Questa soavità e impronta di sé che Dio lascia nell’anima, le conferisce una grande agilità perché possa corrergli dietro. L’anima si affatica poco o nulla per seguire questo cammino. Al contrario, è mossa e attratta da quest'impronta di Dio, non solo a cominciare questo cammino, ma anche a correre in molti modi, come ho detto, su questa via. Ecco perché la sposa, nel Cantico dei Cantici, chiede allo Sposo questa attrazione divina: Trahe me; post te curremus in odorem unguentorum tuorum: Attirami a te! Dietro a te correremo all'odore dei tuoi profumi (Ct 1,3 Volg.). E dopo aver assaporato questo profumo divino dice: In odorem unguentorum tuorum currimus: adolescentulae dilexerunt te nimis: Corriamo al tuo profumo olezzante: per questo le giovinette ti amano (Cfr. Ct 1,3 e 2 Volg.). Dal canto suo Davide afferma: Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore (Sal 118[119],32).

A un tocco di faville

 per l’aromato vino,

effondon un balsamo divino.

 

5. Nei primi due versi ho spiegato che le anime, dietro le tue vestigia, / si lancian in cammino con esercizi e opere esteriori. Ora, in questi ultimi tre versi, la sposa ci fa comprendere l'esercizio interiore della volontà che tali anime compiono, spinte da due altri favori o visite intime dell’Amato. Essa li chiama tocco di faville e aromato vino;[149] quanto all'esercizio interiore della volontà provocato da queste due visite, lo chiama e/fusione di balsamo divino.

Anzitutto bisogna dire che questo tocco di faville, di cui si parla qui, è un tocco delicatissimo che l'Amato a volte fa all'anima, anche quando essa è molto distratta. Questo tocco accende nel suo cuore un tale fuoco d'amore, quasi che fosse scoppiata non soltanto una scintilla di fuoco e l’avesse incendiata! Allora, con grande celerità, come chi si sveglia all'improvviso, la volontà si accende esplodendo in atti di amore, desiderio, lode, ringraziamento, rispetto, adorazione e preghiera verso Dio con grande gusto d'amore. Tutti questi atti la sposa li chiama e/fusioni di balsamo divino; corrispondono al tocco di faville uscite dall’amore divino che sprigionò la scintilla; è il balsamo divino che fortifica e guarisce l'anima con il suo profumo e la sua sostanza.

 

6. Di questo tocco divino parla la sposa nel Cantico dei Cantici in questi termini: Dilectus meus misit manum suam per foramen, et venter meus intremuit ad tactum eius: Il mio Diletto passò la mano per la fessura dell’uscio, e mentre lo toccava fremettero le mie viscere (Ct 5,4).

Il tocco dell’Amato rappresenta il tocco d'amore concesso qui all'anima. La mano simboleggia il favore che le accorda. La fessura[150] attraverso cui è passata la sua mano indica lo stato, il genere e il grado di perfezione che l’anima possiede; a seconda di tale perfezione, il tocco è più o meno intenso e l’anima possiede tale o tal altra qualità spirituale. Per le viscere che fremettero s'intende la volontà, che ha ricevuto il tocco. E il fremito significa che gli appetiti e gli affetti dell’anima si elevano a Dio per produrre atti di desiderio, amore, lode e tutti gli altri che ho detto, che sono le effusioni di balsamo che traboccano da questo tocco.

Per l’aromato vino.

 

7. Questo vino aromatico è un altro favore, molto più grande, che Dio talvolta accorda alle anime già progredite. Lo Spirito Santo le inebria con un soave, dolce e forte vino d'amore, che per questo motivo chiama aromato vino. Difatti, come il vino viene [aromatizzato] facendolo fermentare con molte e diverse spezie odorose e corroboranti, così è per quest’amore che Dio concede a coloro che sono già perfetti: è fermentato e depositato nelle loro anime, aromatizzato con le virtù che l’anima ha ormai acquisito. Tale vino, reso aromatico da queste preziose spezie, conferisce all'anima, nelle visite divine, una tale forza e un'ebbrezza così piena e soave da farle indirizzare con una forza e un’efficacia molto grandi quelle effusioni verso Dio, cioè gli atti di lode, amore, adorazione, ecc., di cui ho parlato; tutto questo avviene con uno straordinario desiderio di operare e di soffrire per lui.

 

8. È opportuno notare che questo favore della soave ebbrezza non passa così rapidamente come la scintilla, ma dura più a lungo. La scintilla, infatti, tocca l'anima e passa, mentre il suo effetto dura per un po' e, talvolta, anche a lungo. Il vino aromato, invece, di solito dura a lungo, come l'effetto che produce e che consiste, ripeto, in un amore pieno di soavità nell’anima. A volte può durare uno o due giorni, altre volte più giorni, anche se non sempre con la stessa intensità, perché diminuisce o cresce, indipendentemente dalla volontà dell’anima. Talvolta, senza far niente da parte sua, l'anima sente nel suo intimo che si va soavemente inebriando e infiammando di questo vino celeste, come dice Davide: Ardeva il cuore nel mio petto, al ripensarci è divampato il fuoco (Sal 38[39],4).

Le effusioni di quest'ebbrezza d'amore a volte durano per tutto il tempo che dura l'ebbrezza stessa. Altre volte, invece, pur essendoci l'ebbrezza, non vi sono queste effusioni e, quando ci fossero, sono più o meno intense, secondo l'intensità dell’ebbrezza stessa. Ma le effusioni e gli effetti della scintilla ordinariamente durano più dell’ebbrezza, anzi essa li lascia nell’anima e sono più vivi di quelli prodotti dall’ebbrezza, perché a volte questa scintilla divina lascia che l'anima bruci e si consumi d'amore.

 

9. poiché ho parlato di «vino fermentato», sarà bene notare brevemente la differenza che intercorre tra il vino fermentato, cioè vecchio, e il vino nuovo. È la stessa che passa tra l'amore dei perfetti e quello dei principianti, ed è utile per spiegare un po' la dottrina riguardante le persone spirituali[151].

Il vino nuovo non ha ancora assimilato e decantato la feccia, bolle esternamente e non se ne può valutare la bontà e la qualità fin che non abbia I smaltito la feccia e il suo bollore; fino allora corre il rischio di corrompersi, è di sapore aspro e grossolano e fa male a chi ne beve molto. La sua forza è soprattutto nella feccia.

Il vino vecchio, invece, ha smaltito e depositato la feccia e non ha quindi i bollori esterni del nuovo; se ne può apprezzare la bontà e non corre più il rischio di corrompersi, perché è passata la fermentazione con i suoi bollori. Così è del vino ben fermentato. È assai raro che si alteri e inacidisca; ha un sapore gradevole e la sua forza risiede nella sostanza stessa del vino e non più nel gusto; dà forza e buon umore a chi lo beve.

 

10. Quelli che cominciano ad amare e servire Dio sono simili al vino. Il fervore del vino del loro amore si manifesta molto all'esterno, nei sensi, non avendo ancora smaltito la feccia dei loro sensi deboli e imperfetti; la forza del loro amore risiede nel fervore sensibile ed e questo che ordinariamente li fa agire; per tale fervore si muovono. Non ci si può quindi fidare di quest'amore sensibile, finché non si estinguono quei fervori e gusti grossolani dei sensi. Infatti, come il fervore e il calore dei sensi possono portarli a un amore eccellente e perfetto ed essere un buon mezzo per raggiungerlo, se è ben diretta la feccia della loro imperfezione, così è anche molto facile, in questi inizi e novità di gusti, guastare il vino dell’amore e perdere il fervore e il sapore del vino nuovo. Questi principianti nell’amore provano sempre ansie e pene d'amore sensibile, che devono necessariamente moderare, perché se agiscono a lungo sotto l'influsso di questo fervore sensibile, la loro natura si rovinerà. Finché queste ansie e pene d'amore, [cioè il sapore] del vino nuovo, resteranno aspre e grossolane e non saranno rese soavi da una completa epurazione, non passeranno, come dirò subito.

 

11. Nel libro del Siracide il Saggio ricorre a questo medesimo paragone: Vino nuovo, amico nuovo; quando sarà invecchiato, lo berrai con piacere (Sir 9,10).

Così, quelli che sono avanzati nell’amore e sono stati provati nel servizio dello Sposo, sono come il vino fermentato che ha smaltito la feccia. Essi non hanno più quei fervori sensibili né l'impetuosità degli ardori esterni; essi gustano la soavità del vino d'amore ben fermentato nella sua sostanza, poiché non risiede più nel gusto dei sensi. Questo non è l'amore sensibile dei principianti: è un amore stabilizzato nell’intimo dell’anima, nella sostanza del suo essere; è un amore spirituale, vero, che si manifesta attraverso le opere. Per questo, essi non vogliono aggrapparsi a gusti e fervori sensibili né li vogliono provare, per non avere dispiaceri e difficoltà. Chi si lascia andare ai piaceri dei sensi, infatti, necessariamente proverà pene e dispiaceri nei sensi e nello spirito.

Ora quelli che sono avanzati nell’amore, sebbene siano privi di quella soavità spirituale che ha la sua radice nei sensi, tuttavia non soffrono più ansie e pene d'amore nei sensi e nello spirito. Perciò essi molto difficilmente vengono meno a Dio, essendo ormai al di sopra di ciò che potrebbe farli cadere, cioè al di sopra dei sensi inferiori. Possiedono il vino dell’amore, vino non solo fermentato e purificato dalla feccia, ma anche aromatico, come dice il verso, mescolato alle spezie suddette delle virtù perfette che non lo lasciano guastare come il vino nuovo.

Per questo, il vecchio amico gode di grande stima dinanzi a Dio; di lui così afferma l'Ecclesiastico: Non abbandonare un vecchio amico, perché quello nuovo non sarà uguale a lui (Sir 9,10). Questo vino d'amore ben preparato e aromatizzato l’Amante divino lo dona all'anima per procurarle quell'ebbrezza divina di cui ho parlato. Nella forza di quest'ebbrezza l'anima innalza a Dio dolci e soavi effusioni.

Il senso di questi ultimi tre versi è, dunque, il seguente: al tocco di faville con cui svegli la mia anima e con il vino aromatico con cui la inebri d'amore, essa rivolge a te le effusioni di slanci e atti d'amore che susciti in lei.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 26 [CA 17]

 

1. Quanto sarà felice quest'anima nel talamo fiorito,[152] dove avvengono tutte queste cose e molte altre ancora! Non riusciremo mai a immaginare la sua felicità in questo talamo che ha per spalliera lo Sposo[153] Figlio di Dio, per baldacchino e per gradini la carità e l'amore dello stesso Sposo! Molto giustamente può ripetere le parole della sposa del Cantico: La sua sinistra è sotto il mio capo (Ct 2,6). In tutta verità si può dire che in questo stato l'anima è vestita di Dio e immersa nella divinità. Non superficialmente, ma nell’intimo dello spirito, traboccante di delizie divine, sazia delle acque spirituali di vita, sperimenta ciò che Davide dice di coloro che sono uniti a Dio: Si saziano dell’abbondanza della tua casa e li disseti al torrente delle tue delizie,. è in te la sorgente della vita (Sal 35[36],9-10). Quale sarà, dunque, la sazietà dell’anima nel suo essere, dal momento che l’acqua che le viene offerta è niente meno che un torrente di delizie! Questo torrente è lo Spirito Santo, perché, come dice san Giovanni, egli è il fiume d'acqua viva, limpida come cristallo, che scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello (Ap 22,1); le sue acque, essendo amore intimo di Dio, si riversano intimamente nell’anima e le fanno gustare questo torrente d’amore che, come dicevo, è lo Spirito del suo Sposo che si comunica a lei in quest'unione. Per questo motivo l'anima, traboccante d'amore, canta questa strofa:

 

Nella segreta cella

io dell’Amato bevvi e,

quando uscita fui in questa valle,

null’altro più sapevo,

perduto era il gregge che pascevo.

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. L'anima in questa strofa canta il sublime favore che Dio le ha fatto accogliendola nell’intimo del suo amore, che è l'unione o trasformazione d'amore in Dio. Parla di due vantaggi che derivano da tale favore, cioè l'oblio o distacco da tutte le cose del mondo, e l’annullamento di tutti i suoi appetiti e gusti.

Nella segreta cella.

 

3. Per dare un'idea di questa cella[154] e spiegare ciò che qui l'anima vuole dire o far capire, occorrerebbe che lo Spirito Santo mi prendesse la mano e dirigesse la mia penna. La cella di cui parla l'anima è il grado più elevato e intimo d'amore a cui possa pervenire in questa vita; per questo la chiama segreta cella, cioè la più interna di tutte. Questo vuol dire che ce ne sono altre meno interne: tali sono i gradi d'amore attraverso i quali si sale per raggiungere quest'ultimo grado.

Possiamo dire che questi gradi o celle d'amore sono sette; li si possiede tutti quando si posseggono i sette doni dello Spirito Santo in modo perfetto, secondo le capacità di ricezione dell’anima. Così, per esempio, quando essa arriva a possedere nella sua perfezione lo spirito di timore, possiede nella sua perfezione anche lo spirito d'amore, in quanto il timore, che è l'ultimo dei sette doni, è filiale; ora il timore perfetto di figlio scaturisce dall’amore perfetto di padre. Così, quando la divina Scrittura vuole presentarci un personaggio perfetto nella carità, dice che ha il timor di Dio. Isaia, profetizzando la perfezione di Cristo, afferma: Replebit eum spiritus timoris Domini: Lo riempirà lo spirito del timore del Signore (Is 11,3 Volg.). Anche san Luca definisce «timorato» il santo Simeone, quando dice: Erat vir iustus et timoratus: C'era un uomo giusto e timorato (di Dio) (Lc 2,25). Altrettanto si dice di molti altri personaggi della Scrittura.

 

4. Si ricordi che molte anime arrivano ed entrano nelle prime celle, ciascuna secondo il grado d’amore cui è giunta. Ma in questa vita poche arrivano all'ultima cella, quella più interna; infatti l'unione perfetta con Dio, chiamata matrimonio spirituale, di cui parla qui l'anima, è in questo luogo che si consuma. Ciò che Dio comunica all'anima in quest'intima unione è totalmente ineffabile: non se ne può dire nulla, come non si può dire di Dio qualcosa che corrisponda alla realtà. È Dio stesso, infatti, che si comunica all'anima in un alone di gloria straordinaria e la trasforma in lui; entrambi sono una cosa sola, sebbene non essenzialmente e perfettamente come nell’altra vita, come sono un'unica cosa il cristallo e il raggio del sole, il carbone e il fuoco, la luce delle stelle e quella del sole.

Per dare, dunque, un'idea di ciò che riceve in questa cella divina dell’unione, l'anima non dice altro, né credo potrebbe dire qualcosa di più appropriato, se non il verso seguente:

io dell’Amato bevvi.

 

5. Come la bevanda si diffonde e si sparge in tutte le membra e le vene del corpo, così questa comunicazione di Dio si diffonde sostanzialmente in tutta l'anima,o meglio, l'anima si trasforma in Dio; a seconda che fa sua sostanza e le sue facoltà spirituali bevono di Dio, essa si trasforma in lui. Il suo intelletto beve sapienza e scienza, la volontà amore soavissimo e la memoria gioia e diletto quando le si presenta il ricordo e il sentimento della gloria.[155]

Quanto al primo favore, cioè che l’anima riceva e beva diletto sostanzialmente, essa lo dice nel Cantico dei Cantici in questi termini: Anima mea liquefacta est, ut Sponsus locutus est: L’anima mia si sciolse in delizie appena lo Sposo parlò (Ct 5,6). Qui la parola dello Sposo è il dono di sé all'anima.

 

6. Che poi l'intelletto beva sapienza, lo dice la sposa nello stesso libro, dove, desiderando arrivare al bacio d'unione e scongiurando lo Sposo di concederle tale favore, aggiunge: Colà m'insegnerai la sapienza e la scienza dell’amore, e io ti farò bere vino aromatico (Ct 8,2), cioè il mio amore aromatizzato con il tuo ovvero trasformato nel tuo.

 

7. Quanto al terzo favore, cioè che la volontà beva amore, lo dice ancora la sposa sempre nel Cantico dei Cantici: Mi ha introdotta nella cella segreta e ha ordinato in me la carità (Ct 2,4 Volg.), che vuol dire: mi ha fatto bere amore immergendomi nel suo amore, o più chiaramente, parlando con maggior esattezza: ha ordinato in me la sua carità, conformandomi ad essa e adattandola a me. Così l'anima beve dello stesso amore del suo Amato, quelL’amore che egli infonde in essa.

 

8. Se è vero, come dicono alcuni, che la volontà può amare soltanto quello che è stato prima compreso dall’intelletto, ciò va inteso dal punto di vista naturale. Difatti, per via naturale è impossibile amare se prima non si conosce ciò che si ama; ma per via soprannaturale Dio può benissimo infondere amore e aumentarlo, anche senza infondere e aumentare le conoscenze speciali dell’intelletto, come ci fa comprendere il brano citato.

Questo fatto, del resto, è stato sperimentato da molte persone spirituali che spesso si sentono ardere d'amore di Dio senza averne una conoscenza più chiara di prima; possono, infatti, comprendere poco e amare molto e comprendere molto ma amare poco. Anzi, le persone spirituali che non hanno conoscenze molto profonde di Dio, abitualmente progrediscono nella volontà: basta loro la fede infusa che si sostituisce alla scienza dell’intelletto. Mediante questa virtù il Signore infonde in loro la carità, l'aumenta e la porta ad agire, cioè ad amare di più, anche se, ripeto, non accresce le loro conoscenze.

La volontà, quindi, può bere amore senza che l'intelletto beva nuove conoscenze. Tuttavia, nel caso di cui sto parlando, ove l'anima dice che bevve del suo Amato, si tratta dell’unione nella cella segreta, che, come ho detto, avviene con tutte e tre le potenze dell’anima, le quali bevono tutte e tre congiuntamente.[156]

 

9. Per quanto concerne il quarto favore, cioè che la memoria beva del suo Amato, è chiaro che l’anima è illuminata dalla luce dell’intelletto. Questo le ricorda i beni di cui si vede arricchita e di cui gode nell’unione con il suo Amato.

 

10. Questa divina bevanda divinizza, esalta, inebria l'anima di Dio al punto da farle dire:

quando uscita fui.

 

11. Cioè anche quando questo favore è cessato. Occorre dire, infatti, che l'anima resta sempre in questo sublime stato del matrimonio dopo che Dio ve l'ha posta: vi resta con la sua essenza, anche se le sue potenze non sono sempre in unione attuale con Dio. A quest'unione sostanziale dell’anima molto spesso partecipano anche le potenze e bevono a questa cella segreta; l'intelletto allora acquisisce nuove conoscenze, la volontà cresce nell’amore, ecc.

Perciò, allorché l'anima dice: quando uscita fui, non si riferisce all'unione essenziale o sostanziale che ha ormai raggiunto e che è lo stato di cui sto parlando, ma all'unione attuale delle sue potenze, unione che, in questa vita, non è e non può essere continua.

 

12. Quando, dunque, l'anima uscì

in questa valle,

cioè, nei vasti spazi del mondo,

null’altro più sapevo.

 

13. L'anima si esprime così perché, dopo aver bevuto della più alta sapienza di Dio, ha dimenticato tutte le cose di questo mondo.[157] Le sembra, inoltre, che le conoscenze di prima, e persino le conoscenze umane, a confronto di questa sapienza, siano pura ignoranza. Per comprendere meglio tutto ciò, è bene conoscere la causa principale di questo non saper nulla da parte dell’anima riguardo alle cose del mondo, quando si trova in questo stato: è informata della scienza soprannaturale, dinanzi alla quale ogni sapere naturale e politico del mondo è piuttosto un non sapere che un sapere. Di conseguenza, elevata a quest’altissima sapienza, grazie ad essa l’anima conosce che tutto l'altro sapere che n,on sappia di questo non è un sapere, ma UP non sapere e che non vi è sapere in esso. E conferma quanto ha detto l’Apostolo: La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio (1Cor 3,19). Per questo, l'anima dice che null'altro più sapeva dopo aver bevuto quella sapienza divina. Non si può venire a conoscere quanto sia pura ignoranza la sapienza degli uomini e di tutto il mondo e quanto non meriti di essere conosciuta se non per mezzo della grazia della presenza di Dio nell’anima, attraverso cui egli le comunica la sua sapienza e la conforta con questa bevanda d'amore. In questo modo l'anima vede chiaro quanto afferma Salomone: Visione raccontata da uno col quale è Dio e che, confortato dalla presenza di Dio in lui dice: «Io sono il più ignorante tra gli uomini e la sapienza umana è lungi da me» (Pro 30,1-2 Volg.).

Questo perché, avendo assaporato l'eccesso dell’alta sapienza di Dio, quella così bassa degli uomini è per lei ignoranza; le stesse scienze naturali e le stesse opere che Dio fa, di fronte alla sapienza di Dio sono come un non sapere; perché quando non si conosce Dio, non si sa nulla. Anche san Paolo dice: Le cose dello Spirito di Dio sono follia per l'uomo naturale che non è capace d’intenderle, (1Cor 2,14). Per questo, i sapienti secondo Dio e i sapienti secondo il mondo si ritengono insipienti a vicenda, perché g] uni non possono capire la sapienza e la scienza di Dio, gli altri quella de mondo; la sapienza del mondo, ripeto, è stoltezza a confronto di quella d Dio e viceversa.

 

14. Oltre a ciò, quella divinizzazione ed elevazione della mente in Dio in cui l'anima viene come rapita e inebriata d'amore, trasformata tutta in Dio, non le consente di pensare a nessuna cosa di questo mondo; infatti s ritiene estranea non solo a tutte le cose, ma anche a se stessa, come annichilita, assorbita e dissolta nell’amore; in breve, è passata da se stessa nell’Amato. La sposa del Cantico dei Cantici, dopo aver parlato di questa su trasformazione d'amore nell’Amato, esprime l'ignoranza in cui si trovò con questa parola: Nescivi: Non seppi (Ct 6,12).

In questa situazione l'anima si trova, in un certo senso, come Adamo nel lo stato d'innocenza, quando non sapeva cosa fosse il male.[158] È talmente in. nocente, infatti, da non comprendere il male e da non giudicare male qual. cosa. Se pure udisse cose molto cattive o le vedesse con i propri occhi, no! potrebbe capire come sono in realtà, perché non possiede l'abito del ma. le in base al quale giudicarle. Dio ha sostituito i suoi abiti imperfetti dell’ignoranza, in cui cade il peccato, con l'abito perfetto della vera sapienza. Anche di questi, quindi, l'anima nulla più sa o comprende.

 

15. Una tal anima s'intrometterà poco nelle cose altrui, perché non si ricorda nemmeno delle proprie. Lo spirito di Dio ha la caratteristica d'inclinare subito l'anima in cui dimora a ignorare e a non cercare le cose altrui, soprattutto quelle che non le giovano al progresso spirituale. Lo spirito di Dio nell’anima è uno spirito di raccoglimento, che non si preoccupa affatto delle cose estranee alla salvezza; per questo l’anima resta senza sapere più nulla nel modo consueto.

 

16. Non si creda, però, che l'anima, pur restando in questo non sapere, perda tutte le conoscenze che possedeva abitualmente e che aveva già acquisite. Esse, anzi, si perfezionano con l’abito perfetto della scienza soprannaturale che le viene infusa. Sebbene tali abiti non regnino nell’anima in modo che debba conoscere tramite essi, tuttavia ciò non toglie che a volte avvenga così. Nell’unione con la sapienza divina, questi abiti si uniscono con,la sapienza superiore delle altre scienze; quando una luce piccola si unisce a una grande, è la grande che vince in splendore e brilla, ma la piccola non si perde, anzi viene perfezionata, sebbene non sia essa a brillare di più.[159]

Così penso che sarà in cielo, dove gli abiti di scienza acquisita portati dai giusti non andranno perduti, ma non saranno nemmeno di grande utilità, perché i giusti conosceranno molto di più per scienza divina.

 

17. Ma nel rapimento d'amore l'anima perde e ignora del tutto le conoscenze e le forme particolari delle cose e degli atti immaginari e qualsiasi altra cognizione che abbia forma o figura.

Questo per due motivi. Il primo perché, allo stato attuale, l'anima, rapita e inebriata da quella bevanda d'amore, non può attualmente occuparsi né prestare attenzione ad altre cose. Il secondo e principale motivo è perché quella trasformazione in Dio le offre una tale somiglianza con la semplicità e la purezza di Dio, in cui non vi è né forma né figura immaginativa, da lasciarla pura, limpida, spoglia di tutte le forme e le figure che aveva prima, purificata e illuminata dalla semplice contemplazione. È così che fa il sole su una vetrata: la penetra, la rende luminosa e impedisce di vedere tutte le macchie e i granelli di polvere che prima apparivano; ma una volta scomparso il sole, vi riappaiono tutte le macchie di prima.

Quanto all'effetto prodotto dall’atto d'amore, finché dura, permane anche il non sapere, per cui l'anima non può fissarsi su nessuna cosa particolare fin che quello non sia passato. Difatti esso l'ha come infiammata e cambiata in amore, annientando e distruggendo tutto ciò che non era amore, come si evince dal brano di Davide citato sopra: Quando s’infiammò il mio cuore e si mutarono i miei reni, fui ridotto a niente e non seppi più nulla (Sal 72[73],21-22 Volg.). Questo mutarsi dei reni prodotto dall’agitazione del cuore significa che l'anima, insieme a tutti i suoi appetiti e operazioni, è stata trasformata in Dio e che le sue vecchie abitudini sono state completamente distrutte per fare spazio a un nuovo modo di vivere. Per questo il profeta dice che fu ridotto a niente e non seppe più nulla: sono appunto questi gli effetti che dicevo prodotti dalla bevanda nella segreta cella di Dio. Non solo le sue conoscenze precedenti sono ridotte a nulla, sembrandogli tutto un niente, ma anche tutta la sua vita passata e le sue imperfezioni sono annullate: ormai è divenuto un uomo nuovo. Questo è il secondo effetto che dicevo contenuto nel verso seguente:

perduto era il gregge che pascevo.

 

18. Si ricordi bene: finché l'anima non arriva a questo stato di perfezione di cui sto parlando, per quanto spirituale essa sia, le rimane sempre qualche piccolo gregge di appetiti, di gusti e di altre imperfezioni, naturali o spirituali, dietro a cui cammina; cerca di pascerli, seguendoli e soddisfacendoli.

L’intelletto, di solito, si lascia andare a certe imperfezioni nel desiderio di sapere le cose. Quanto alla volontà, si lascia trasportare da piccoli gusti e sentimenti di amor proprio: sul piano temporale, come il possesso di piccole cose, l'attaccamento a un oggetto piuttosto che a un altro, o alcune presunzioni, come la stima di sé e altri puntigli che ricordano lo spirito e il gusto del mondo; sul piano fisico, come preoccuparsi di mangiare o di bere, preferire una cosa piuttosto che un'altra, scegliere e volere sempre il meglio; sul piano spirituale, come cercare le consolazioni di Dio e altre piccole imperfezioni, che non finiremmo mai di elencare, e che ordinariamente hanno le persone spirituali non ancora perfette.

Per quanto riguarda la memoria, l'anima nutre svariate preoccupazioni e sollecitudini inopportune che la trascinano dietro di loro.

 

19. Anche per quanto riguarda le quattro passioni, l'anima insegue molte speranze, gioie, dolori e timori inutili. Di questo gregge d'imperfezioni, già menzionato, alcuni ne hanno di più, altri di meno; procedono dietro ad esso, finché, entrati a bere in questa cella interiore, lo perdono tutto, rimanendo completamente trasformati in amore, come ho detto. In tale cella questi greggi delle imperfezioni dell’anima si consumano più facilmente che l'ossido e la ruggine dei metalli nel fuoco. E così l'anima si sente ormai libera da tutte le piccolezze delle soddisfazioni e delle meschinerie dietro alle quali andava prima, sì da poter ben dire: perduto era il gregge che pascevo.[160]

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 27 [CA 18]

 

1. In quest'intima unione Dio si comunica all'anima con tale intensità d'amore che non c'è affetto di madre che accarezzi con tanta tenerezza il figlio, né amore di fratello o amicizia di amico che possano reggere al confronto. La tenerezza e la sincerità dell’amore con cui l'immenso Padre accarezza e rende grande quest'anima umile e piena d'amore - cosa meravigliosa e degna d'ogni sgomento e stupore! - arriva al punto che egli le si sottomette realmente per elevarla, come se fosse lei la signora e lui il servo. Ed è tanto sollecito nel colmarla di carezze, quasi che egli fosse il suo schiavo ed essa il suo Dio! Tanto profonda è l'umiltà e la dolcezza di Dio![161] In questa comunicazione d’amore egli esercita, in qualche modo, quel servizio che, come ha promesso nel vangelo, presterà ai suoi eletti in cielo, secondo cui si cingerà le vesti: li farà mettere a tavola e passerà a servirli (Lc 12,37). In questo stato egli si adopera per colmare di delizie e accarezzare l'anima come la madre che coccola il figlio, nutrendolo al suo seno. Così l’anima può constatare la veridicità delle parole di Isaia: I figli di Dio saranno portati al suo petto, sulle sue ginocchia saranno accarezzati (Is 66,12).

 

2. Cosa proverà allora l'anima fra tante grazie così eccelse? Come si struggerà d’amore! Quanto sarà riconoscente vedendo il seno di Dio aperto per lei, con un amore così sublime e generoso! Avvolta da tutte queste delizie, si dà tutta a lui e anch'essa gli offre il seno della sua volontà e del suo amore, sperimentando ciò che la sposa del Cantico dei Cantici dice, parlando con lo Sposo: lo sono per il mio Diletto e la sua brama è verso di me. Vi.en mio Diletto, andiamo nei campi, passiamola notte nei villaggi. Di buon mattino andremo alle vigne, vedremo se mette gemme la vite, se sbocciano i fiori: se fioriscono i melograni. Là ti darò le mie carezze (Ct 7,11-13), cioè impiegherò le delizie e la forza della mia volontà al servizio del tuo amore. Questa reciproca donazione tra l'anima e Dio in tale unione[162] d'amore viene riportata nella strofa seguente:

 

Là mi offrì il suo petto,

là m'insegnò scienza assai gustosa,

a lui tutta mi detti,

me stessa per intero;

là gli promisi d’essere sua sposa.

 

 

SPIEGAZIONE

 

3. In questa strofa la sposa racconta come le due parti, cioè Dio e lei, si sono donate l'una all'altra in questo matrimonio spirituale. Dice che nella cella segreta ebbe luogo uno scambio d'amore: Dio si è consegnato a lei, offrendole liberamente il petto del suo amore e insegnandole la sua sapienza; e i suoi segreti; da parte sua, la sposa si è consegnata a Dio, donandosi a lui di fatto,[163] e per intero, senza riservare nulla né per sé né per altri, proclamandosi sua per sempre. Si commenta il verso:

Là mi offrì il suo petto.

 

4. Offrire il petto a qualcuno è donargli il proprio amore e la propria amicizia, nonché rivelargli i propri segreti, come a un amico. Con le parole: là mi offrì il suo petto, l'anima vuol dire che Dio le ha donato il suo amore e rivelato i suoi segreti, che è quanto Dio fa con l'anima in questo stato. E subito dopo, nel verso successivo, aggiunge:

là m’insegnò scienza assai gustosa.

 

5. La scienza gustosa, che - come dice - le è stata insegnata, è la teologia mistica, o scienza segreta di Dio. Gli spirituali la chiamano contemplazione: è molto gustosa perché è scienza appresa per amore. Dio solo ne è il maestro e rende tutto gustoso.[164] poiché il Signore infonde questa scienza e conoscenza nell’amore, attraverso cui si comunica all'anima, tale scienza è piena di soavità per l'intelletto, perché è scienza che lo riguarda; ed è anche gustosa per la volontà, perché comunicata nell’amore, che appartiene alla volontà. Ecco perché dice subito:

a lui tutta mi detti

me stessa per intero.

 

6. Grazie al fatto che ha bevuto alla soave fonte di Dio, l'anima si è inebriata di Dio in tutta libertà e, con grande soavità, si è consegnata a lui Desidera essere tutta sua per sempre e non trattenere per sé cosa alcun: che possa dispiacergli. In quest'unione, Dio ha operato in lei questa purezza e perfezione, necessarie a tale scopo. Trasformandola in se stessa l'ha fatta completamente sua e l'ha purificata da tutto ciò che impedisci tale unione. Ne consegue che non solo secondo la volontà, ma anche secondo le sue opere l'anima si dona in realtà tutta intera a Dio, senza riserva alcuna, come Dio si è dato liberamente a lei. In tal modo le due volontà rimangono ripagate, abbandonate e soddisfatte reciprocamente, tanto che nessuna delle due abbandonerà mai l'altra, in questo vincolo di fedeltà coniugale.[165]

Per questo l'anima prosegue dicendo:

là gli promisi d’esser sua sposa.

 

7. La sposa non ripone il suo amore, le sue attenzioni e le sue cure in nessun altro se non nel suo sposo. Così si comporta l'anima in questo stato. Gli affetti della sua volontà, i pensieri del suo intelletto, le sue attenzioni come le sue azioni e i suoi desideri, insomma tutto è rivolto a Dio. È come divina, divinizzata, in modo che anche i suoi moti primi non sono contro ciò che ritiene essere la volontà di Dio. Un'anima imperfetta si sente abitualmente inclinata al male, almeno nei suoi moti primi, dall’intelletto, dalla volontà, dalla memoria, dai suoi appetiti e dalle sue imperfezioni. Al contrario, l'anima elevata a questo stato, con le forze dell’intelletto, della volontà, della memoria e degli appetiti, sin dai primi stimoli, ordinariamente si muove e tende verso Dio, grazie all'aiuto e alla stabilità che ormai ha in Dio e alla perfetta conversione al bene.

Davide esprime chiaramente tutto ciò quando, parlando della sua anima in questo stato, afferma: Solo in Dio riposa l’anima mia, da lui la mia salvezza. Lui solo è mia rupe e mia salvezza, mio rifugio: non potrò più vacillare (Sal 61[62],2-3). Chiamando Dio «mio rifugio», fa capire che la sua anima, essendo ormai stabilita in Dio e unita a lui, nel modo che ho appena esposto, non avrà più nessun movimento contrario a Dio.

 

8. Da quanto detto risulta chiaro che l'anima, giunta al matrimonio spirituale,[166] non sa fare altro che amare e camminare sempre nelle delizie d'amore con lo Sposo. Essendo, infatti, arrivata alla perfezione, la cui forma ed essenza, come dice san Paolo (Col 3,14), è l'amore - poiché quanto più un’anima ama, tanto più è perfetta in quello che ama -, ne deriva che quest'anima, che è già perfetta, è tutta amore, se così si può dire, e tutte le sue azioni sono amore, e tutte le sue potenze e risorse le impiega nell’amare, dando tutte le sue cose, come il saggio mercante (Mt 13,46), in cambio di questo tesoro d’amore che ha trovato in Dio.[167] Tale tesoro è prezioso agli occhi di Dio, tanto che l'anima, vedendo che il suo Amato non apprezza e non si serve di altro che dell’amore, ne deduce che, desiderando servirlo perfettamente, occorre impiegare tutto nell’amore puro per Dio.

E non solo perché egli vuole così, ma anche perché l'amore in cui è unita la muove all'amore di Dio in tutte le cose e attraverso tutte le cose. Come l’ape trae da tutti i fiori il miele che vi trova e si serve di essi solo a questo fine, così l'anima, con estrema facilità, trae dolcezza d'amore da tutte le cose che avvengono nel suo intimo. Informata e protetta com’è dall’amore, essa non sente, non gusta e non sa fare altro che amare Dio, in tutte le cose, sia dolci che spiacevoli. L'anima, infatti, non sa fare altro che amare, e in tutte le cose e in tutte le relazioni, ripeto, il suo gusto è solo la delizia dell’amore di Dio.

Per sottolinearlo, dice tutto questo nella strofa seguente.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 28 [CA 19]

 

1. poiché ho detto che Dio non si serve di nient'altro che dell’amore, prima di spiegare la strofa seguente sarà opportuno dirne la ragione: tutte le nostre azioni e le nostre fatiche, per quanto grandi, non sono nulla dinanzi a Dio. Con esse, infatti, non possiamo dargli nulla né appagare il suo desiderio, che è quello di elevare l'anima. Per sé egli non desidera nulla di questo, perché non ne ha bisogno, e quindi, se si serve di qualcosa, è solo per elevare l’anima. Ora, poiché non ha altro modo per esaltarla che renderla uguale a se, si serve dell’amore che nutre per lei solo a questo scopo; la proprietà dell’amore, infatti, è rendere uguale colui che ama alla cosa amata.[168] E giacche, in questo stato, l'anima possiede l'amore perfetto, è chiamata sposa del Figlio di Dio, cioè fatta uguale a lui. In questa uguaglianza d'amicizia i due hanno tutto in comune, come lo stesso Sposo disse ai suoi discepoli: Vi ho chiamati amici perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi (Gv 15,15). Dice, dunque, la strofa:

 

L’alma mia s’è data

con tutta la ricchezza al suo servizio;

non pasco più le greggi,

non ho più altro uffizio:

solo in amar è il mio esercizio.

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. Nella strofa precedente l'anima, o meglio, la sposa ha detto che si è donata tutta allo Sposo senza riservare nulla per se; nella presente strofa mostra in che modo ha mantenuto la promessa. La sua anima ormai, ella dice, il suo corpo, le sue facoltà e tutta la sua abilità non sono più impiegate in altre cose, ma solo per la gloria del suo Sposo. Ella non cerca più il proprio tornaconto né i suoi gusti personali, né tanto meno si occupa in cose e azioni estranee o contrarie a Dio. Anche nei suoi rapporti con Dio non segue altro stile o comportamento che l'esercizio dell’amore, perché ormai ha trasformato tutto il suo agire in amore, come ora si dirà.[169]

L’alma mia s’è data.

 

3. Dicendo che la sua anima si è data, la sposa ricorda il dono che ha fatto di se stessa all'Amato in quest'unione d'amore. È qui che ella si è dedicata e consacrata al suo servizio con tutte le sue facoltà, con il suo intelletto, la sua volontà e la sua memoria. Ha impiegato il suo intelletto nel [conoscere] ciò che concorre di più alla gloria di Dio e compierlo; applica la sua volontà nell’amare tutto ciò che piace a Dio e nel volgere in tutte le cose l'affetto della volontà a Dio. Si serve, infine, della sua memoria e della sua sollecitudine per ricercare la gloria di Dio e ciò che gli è più gradito.

E aggiunge:

con tutta la ricchezza al suo servizio.

 

4. Per tutta la ricchezza[170] l’anima qui intende tutto ciò che appartiene alla parte sensitiva. In questa parte sensitiva è incluso il corpo con tutti i suoi sensi e le sue potenze, sia interiori che esteriori, e tutte le capacità naturali, cioè le quattro passioni, gli appetiti naturali e le altre ricchezze dell’anima. Dice che ha già consacrato tutto questo al servizio dell’Amato, insieme alla parte razionale e spirituale dell’anima, di cui si è parlato nel verso precedente. Il corpo non si occupa che delle cose divine, mentre l'anima dirige e governa i sensi interni ed esterni facendo convergere in Dio le loro azioni. Quanto alle quattro passioni, esse sono ben occupate in Dio: l'anima non gode se non di Dio, non spera in nient'altro che in Dio, teme solo Dio, si rattrista solo secondo Dio. Tutti i suoi desideri e le sue attenzioni sono rivolte esclusivamente a Dio.

 

5. Tutta questa ricchezza è impegnata e indirizzata a Dio, anche se l'anima non se ne rende conto, così che tutte le sue parti già nei primi movimenti si portano ad agire in Dio e per Dio; l'intelletto, la volontà e la memoria si rivolgono immediatamente a Dio; gli affetti, i sensi, i desideri, gli appetiti, la speranza, la gioia, insomma, tutto quanto l'anima possiede, tendono istintivamente a Dio, anche se, ripeto, l'anima non si rende conto che sta agendo per Dio.

In questa situazione, quindi, l’anima agisce molto spesso per Dio e pensa a lui e alle cose che lo riguardano senza accorgersene e senza ricordarsene. L'uso e l’abitudine acquisiti in simile modo di procedere ormai fanno sì che l'anima non abbia più bisogno dell’attenzione, della sollecitudine o degli atti di fervore che prima soleva far precedere alle sue azioni.

Dal momento che tutte le sue ricchezze sono ormai impiegate per il servizio di Dio nel modo suddetto, l'anima gode necessariamente anche del favore indicato nel verso che segue:

non pasco più le greggi.

 

6. Questa espressione vuol dire: non vado più dietro ai miei gusti e ai miei istinti; li ho riposti in Dio e a lui li ho consacrati; la mia anima non li pascola più né li conserva per sé.

E non dice solo che non pasce più le greggi, ma aggiunge anche: non ho più altro uffizio.

 

7. L'anima soleva impegnarsi in molti compiti inutili, con cui cercava di servire il proprio e l’altrui desiderio, prima di arrivare a fare questa totale donazione di sé e delle sue ricchezze all’Amato. Tutte le abitudini imperfette che aveva, erano altrettante occupazioni. Tali abitudini potevano essere: parlare di cose inutili, pensarle e anche farle, non comportandosi in questo secondo la perfezione. L'anima suole avere anche altre tendenze viziose per servire gli appetiti altrui, come ostentazioni, complimenti, adulazioni, forme di rispetto umano, cercare di ben figurare e di piacere alla gente nelle proprie azioni e molti altri atteggiamenti del tutto inutili con cui cerca di piacere alla gente, impiegandovi sollecitudine, desideri e opere, in breve, tutta la sua ricchezza.

Dice di non fare più nulla di tutto questo, perché tutte le sue parole, i suoi pensieri e le sue azioni sono ormai di Dio e a lui solo rivolte, non avendo più le [im]perfezioni che soleva avere. È come se dicesse: non cerco più di compiacere le mie tendenze viziose né quelle altrui, né mi occupo o m'impegno in passatempi inutili né nelle vanità del mondo, perché

solo in amar è il mio esercizio.[171]

 

8. Ecco il significato di questa espressione: tutte queste occupazioni sono impiegate nell’esercizio dell’amore di Dio, cioè tutte le capacità della mia anima e del mio corpo, memoria, intelletto e volontà, sensi interni ed esterni, appetiti della parte sia sensitiva che spirituale, tutto si muove per amore e nell’amore, perché tutto quanto faccio, lo faccio per amore, e tutto quanto soffro, lo soffro per amore.

Questo voleva dire Davide con le parole: Custodirò per te la mia forza (Sal 58[59],10 Volg.).

 

9. Bisogna ricordare che quando l’anima arriva a questo stato, tutto ciò che compie con la sua parte spirituale e con quella sensitiva, le sue azioni come le Sue sofferenze, in qualunque modo avvengano, tutto le procura un amore e un diletto in Dio sempre più intensi. Lo stesso esercizio della preghiera e della conversazione con Dio, che prima era solita tenere su altri argomenti e in altri modi, ora è esclusivamente esercizio d’amore. Per cui, sia che si interessi delle cose temporali che di quelle spirituali, quell'anima può sempre dire che il suo esercizio consiste solo nell’amare.

 

10. Felice vita, felice stato! Beata l'anima che vi arriva! Là tutto è ormai sostanza d'amore, gioia e delizie del matrimonio, dove la sposa, in tutta verità, può dire allo Sposo divino quelle parole di puro amore che gli rivolge nel Cantico dei Cantici: Tutti i frutti, freschi e secchi, li ho serbati per te (Ct 7,13 Volg.). In altri termini: Amato mio, tutto ciò che è aspro e faticoso io lo voglio per amor tuo, e tutto ciò che è dolce e soave io voglio offrirlo a te.

Ma il significato pieno di questo verso è il seguente: l’anima, in questo stato di matrimonio spirituale, abitualmente vive in unione d'amore con Dio; la sua volontà sperimenta costantemente la presenza amorosa di Dio.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 29 [CA 20]

 

1. Effettivamente quest'anima è perduta a tutte le cose del mondo e conquistata solo all'amore: null'altro occupa più il suo spirito. Per questo motivo essa si astiene da tutto ciò che concerne la vita attiva e da ogni attività esterna, per compiere quell'unica cosa che, secondo lo Sposo, è necessaria (Lc 10,42), cioè l’attenzione e il continuo esercizio d’amore in Dio. Egli apprezza quest'unica cosa al punto che rimproverò Marta che voleva allontanare Maria dai suoi piedi per occuparla in altre faccende al servizio del Signore, convinta di fare tutto lei, mentre Maria non faceva nulla, perché se ne stava a godere ai piedi del Signore. Invece è vero tutto il contrario, perché non esiste opera più grande o più necessaria dell’amore. Per questo, anche nel Cantico dei Cantici, lo Sposo difende la sposa, scongiurando tutte le creature del mondo, rappresentate lì dalle figlie di Gerusalemme, di non impedire alla sposa il sonno spirituale d'amore, di non destarla, né di farle aprire gli occhi ad altra cosa, finché essa non lo voglia (Ct 3,5).

 

2. Occorre notare che, fin quando l'anima non ha ancora raggiunto questo stato d'unione amorosa, le conviene esercitare l'amore sia nella vita attiva che in quella contemplativa.

Ma una volta raggiunto tale stato, non è opportuno che si occupi di altre opere e attività esteriori che le possano impedire, anche minimamente, quella presenza d'amore in Dio, per quanto possano essere molto utili al servizio di Dio. Difatti è più prezioso agli occhi di Dio ed è più utile alla Chiesa un briciolo di quest’amore che tutte le altre opere messe insieme, quantunque sembri non faccia nulla.

Per questo Maria Maddalena, sebbene con la sua predicazione facesse molto bene, come di fatto ne fece molto in seguito, tuttavia per il grande desiderio di riuscire gradita al suo Sposo e di giovare alla Chiesa si nascose per trent'anni nel deserto, per dedicarsi interamente a quest'amore, convinta che in tal modo avrebbe giovato di più; un pizzico di quest'amor, infatti, giova e serve moltissimo alla Chiesa.[172]

 

3. Se dunque un'anima avesse un po' di quest'amore solitario, si farebbe un grave torto a lei e alla Chiesa se la si volesse, anche per poco, occupare in cose e attività esteriori, per quanto molto importanti. poiché Dio scongiura che non la sveglino da quest'amore, chi oserà farlo senza esserne rimproverato? In fondo, siamo stati creati per questo fine d'amore.

Prestino bene attenzione, allora, le persone molto attive, che credono di abbracciare il mondo con la loro predicazione e le loro opere esteriori. Pensino che gioverebbero di più alla Chiesa e riuscirebbero più gradite a Dio se, a prescindere dal buon esempio che darebbero, impiegassero almeno metà del loro tempo nello stare con Dio in preghiera, anche se non avessero raggiunto un grado così elevato di preghiera come quello descritto qui. In questo caso otterrebbero di più - e con minor fatica - con un'opera sola anziché con mille, per il merito della preghiera e per le forze spirituali che in essa si acquisiscono. In caso contrario, sarà come battere l'aria o fare poco più che nulla, a volte proprio nulla o addirittura si reca danno.

Dio non voglia che il sale cominci a diventare insipido (Mt 5,13; Mc 9,50; Lc 14,34-35). Così, quanto alle persone molto attive, anche se esternamente sembrerà che facciano qualcosa, in sostanza non faranno nulla, poi che è certo che le opere buone non si possono compiere se non in virtù di Dio.

 

4. Oh, quanto si potrebbe scrivere qui su tale argomento! Ma non è questo il luogo adatto. Ho detto ciò per far capire la strofa che segue. Qui, infatti, l’anima risponde da sé a tutti coloro che criticano questo suo santo ozio[173] e vogliono che tutto sia attività, che brilli e riempia esternamente l'occhio; essi non capiscono la vena e la fonte occulta da dove scaturisce l'acqua e sboccia ogni frutto.[174]

Dice infatti la strofa:

 

Se d'oggi in poi al prato

non fossi più veduta né trovata,

direte che mi son perduta,

che, errando innamorata,

volli perdermi e venni conquistata.

 

 

SPIEGAZIONE

 

5. In questa strofa l’anima risponde a un rimprovero tacito che le persone del mondo di solito muovono a coloro che si consacrano per davvero a Dio. Li si accusa di essere esagerati nel distinguersi dagli altri; li si rimprovera per la loro separazione dal mondo e per il loro comportamento, ritenendoli inutili per gli affari importanti e persi per tutto ciò che il mondo apprezza e stima. l'anima risponde molto bene a questa critica, facendo fronte molto coraggiosamente a questo e a tutto quanto il mondo potrebbe imputarle, perché, giunta ormai al cuore dell’amore di Dio, ritiene tutto il resto poca cosa.

Non solo; ma in questa stessa strofa essa confessa e si gloria d'essersi dedicata a simili cose, rinunciando al mondo e a se stessa per il suo Amato. Così - è quanto vuole dire in questa strofa - parlando con le persone del mondo dice che, se ormai non la vedono più intenta ai soliti rapporti e passatempi che prima le erano abituali nel mondo, credano e dicano pure che si è persa e si è estraniata da loro. Ritiene un bene così grande tutto questo, che essa stessa si è voluta perdere, per andare alla ricerca del suo Amato, profondamente innamorata di lui.

Affinché vedano il guadagno che essa trae da ciò che si considera perdita, e perché non lo ritengano una stoltezza o un'illusione, aggiunge che questa perdita è divenuta il suo guadagno e per questo si è voluta perdere di proposito.

Se d’oggi in poi al prato

non fossi più veduta né trovata.

 

6. Per prato[175] ordinariamente s'intende un luogo comune dove la gente è solita radunarsi per riposare e svagarsi e anche dove i pastori pascolano i loro greggi. Qui l’anima per prato intende il mondo, dove quelli che gli appartengono hanno i loro passatempi e le loro relazioni, un vero e proprio pascolo per i greggi dei loro appetiti. l’anima dice quindi alle persone del mondo che se non sarà più veduta né trovata lì, come quando non era tutta di Dio, la ritengano pure persa e lo dicano, perché essa ha piacere che lo dicano:

direte che mi son perduta.

 

7. Chi ama Dio non arrossisce, dinanzi al mondo, per le opere che compie per lui, né le nasconde per vergogna, anche se tutti gliele dovessero contestare. Chi si vergognerà di fronte agli uomini di riconoscere il Figlio di Dio, tralasciando le sue opere, come afferma per bocca di san Luca, lo stesso Figlio di Dio si vergognerà di riconoscerlo di fronte a suo Padre (Lc 9,26). Pertanto l'anima, spinta dall’amore, si vanta di essere vista mentre compie, per la gloria del suo Amato, un'opera per la quale si è persa a tutte le cose del mondo; e per questo esclama: direte che mi son perduta.

 

8. Poche persone spirituali mostrano questo coraggio e questa determinazione perfetta nelle loro opere. Indubbiamente alcune pensano di seguire questo atteggiamento e credono addirittura di essere molto avanzate, tuttavia non arrivano mai a perdersi su alcuni punti riguardanti il mondo o la loro propria natura. Esse non compiono per Cristo opere che siano perfette e testimonino il distacco assoluto, non badando a ciò che diranno o penseranno gli altri. Così non potranno asserire: direte che mi son perduta, perché non sono perse a se stesse nelle loro opere. Hanno ancora vergogna di confessare Cristo con le loro opere di fronte agli uomini, perché schiave del rispetto umano. In realtà, non vivono pienamente la vita in Cristo.[176]

Che, errando innamorata...

 

9. Vale a dire: innamorata di Dio, io pratico tutte le virtù, volli perdermi e venni conquistata.

 

10. Conoscendo l'espressione evangelica dello Sposo: Nessuno può servire a due padroni, l'anima sa che necessariamente deve lasciarne uno da parte (Mt 6,24). Aggiunge inoltre che, per non perdere Dio, si è voluta perdere a tutto ciò che non è Dio, cioè a tutte le altre cose e a se stessa, perdendosi a tutto questo per amor suo. Chi è davvero innamorato, è disposto a perdere tutto il resto per ritrovarsi con più guadagno in colui che ama. Per questo l’anima dice che si è voluta perdere di sua volontà.

Si è perduta in due modi: prima a se stessa, non badando a sé in nessuna cosa, ma solo all'Amato, consacrandosi a lui di buon grado senza alcun interesse personale o benché minimo tornaconto. In secondo luogo, si è perduta a tutte le cose create, non tenendo conto di nulla, se non di ciò che riguarda l'Amato. Questo significa volersi perdere, cioè aver voglia di essere conquistata.

 

11. Così si comporta l'innamorato di Dio: non cerca guadagno o premio, ma vuole solo perdere tutto e anche se stesso, liberamente, per Dio, e questo lo considera suo guadagno. E di fatto è così, come dice san Paolo: Mori lucrum (Fil 1,21), cioè il mio morire per Cristo è il mio guadagno. Naturalmente si tratta di una morte spirituale a tutte le cose terrene e a se stessi. Per questo l'anima dice: venni conquistata, perché chi non sa perdere se stesso, non sa guadagnare se stesso, anzi si perde, come dice nostro signore nel vangelo: Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà (Mt 16,25).

Volendo interpretare questo versetto in un senso più spirituale e più in linea con il nostro argomento, è opportuno sapere quanto segue: quando l'anima, progredendo nella via spirituale, è giunta al punto di distaccarsi da tutti i metodi e mezzi naturali di cui si serviva nel suo rapporto con Dio, tanto da non cercarlo più attraverso considerazioni, forme, sentimenti o altri mezzi forniti ad essa dalle creature e dai sensi, ma ha superato tutto questo e ogni altro mezzo umano per intrattenersi con Dio in fede e amore, allora si può dire che ha veramente guadagnato Dio. In realtà, si è persa per davvero a tutto ciò che non è Dio e a tutto ciò che è in se stessa.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 30 (CA 21)

 

1. Quando l'anima è conquistata in questo modo, tutto ciò che fa è per lei un guadagno, perché tutta la forza delle sue potenze è trasformata in rapporto spirituale con l’Amato nel segno di un amore intimo assai dolce. All'interno di quest'amore, l'intima comunione tra Dio e l'anima genera un diletto così delicato e sublime che lingua mortale non può esprimerlo né intelletto umano può comprenderlo. La sposa nel giorno delle nozze non pensa ad altro se non alla festa e al piacere d’amore e a mettere in mostra tutti i suoi gioielli e le sue grazie per riuscire gradita e piacevole allo sposo, e lo sposo fa altrettanto, mettendo in mostra le sue ricchezze e le sue qualità, per farle festa e rallegrarla. Così avviene in questo sposalizio spirituale: l'anima prova realmente ciò che dice la sposa nel Cantico dei Cantici: lo sono per il mio Diletto) ed egli è tutto per me (Ct 7,10 Volg.); le virtù e le grazie dell’anima sposa e le magnificenze e le grazie dello Sposo Figlio di Dio vengono messe in luce per celebrare le nozze di questo matrimonio, dove i beni e i diletti dei due vengono messi in comune con vino di soave amore nello Spirito Santo.

Per dimostrare questo, parlando con lo Sposo, l'anima dice:

Di fiori e di smeraldi,

scelti nelle fresche mattinate,

intesserèm ghirlande,

nel tuo amore sbocciate

e da un capello mio tutte legate.

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. In questa strofa[177] la sposa si rivolge di nuovo allo Sposo per parlargli d'amore e godere della sua presenza. Gli parla della gioia e delle delizie, di cui lei e il Figlio di Dio godono nel possedere in comune ricchezze, virtù e doni che appartengono a entrambi. Gli parla, altresì, dell’uso che fanno di tutto questo patrimonio, scambiandosi a vicenda il loro amore. Per questo, rivolgendosi a lui, gli dice che intrecceranno ghirlande ricche di doni e di virtù, acquisite e meritate in un tempo propizio e favorevole. Saranno ghirlande piene di bellezza e di grazia che lo Sposo nel suo amore nutre per la sposa, sostenute e conservate nell’amore che la sposa nutre per lo Sposo. Questo è il motivo per cui godere delle virtù significa intrecciare ghirlande, perché tutte unite, come fiori nelle ghirlande, le possano godere entrambi nell’amore reciproco.

Di fiori e di smeraldi.

 

3. I fiori sono le virtù dell’anima e gli smeraldi i doni ricevuti da Dio. Ora, questi fiori e smeraldi sono stati scelti nelle fresche mattinate.

 

4. Vale a dire: sono stati guadagnati e acquisiti in gioventù, simboleggiata dalle fresche mattinate della vita. L’anima dice di averli scelti perché le virtù che si acquisiscono nella giovinezza sono preziose e molto gradite a Dio. È il tempo in cui c'è grande opposizione da parte dei vizi contro l'acquisizione di tali virtù, e d'altra parte la natura è più facilmente inclinata a perderle. Dice di aver colto queste virtù anche perché, cominciando sin dalla giovinezza, le virtù che si acquisiscono sono molto più perfette e preziose.

Chiama gli anni della gioventù fresche mattinate perché, come in prima vera la freschezza del mattino è più gradevole delle altre parti del giorno, così le virtù della giovinezza sono più gradite dinanzi a Dio. Per fresche mattinate possiamo intendere anche gli atti d'amore per mezzo dei quali si acquisiscono le virtù; essi sono più graditi a Dio di quanto non lo siano i freschi mattini ai figli degli uomini.

 

5. Per fresche mattinate, inoltre, qui s'intendono le opere fatte nell’aridità e nelle difficoltà spirituali, rappresentate dal freddo delle mattine d'inverno. Queste opere, compiute per Dio nell’aridità di spirito e nel dolore, sono molto gradite ai suoi occhi, perché giovano tantissimo per l'acquisto delle virtù e dei doni. Le virtù acquisite in mezzo a queste difficoltà e prove sono, generalmente, molto più preziose, perfette e solide di quelle acquisite tra le gioie e le consolazioni spirituali. La virtù attecchisce nell’anima al tempo dell’aridità, delle difficoltà e delle prove, come disse Dio a san Paolo: La virtù si fa perfetta nella debolezza (2Cor 12,9). Per esaltare, allora, l'eccellenza delle virtù destinate a intrecciare le ghirlande per l'Amato, giustamente è detto che sono scelte nelle fresche mattinate, dal momento che l'Amato si compiace grandemente soltanto dei fiori e degli smeraldi delle virtù e dei doni scelti e perfetti, non di quelli imperfetti. Per questo l’anima sposa qui dice che con essi

intesserèm ghirlande.

 

6. Per ben comprendere questo verso, occorre sapere che tutte le virtù e i doni che l'anima e Dio in lei acquisiscono, nell’anima stessa formano come una ghirlanda di vari fiori che le conferiscono una straordinaria bellezza, come se indossasse una veste molto preziosa. Per comprenderlo ancora meglio, si ricordi che come i fiori naturali, via via raccolti, vanno intrecciati nella ghirlanda che essi formano, così le virtù e i doni che si acquisiscono a poco a poco vanno stabilendosi nell’anima. Una volta acquisiti virtù e doni, tutta la ghirlanda della perfezione nell’anima è ultimata. l’anima e lo Sposo, allora, godono della bellezza e dello splendore di questa ghirlanda, proprio come nello stato di perfezione.

Queste sono le ghirlande che la sposa, dice, deve intrecciare insieme allo Sposo. Ella deve cingersi e circondarsi di questa varietà di fiori e di smeraldi, ossia di virtù e di doni perfetti, perché sia degna di comparire, rivestita di questo splendido e prezioso ornamento, dinanzi al Re meritare che egli la renda uguale a sé, facendola sedere regina al suo fIanco. È per la rarità della sua bellezza che ha meritato quest'onore. Per questo Davide, rivolgendosi a Cristo, dice a tale proposito: Astitit regina a dextris tuis in vestitu deaurato, circumdata varietate: Alla tua destra sta la regina con veste ricamata d'oro e coperta d'ornamenti (Sal 44[45],10 Volg.). Detto in altri termini, significa: si è seduta alla tua destra, vestita d'amore perfetto e circondata dalla varietà di doni e di virtù perfette.[178]

Non dice: io sarò sola a fare ghirlande, e nemmeno: le farai tu da solo, ma: le faremo insieme. L'anima, infatti, non può praticare né raggiungere le virtù da sola senza l'aiuto di Dio, né Dio le può attuare nell’anima senza il suo concorso. È vero che san Giacomo dice che ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce (Gc 1,17), tuttavia, per ricevere questi doni, l'anima deve prepararsi e collaborare. Perciò la sposa dice allo Sposo, nel Cantico dei Cantici: Attirami dietro a te, corriamo! (Ct 1,4). Ciò vuoI dire che il movimento verso il bene può venire soltanto da Dio, come si dà a intendere qui. Ma, dice lo Sposo, che non corre solo lui e neppure solo la sposa, bensì corrono tutti e due insieme, ciò che vuoI significare l'opera congiunta di Dio e dell’anima.

 

7. Questo versetto si applica molto bene alla Chiesa e a Cristo.[179] In esso la Chiesa, sua sposa, rivolgendosi a lui, dice: intesserèm ghirlande. Per ghirlande ella intende tutte le anime sante generate da Cristo nella Chiesa. Ciascuna di esse è come una ghirlanda ornata di fiori, cioè di virtù e di doni, e tutte insieme sono una ghirlanda per il capo dello Sposo, Cristo.

Queste belle ghirlande possono significare anche quelle che con altro nome vengono dette aureole, anch'esse formate da Cristo e dalla sua Chiesa; possono essere di tre forme.

La prima è composta dai bei fiori bianchi di tutte le vergini, ciascuna con la sua aureola di verginità; tutte insieme formano un'aureola che ornerà il capo di Cristo Sposo.

La seconda aureola è formata dai fiori splendenti dei santi dottori; tutti insieme saranno un'aureola che cingerà il capo del Cristo, al di sopra dell’aureola delle vergini.

La terza aureola è quella dei rossi garofani dei martiri, ognuno con la sua aureola di martire; tutti insieme daranno la perfezione ultima all'aureola di Cristo Sposo.

Ornato di queste tre aureole, Cristo Sposo apparirà splendente di bellezza e di grazia tanto che in cielo si dirà ciò che la sposa dice nel Cantico dei Cantici: Uscite, figlie di Sion, guardate il re Salomone con la corona che gli pose sua madre nel giorno delle sue nozze, nel giorno della gioia del suo cuore (Ct 3,11). Intrecceremo poi, dice, queste ghirlande

nel tuo amore sbocciate.

 

8. Il fiore delle buone opere e delle virtù è la grazia e il vigore che esse ricevono dall’amore di Dio. Senza quest'amore non solo non sarebbero fiorite, ma sarebbero tutte secche e senza alcun valore di fronte a Dio, anche se umanamente perfette. Ma poiché Dio concede la sua grazia e il suo amore, le opere sono sbocciate nel suo amore

e da un capello mio tutte legate.

 

9. Questo capello significa la volontà e l'amore dell’anima per l'Amato, amore che ha e svolge la funzione del filo nella ghirlanda. Come il filo lega e fissa i fiori di una ghirlanda, così l’amore dell’anima lega e fissa le virtù nell’anima e ve le sostiene. Difatti san Paolo dice che la carità è il vincolo della perfezione (Col 3,14). Le virtù e i doni soprannaturali sono così strettamente dipendenti dall’amore dell’anima che, se si spezzasse questo filo, venendo meno l'amore a Dio, immediatamente si separerebbero tutte le virtù dall’anima e sparirebbero, come appunto cadono i fiori della ghirlanda quando si spezza il filo che li teneva insieme. Non basta quindi che Dio ci ami per donarci le virtù, ma è necessario che anche noi lo amiamo per riceverle e conservarle.

L’anima parla di un capello solo e non di molti, per far comprendere che ormai la sua volontà è unicamente per l’Amato e che è distaccata da tutti gli altri capelli, cioè da tutti gli amori estranei e lontani da Dio. In questo modo esalta il valore e il prezzo di queste ghirlande di virtù. Quando, infatti, l'amore si porta unicamente e tutto intero verso Dio, come l'anima dice qui, anche le virtù sono perfette, compiute e tutte fiorite nell’amore divino, perché, a questo punto, l'amore che Dio nutre per l'anima è inestimabile, secondo quanto ella stessa sente.

 

10. Se volessi far comprendere la bellezza dell’intreccio di questi fiori di virtù e di questi smeraldi fra loro, o dire qualcosa della forza e della maestà che la loro ordinata composizione conferisce alL’anima o della grazia splendente con cui l'adorna questo stupendo vestito, non troverei parole né termini per farlo.

Nel libro di Giobbe Dio dice del demonio che il suo corpo è come scudi di metallo fuso, munito di squame così strette e aderenti l’una all’altra, sì che l’aria fra esse non passa (Gb 41,7-8 Volg.). Se, dunque, il demonio ha in sé tanta forza, perché vestito di malizie intrecciate e saldate fra loro, rappresentate dalle squame che nel suo corpo sono come scudi di metallo fuso, mentre le malizie di per sé sarebbero debolezza, quanta sarà la forza di quest'anima vestita di forti virtù, così unite e intrecciate fra loro da non lasciare adito ad alcuna bruttezza o imperfezione? Ognuna di esse aggiunge la propria forza alla [forza] dell’anima e la propria bellezza alla sua bellezza, arricchendola del proprio pregio, aggiungendole, tra l'altro, nobiltà e grandezza con la propria maestà. Quanto apparirà meravigliosa allo sguardo spirituale quest'anima sposa acconciata di questi doni alla destra del Re suo Sposo! Come sono belli i tuoi piedi nei sandali,[180] figlia di principe! dice di lei lo Sposo nel Cantico dei Cantici (Ct 7,2). La chiama figlia di principe per esprimere il principato di cui è investita. Se dice che sono belli i suoi piedi, quanto più bello sarà il suo vestito!

 

11. Non stupisce solo la bellezza della veste di questi fiori, ma destano anche stupore la forza e il potere che le conferiscono il loro ordine e la loro disposizione, accresciuti dalla presenza degli smeraldi degli innumerevoli doni divini. Di lei lo Sposo nel Cantico dei Cantici dice: Terribile sei come schiere reali a vessilli spiegati (Ct 6,4). Infatti le virtù e i doni di Dio ricreano per il loro profumo spirituale, ma quando si trovano uniti nell’anima le infondono forza con la loro sostanza. Per questo la sposa del Cantico dei Cantici, debole e malata d’amore, perché non aveva ancora unito e intrecciato questi fiori e questi smeraldi con il capello del suo amore, desiderando essere rinvigorita con quest'unione, la chiede dicendo: Sostenetemi con fiori: rinfrancatemi con pomi, perché io sono malata d’amore (Ct 2,5 Volg.). Per fiori intende le virtù e per pomi gli altri doni.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 31 (CA 22)

 

1. Credo sia chiaro come, attraverso l'intreccio di queste ghirlande e il loro consolidarsi in lei, l'anima sposa voglia far comprendere l'unione divina d’amore che esiste tra lei e Dio in questo stato. Lo Sposo, infatti, è rappresentato dai fiori, perché [è] il fiore dei campi e il giglio delle valli, com'egli stesso dice nel Cantico dei Cantici (2,1 Volg.). Il capello dell’amore dell’anima, come ho detto, unisce e fissa questo fiore delle valli. L’amore, afferma l’Apostolo, è il vincolo della perfezione (Col 3,14), che consiste nell’unione con Dio, e l'anima è il cuscino dove poggiano le ghirlande, perché è il soggetto di questa gloria. Difatti non sembra più quella di prima, ma il fiore perfetto, formato dalla perfezione e dalla bellezza di tutti i fiori. Del resto questo filo d'amore stringe tanto fortemente i due, cioè Dio e l’ani ma, unendoli, trasformandoli e rendendoli uno per amore, che, sebbene nella sostanza siano diversi, nella gloria e nell’apparenza l'anima sembra Dio e Dio l'anima.

 

2. Tale è la natura di quest'unione, straordinaria, al di là di ogni dire. Se ne può comprendere qualcosa da ciò che la Scrittura dice di Gionata e Davide nel primo libro di Samuele. Ivi si legge che era tanto profondo l'amore dell’uno per l'altro che l'anima di Gionata s’era talmente legata all'anima di Davide, al punto che Gionata lo amò come se stesso (1Sam 18,1). Se l’amore di un uomo per un altro uomo fu tanto forte da poter così strettamente unire un'anima con un'altra, quanto forte sarà l'unione tra l'anima e Dio Sposo a motivo dell’amore che l'anima ha per Dio stesso! Tanto più che qui Dio è l’amante principale, che con l’onnipotenza del suo amore abissale assorbe l'anima in se, con più efficacia e forza di un torrente di fuoco su una goccia di rugiada del mattino, che evapora nell’aria. Il capello grazie a cui si realizza quest'unione deve, quindi, essere molto forte e sottile, se con tanta efficacia attraversa le parti che unisce. Per questo l’anima, nella strofa seguente, spiega le qualità di questo bel capello, dicendo:

Solo da quel capello

che sul collo svolazzar vedesti

sul collo mio mirasti,

incantato rimanesti

e in uno dei miei occhi ti feristi,

 

 

SPIEGAZIONE

 

3. In questa strofa l'anima vuoI dire tre cose.[181] La prima è ricordare che l’amore con cui sono unite le virtù è solo l’amore forte, perché esso soltanto può conservarle.

In secondo luogo dice che Dio fu fortemente conquistato da questo suo capello, che simboleggia un amore unico e forte.

La terza è che Dio si è profondamente innamorato di lei, alla vista della purezza e della saldezza della sua fede.

E dice così:

Solo da quel capello

che sul collo svolazzar vedesti.

 

4. Il collo[182] significa la forza. Su di esso, dice l'anima, svolazzava il capello dell’amore, amore forte che tiene le virtù intrecciate tra loro. Non basta che quest'amore serva solo a conservare le virtù, occorre altresì che sia forte, perché nessun vizio contrario possa, in qualche modo, recare danno alla ghirlanda della perfezione. Le virtù, infatti, sono intrecciate nell’anima in modo tale che, se venisse a mancarne qualcuna, immediatamente scomparirebbero anche le altre. Dove c'è una virtù, ci sono tutte, ma se una manca, mancano tutte.

L'anima dice, dunque, che il capello svolazzava sul collo, perché, grazie alla potenza del collo, quest'amore vola a Dio con forza e leggerezza, senza soffermarsi sulle cose create. Come il vento agita e fa svolazzare sul collo il capello, così il soffio dello Spirito Santo muove e solleva l'amore forte perché spicchi il volo verso Dio. Senza questo soffio divino che spinge le potenze dell’anima all'esercizio dell’amore di Dio, le virtù non agiscono né producono effetto alcuno, anche se sono presenti nell’anima.

Aggiungendo che l'Amato vide svolazzare il capello sul suo collo, l'anima fa capire quanto Dio stimi l'amore forte. Qui, infatti, «vedere» sta per guardare in un modo tutto particolare, con attenzione e stima, ciò che cade sotto gli occhi. Ora, l’amore forte attira potentemente gli occhi di Dio perché lo guardino.

Il verso continua col dire:

sul collo mio mirasti.

 

5. L'anima dice questo per far comprendere che Dio non solo vede e apprezza quest’amore perché esclusivo, ma lo ama anche, appunto perché lo vede forte: il guardare di Dio è amare, come il suo osservare - ripeto - è stimare ciò che osserva. In questo verso l’anima ripete la parola collo e dice parlando del capello: sul collo mio mirasti, perché questo è il motivo per cui Dio l'amò molto: il vederne la forza. L'anima, in effetti, sembra dire: hai amato questo amore perché forte, libero da ogni pusillanimità o timore e solo, distaccato da ogni altra cosa, dallo slancio agile e pieno di fervore.

 

6. Finora Dio non aveva fissato quel capello in modo da restarne avvinto, perché non l'aveva visto da solo e staccato da altri amori e appetiti, affetti e soddisfazioni; ancora non svolazzava solo sul collo della fortezza. Ma dopo che, per mezzo di mortificazioni, prove, tentazioni e penitenze, se ne è liberato diventando talmente forte da non essere spezzato da nessuna forza né motivo, allora Dio guarda questo capello, lo prende e con esso unisce i fiori di queste ghirlande; ormai è forte abbastanza per tenerli legati nell’anima.

 

7. Quali e come siano queste tentazioni e prove e fin dove arrivino perché l'anima possa giungere a questa forza d'amore in cui Dio si unisce ad essa, viene spiegato nel commento alle quattro strofe che cominciano con le parole Fiamma d’amor viva.[183] Avendo attraversato quella fiamma, l'anima ha raggiunto un grado d'amore di Dio tale da meritare l'unione divina. Per questo aggiunge subito:

incantato rimanesti.

 

8. Oh, meraviglia degna di suscitare la nostra ammirazione e la nostra gioia! Dio fatto prigioniero da un capello!Ilmotivo di questa preziosa cattura sta nel fatto che Dio ha voluto fermarsi a guardare il movimento del capello, come dicono i versi precedenti. Non per niente il guardare di Dio è amore. Se egli, nella sua grande misericordia, non ci avesse guardato e non ci avesse amato per primo, come dice san Giovanni (1Gv 4,10), e non si fosse abbassato, in lui non avrebbe fatto alcuna presa lo svolazzo del capello del nostro misero amore, perché non si sarebbe elevato così in alto da riuscire a catturare quest'uccello divino delle alture. [Ma poiché si è abbassato] a guardarci e a trascinare in alto il volo del nostro amore (Cfr. Dt 32,11), infondendogli coraggio e forza, egli stesso ha voluto farsi catturare nel movimento del capello, cioè egli stesso se ne è invaghito e compiaciuto e ne è rimasto avvinto. Questo vuoI dire: sul collo mio mirasti, / incantato rimanesti. Così possiamo ben credere che l'uccello dal volo basso possa catturare l'aquila reale dal volo sublime, solo se essa stessa scende in basso per farsi prendere.

E prosegue:

e in uno dei miei occhi ti feristi.

 

9. Per occhio l'anima intende la fede. Ci parla di uno solo dei suoi occhi e aggiunge che da questo lo Sposo fu ferito, perché se la fede e fedeltà dell’anima verso Dio non fosse semplice, ma fosse mescolata a qualche rispetto umano o a qualche considerazione terrena, non riuscirebbe a ferire d'amore Dio. L'Amato, quindi, dev'essere ferito da un solo occhio e catturato da un solo capello. Ora, se è vero che l'amore che lo Sposo nutre per la sposa è realmente forte quando vede in lei questa fedeltà unica, tanto che si lascia prendere dal capello del suo amore, tuttavia è solo dall’occhio della sua fede che si lascia catturare: tale prigionia d'amore è un nodo tanto stretto da provocare nello Sposo una ferita d'amore per la grande tenerezza d'affetto verso la sposa. Concretamente, questo significa introdurla sempre più nell’intimità del suo amore.

 

10. Nel Cantico dei Cantici lo Sposo, rivolgendosi alla sposa, parla di questo stesso capello e di quest'occhio: Tu mi hai ferito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai ferito il cuore con uno dei tuoi occhi e con un capello del tuo collo (Ct 4,9). Ripete due volte che gli ha ferito il cuore, con l'occhio e con il capello. Per questo l'anima nella strofa ricorda il capello e l'occhio, appunto per indicare la sua unione "con Dio per mezzo dell’intelletto e della volontà: la fede, simboleggiata dall’occhio, prende sede nell’intelletto attraverso la fiducia e nella volontà attraverso l'amore. Di quest'unione si gloria qui l'anima e ringrazia lo Sposo per questo dono ricevuto dalle sue mani, apprezzando molto che si sia degnato di compiacersi del suo amore e da esso farsi catturare. In tutto questo si può immaginare l'esultanza, la gioia e il diletto che l'anima avrà per questo divino prigioniero, essendo stata per lungo tempo sua prigioniera, perché innamorata di lui.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 32 [CA23]

 

1. Grande è il potere e la tenacia dell’amore se conquista e lega lo stesso Dio. Beata l’anima che ama, poiché tiene prigioniero Dio, disposto a fare tutto ciò che essa desidera! La natura di Dio, infatti, è tale che, se lo si prende per amore e con il bene, gli si fa fare ciò che si vuole. Diversamente non c'è parola né potere, per quanto forti, che valgano su di lui, mentre invece, per amore, lo si tiene legato con un solo capello.

L’anima sa tutto questo e sa pure che Dio le ha concesso favori al di là dei suoi meriti tanto da elevarla a un amore così sublime, arricchendola di doni e virtù molto preziose. In questa strofa essa attribuisce tutto ciò al suo Amato, dicendo:

Guardandomi, i tuoi occhi

lor grazia m'infondean,

per questo più m’amavi,

per questo meritavan

gli occhi miei adorar quanto vedean.

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. È proprio dell’amore perfetto non voler accettare né prendere nulla per sé, ma attribuire tutto all’Amato e nulla a se stesso. Se questa è la legge persino dell’amore umano, quanto più lo è dell’amore di Dio, come logica vuole! Nelle due strofe precedenti la sposa sembrava attribuirsi qualche merito. Diceva, per esempio, che avrebbe intrecciato insieme con lo Sposo le ghirlande e che le avrebbero legate con un suo capello, cosa di non poca importanza e valore; si gloriava, inoltre, che lo Sposo si era lasciato catturare da un suo capello e ferire da uno dei suoi occhi, e anche in questo sembrava attribuirsi un grande merito. Ora, nella presente strofa, Vuole spiegare le sue intenzioni e dissipare ogni possibile fraintendimento: essa, in verità, si preoccupa e teme che le venga attribuito qualche valore o merito, sottraendo così a Dio ciò che gli è dovuto e che essa vuole dargli. Attribuendo tutto a lui e, nello stesso tempo, ringraziandolo per ogni cosa, dice che il motivo per cui egli si è lasciato catturare da un solo capello del suo amore e ferire dall’occhio della sua fede è perché si è degnato di guardarla con amore,[184] rendendola graziosa e gradevole ai suoi occhi. Per questa grazia e per questo valore da lui ricevuti, essa ha meritato il suo amore e ha potuto adorare il suo Amato in modo a lui gradito e compiere opere degne della sua grazia e del suo amore.

Ecco il verso:

Guardandomi i tuoi occhi.

 

3. Cioè mi guardavi con una speciale tenerezza d'amore. Ho già detto, infatti, che lo sguardo di Dio è amore.

Lor grazia m’infondean.

 

4. Gli occhi dello Sposo significano, qui, la sua divinità misericordiosa. Quando egli si china sull'anima con misericordia, imprime e infonde in essa il suo amore e la sua grazia; allora la rende talmente bella e la eleva tanto, da farla partecipe della natura divina (2Pt 1,4).

Alla vista di questa dignità e altezza a cui Dio l'ha sollevata, l'anima dice:

per questo più m’amavi.

 

5. Mi amavi molto; non di un amore semplice, ma di un amore raddoppiato, cioè per due motivi o titoli. Ecco perché in questo verso l'anima lascia capire le due ragioni dell’amore che lo Sposo nutre per lei: non solo l'ha amata quando si è lasciato catturare da uno dei suoi capelli, ma soprattutto perché si è visto ferito da uno dei suoi occhi. In questo verso l'anima espone il motivo per cui egli l'ha amata così profondamente: lo Sposo si è degnato di guardarla e, guardandola, l'ha colmata di grazie e l'ha resa degna delle sue compiacenze. Egli le ha accordato amore a motivo di uno dei suoi capelli e ha informato di carità la fede simboleggiata dal suo occhio. L'anima, dunque, dice: Per questo più m'amavi.

Quando Dio concede all'anima la sua grazia, la rende degna e capace del suo amore. Ciò equivale a dire: poiché avevi posto in me la tua grazia, cioè doni degni del tuo amore, per questo più m’amavi, per questo mi concedevi ancora più grazia. Ciò è quanto afferma san Giovanni: Noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia (Gv 1,16), il che vuoI significare che Dio aggiunge nuove grazie alle prime, perché senza la sua grazia non si può meritare la grazia.

 

6. Per comprendere questa verità, occorre notare che Dio non ama nulla al di fuori di sé, come non nutre per creatura alcuna un amore che sia inferiore a se stesso. Ama tutto per se, ragion per cui l'amore è il fine per cui ama. Ecco perché non ama le cose create per se stesse. Questo è il motivo per cui quando Dio ama un 'anima, in un certo modo la mette in se stesso, la rende uguale a se, così che ama l'anima in se stesso e con se, con lo stesso amore con cui egli si ama. Perciò, per ogni opera che compie in Dio, l'anima, una volta arricchita di questa grazia così elevata, merita l'amore di Dio e Dio stesso.[185]

Quindi aggiunge subito:

per questo meritavan...

 

7. Cioè: in virtù di questo favore e di questa grazia che gli occhi della tua misericordia mi hanno fatto quando mi guardavano, rendendomi gradita ai tuoi occhi e degna di essere vista, meritarono

gli occhi miei adorar quanto vedean.

 

8. Ciò vuoI dire: o mio Sposo, le potenze della mia anima -che sono gli occhi con i quali puoi essere visto da me -meritarono di essere elevate per guardarti, mentre prima per la miseria delle povere operazioni e della stessa natura erano decadute e degradate. Infatti per l'anima poter contemplare Dio significa agire con la grazia di Dio. Così le potenze dell’anima meritarono di adorarlo, perché adoravano con la grazia del loro Dio, in cui ogni azione è meritoria. Adoravano, quindi, illuminate ed elevate dalla sua grazia e dai suoi favori, quanto in lui già vedevano, ma che prima non scorgevano a motivo della loro cecità e bassezza.

Cos'era, dunque, ciò che vedevano? Vedevano in Dio la grandezza delle virtù, l'abbondanza della soavità, la bontà immensa, l'amore e la misericordia, i benefici innumerevoli ricevuti da lui, sia quando l'anima era in stato di grazia sia quando non lo era. Tutto questo meritarono di adorare lodevolmente gli occhi dell’anima, perché pieni di grazia e graditi allo Sposo.[186] Al contrario, prima non meritavano di adorare e vedere tutto questo, anzi non erano neppure degni di pensare a Dio; grande infatti è la rozzezza e la cecità dell’anima priva della sua grazia.

 

9. A questo proposito vi sarebbe molto da dire e molto da rammaricarsi nel vedere quanto sia lontana l'anima dal compiere ciò che dovrebbe, quando non è illuminata dall’amore di Dio. Dovrebbe, infatti, riconoscere questi e altri innumerevoli favori, sia temporali sia spirituali, che ha ricevuto e riceve continuamente da lui, e dovrebbe adorare e servire Dio con tutte le sue forze. Invece non solo non lo fa, ma non merita neppure di guardarlo e di conoscerlo, né di rendersene conto. A tal punto arriva la miseria di coloro che vivono, o meglio, giacciono morti nel peccato.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 33 [CA 24]

 

1. Per comprendere meglio quanto si è detto e ciò che si dirà, occorre sapere che lo sguardo di Dio produce quattro benefici nell’anima: la purifica, le conferisce grazia, l’arricchisce e la illumina, proprio come fa il sole quando invia i suoi raggi che asciugano, riscaldano, abbelliscono e fanno risplendere.

Dopo che Dio ha prodotto nell’anima gli ultimi tre benefici, per mezzo dei quali essa gli è divenuta molto gradita, non si ricorda più della bruttezza e del peccato precedenti, proprio come dice Ezechiele (18,22). E così, una volta che le ha tolto questo peccato e questa bruttezza, il Signore non glieli rinfaccia più né per questo cessa di concederle grazie sempre più grandi, perché egli non giudica due volte una cosa (Cfr. Na 1,9).

Ma per quanto Dio dimentichi la malvagità e il peccato dopo averlo perdonato, non per questo all’anima conviene dimenticare i suoi peccati di un tempo, come dice il Saggio: Del peccato perdonato non essere senza timore (Sir 5,5 Volg.). Questo per tre motivi: il primo, per aver sempre occasione di [non] essere presuntuosa; il secondo, per aver modo di ringraziare sempre; il terzo, perché le serva per avere più fiducia, sì da ricevere di più. Se, infatti, quand'era in peccato ricevette tanto bene da Dio, posta nell’amore di Dio e senza peccato quante più grazie potrà sperare!

 

2. L'anima, dunque, ricordandosi di tutte queste misericordie ricevute e vedendosi messa accanto allo Sposo con tanta dignità, gioisce assai con sentimenti di gratitudine e d'amore. In questo è molto aiutata dal ricordo del suo stato precedente così vile e brutto: non solo non meritava né era degna dello sguardo di Dio, ma nemmeno di pronunciare il suo nome, come dice il profeta Davide (Sal 15[16],4). Vedendo quindi che, da parte sua, non vi è né può esservi alcun motivo perché sia guardata ed esaltata da Dio, ma che tale ragione esiste solo da parte di Dio per la sua attraente grazia e la sua sola volontà, riconosce la propria miseria e attribuisce all’Amato tutti i beni che possiede. Vedendo poi che grazie a questi ora merita ciò che prima non meritava, si fa coraggio e osa chiedergli che continui a concederle la diVina unione spirituale, ove le moltiplica tali favori. L'anima esprime tutto questo nella strofa seguente:

 

Non disprezzarmi adesso,

ché, se colore bruno in me trovasti,

ormai ben puoi mirarmi

dopo che mi guardasti,

grazia e bellezza in me lasciasti.

 

 

SPIEGAZIONE

 

3. La sposa si fa coraggio e nutre apprezzamento per se stessa a motivo dei pegni e dei tesori ricevuti dall’Amato. Pur riconoscendo quanto poco valga e che non merita alcuna stima, tuttavia, in virtù dei benefici ricevuti dal suo Amato, si rivolge con ardire a lui e gli chiede di non tenerla più in poco conto e di non disprezzarla. Se prima, infatti, la bruttezza della sua colpa e la bassezza della sua natura meritavano tutto questo, una volta che lui l'ha guardata, adornandola con la sua grazia e rivestendola della sua bellezza, può guardarla benissimo una seconda volta e altre volte ancora, aumentando sempre più in essa la grazia e la bellezza. Se l'ha guardata quando non lo meritava e non aveva alcun diritto, tanto più lo può fare ora che vi è una ragione sufficiente:

Non disprezzarmi adesso.

 

4. L'anima non dice questo perché voglia essere tenuta in qualche considerazione; anzi del disprezzo e dei vituperi ha grande considerazione e persino gioisce l'anima che ama davvero Dio, perché sa che da parte sua non merita altro. Ma dice questo per la grazia e i doni ricevuti da Dio, come va spiegando:

ché, se colore bruno in me trovasti...[187]

 

5. Cioè: se prima di guardar[mi] con la tua grazia, trovasti in me la bruttezza e il nero delle colpe e delle imperfezioni, e la bassezza della condizione naturale,

ormai ben puoi mirarmi

dopo che mi guardasti.

 

6. Dopo avermi guardata - togliendomi il colore nero e ripugnante della colpa che me ne rendeva indegna - e avermi concesso in questo sguardo, per la prima volta, la grazia, ormai ben puoi mirarmi. Ora posso e merito di essere guardata, ricevendo così più grazia dai tuoi occhi. Difatti, attraverso il loro sguardo, non solo mi hai tolto il colore scuro la prima volta, ma mi hai resa anche degna di essere guardata, perché con il tuo sguardo d'amore

grazia e bellezza in me lasciasti.

 

7. Ciò che l'anima ha detto nei due versi precedenti ci spiega quanto san Giovanni afferma nel vangelo, cioè che Dio dà grazia su grazia (Gv 1,16). Difatti, quando Dio trova l'anima gradita ai suoi occhi, si sente fortemente spinto a concederle più grazia, perché si trova molto bene nel suo cuore. Consapevole di questa verità, Mosè chiese più grazia a Dio, in virtù della grazia che aveva già ricevuto da lui: Hai detto: «Ti ho conosciuto per nome, anzi hai trovato grazia ai miei occhi». Ora, se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi mostrami il tuo volto, così che io ti conosca e trovi grazia ai tuoi occhi (Es 33,12-13).

L’anima, dunque, si ritrova dinanzi a Dio elevata, onorata, resa più bella da questa grazia, come ho detto, e per questo è amata da Dio in modo ineffabile. Se prima che fosse in grazia di Dio egli l'amava per sé solo, ora che è nella sua grazia non l’ama solo per se, ma anche per lei. E così, innamorato della sua bellezza, attraverso le sue azioni e i suoi frutti, o anche senza di essi, le comunica sempre più amore e grazia e, mentre più l'onora ed esalta, sempre più se ne invaghisce e innamora.

Questo lascia capire Dio quando, rivolgendosi al suo amico Giacobbe, tramite Isaia dice: Dopo che sei divenuto degno d’onore ai miei occhi e di gloria: io ti ho amato (Is 43,4 Volg.). Ciò vuoI dire: dopo che i miei occhi hanno diffuso su di te la mia grazia, guardandoti la prima volta, e ti hanno reso degno di onore e di gloria alla mia presenza, hai meritato nuove grazie e favori. Quanto più Dio ama, tanto più numerose sono le grazie che concede.

Ciò è quanto la sposa rivela alle altre anime, quando nel Cantico dei Cantici dice loro: Bruna sono, ma bella, o figlie di Gerusalemme... per questo il Re mi ha amata e mi ha introdotta nelle sue stanze![188] (Cfr. Ct 1,4 e 3 Volg.). Con questo intende dire: anime che non sapete né siete informate di queste grazie, non vi meravigliate se il Re celeste mi ha accordato favori così grandi da introdurmi nell’intimo del suo amore. Anche se per natura sono bruna, egli ha posato su di me i suoi occhi, dopo avermi guardata la prima volta, e ha continuato così fino a quando mi ha sposata e mi ha introdotta nel suo talamo d'amore.

 

8. Chi può dire fino a che punto Dio esalta un'anima quando comincia a compiacersi di lei? Non lo si può neppure immaginare, perché in fondo agisce da Dio, mostrando chi è. Se ne può comprendere qualcosa considerando il modo di procedere[189] di Dio, il quale dà in maggior misura a chi ha di più, e ciò che va dando è moltiplicato in proporzione di quanto l'anima già possiede, come fa capire nel vangelo: A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha (Mt 13,12). Così il talento del servo che non era nella grazia del suo signore, gli venne tolto per essere dato a quell'altro servo che possedeva più talenti di tutti quelli che erano nella grazia del loro signore.

Ne viene di conseguenza che Dio accumula i beni migliori e più importanti della sua casa, cioè la Chiesa militante e trionfante, in chi gli è più amico, per rendergli più onore e gloria,[190] al pari di una grande luce che assorbe in sé molte piccole luci. Dio ci fa capire questa stessa verità, in senso spirituale, quando nel già citato testo di Isaia, rivolgendosi a Giacobbe, dice: lo sono il Signore tuo Dio, il Santo d’Israele, il tuo salvatore. Ho dato l’Egitto come prezzo per il tuo riscatto, l’Etiopia e Saba per te... Darò uomini per te e nazioni per la tua vita (Is 43,3-4 Volg.).

 

9. Ormai ben puoi guardare e stimare profondamente, o mio Dio, l'anima su cui posi lo sguardo, perché il tuo sguardo le conferisce importanza e doni di cui tu ti compiaci e t'innamori. Perciò non una sola volta, ma più volte merita che tu la guardi ancora, dopo averla guardata, come lo Spirito Santo dice nel libro di Ester: È degno di quest’onore colui che il re vuole onorare (Est 6,11 Volg.).

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 34 [CA 33]

 

1. I doni che lo Sposo, da amico vero, fa all'anima in questo stato sono inestimabili, come ineffabili sono le lodi e le effusioni d'amore che molto spesso i due si scambiano. La sposa si profonde nel lodare e ringraziare lo Sposo; questi nell’esaltare, lodare e ringraziare la sposa, come si legge nel Cantico dei Cantici: Come sei bella amica mia, come sei bella! I tuoi occhi sono colombe. Al che la sposa risponde: Come sei bello mio Diletto, quanto grazioso! (Ct 1,15-16). Molte altre espressioni d'amore e di lode si scambiano ripetutamente i due amanti nel Cantico dei Cantici. Nella strofa precedente la sposa disprezzava se stessa dicendosi bruna e brutta, mentre lodava lo Sposo, bello e leggiadro, perché con il suo sguardo le ha conferito grazia e bellezza. A sua volta lo Sposo, poiché è solito esaltare chi si umilia, posando gli occhi su di lei, come essa gli aveva chiesto, nella strofa seguente si effonde nel lodarla, non chiamandola più bruna, ma bianca colomba.[191] Insomma, lodandola per le belle qualità che ha come colomba e tortora, si esprime così:

 

La bianca colombella

all’arca con il ramo è ritornata

e già la tortorella

il suo compagno amato

sulle verdi rive ha ritrovato.

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. In questa strofa è lo Sposo che parla. Canta la purezza dell’anima in questo stato, le ricchezze e la ricompensa ottenuta per esservisi disposta e per aver sofferto al fine di giungere fino a lui. Canta anche la felice sorte che ha avuto trovando il suo Sposo in quest'unione. Lascia intendere che i suoi desideri si sono compiuti, dal momento che in lui l'anima possiede le delizie e il riposo, dopo aver affrontato le sofferenze di questa vita e del tempo passato.

Ecco quanto dice:

La bianca colombella.

 

3. Chiama l'anima bianca colombella[192] per il candore e la limpidezza che ha ricevuto dalla grazia trovata in Dio. La chiama colomba, come nel Cantico dei Cantici, per indicare la sua semplicità, la dolcezza del suo carattere e la sua ardente contemplazione. La colomba, infatti, non solo è semplice e mansueta, senza fiele, ma ha anche gli occhi limpidi e amorosi. Proprio per esprimere questa caratteristica della contemplazione piena d'amore con cui ella guarda Dio, sempre nel Cantico dei Cantici lo Sposo dice che gli occhi suoi sono colombe (Ct 4,1).

E aggiunge: all’arca con il ramo è ritornata.

 

4. Qui lo Sposo paragona l'anima alla colomba dell’arca di Noè: l'andare e il venire della colomba all'arca rappresenta ciò che è accaduto all'anima in questa situazione. La colomba andava e veniva dall'arca perché non trovava dove posare il piede tra le acque del diluvio, fin che ritornò con un ramoscello d'ulivo nel becco, come segno della misericordia di Dio per aver fatto cessare le acque che avevano sommerso la terra (Gn 8,8-11). Allo stesso modo, l'anima, di cui si parla, è uscita dall'arca dell’onnipotenza di Dio, al momento in cui fu creata. Dopo aver attraversato le acque del diluvio dei suoi peccati e delle sue imperfezioni, non trovando dove poggiare i suoi appetiti, andava e veniva, spinta dall'ansia dell’amore, dall'arca del petto del suo Creatore, ma senza trovare stabilità in lui. Solo dopo che Dio ha fatto cessare le acque delle imperfezioni sulla terra dell’anima, essa è tornata con il ramoscello d'ulivo, che è la vittoria riportata su tutte le cose, grazie alla clemenza e alla misericordia di Dio; ormai ha trovato completa e serena quiete sul petto dell’Amato, non solo con la vittoria su tutte le tendenze contrarie, ma anche con il premio dei suoi meriti; entrambe le cose, infatti, sono significate dal ramoscello d'ulivo. Così, dunque, la colombella, che è l'anima, non solo ora torna all'arca del suo Dio, bianca e limpida come ne era uscita quando egli l’ha creata, ma in più porta il ramo del premio e della pace ottenuta con la vittoria su se stessa.

E già la tortorella

il suo compagno amato

sopra le verdi rive ha ritrovato.

 

5. Qui lo Sposo chiama l'anima con un altro nome, quello di tortorella, perché nella ricerca dello Sposo somiglia alla tortorella quando non trova il compagno desiderato.[193] Per comprendere meglio questo paragone è opportuno qui ricordare quanto si dice della tortora: finché non trova il suo compagno, non si posa mai su un ramo verde, non beve acqua chiara o fresca, non si ripara all'ombra, né si unisce ad altri uccelli. Ma una volta trovato il compagno col quale unirsi, torna a gustare tutte queste cose.

L’anima si comporta come la tortorella. Prima di giungere all'unione intima con lo Sposo Figlio di Dio, deve procedere con grande amore e sollecitudine, senza posare il piede dell’appetito sul ramo verde di alcun diletto; non deve bere l'acqua limpida di alcun onore o di alcuna gloria di questo mondo, né gustare l'acqua fresca di nessun refrigerio o consolazione temporale e nemmeno ripararsi all’ombra del favore o della protezione di qualche creatura; non deve cercare riposo in nulla e per nulla, né volere la compagnia di altri affetti, ma gemere nell’isolamento riguardo a tutte le cose di quaggiù fino a trovare il suo Sposo nella più piena soddisfazione dei suoi desideri.

 

6. poiché l’anima, prima di giungere a questo sublime stato, andò in cerca del suo Amato con profondo amore, non contentandosi di nient'altro se non di lui, qui lo Sposo stesso canta la fine delle sue prove e il compimento dei suoi desideri, dicendo che la tortorella / il suo compagno amato / sopra le verdi rive ha ritrovato. Ciò significa che ormai l’anima sposa si ferma su un ramo verde, godendo del suo Amato; ormai beve l'acqua limpida dell’altissima contemplazione e della sapienza di Dio, acqua fresca perché è il sollievo e il diletto che trova in lui; si rinfranca all’ombra della sua protezione e del suo favore, che aveva tanto sospirato, dove è colmata di consolazioni, nutrita e ristorata soavemente e divinamente, come essa stessa dice nel Cantico, rallegrandosi: Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palato (Ct 2,3).

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 35 [CA 34]

 

1. Lo Sposo racconta la propria contentezza per il bene che la sposa ha conseguito per mezzo della solitudine in cui volle vivere in passato, cioè la pace duratura e un bene immutabile. Difatti, quando l’anima arriva a consolidarsi nella quiete dell’unico e solitario amore dello Sposo, come in questo caso, si stabilisce in un rapporto d'amore di Dio con lei e di lei con Dio, rapporto così gustoso da non aver più bisogno di altri mezzi o maestri che la portino a Dio, perché Dio è ormai la sua guida e la sua luce. In essa lo Sposo va compiendo ciò che aveva promesso per bocca di Osea, in questi termini: La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore (Os 2,16).[194] Con questo lascia intendere che nella solitudine egli si comunica e si unisce all’anima. Parlare al suo cuore significa soddisfare il suo cuore, che trova appagamento solo in Dio. Dice quindi lo Sposo:

 

In solitudine vivea,

in luogo, solitario ha posto il nido,

sola così la guida

da solo il suo Amico,

d'amor in solitudine ferito.

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. Lo Sposo compie due cose in questa strofa. Anzitutto loda la solitudine nella quale l’anima ha voluto vivere in passato, indicando in essa il mezzo per trovare e godere il suo Amato, a tu per tu con le pene e le fati che affrontate prima. Difatti, avendo voluto disfarsi in solitudine d'ogni gusto, consolazione e sostegno delle creature per conseguire la compagnia e l'unione con il suo Amato, ha meritato di possedere la pace della solitudine nell’Amato, nel quale riposa sicura da sola e al riparo da tutte le sofferenze menzionate sopra.

Inoltre, avendo voluto rimanere da sola, lontana da tutte le cose create, per il suo Amato, egli stesso, innamorato di lei per questa sua solitudine, se n'è preso cura, accogliendola tra le braccia, nutrendola in sé di tutti i beni, guidando il suo spirito alle cose sublimi di Dio. E non solo dichiara che egli ormai è la sua guida, ma che lo fa da solo, senza altre mediazioni, né di angeli né di uomini, né di forme né di figure, in quanto essa, grazie a questa solitudine, possiede ormai quella vera libertà di spirito che non si lega a nessuna di queste mediazioni.

E pronuncia il verso:

In solitudine vivea.

 

3. La nostra tortorella, ossia l'anima, viveva in solitudine prima di trovare l’Amato in questo stato d'unione; per l'anima che desidera Dio, nessun’altra compagnia è di conforto; anzi, finché non lo trova, tutto le procura una solitudine più profonda.

In luogo solitario ha posto il nido.

 

4. La solitudine, di cui l'anima viveva prima, consisteva nel volersi privare, per amore dello Sposo, di tutti i beni di questo mondo - come ho riferito sopra riguardo alla tortorella - lavorando alla sua perfezione e conseguendo una solitudine totale. Tale solitudine conduce all'unione del Verbo e conseguentemente a colui che è sollievo e riposo per eccellenza, qui significati dal nido di cui parla, simbolo di riposo e quiete. Lo Sposo sembra dunque dire: la solitudine in cui l'anima viveva prima, e dove si esercitava in prove e tormenti perché non era ancora perfetta, ora è suo riposo e sollievo perché l'ha acquisita pienamente in Dio.[195] Tale è il senso spirituale di quanto afferma Davide: Anche il passero trova la casa, la rondine il nido, dove porre i suoi piccoli (Sal 83 [84],4), cioè l'anima stabilisce la sua dimora in Dio, che soddisfa tutte le sue aspirazioni e le sue potenze.

Sola così la guida.

 

5. Ecco quanto lo Sposo vuoI dire qui: in questa solitudine in cui l'anima sta sola con Dio, distaccata da tutte le cose create, egli la guida, la muove e innalza alle realtà celesti. Eleva alle conoscenze divine il suo intelletto, che è ormai nella solitudine e separato da tutte le altre conoscenze contrarie ed estranee. Muove, senza costrizioni, la sua volontà verso l'amore di Dio, perché essa ormai è nella solitudine e libera da altri affetti. Riempie, infine, la sua memoria di conoscenze divine, perché anch'essa è nella solitudine e priva di altre immaginazioni e rappresentazioni. Appena l’anima libera le sue potenze e le svuota di tutti i valori terreni e di ogni attaccamento alle cose celesti, lasciandole nella più completa solitudine, immediatamente Dio le riempie di ciò che è invisibile e celeste. A questo punto è Dio a guidare l'anima in questa solitudine. È esattamente quanto afferma san Paolo a proposito dei perfetti: Qui spiritu Dei aguntur, ecc.: Quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio... (Rm 8,14). Ciò equivale a dire: guida in solitudine l’anima

da solo il suo Amico.

 

6. In altri termini, Dio non soltanto guida l'anima nella sua solitudine, ma è lui stesso, da solo, ad agire in essa, senza mediazione alcuna. Questa è la caratteristica dell’unione dell’anima con Dio nel matrimonio spirituale: Dio agisce in lei e le si comunica da solo, senza l’aiuto degli angeli come precedentemente e senza passare per le facoltà naturali. I sensi esterni e interni, tutte le creature e la stessa anima servono molto poco per disporre a ricevere le meravigliose grazie soprannaturali che Dio accorda in questo stato. Questi favori, infatti, non dipendono dall'abilità umana, da qualche attività naturale o dagli sforzi dell’anima. Dio solo li attua nell’anima. E agisce così perché la trova nella solitudine e quindi non le vuole concedere altra possibilità di compagnia che se stesso, né permetterle che si fidi se non di lui solo.

Dal momento che l'anima ha lasciato tutto ed è passata oltre le mediazioni, elevandosi al di sopra di tutto per arrivare a Dio, è altresì opportuno che lo stesso Dio sia la sua guida e il mezzo per raggiungerlo. Una volta che l’anima vive nella solitudine da ogni cosa e si è elevata al di sopra di tutto il creato, niente più le giova né le serve per salire ancora, se non lo stesso Verbo Sposo. Questi è talmente innamorato di lei da voler essere il solo a colmarla di questi favori. Ecco perché aggiunge subito:

d’amor in solitudine ferito.

 

7. Ferito, cioè, dalla sposa. Perché, oltre ad amare molto la solitudine dell’anima, lo Sposo viene a sua volta ferito dal suo amore perché lei è voluta restare sola, distaccata da ogni cosa creata, ferita com'era dall'amore per lui. Questo spiega perché lo Sposo non ha voluto lasciare la sposa sola, ma, ferito dalla solitudine in cui ella si trova per amor suo, vedendo che non trova gioia in nient'altro, egli solo la guida a se, attirandola e assimilandola a se. Non l'avrebbe trattata così se non l'avesse incontrata nella solitudine spirituale.[196]

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 36 [CA 35]

 

1. È strana quella caratteristica degli innamorati per cui preferiscono godersi l'un l'altro in solitudine, separati da ogni creatura, piuttosto che in compagnia di altri. Difatti, anche se stanno insieme, basta la presenza di altre persone perché non godano a loro agio, benché non intendano trattare né parlare in loro assenza di qualcosa d’altro che in loro presenza, e le stesse persone estranee non trattino e non parlino di nulla. Questo perché, essendo l'amore unione di solo due persone, da sole queste vogliono stare per comunicare tra loro.

Una volta che l'anima è arrivata a questo vertice di perfezione e di libertà di spirito in Dio, cessate tutte le ripugnanze e le contrarietà della parte sensitiva, non ha altra cosa a cui pensare né altro esercizio in cui occuparsi se non dedicarsi alle delizie e alle gioie dell’amore intimo dello Sposo. Del santo Tobia, nel libro omonimo, è scritto che, dopo essere passato attraverso le sofferenze della povertà e delle tentazioni, Dio lo illuminò, così che egli consumò il resto della sua vita nella gioia (Tb 14,4 Volg.). La stessa cosa accade ormai all’anima di cui sto parlando: i beni che vede in sé le procurano tanta gioia e diletto, come lascia intendere Isaia, che, essendosi esercitata nella conquista della perfezione, è arrivata a quel vertice del quale trattiamo qui.

 

2. Parlando con l’anima di questa perfezione dice dunque: Brillerà fra le tenebre la tua luce, le tue tenebre saranno come il meriggio. Ti darà ripoSo per sempre il Signore, ti riempirà di splendori l’anima, preserverà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono. La tua gente riedificherà le antiche rovine, ricostruirai le fondamenta di epoche lontane. Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi. Se tratterrai il piede dal violare il sabato, dallo sbrigare affari nel giorno a me sacro, se chiamerai il sabato delizia e venerando il giorno sacro al Signore, se lo onorerai evitando di metterti in cammino, di sbrigare affari e di contrattare, allora troverai fa delizia del Signore. Io ti farò calcare le alture della terra, ti farò gustare l'eredità di Giacobbe (Is 58,10-14). Fin qui sono parole di Isaia; l’eredità di Giacobbe è Dio stesso. Per questo, ripeto, l'anima non pensa se non a gustare le delizie di questo nutrimento. Le rimane un'unica cosa da desiderare: goderle perfettamente nella vita eterna.

Nella strofa che segue e nelle altre[197] che rimangono, si adopera, allora, per chiedere all’Amato questo nutrimento che rende beati nella chiara visione di Dio. Perciò dice:

 

Orsù, godiàm l’un l’altro, Amato,

a contemplarci in tua beltade andiàm

su monte e la collina

dove pura sorgente d'acqua scorre,

dove è più folto dentro penetriàm.

 

 

SPIEGAZIONE

 

3. Ora che l'unione perfetta tra l'anima e Dio è compiuta, l'anima vuol dedicarsi all'amore ed esercitarsi in tutto ciò che è proprio dell’amore. È, dunque, l'anima che parla in questa strofa con lo Sposo, chiedendogli tre cose che sono proprie dell’amore.

La prima di godere dell’amore e di assaporarne la dolcezza, come dichiara nel verso: godiàm l'un l'altro, Amato.

La seconda di diventare simile all'Amato, come glielo manifesta quando dice: a contemplarci in tua beltade andiàm.[198]

E la terza, di conoscere le ricchezze e scrutare i segreti dell’Amato, come mostra quando dice: dove è più folto dentro penetriàm

Si commenta il verso:

Orsù, godiàm l'un l'altro, Amato.

 

4. Cioè nella comunicazione delle dolcezze dell’amore, non solo in quelle che già possediamo abitualmente in virtù dell’unione, ma anche in quelle che provengono dagli atti d'un amore effettivo e attuale, [sia interiormente] quando la volontà produce atti d'amore, sia esteriormente quando si compiono azioni che riguardano la gloria dell’Amato. Come si è detto, questa infatti è la caratteristica dell’amore: dove dimora, ivi cerca sempre di gustare le sue gioie e dolcezze, che consistono nell’amare interiormente ed, esteriormente: L'anima.agisce in questo modo per rendersi più simili le all’Amato. E aggiunge subito:

a contemplarci in tua beltade andiàm.

 

5. Ciò significa:[199] facciamo in modo che per mezzo di questo esercizio d'amore arriviamo fino a contemplarci nella tua bellezza nella vita eterna; cioè che io possa essere talmente trasformata nella tua bellezza che, essendo simile in bellezza, ci vediamo entrambi nella tua bellezza, poiché ormai io ho la tua stessa bellezza. E così, guardandoci l'un l'altro, ognuno veda nell’altro la propria bellezza, essendo la bellezza d'entrambi l'unica tua bellezza, dal momento che io sono stata assimilata alla tua bellezza. In questo modo, io ti vedrò nella tua bellezza e tu mi vedrai nella tua bellezza, io mi vedrò in te nella tua bellezza e tu ti vedrai in me nella tua bellezza; e così io sembrerò te nella tua bellezza e tu sembrerai me nella tua bellezza, la mia bellezza sarà la tua bellezza e la tua bellezza la mia bellezza; e così io sarò te nella tua bellezza e tu sarai me nella tua bellezza, perché la tua stessa bellezza sarà la mia bellezza; e così ci vedremo l'un l'altro nella tua bellezza.

Questa è l'adozione dei figli di Dio, i quali in verità diranno a Dio ciò che lo stesso Figlio dichiara, in san Giovanni, all'eterno Padre: Tutte le cose mie sono tue, e tutte le cose tue sono mie (Gv 17,10). Egli lo dice essenzialmente, in quanto Figlio naturale del Padre, noi per partecipazione, in quanto figli adottivi. Il Figlio non ha pronunciato queste parole soltanto per se, che è il capo, ma per tutto il suo corpo mistico, che è la Chiesa. Questa parteciperà della stessa bellezza dello Sposo nel giorno del suo trionfo, quando vedrà Dio faccia a faccia.[200] Per questo motivo, qui l'anima chiede che lei e lo Sposo arrivino a vedersi nella sua bellezza,

sul monte e la collina.

 

6. Cioè nella conoscenza mattutina[201] ed essenziale di Dio, che è conoscenza nel Verbo divino, qui rappresentata, per la sua sublimità, dal monte. Ciò è quanto dice Isaia, quando invita a conoscere il Figlio di Dio: venite, saliamo sul monte del Signore (Is 2,3). E ancora: Il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti (Is 2,2). Quanto [alla collina], si tratta della conoscenza vespertina di Dio, che è la sapienza di Dio riversata nelle sue creature, nelle sue opere e nella sua straordinaria provvidenza. Tale conoscenza è qui rappresentata dalla collina, più bassa del monte, quindi è una sapienza inferiore a quella mattutina, Ma qui l’anima, dicendo sul monte e la collina, chiede sia la conoscenza vespertina sia quella mattutina.

 

7. Quando, dunque, l'anima dice allo Sposo: a contemplarci in tua beltade andiàm sul monte, chiede di essere trasformata e di essere simile alla bellezza della sapienza divina che, come dicevo, è il Verbo Figlio di Dio. E dicendo la collina, intende chiedergli che le dia anche la bellezza dell’altra sapienza minore, presente nelle sue creature e nelle sue opere misteriose; anche questa è bellezza del Figlio di Dio, sulla quale l'anima desidera essere illuminata.

 

8. L’anima non può vedersi nella bellezza di Dio se non trasformandosi nella sapienza di Dio, in cui sa di possedere le cose celesti e quelle terrene. La sposa anelava salire a questo monte e a questa collina quando diceva: Me ne andrò al monte della mirra e alla collina dell’incenso (Ct 4,6); intendendo per il monte della mirra la visione chiara di Dio e per la collina dell’incenso la conoscenza nelle creature, perché la mirra di montagna è di qualità più elevata dell’incenso di collina.

Dove pura sorgente d’acqua scorre.

 

9. Intende dire: dove riceve la conoscenza e la sapienza di Dio, che qui chiama acqua pura per l'intelletto, conoscenza limpida e spoglia di tutto ciò che è accidentale e immaginario, priva delle tenebre dell’ignoranza. L'anima nutre sempre questo desiderio di comprendere chiaramente e in tutta la loro purezza le verità divine. Quanto più ama, tanto più desidera addentrarsi in esse. Per questo chiede la terza grazia, in questi termini:

dove è più folto dentro penetriàm.[202]

 

10. Penetriamo nel folto delle tue opere meravigliose e dei tuoi profondi giudizi! La loro moltitudine è tanto grande e così varia da potersi chiamare folto. Ivi si può scoprire una sapienza traboccante e così ricca di misteri che non solo possiamo chiamarla folta, ma anche pingue e feconda, come dice Davide: Mons Dei, mons pinguis, mons coagulatus: Il monte di Dio è un monte pingue e fecondo (Sal 67[68],16 Volg.).

Questa profondità della sapienza e della scienza di Dio è talmente immensa che, per quanto l'anima ne possa conoscere, può sempre più penetrarvi, perché la sapienza divina è immensa e le sue ricchezze insondabili, come esclama san Paolo: O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto imperscrutabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! (Rm 11,33).

 

11. Ora l'anima desidera entrare in questa profondità e incomprensibilità dei giudizi e delle vie di Dio, perché muore dal desiderio di addentrarsi più profondamente nella loro conoscenza; conoscerli, infatti, è gioia inestimabile che supera ogni sentimento. Per questo, quando Davide parla della loro soavità, si esprime così: I giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti, più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un lavo stillante. Anche il tuo servo in essi è istruito (Sal 18[19],10-12). Ecco perché l’anima desidera ardentemente inabissarsi in questi giudizi e conoscerli più a fondo; pur di riuscirci, sarebbe disposta ad accogliere, con grande serenità e gioia, tutte le asperità e le fatiche del mondo, tutto quanto le potrebbe servire come mezzo a tale scopo, per quanto difficile e penoso le possa essere, e persino le angosce e le amarezze della morte, pur di addentrarsi nel mistero di Dio.

 

12. Il folto, in cui l'anima desidera addentrarsi, rappresenta, più propriamente, la profondità e la moltitudine delle prove e delle tribolazioni in cui l'anima desidera penetrare, in quanto ritiene la sofferenza molto soave e di grande profitto. Difatti la sofferenza le permette di addentrarsi sempre più nelle profondità della sapienza divina, fonte di ogni delizia. Più la sofferenza è pura, più procura una conoscenza intima e pura e, di conseguenza, un godimento più puro e sublime, perché nasce da un più intimo sapere. Pertanto, non contenta di una sofferenza qualsiasi, dice: dove è più folto dentro penetriàm. Cioè fino alle angosce della morte, per vedere Dio. Ecco perché il profeta Giobbe, desideroso di soffrire per vedere Dio, ha detto: Oh, mi accadesse quello che invoco, e Dio mi concedesse quello che spero! Colui che ha cominciato mi finisca, stenda la mano e mi sopprima. ciò mi sarebbe di conforto, che in mezzo ai mali non mi risparmi (Gb 6,8-10 Volg.).

 

13. Oh, se riuscissimo a comprendere, una buona volta, che è impossibile pervenire alle profondità della sapienza e delle multiformi ricchezze di Dio senza penetrare nel folto delle svariate sofferenze, riponendo in queste la nostra gioia e i nostri desideri! L'anima che desidera veramente la sapienza divina, desidera anzitutto penetrare nella sofferenza, cioè nella profondità della croce! Questo è il motivo per cui san Paolo, ammonendo i cristiani di Efeso a non perdersi d’animo nelle tribolazioni, scrive loro: Il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio (Ef 3,13.17-19). La croce è la porta stretta che permette di entrare in queste ricchezze della sapienza divina. Desiderare d'entrare per essa è di pochi, ma desiderare le gioie che da essa vengono è di molti.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 37 [CA 36]

 

1. Uno dei motivi principali per cui l'anima desidera essere sciolta e trovarsi con Cristo (Fil 1,23) è vederlo faccia a faccia e comprendere radicalmente le profonde vie e i misteri eterni della sua incarnazione, il che non è certamente la parte minore della sua beatitudine. Lo stesso Cristo, infatti, rivolgendosi al Padre, dice per bocca di san Giovanni: Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17,3). Come una persona che arriva da lontano la prima cosa che fa è vedere la persona amata e parlarle, così la prima cosa che l'anima desidera fare, quando sperimenta la vita di Dio, è conoscere e godere i segreti profondi e i misteri dell’incarnazione,[203] come pure le antiche vie (Cfr. Ger 6,16; Is 25,1) di Dio che da quella dipendono. Pertanto l'anima, dopo aver detto che desidera vedersi nella bellezza di Dio, aggiunge subito la seguente strofa:

 

Poi alle profonde

caverne di pietra ce ne andremo,

son ben nascoste esse,

e lì ci addentreremo,

di melagrane il succo gusteremo.

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. Uno dei motivi che spingono più fortemente l'anima a desiderare di addentrarsi nel folto, ossia nelle profondità della sapienza di Dio e conoscerne più da vicino la bellezza è, come ho detto, giungere a unire il suo intelletto a Dio e conoscere i reconditi misteri dell’incarnazione, che è la più alta e soave sapienza fra tutte le opere di Dio. Per questo, nella presente strofa, la sposa dice che, dopo essere entrata più intimamente nella Sapienza diVina, cioè nello spazio più intimo del matrimonio spirituale di cui ora gode - il che avverrà nella gloria, quando vedrà Dio faccia a faccia e l’anima sarà unita alla Sapienza diVina, ossia al Figlio di Dio -, conoscerà gli eccelsi misteri del Dio-uomo, misteri sublimi in sapienza e nascosti in Dio. L'anima e lo Sposo si addentreranno nella conoscenza di tali misteri, immergendosi completamente in essi. Così entrambi potranno mettere la loro gioia e le loro delizie nella soavità che deriva dalla conoscenza di questi misteri nonché delle virtù e degli attributi che, grazie ad essi, si scoprono in Dio, come la giustizia, la misericordia, la sapienza, la potenza, la carità, ecc.

Poi alle profonde

caverne di pietra ce ne andremo.

 

3. La pietra di cui parla qui, secondo san Paolo, è Cristo (1Cor 10,4). Le profonde caverne di pietra sono gli alti, sublimi e profondi misteri della sapienza di Dio, presente in Cristo, che riguardano l'unione ipostatica della natura umana con il Verbo divino, la correlazione che esiste tra quest'unione e quella degli uomini con Dio; l'armonia tra la giustizia e la misericordia di Dio nella salvezza del genere umano; la manifestazione dei suoi giudizi, che, a motivo della loro sublimità e profondità, molto giustamente sono chiamati profonde caverne: [profonde], per la sublimità dei misteri divini; caverne per l'immensità e insondabilità della sapienza di Dio racchiusa in essi; come le caverne sono profonde e hanno molte sinuosità, così ogni mistero del Cristo è molto profondo in sapienza e contiene molti recessi dei suoi segreti disegni sulla predestinazione e la prescienza riguardanti i figli degli uomini. Per questo la sposa aggiunge subito:

son ben nascoste esse.

 

4. Per quanti misteri e meraviglie abbiano scoperto i santi dottori o abbiano contemplato le anime sante in questa vita, la maggior parte è rimasta inespressa e ancora da comprendere. Resta molto da approfondire nel Cristo! Egli è come una ricca miniera piena di molte vene di tesori, delle quali, per quanto sfruttate, non si riuscirà mai a toccare il fondo o a vedere il termine; anzi in ogni sinuosità, qua e là, si trovano nuovi filoni di altre ricchezze. Ciò faceva dire a san Paolo, parlando del Cristo: In lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2,3). In essi l’anima non può penetrare, né può raggiungerli se, come ho detto, non passa prima per la fase della sofferenza interiore ed esteriore fino alla Sapienza divina. Si può attingere qualcosa di questi misteri solo dopo aver sofferto molto e aver ricevuto da Dio molti favori intellettuali e sensibili, e dopo aver fatto molto esercizio spirituale. Difatti tutti questi favori sono inferiori alla sapienza dei misteri di Cristo, in quanto sono disposizioni per arrivare ad essa. Per questo, a Mosè che chiedeva di mostrargli la sua gloria, Dio rispose che in questa vita non avrebbe potuto vederla; gli avrebbe però mostrato ogni bene (Es 33,18-20 Volg.), vale a dire tutto quello che poteva essere visto quaggiù. Facendolo entrare nella caverna di pietra che, come ho detto, è Cristo, gli mostrò le sue spalle (Es 33,21-23), cioè gli rivelò i misteri dell’umanità del Cristo.

 

5. È in queste caverne, cioè nel Cristo, che l'anima desidera entrare per essere assorbita, trasformata e completamente inebriata nell’amore che le offrirà la conoscenza di questi misteri, nascondendosi nel petto del suo Amato. In queste caverne egli la invita a entrare con le parole del Cantico dei Cantici: Alzati: affrettati, amica mia, mia bella, e vieni nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi (Ct 2,13-14). Queste fenditure sono le caverne di cui sto parlando e delle quali l'anima dice:

e lì ci addentreremo.

 

6. Lì, cioè nella conoscenza dei misteri divini, noi ci addentreremo. La sposa non dice mi addentrerò da sola, come sembrerebbe più opportuno, non dovendo lo Sposo entrarvi di nuovo, ma ci addentreremo, cioè io e l’Amato, per far capire che non è lei a compiere quest'opera, ma lo Sposo insieme a lei. Del resto, poiché Dio e l’anima sono strettamente uniti in questo stato di matrimonio spirituale, di cui sto parlando, l’anima non fa più niente da sola senza Dio. Dire: lì ci addentreremo significa: lì noi ci trasformeremo, esattamente io in te in forza di questi divini e soavi disegni d'amore. Conoscendo la predestinazione dei giusti e avendo la prescienza riguardo ai malvagi, per mezzo delle quali il Padre previene i giusti con le benedizioni della sua dolcezza (Sal 20[21],4) nel suo Figlio Gesù Cristo, l'anima si trasforma in amore di Dio, nel modo più eccelso e profondo, secondo queste conoscenze, ringraziando e rinnovando l'amore al Padre, con grande gioia e diletto, per il suo Figlio Gesù Cristo. Questo lo fa unita a Cristo, insieme con Cristo. E la dolcezza di questa lode è tanto delicata da essere del tutto ineffabile. Ciò è quanto l’anima esprime nel verso seguente:

di melagrane il succo gusteremo.

 

7. Le melagrane qui significano i misteri di Cristo, i giudizi della sapienza di Dio, le virtù e gli attributi di Dio, che la conoscenza di questi misteri e giudizi permette di scoprire innumerevoli in Dio. Come le melagrane hanno molti chicchi, nati e cresciuti in quell'involucro rotondo, così ogni attributo, mistero, giudizio e virtù di Dio contiene in sé una moltitudine di meravigliose disposizioni e di stupendi effetti di Dio, contenuti e sostentati nel seno sferico della virtù e del mistero, ecc., che riguardano quei determinati effetti.

Notiamo qui la forma circolare o sferica della melagrana,[204] perché per ogni melagrana intendiamo una virtù o un attributo di Dio; questo attributo o virtù di Dio è Dio stesso, rappresentato dalla forma circolare o sferica, perché non ha principio né fine. Proprio perché la sapienza di Dio racchiude innumerevoli giudizi e misteri, nel Cantico dei Cantici la sposa dice allo Sposo: Il suo petto è tutto d'avorio, tempestato di zaffiri (Ct 5,14). Gli zaffiri simboleggiano i suddetti misteri e giudizi della Sapienza divina, rappresentata dal petto; lo zaffiro, infatti, è una pietra preziosa del colore del cielo quando è limpido e sereno.

 

8. Il succo di melagrane, che la sposa dice gusteranno insieme lei e lo Sposo, è la fruizione e il piacere dell’amore di Dio, che trabocca nell'anima dalla conoscenza e penetrazione di questi misteri. Come dai molti chicchi delle melagrane, quando sono mangiati, esce un unico succo, così da tutte queste meraviglie e grandezze di Dio infuse nell’anima si riversa in essa una fruizione e un piacere d'amore che sono bevanda dello Spirito Santo. La sposa la offre subito al suo Dio, al Verbo Sposo, con grande tenerezza d'amore. Questa bevanda divina gliel'aveva promessa, nel Cantico dei Cantici, se le avesse concesso questa sublime conoscenza: Là m'insegnerai l’arte dell’amore e io ti farò bere vino aromatico, del succo delle mie melagrane (Ct 8,2).[205] Chiama sue queste melagrane o conoscenze sublimi, anche se appartengono a Dio, perché Dio gliel’ha date. L'anima dunque offre come bevanda al Signore il godimento e la fruizione di tali conoscenze nel vino d'amore; questo significa di melagrane il succo gusteremo.

Quando egli lo gusta, infatti, lo fa gustare anche a lei; e se lei lo gusta, lo fa nuovamente gustare a lui; e così il piacere è comune.

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 38 [CA 37]

 

1. Nelle due strofe precedenti la sposa ha cantato i beni che lo Sposo le darà nella felicità eterna: lo Sposo la trasformerà di fatto nella bellezza della sua sapienza creata e increata. la trasformerà anche nella bellezza dell’unione del Verbo con l'umanità, ed ella potrà conoscerlo sia di faccia che di spalle.

Ora, nella presente strofa,[206] afferma due cose: anzitutto dice il modo con cui dovrà gustare quel divino succo degli zaffiri o delle melagrane; in secondo luogo indica allo Sposo la gloria cui è stata predestinata.

A questo punto è opportuno osservare che, per quanto questi beni dell’anima vengano elencati uno dopo l'altro, tutti sono contenuti in un'unica gloria essenziale dell’anima. Dice, quindi, il verso:

 

Là tu mi mostrerai

ciò che l’alma mia desiderava

e dopo mi darai,

là, tu vita mia,

ciò che l’altro dì m'hai già donato.

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. Lo scopo per cui l'anima desiderava entrare in quelle caverne era giungere alla consumazione dell’amore di Dio, che essa aveva sempre cercato, cioè arrivare ad amare Dio con la purezza e la perfezione con cui essa è amata da lui, per ricambiarlo come merita. Per questo, nella presente strofa dice allo Sposo che lì egli le mostrerà ciò che ha sempre agognato in tutti i suoi atti ed esercizi, cioè come amare lo Sposo con la perfezione con cui egli ama se stesso. In secondo luogo dichiara che egli le concederà la gloria essenziale, alla quale l’ha predestinata fin dal giorno della sua eternità. E dice:

Là tu mi mostrerai

ciò che l’alma mia desiderava.

 

3. In altri termini, l'anima chiede l'uguaglianza d'amore con Dio, che essa ha sempre desiderato naturalmente e soprannaturalmente, perché l'amante non può dirsi soddisfatto se non sente di amare quanto è amato. E siccome l'anima constata che con la trasformazione d'amore in Dio, nei limiti di questa vita, per quanto sia immenso l’amore, non può giungere a uguagliare la perfezione d'amore con cui è amata da Dio, desidera la luminosa trasformazione della gloria in cui arriverà a uguagliare tale amore. Difatti, sebbene in questo sublime stato in cui si trova si verifichi una vera e propria unione della volontà, tuttavia non può raggiungere il grado e l'intensità dell’amore che godrà nell'intima unione di gloria. Allora, come afferma san Paolo, essa conoscerà Dio come è conosciuta da lui (1Cor 13,12) e lo amerà come è amata da lui. E così, come il suo intelletto sarà intelletto di Dio, la sua volontà sarà volontà di Dio, anche il suo amore sarà amore di Dio. In questo stato, infatti, anche se la volontà dell’anima non è annullata, ciò nondimeno è talmente unita alla forza della volontà di Dio con cui è da lui amata, da amarlo così fortemente e perfettamente come è amata da lui, essendo le due unite in una sola volontà e in un unico amore di Dio. Così, dunque, l'anima ama Dio con la volontà e la forza di Dio stesso, unita alla stessa forza d'amore con cui è amata da Dio. Questa forza è lo Spirito Santo, nel quale l'anima è allora trasformata; e poiché egli è donato all'anima per la forza di quest'amore, apporta e supplisce quanto manca in essa per la sua trasformazione nella gloria. Ciò accade anche nella trasformazione perfetta di questo stato matrimoniale, al quale l'anima giunge in questa vita, condizione beata in cui l'anima è tutta rivestita di grazia e, in qualche modo, ama profondamente grazie allo Spirito Santo che le è dato in tale trasformazione (Rm 5,5).

 

4. Ora, è bene notarlo, l'anima non dice che lì le darà il suo amore, anche se di fatto è così, perché lascerebbe intendere solo che Dio amerebbe lei, ma dice che lì le mostrerà come essa lo deve amare con la perfezione desiderata. Nella misura in cui lì egli le offre il suo amore, in questa stessa misura le insegna ad amarlo come è amata da lui. Dio, oltre a insegnare all'anima ad amare in modo assoluto, liberamente e senza interessi di sorta, come egli ci ama, le concede di amare con la forza con cui egli la ama, trasformandola nel suo amore, come ho detto, e attraverso quest'amore le conferisce la sua stessa forza per poterlo amare. Dio le pone, per così dire, lo strumento tra le mani e le indica come servirsene, adoperandolo insieme ad essa. Ciò significa insegnarle ad amare e renderla capace di farlo.[207]

Fin quando l'anima non raggiunge questo stato non è contenta, né lo sarebbe nell'altra vita se, come dice san Tommaso nell'opuscolo De beatitudine,[208] non sentisse di amare Dio tanto quanto è da lui amata. Come ho detto, in questo stato di matrimonio spirituale, di cui sto parlando a questo punto, sebbene non esista quella perfezione d'amore come nella gloria, c'è però una viva parvenza e immagine di quella perfezione che è del tutto ineffabile.

E dopo mi darai,

là, tu vita mia,

ciò che l'altro dì m'hai già donato.

 

5. Quanto qui l'anima dice che Dio dopo le darà, è la gloria essenziale, che consiste nel vedere l'essere di Dio. Di conseguenza, prima d'andare avanti, è opportuno sciogliere un dubbio: se la gloria essenziale consiste nel vedere Dio e non nell’amare, perché l'anima qui dice che l'oggetto del suo desiderio era quest'amore e non la gloria essenziale? E perché pone l'amore all'inizio della strofa, e solo dopo, come una cosa a cui bada meno, pone la richiesta di ciò che è la gloria essenziale?

Due ragioni spiegano questo dubbio: la prima perché il fine di tutto è l’amore, che ha per sede la volontà, la cui caratteristica è dare e non ricevere, mentre la proprietà dell’intelletto, il cui fine è la gloria essenziale, è ricevere e non dare. L'anima, inebriata d'amore, non pensa alla gloria che Dio le darà, ma solo a donarsi a lui in un abbandono di vero amore, senza pensare al proprio tornaconto. La seconda ragione è che la seconda richiesta è inclusa nella prima ed è già presupposta nelle strofe precedenti. È impossibile, infatti, pervenire al perfetto amore di Dio senza una visione perfetta di Dio. Il dubbio rimane quindi sciolto nella prima ragione, perché l'anima con l'amore paga il debito a Dio, mentre con l'intelletto riceve da Dio.

6. Passando ora alla spiegazione,[209] vediamo cosa significhi l’altro dì, del quale parla qui l’anima, e cosa ciò che datole da Dio e che essa chiede come preludio della gloria futura. Per l’altro dì intende il giorno dell’eternità di Dio, giorno altro, ben diverso da questo giorno terreno. In quel giorno dell’eternità Dio ha predestinato l'anima alla gloria e ha stabilito, altresì, la gloria che le avrebbe dato e che le ha concesso liberamente prima ancora di crearla. Tutto ciò, pertanto, appartiene già all'anima in maniera tale che nessun frangente o contrasto di alcun genere riuscirà mai a strapparglielo; essa potrà possedere senza fine ciò per cui Dio 1 'ha predestinata fin dall'inizio. Ecco ciò che intende quando dice che le è stato l'altro dì donato e che ora desidera possedere apertamente nella gloria.

Cosa sarà mai, allora, ciò che là le ha donato? Né occhio lo vide, né orecchio udì, né scese in cuore di uomo, come dice l’Apostolo (1Cor 2,9). Anche Isaia afferma più o meno la stessa cosa: Occhio non ha visto, Signore, all'infuori di te, ciò che hai preparato... (Is 64,4 Volg.). Essendo cosa senza nome, qui l'anima la indica con ciò che. In fondo, è vedere Dio, ma l'anima non trova altro termine se non ciò che per dire cosa sia vedere Dio.

 

7. Per non tralasciare di dire qualcosa di ciò, tuttavia, riporto quanto comunicò Cristo a san Giovanni nell’Apocalisse con molte espressioni, vocaboli e paragoni, per ben sette volte. Ciò è cosa che non può essere espressa con un vocabolo e neppure in una sola volta, perché anche dopo quelle sette volte vi è rimasto qualcosa da dire. Dice quindi Cristo: Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio (Ap 2,7).

Ora, poiché questo non spiega ancora quella realtà, aggiunge: Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita (Ap 2,10).

Ma poiché nemmeno questa espressione spiega tutto, ne riferisce un'altra più oscura e che tuttavia permette di capire meglio quella realtà: Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca[210] sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all'infuori di chi la riceve (Ap 2,17).

Siccome anche quest'ultima espressione non è in grado di spiegare cosa sia ciò, il Figlio di Dio ricorre a un'altra, piena di gioia e di forza: Al vincitore che persevera sino alla fine nelle mie opere, darò autorità sopra le nazioni: le pascolerà con bastone di ferro e le frantumerà come vasi di terracotta, con la stessa autorità che a me fu data dal Padre mio, e darò a lui la stella del mattino (Ap 2,26-28).

Non contento di questi termini per esprimere cosa sia ciò; aggiunge subito: Il vincitore sarà vestito di bianche vesti non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio (Ap 3,5).

 

8. Poiché tutto quanto è stato detto risulta insufficiente, il Figlio di Dio ricorre a molti altri termini per spiegare cosa sia ciò; e tutti esprimono ineffabile maestà e grandezza, come ad esempio: Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme che discende dal cielo, da presso il mio Dio, insieme con il mio nome nuovo (Ap 3,12).

Alla fine riferisce la settima espressione per spiegare cosa sia ciò: Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono. Chi ha orecchi ascolti... (Ap 3,21-22).

Fin qui sono parole del Figlio di Dio, per far comprendere cosa sia ciò. Le espressioni sopra riportate lo descrivono perfettamente, ma non lo spiegano. Difatti tutti i termini, per quanto appropriati, precisi ed esplicativi, si avvicinano molto alle realtà immense o celesti, ma non le spiegano né singolarmente né tutti insieme.

 

9. Vediamo ora se Davide dice qualcosa per spiegare cosa sia ciò. In un salmo proclama: Quanto è grande la tua bontà) Signore! La riservi per coloro che ti temono (Sal 30[31],20). Altrove chiama ciò torrente di delizie, quando afferma: Li disseti al torrente delle tue delizie (Sal 35[36],9). Ora, poi che neanche in queste espressioni Davide trova un termine adeguato per spiegare cosa sia ciò, in un altro salmo lo definisce anticipazione delle benedizioni della dolcezza di Dio (Sal 20[21],4).

Come si può notare, non c’è un termine che corrisponda esattamente a ciò di cui l'anima parla qui, vale a dire la felicità alla quale Dio ha predestinato l’anima.

Mi limito, dunque, al termine che la sposa adopera, ciò che, e spiego il verso in questo modo: ciò che m'hai già donato, ossia quella gloria a cui mi hai predestinata, o mio Sposo, nel della tua eternità, quando ti piacque decidere di crearmi, me la darai poi lì, nel del mio fidanzamento e delle mie nozze, nel mio giorno, giorno di gioia per il mio cuore, quando, libera dalla carne e introdotta nelle profonde caverne del tuo talamo, trasformata nella tua gloria, delle dolci melagrane il succo gusteremo.[211]

 

 

Annotazione per la strofa seguente

 

STROFA 39 [CA 38]

 

1. Nello stato di matrimonio spirituale, di cui sto parlando, l'anima viene a conoscere qualcosa di ciò; essendo, infatti, trasformata in Dio, ne sperimenta qualcosa dentro di sé, e allora vuole dirne qualcosa, dal momento che ne avverte in sé l'anticipo e le primizie. Dice infatti il profeta Giobbe: Chi potrà trattenere, senza esprimerle, le parole pensate? (Gb 4,2). Nella strofa che segue, quindi, l’anima tenta di dire qualcosa circa quella fruizione che godrà nella visione beatifica,[212] spiegando, per quanto le è possibile, cosa e come sia ciò che là si avvererà.

 

Dell’aure il respiro,

il canto della dolce Filomena,

il bosco e il suo incanto

nella notte serena,

con fiamma che consuma e non dà pena.

 

 

SPIEGAZIONE

 

2. In questa strofa la sposa dice e spiega cosa sia ciò che, che lo Sposo le concederà nella trasformazione beatifica, riferendo cinque esperienze.

La prima è lo spirare dello Spirito Santo che intercorre tra Dio e l'anima, e viceversa.

La seconda è una manifestazione d'incontenibile gioia a Dio per il godimento divino.

La terza è la conoscenza delle creature e dell’armonia che regna tra loro.

La quarta è la contemplazione pura e sublime dell’essenza divina.

La quinta è la trasformazione totale nell'immenso amore di Dio.

Dice, quindi, il verso:

Dell’aure il respiro.

 

3. Questo respiro dell’aure è una capacità che, dice l'anima, le verrà data da Dio mediante l'insufflazione dello Spirito Santo. Questi, a mo' di soffio divino, spirando divinamente eleva l'anima in maniera sublime, la informa e la rende capace di spirare in Dio la stessa spirazione d'amore che il Padre spira nel Figlio e il Figlio nel Padre. È lo Spirito Santo, dunque, che spira nell’anima, insieme al Padre e al Figlio, in questa trasformazione d'amore, al fine di unirla a sé.[213] Non ci sarebbe, infatti, vera e totale trasformazione se l'anima non si trasformasse nelle tre Persone della santissima Trinità in modo chiaro ed evidente.[214]

Questa spirazione dello Spirito Santo nell'anima, con cui Dio la trasforma in se, costituisce per lei un diletto molto sublime, delicato e profondo, che lingua mortale non può esprimere, né l'intelletto umano in quanto tale può comprenderne qualcosa. Non è possibile nemmeno riferire ciò che nella trasformazione temporale avviene nell'anima circa tale comunicazione, perché essa, unita e trasformata in Dio, spira in Dio a Dio la stessa spirazione divina con cui Dio spira se stesso a lei.

 

4. Nella trasformazione d'amore, concessa all'anima nella vita presente, questa stessa spirazione di Dio passa all'anima e dall'anima a Dio, con molta frequenza, con altissimo piacere d'amore per l'anima, anche se in un grado non rivelato e manifesto, come invece nell’altra vita. Credo che volesse dire questo san Paolo quando scriveva: Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! (Gal 4,6). Questo accade ai beati nell'altra vita e ai perfetti in questa, nella maniera suddetta.

Non dobbiamo ritenere impossibile che l'anima sia capace di una cosa tanto sublime, che cioè, per partecipazione, spiri in Dio come Dio spira in lei. Infatti, dal momento che Dio le accorda la grazia di unirla alla santissima Trinità, nella quale l’anima diventa deiforme e Dio per partecipazione, non è certamente incredibile che svolga le sue attività d'intelletto, di conoscenza e d'amore, o meglio, che si tenga operosa nella Trinità, strettamente unita a lei e attiva come la stessa Trinità, anche se per comunicazione e partecipazione. In realtà, è Dio che opera nell'anima; in questo consiste essere trasformata nelle tre Persone divine in potenza, sapienza e amore; in questo l'anima è simile a Dio; a tal fine Dio la creò a sua immagine e somiglianza (Gn 1,26-27).

 

5. Come ciò avvenga non è possibile sapere né dire. Si può solo affermare che il Figlio di Dio ci ottenne questo stato così sublime e ci meritò la preziosa grazia di poter essere figli di Dio,[215] come dice san Giovanni (1,12), e la chiese pregando: Padre, voglio che anche quelli che mi hai dati: siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai data (Gv 17,24). Ciò vuol dire: che essi compiano per partecipazione in noi la stessa opera che compio io per natura, cioè spirare lo Spirito Santo. E aggiunge: Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola[216] crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola... E la gloria che tu hai data a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. lo in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me (Gv 17,20-23). Il Padre, cioè, comunica loro lo stesso amore comunicato al Figlio, sebbene non naturalmente come al Figlio, ma per unione e trasformazione d'amore. Anche qui non bisogna credere che il Figlio voglia dire al Padre che i santi siano una sola cosa per essenza e per natura come lo sono il Padre e il Figlio, ma che lo siano per unione d'amore, come il Padre e il Figlio lo sono per unità d'amore.

 

6. Le anime, dunque, possiedono per partecipazione gli stessi beni che Dio possiede per natura, ragion per cui sono veramente dèi per partecipazione, uguali a Dio e suoi compartecipi. Per questo san Pietro scrive: Grazia e pace sia concessa a voi in abbondanza nella conoscenza di Dio e di Gesù Cristo Signore nostro. La sua potenza divina ci ha fatto dono di ogni bene per quanto riguarda la vita e la pietà, mediante la conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua gloria e potenza. Con queste ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi: perché diventassimo per loro mezzo partecipi della natura divina (2Pt 1,2-4). Fin qui sono parole di san Pietro, le quali lasciano chiaramente intendere che l'anima partecipa del la natura di Dio, compiendo in lui e r.on lui l'opera della santissima Trinità, nel modo descritto, a motivo dell’unione sostanziale tra lei e Dio. Certo, questa realtà meravigliosa si compirà in maniera perfetta nell'altra vita; tuttavia già in questa l'anima, pervenendo allo stato di perfezione, la intravede a grandi tratti e ne gusta le primizie, anche se, torno a dire, è impossibile esprimere tUtto ciò a parole.[217]

 

7. O anime create per simili grandezze e ad esse chiamate, che fate? In cosa vi intrattenete? Le vostre pretese non sono che bassezza e i vostri beni miseria. Oh infelice cecità! Gli occhi della vostra anima non vedono più. Sono ciechi dinanzi a una luce così abbacinante! Le vostre orecchie sono sorde allo strepito di voci così potenti! Come non vi accorgete che, mentre cercate le grandezze e la gloria di quaggiù, rimanete miserabili e vili, ignoranti e indegne di tesori così preziosi?

Si commenta ora la seconda esperienza che l'anima riferisce per spiegare cosa sia ciò:

il canto della dolce filomena.

 

8. Da quel respiro dell’aure nell'anima nasce la dolce voce del suo Amato a lei rivolta; con la medesima voce essa gli risponde ed esprime il suo soave giubilo. L'una e l’altra cosa qui vengono chiamate canto della filomena o dell’usignolo.[218] Come il canto dell’usignolo, infatti, si ode a primavera, quando ormai sono passati il freddo, le piogge e le altre intemperie invernali, ed è melodia per l'udito e gioia per lo spirito, così avviene in questa comunicazione e trasformazione d'amore, di cui la sposa gode già in questa vita. Ormai al sicuro e libera da tutti i turbamenti e le vicende terrene, spoglia e purificata dalle imperfezioni, pene e nebbie sia del senso che dello spirito, ella avverte come una nuova primavera di libertà e di profonda gioia nello spirito. Ivi sente la dolce voce dello Sposo, suo dolce usignolo. È lui che rinnova e ristora la sostanza della sua anima, la chiama con dolcezza e soavità, come un'anima ormai ben disposta a camminare verso la vita eterna. La sposa sente la piacevole voce che le sussurra: Alzati: affrettati: amica mia, colomba mia, mia bella e vieni! Perché ecc, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata, i fiori sono apparsi nei campi: il tempo della potatura è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna (Ct 2,10-12 Volg.).

 

9. Nella voce dello Sposo, che risuona nell'intimo dell’anima, la sposa avverte che tutti i suoi mali sono cessati e che comincia a godere dei beni celesti. Con questo conforto, sostegno e sentimento di grande delizia, anch'ella, quale dolce usignolo, fa risuonare la sua voce e innalza a Dio un nuovo canto di giubilo, insieme con Dio che a ciò la spinge. Per questo egli le presta la sua voce, perché all'unisono con lui la indirizzi a Dio. Questo è il volere e il desiderio dello Sposo, che cioè l'anima intoni il suo canto spirituale di lode a Dio, com'egli stesso le chiede nel Cantico dei Cantici con queste parole: Alzati: affrettati, amica mia, mia bella e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fa risuonare la tua voce alle mie orecchie (Ct 2,13-14). Dio vuole sentire[219] dell’anima la voce della lode perfetta. Perché sia perfetta, lo Sposo chiede che risuoni nelle profonde caverne di pietra, cioè nella trasformazione dei misteri di Cristo, di cui si è parlato. Poi che in quest'unione l'anima esulta lodando Dio con Dio stesso, come si diceva dell’amore, è lode perfetta e gradita a Dio la sua. Vivendo l'anima in uno stato di perfezione, compie opere perfette, e così questo canto di giubilo è dolce per Dio e per l'anima stessa. Ciò è quanto dice lo Sposo nel Cantico dei Cantici: La tua voce è soave (Ct 2,14) non solo per te, ma anche per me, perché, essendo un tutt'uno con me, spieghi la tua voce in una dolce melodia per me e insieme a me.

 

10. Tale è il canto che si leva nell'anima nella trasformazione d'amore, di cui gode in questa vita; la sua soavità è al di là di ogni elogio. Quantunque non sia così perfetto come il canto nuovo della vita gloriosa, l'anima, I invogliata da quello sentito in questo stato e pregustando, per la sublimità di questo canto, l'eccellenza di quello che avrà nella gloria, incomparabilmente superiore, lo ricorda e dice che ciò che lo Sposo le donerà sarà il canto del dolce usignolo.

Poi aggiunge:

il bosco e il suo incanto.

 

11. Questo è il terzo dono che lo Sposo offrirà alla sua sposa. Per bosco, che nutre in sé molte piante e animali, l'anima qui intende Dio, in quanto crea e dà l'essere a tutte le creature, che in lui hanno la loro vita e la loro origine. Ciò vuoI dire che il Signore si mostrerà all’anima e si farà conoscere come creatore.

Con il termine incanto, riferito a questo bosco, che qui l'anima chiede allo Sposo per il tempo finale, intende la grazia, la sapienza e la bellezza che le creature, sia celesti che terrene, ricevono da Dio e anche quell'armonia che nasce dalla sapiente, composta, attraente, amichevole e mutua correlazione fra tutte le creature superiori e inferiori. È una conoscenza, questa, che suscita nell'anima un profondo incanto e piacere.

Segue il quarto bene:

nella notte serena.

 

12. Questa notte[220] è la contemplazione nella quale l'anima desidera vedere le meraviglie menzionate sopra. La chiama notte perché la contemplazione è oscura, e le dà perciò anche un altro nome, quello di «teologia mistica», espressione che significa sapienza segreta o nascosta di Dio. In essa, senza rumore di parole e senz'aiuto di alcun senso corporale o spirituale, come nel silenzio e nella quiete della notte, all’oscuro di ogni realtà sensibile e naturale; Dio istruisce l'anima in un modo nascosto e segreto, senza che essa sappia come. Alcuni autori spirituali chiamano questo insegnamento conoscere senza comprendere. Questo non avviene nell'intelletto che i filosofi chiamano attivo, che opera su forme, immagini e percezioni delle potenze corporali; avviene nell'intelletto in quanto possibile o passivo, il quale non riceve quelle forme, ecc., ma solo passivamente riceve una conoscenza sostanziale, priva d'immagini, che gli è comunicata senza sforzo alcuno o attività da parte sua.

 

13. Per questo motivo, detta contemplazione si chiama notte: in essa l'anima, per mezzo della trasformazione di cui ormai gode, conosce in questa vita, in modo sublime, questo bosco divino e il suo incanto.

Ma per quanto alta sia questa conoscenza, è ancora notte oscura a confronto della conoscenza beatifica richiesta dall'anima. Perciò, domandando la contemplazione chiara, l'anima chiede che il godimento del bosco e del suo incanto, come delle altre cose qui menzionate, avvenga nella notte serena. In altri termini, chiede che avvenga nella contemplazione ormai chiara e beatifica, in modo che cessi di essere notte di contemplazione oscura, quaggiù, e si trasformi in contemplazione della visione chiara e serena di Dio, lassù. Dire notte serena, quindi, è dire contemplazione ormai chiara e serena della visione di Dio. Di questa notte di contemplazione Davide afferma: La notte è chiara come il giorno, per la mia gioia (Sal 138[139],11 Volg.), come a dire: quando sarò nella gioia della visione essenziale di Dio, la notte di contemplazione sarà trasformata in giorno luminoso per il mio intelletto.

Segue il quinto dono:

con fiamma che consuma e non dà pena.

 

14. Per fiamma[221] qui s'intende l'amore dello Spirito Santo, mentre consumare sta per condurre a termine e perfezionare. L'Amato, dice l'anima, le farà dono di tutte le esperienze menzionate in questa strofa. In questo modo, essa le possederà nell'amore totale e perfetto di Dio, perché ormai sono divenute parte della sua vita, nel segno di un amore perfetto e che non dà pena. Si esprime così per far comprendere la perfezione totale di quest'amore, amore che, per essere perfetto, deve avere due proprietà: occorre che consumi e trasformi l'anima in Dio, e che il fuoco e la trasformazione di questa fiamma nell'anima non facciano soffrire. Ciò è possibile solo nello stato beatifico, dove questa fiamma è ormai amore soave. Difatti, quando l’anima è trasformata in Dio, vi è conformità e soddisfazione beatifica da entrambe le parti; di conseguenza l'anima non prova alcuna sofferenza di fronte a questo cambiamento più o meno profondo, come invece le accadeva prima di possedere quest'amore perfetto. Una volta raggiunto quest'amore, l'anima si ritrova dolcemente trasformata nell'amore di Dio al punto che Dio, in quanto fuoco divoratore, come dice Mosè (Dt 4,24), ormai non la consuma soltanto, ma la consuma e la ricrea. La trasformazione dell’anima in Dio non è più come quella che avveniva in questa vita, quando, sebbene essa fosse perfetta e si consumasse nell'amore divino, tuttavia questo la struggeva ancora consumandola, come fa il fuoco con la brace. Difatti, per quanto la brace sia ormai trasformata e assimilata al fuoco e non emetta più fumo, tuttavia il fuoco, mentre la trasforma - per così dire - in sé, la consuma e la riduce in cenere. La stessa cosa accade all'anima, trasformata in questa vita con la perfezione dell’amore: anche se raggiunge una certa conformità con Dio, tuttavia soffre ancora una sorta di pena e di danno. Da una parte soffre continuamente nello spirito per la mancanza della trasformazione beatifica finale; dall’altra soffre per il danno che i sensi, deboli e corruttibili, subiscono dall'affermarsi della forza e della superiorità di tanto amore, perché qualsiasi osa straordinaria procura danno e sofferenza alla debole natura umana. È scritto infatti: Corpus quod corrumpitur, aggravat animam: Un corpo corruttibile appesantisce l'anima (Sap 9,15). Nella vita beatifica, invece, l'anima non avvertirà alcun danno o sofferenza, anche se il suo intelletto sarà acutissimo e il suo amore profondissimo, perché all'uno Dio darà capacità e all'altro forza: perfezionerà l'intelletto con la sua sapienza e la volontà con il suo amore.

 

15. Nelle strofe precedenti e in quella che sto spiegando la sposa ha chiesto straordinarie comunicazioni e conoscenze di Dio, cose per cui occorre un amore forte e profondo, per amare secondo la loro superiorità e sublimità. Qui domanda che le vengano accordate tali comunicazioni e conoscenze in quest'amore eccellente, nobilitante e forte.

 

 

STROFA 40 (CA 39)

 

Nessuno ciò guardava,

nemmeno Aminadab più compariva,

l’assedio s’allentava

e la cavalleria

alla vista dell’acque giù venia

 

 

SPIEGAZIONE E ANNOTAZIONE

 

1. La sposa qui riconosce che ormai l'appetito della sua volontà è distaccato da ogni cosa e ancorato al suo Dio con amore profondissimo. Sa anche che la parte sensitiva della sua anima, eliminate e assoggettate le sue ribellioni, con tutte le sue forze, facoltà e desideri si è adeguata allo spirito. Si rende conto che il demonio, dopo molteplici ed estenuanti tentazioni e lotte spirituali, è ormai vinto e cacciato molto lontano. È consapevole che la sua anima è unita e trasformata in Dio con abbondanti ricchezze e doni celesti. In breve, si riconosce ormai ben disposta, preparata e forte, appoggiata al suo Sposo, per salire, attraverso il deserto della morte, colma di delizie (Ct 8,5 Volg.), verso le dimore e i troni gloriosi del suo Sposo, desiderando che egli. concluda definitivamente quest'opera. Per convincerlo meglio, in quest'ultima strofa, gli sottopone tutte queste cose, adducendo cinque ragioni.[222]

La prima, che la sua anima è distaccata ed estranea a tutte le cose create.

La seconda, che il demonio è ormai vinto e messo in fuga.

La terza, che ha sottomesso le passioni e mortificato gli appetiti naturali.

La quarta e la quinta, che la parte sensitiva e inferiore è ormai riformata e purificata, nonché conformata con quella spirituale. Di conseguenza, questa parte non solo non le sarà di ostacolo, ma si unirà allo spirito per partecipare dei suoi beni, perché già condivide, secondo le sue capacità, quelli che fin d'ora possiede.

Dice, dunque, il verso:

Nessuno ciò guardava.

 

2. Significa: la mia anima è spoglia, distaccata, sola ed estranea a tutte le cose create, sia celesti che terrene; si è, inoltre, addentrata con te in un raccoglimento così profondo, che nessuna di esse riesce a sfiorare l'intimo diletto che provo in te, cioè a procurare piacere alla mia anima con la sua soavità né disgusto e molestia con la sua miseria e bassezza. La mia ani ma è talmente lontana da esse e immersa in un piacere talmente delizioso con te, che le ha perse di vista.

Non solo, ma

nemmeno Aminadab più compariva.

 

3. Aminadab[223] nella sacra Scrittura (Ct 6,12), in senso spirituale, rappresenta il demonio, cioè l'avversario dell’anima. Egli la combatteva e la turbava sempre con innumerevoli colpi della sua artiglieria, per impedirle di entrare nella fortezza nascosta del raccoglimento interiore con lo Sposo.

Dopo che vi ha trovato rifugio, l'anima è così forte e vittoriosa per tutte le virtù ivi possedute ed è così sostenuta dal braccio di Dio, che il demonio non solo non osa avvicinarsi, ma fugge lontano spaventatissimo. Anzi non osa mostrarsi perché l’anima, attraverso l’esercizio delle virtù e grazie allo stato di perfezione di cui ormai gode, l'ha talmente messo in fuga e vinto che non le compare più davanti.

Ecco perché, a buon diritto, la sposa dice che neppure Aminadab più compariva per impedirle quel bene che chiede.

L’assedio s'allentava.

 

4. Per assedio qui l'anima intende le sue passioni e gli appetiti, che, fin quando non sono vinti e mortificati, la circondano da ogni parte, attaccandola su tutti i fronti. Ecco perché dice che il loro assedio, come lo definisce, s'allenta, quando le passioni sono ridotte alla ragione e gli appetiti mortificati.

Allora, se è così, non tralasci lo Sposo di accordarle i beni che gli ha chiesto, perché l'assedio non è più un ostacolo. La sposa si esprime così, perché, fin quando l'anima non ha rivolto a Dio le sue quattro passioni e non ha mortificato e purificato i suoi appetiti, non è in grado di vedere Dio.

E aggiunge:

e la cavalleria

alla vista dell’acque giù venia.[224] [a vedere l’acque?].

 

5. Le acque rappresentano qui i favori e le delizie spirituali, goduti in questo stato dall'anima nella sua intimità con Dio.

La cavalleria, invece, è simbolo dei sensi corporali, interiori ed esteriori, della parte sensitiva, in quanto portano in sé i fantasmi e le figure degli oggetti.

In questo stato, dice la sposa, i sensi scendono alla vista dell’acque spirituali. Difatti, nel matrimonio spirituale, la parte sensitiva e inferiore dell’anima è già purificata e, in qualche modo, spiritualizzata, sì che, con le sue potenze sensitive e le sue forze naturali, si raccoglie per partecipare e godere, a suo modo, delle grandezze spirituali che Dio va comunicando nel più profondo dell’anima. Ciò è quanto ci fa capire Davide con queste parole: Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente (Sal 83[84],3).

 

6. Occorre notare che qui la sposa non dice che la cavalleria giù venia a gustare le acque, ma alla vista dell’acque. Difatti la parte sensitiva dell’anima con le sue facoltà non po', propriamente parlando, gustare in maniera essenziale i beni spirituali, non solo in questa vita ma nemmeno nell'altra. Riceve, però, da tali beni, per una certa sovrabbondanza dello spirito, sollievo e diletto. È lo spirito che attira i sensi del corpo e le facoltà al raccoglimento interiore, dove l’anima beve le acque dei beni spirituali. Questo è piuttosto un venir giù alla vista dell’acque, o dei beni, che berle e gustarle in quanto tali.

L'anima dice qui che la cavalleria giù venia, cioè scendeva, e non che «andava». Adopera questa espressione, piuttosto che un'altra, per far capire che in quest'unione della parte sensitiva con quella spirituale, quando si gusta la bevanda delle acque spirituali, tutte queste potenze scendono e lasciano le loro attività naturali per entrare nel raccoglimento interiore.

 

7. La sposa presenta tutte queste perfezioni e disposizioni della sua anima all’Amato, al Figlio di Dio, nel desiderio di essere da lui trasferita dal matrimonio spirituale, che Dio ha voluto concederle nella Chiesa militante, al glorioso matrimonio della Chiesa trionfante. Piaccia al Signore Gesù, dolcissimo Sposo delle anime fedeli, condurre a questo sublime stato tutti coloro che invocano il suo nome. Sia onore e gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, in saecula saeculorum. Amen.

 

 

Fine del Cantico B

 



[1] Prol. - Giovanni della Croce scrive il Prologo per indicare genericamente l'argomento che andrà a trattare. Non ritiene opportuno dare spiegazioni esaurienti: le strofe abbondano di «spirito fecondo» e lo Spirito santo non mancherà di aiutare il lettore a penetrarne il senso. Del resto le strofe contengono espressioni dovute a «intelligenza mistica» che non consentono un'adeguata interpretazione teologico-spirituale.

[2] Ai tempi del santo il Cantico dei Cantici era attribuito al re Salomone.

[3] È intenzione del santo gettare un po' di luce sui «detti d'amore», senza annettere un significato unico ai versetti e senza obbligare nessuno ad attenersi alle sue spiegazioni. La ricchezza di contenuto permette anche altre possibilità d'interpretazione. Sono affermazioni fondamentali che fanno comprendere la libertà dell’autore d'inserire anche elementi estranei a uno sviluppo rigoroso del commento.

[4] Un altro punto essenziale è la brevità del commento, tranne in alcuni punti riguardanti l'orazione, su cui è opportuno dilungarsi, specialmente quando si tratta di effetti straordinari, al di sopra dello stato dei principianti.

[5] Intende citazioni della Scrittura, che è la sua fonte più importante. Questa conferma, sempre, l'esperienza individuale e la stessa teologia.

[6] Sentencias, prevalentemente bibliche, che però subiscono una progressiva rarefazione, e non vengono escluse citazioni di passi tratti da opere patristiche e teologiche.

[7] Str. - Le immagini della natura che arricchiscono le strofe del Cantico con varietà di forme ed espressioni rivelano un profondo senso della bellezza delle creature, nel quale D. Alonso ha intravisto non solo uno «stimolo al nostro senso estetico, ma anche qualcosa della diafana vita del poeta» (La poesia di san Giovanni delta Croce, Roma 1965, p. 177). Giovanni vedeva risplendere il volto di Cristo nelle opere della creazione. Il procedimento dell’allegoria simbolica è quanto mai evidente. L'immagine del cervo è tratta dalla Bibbia. Simili elementi o termini ieratici, mutuati dal Cantico dei Cantici, sono i gigli, i melograni, la tortora, Aminadab, la descrizione del talamo, ecc.

[8] L'anima sposa, desolata e gemente per la scomparsa dello Sposo Cristo, inizia l'affannosa ricerca, interrogando le creature, attraverso monti e valli, senza cogliere fiori, indifferente ai terrori della notte.

[9] Simbolo dello spavento della notte.

[10] Le creature offrono soltanto un pallido riflesso della bellezza dell’Amato. La ricerca continua perché l’Amato sveli la sua presenza: «Alfin concediti davvero!» (str. 6).

[11] È il desiderio della morte mistica. L'anima, sopraffatta dalla bellezza dell’Amato, vorrebbe morire per essere sempre con lui.

[12] Dove cercare la bellezza dell’Amato? In linea con la tradizione dell’egloga, Giovanni della Croce interroga la fonte nella quale si riflettono gli occhi della bellezza irresistibile dello Sposo divino.

[13] L'anima ha trovato l'Amato, ma non è ancora capace di resistere allo sguardo dei suoi occhi. Gli chiede di allontanarsi da lei; vuole sfuggirli.

[14] In questa strofa cambia il clima poetico. L'ansiosa ricerca, alla quale nel poema corrispondeva uno stile concentrato, dal ritmo veloce, incalzante, nel testo spagnolo, senza il supporto di un solo aggettivo, è ora terminata. L'amata ha finalmente udito la voce del suo «cervo ferito» (Cristo). La forma poetica si allarga ad ampio respiro. Nascono così le stupende enumerazioni delle str. 13-14 del Cantico, nel testo spagnolo senza adoperare mai un verbo. «Il verso si condensa, arricchendosi tanto del numero degli dementi quanto di nuovi raggi di luce poetica» (p. Alonso, o. c., p. 155). L'aggettivo, ora costantemente usato, prolunga il fascino lasciato dal sostantivo, fa sì che l'immagine evocata si espanda armoniosamente.

[15] Cfr. le str. 20 e 39.

[16] La solitudine della montagna non è priva di «musica silenziosa». L'anima contemplativa sa cogliere le soavi armonie della natura e ascoltare in esse la voce dell’Amato.

[17] Le str. 16-17, lasciando emergere i vivi desideri della sposa tutta presa dal gustare la vigna in fiore, simbolo del fidanzamento, o dal fermare i venti, raccontano le gioie dell’unione d'amore con lo Sposo, qui ancora in modo imperfetto.

[18] La descrizione del matrimonio spirituale segue tutta l'allegorica bellezza del Cantico biblico. Alonso ha mostrato che nel CA «l'intera fase degli sponsali consisteva in un lungo canto della sposa, colmo di giochi, di diletti, di graziose leziosità. Lo stato dell’unione perfetta, viceversa, è un canto alterno di entrambi gli amanti» (o. c., p. 173). Nella seconda redazione (CB) ciò è andato perduto.

[19] L'anima sposa, unita allo Sposo in matrimonio spirituale, vorrebbe penetrare ancora più profondamente la natura di Dio, oltre i limiti della conoscenza umana.

[20] Cambia il ritmo della strofa. La lenta e ieratica descrizione, l'introduzione del demonio, l'enigmatico Aminadab (Cfr. Ct 6,12) creano un'atmosfera di rilassamento, un gioco di musicalità inaspettata, che produce una bellissima sensazione conclusiva di un vero poema d'amore.

[21] Arg. - Questo paragrafo è esclusivo del CB. Ha lo scopo di proporre al lettore, fin dall’inizio, la visione globale di quanto l'autore intende sviluppare nel testo. Introduce lo schema delle tre vie o dei tre stati di vita, in seguito meglio esposto (Cfr. CB 22, 3), con uno sguardo retrospettivo sul cammino percorso dall’anima. Lo schema obbliga il santo a includervi le tematiche delle strofe.

[22] 1. - L'Annotazione esorta l'uomo a riflettere sulla precarietà della vita e sui doni della grazia, ricevuti gratuitamente, e perciò invita a mostrarsi riconoscenti consegnando, nell’amore più pieno, se stessi a Dio. La serietà di un impegno d'amore, espresso nella perseverante ricerca di Dio, si basa saldamente sul fondamento antropologico, o per meglio dire, sull'innegabile situazione dell’uomo dinanzi a Dio.

[23] Il commento della prima strofa si divide in due parti: la prima (nn. 3-14) è di contenuto dottrinale, teologico e dogmatico; la seconda (nn. 15-22) è di carattere spirituale. Giovanni della Croce sottolinea, fin dall’inizio, che la ricerca dell’Amato deve condurre l'uomo alla pienezza dell’amore. La dinamica del desiderio, fortemente sottolineata nelle prime dieci strofe ed espressa nel crescente anelito dell’incontro divino da parte della sposa (anima), che non riesce a trovare appagamento adeguato a tal suo desiderio, esige totalità d'amore.

[24] Pacho (pp. 131-132) ha mostrato che l'interpretazione sommaria e globale, da parte del santo, della prima strofa, così piena di slancio lirico, «non corrisponde all’inizio della “conversione” a Dio, secondo l'Annotazione iniziale, ma a uno stato in cui si chiede e si desidera la visione chiara, beatifica di Dio». È il primo esempio delle dissonanze che frequentemente segnano il rapporto tra poesia e commento.

[25] Dio è colui che nessun concetto e nessuna esperienza umana possono raggiungere. Meister Eckhart aveva parlato dell’unico Uno, del totalmente Altro. La medesima idea sta qui al fondo del pensiero sangiovanneo. Verrà ripresa in 11,3: tutte le presenze di Dio rimangono nascoste; e in 13,10: tutte le conoscenze di Dio sono come brevi apparizioni, molto lontane.

[26] Bisogna cercare Dio dentro l'anima, con sommo raccoglimento, lasciando il mondo e le sue attrattive. Ciò si realizza ne! matrimonio spirituale (22,4: «Entrata ormai è la sposa»), dove si gode il raccoglimento con «intimo diletto» (40,2). Cfr. 3S 4,2; 41,1.

[27] Il passo, già citato in 1S 5,1, non è di Agostino, ma appartiene all’apocrifo agostiniano Liber soliloquiorum animae ad Deum, 31, PL 40,888. Probabilmente l'autore del libro, molto diffuso all’epoca del santo, è uno spagnolo vissuto intorno al 1500.

[28] A partire da questo n. 8 inizia l'esposizione sangiovannea sui diversi modi in cui Dio si rende presente all’anima. n primo passo che segue è uno dei testi più belli sull'inabitazione divina nell’anima cristiana.

[29] L’autore rievoca il cammino teologale tracciato in Salita-Notte. I:unica guida che conduce l'anima nelle notti della purificazione è la fede. Il Dio nascosto va cercato nella nuda fede (testi paralleli in 1S 8,3; 2S 2,1; 4,3; 18,2; 2N 16,7).

[30] Cfr. nota 4.

[31] Giovanni della Croce fa sua la dottrina dello Pseudo-Dionigi sulla teologia negativa: ritiene importante ricordare ai principianti che ci si può avvicinare a Dio soltanto sulla via della negazione. Dio è incomprensibile. È tenebra per lo spirito umano.

[32] «Ella está entera con él». Il termine esprime la relazione teologale, amorosa, dell’anima con Dio. Esprime infatti la totalità dell’amore richiesta nella ricerca di Dio.

[33] La perfezione d'amore consiste nello spogliamento totale (desnudez), nella povertà assoluta di spirito, come viene affermato in 1N 3,2 e 1S 5,6.

[34] Il gemito traduce l'anelito della speranza d'incontrarsi definitivamente con Cristo. Nel Cantico è simboleggiata la tensione dell’anima tutta intenta a raggiungere sempre qualcosa di più, per possederlo, sia pure soltanto nell’altra vita (dr. str. 38 e 40).

[35] Sono frequenti, nello stato dei proficienti, le «visite» o i brevissimi «tocchi». Cfr. str. 6-7.

[36] «Ferite d'amore»: espressione frequentemente usata da Giovanni della Croce con delicatissime sfumature per indicare le comunicazioni divine. Hanno qui il medesimo senso di visite e tocchi.

[37] Spesso i mistici paragonano l'anima alla fenice, adattando l'antica favola greca alla vita spirituale. Cfr. Teresa d'Avila, Vita, 39,23, e Castello interiore, VI, 4,3.

[38] L'autore tratta specificamente delle ferite d'amore nelle str. 7-9, 12 e 34.

[39] 2. - Nella str. 2 prevale il simbolo per indicare che l'anima non può incontrarsi immediatamente con lo Sposo divino. Vengono introdotti gli intermediari che accompagnano il lungo cammino della ricerca. Sono mediazioni umane, interiori, che lentamente conducono l'anima all’unica mediazione definitiva, Cristo Sposo, il Verbo incarnato.

[40] Giovanni della Croce riprende qui lo schema fondamentale della Salita (2S 6), elencando le tre virtù teologali, fede, speranza e carità, alle quali corrispondono intelletto, memoria, volontà.

[41] Maria è rappresentata come tipo dell’orante. Per chi vive in intima amicizia con Cristo basta un accenno o tutt'al più palesare la necessità, senza formularla espressamente.

[42] 3. - La strofa traccia il programma ascetico che non può mancare nell’amorosa ricerca di Cristo. L'autentico amore di Dio si costruisce sulla pratica generosa e costante delle virtù, della rinuncia (non voler cogliere «fiori») e della mortificazione. Sullo stretto rapporto tra amore di Dio e pratica della virtù ritorna CB 30,8-9.

[43] Nel CA mancano i nn. 2-3. L'attuale aggiunta si spiega perché l'autore voleva insistere sugli atteggiamenti ascetici all’inizio dell’itinerario spirituale. Praticamente egli riprende l'insegnamento di 1S 13 e 2S 7,10 stesso esposto nelle Cautele e in altre opere. Sarà opportuno leggerlo insieme al CB 29, tenendo presente che nel Cantico prevale la prospettiva dell’amore al fine di motivare l'impegno ascetico dell’uomo.

[44] Il cammino della croce è un tema centrale ricorrente in tutti gli scritti sangiovannei. La meta della ricerca ascetica di Cristo consiste nella piena conformazione al Figlio di Dio crocifisso per amore.

[45] P. Ruiz Salvador pensa che nella terza maniera si tratti di un'allusione al caso personale di Teresa d'Avila, un'eco delle sue tristi esperienze, raccontate in Castello interiore, VI,1,3, e Vita, 28 (Cfr. San Juan de la Cruz, Obras completas, Madrid 19883, p. 598, nota 6).

[46] 4. - Giovanni della Croce adopera il termine consideración, che nel suo sistema equivale a meditazione.

[47] Il mistico dottore fa suo lo schema classico della conoscenza di se per giungere alla conoscenza di Dio: «Noverim me, noverim te» (Cfr. Soliloquia, 2,1, PL 32, 885).

[48] Allusione al Liber soliloquiorum animae ad Deum, 31, PL 40,888.

[49] Il testo si ispira anche alle Confessioni di sant'Agostino, 1. 10, c. 6: «lnterrogatio mea, intentio mea» (PL 32,783). La descrizione ha riflessi autobiografici. Il santo, molto sensibile alla bellezza della natura, durante i suoi lunghi viaggi aveva numerose occasioni per ammirare gli incantevoli paesaggi dell’Andalusia e per individuare in essi «la mano dell’Amato».

[50] Citazione (a memoria e non esatta) dal Rituale Romanum, tit. 6, c. 7: Ordo Commendationis animae.

[51] 5. - Cfr. nota 2 a CB 4. Continua la ricerca dell’Amato nella creazione. Nella risposta sono sintetizzate le idee del santo sull'opera della creazione, attuata per mezzo del Verbo, l'unigenito Figlio di Dio.

[52] Nel sistema sangiovanneo, l'incarnazione di Cristo è al centro delle riflessioni teologiche del Cantico. È l'opera più grande voluta da Dio per redimere l'uomo e restituirgli la sua umanità guarita. Nell’umanità di Cristo l'uomo ritrova la sua immagine di figlio di Dio.

[53] Questo importante passo cristologico, completato in CB 7,3; 23, 3; 32, 3, termina con la prima interpretazione del concetto di bellezza (hermosura) come «dignificazione delle cose dovute all’incarnazione che tutto ha innalzato alla bellezza di Cristo» (G. Pozzobon, Cantico spirituale; il cammino per incontrare Cristo, in Quaderni carmelitani, 6 [1989], p. 107). Nella seguente Annotazione l'autore sottolinea che le creature sono «tutte rivestite di bellezza» e contengono, perciò, le orme di Cristo, della hermosura di Cristo. Sulla bellezza si veda 11,6 e 36,5.

[54] 6. - Per la prima volta compare qui questo paragrafo aggiunto, una premessa alla strofa successiva, dal titolo Annotazione, per spiegare la relazione fra il commento terminato e la strofa seguente. L'autore riprende qui, leggermente cambiato, il testo di CA 5,5.

[55] La situazione della ricerca è la medesima. La domanda diventa sempre più assillante, sempre più dolorosa per l'assenza dell’Amato.

[56] 7. - Quest'ultimo versetto è stato chiamato «il migliore che sia stato scritto in castigliano» (A. Gala, in Epoca, 36 [18-24.11.1985], pp. 135-136). Nelle str. 4-61a domanda era rivolta alle creature irrazionali e la risposta non era stata soddisfacente. Nelle str. 7-8 l’anima sposa la pone alle creature razionali, il cui balbettio è la bellezza dell’Amato cercata con amore ardente.

[57] Giovanni della Croce distingue tre «ferite d'amore», di cui aveva già parlato nella str. 1 (Cfr. ivi nota 15), considerandole dal punto di vista dell’effetto sofferto e come «ferita», «piaga» e «piaga incancrenita» sofferta nel fisico. Non si tratta delle grazie mistiche, che in Fiamma d'amor viva (FB 2,6-10) sono indicate col nome di «ferite» o «piaghe».

[58] In 2N 19,5; 13,8 è considerato come quinto grado della scala d'amore.

[59] Nel senso di attendere a Dio comprendendolo «vagan a Dios entendiendo en él»). Pacho (pp. 171-172, nota 3) ha mostrato che si tratta qui di un gioco linguistico dell’originale sp. «tra il verbo latino "vacare" e il castigliano "vagar". L'autore stabilisce una curiosa equivalenza fra "vagar" e "vacar", fondandola sulla semplice assonanza. (...) Al tempo di Giovanni della Croce la traduzione corrente del "vacare" latino era "vacar", cioè "dedicarsi a, attendere a, contemplare"».

[60] Il medesimo «un no sé qué: un non so che» s'incontra nella «Glossa al divino», Poesie, XII.

[61] La spiegazione è rivolta alle persone giunte al secondo grado o stato della vita spirituale: i proficienti o contemplativi che ricevono talvolta grazie o favori divini, ma non sono ancora in grado di capirle, perciò balbettano.

[62] 8. - Cioè nella precedente str. 7.

[63] In molti mistici si riscontrano l'esperienza e il desiderio di morire per amore. Lo stesso santo scrisse la Glossa al divino col ritornello: «Vivo e in me già più non vivo» (Cfr. Poesie. VIII). Pacho (p. 176. nota 2) vede qui «una curiosa risonanza di san Gregorio Magno. Moralia, 5,26. PL 75.715».

[64] Questo modo di dire. ripetuto in CB 11,10. è familiare alla tradizione spirituale occidentale. Nella sua formulazione latina: «Anima magis est ubi amat quam ubi habitat», la si riscontra in Bonaventura. Saliloquium. II. 12 (Ed. Quaracchi, 8.28), ma probabilmente risale a Bernardo.

[65] 9. - Il cervo è simbolo del Cristo ferito dalle frecce d'amore. Qui il cervo, intossicato da qualche erba velenosa, è paragonato all’anima nel suo crescente dolore. Solo l'Amato, che l'ha ferita con la freccia velenosa, può guarirla. il termine yerba, adoperato dall’autore, significa infatti il veleno, cioè un unguento fatto di erbe velenose, con cui si ungevano le punte delle frecce.

[66] Inizia la domanda dell’anima, rivolta direttamente allo Sposo, che continua anche nella str. 10.

[67] Si riannoda di nuovo con il grido iniziale della str. 1, con il quale l’anima chiama il «cervo» fuggitivo che l'aveva lasciata ferita d'amore. La brama d'incontrarlo aveva acceso la dolorosa ricerca, accompagnato dall’interrogazione alle creature irrazionali e razionali. Tale ricerca terminerà, nella str. 11, con la richiesta di scoprire, in dette creature, la presenza dell’Amato.

[68] Di questa sublime grazia, riservata allo stato di gloria, l’autore aveva già brevemente parlato in CB 1,2.

[69] Il passo va letto insieme alle descrizioni dell’oscura contemplazione riferita in 2N 6,5.

[70] 10. - Sono i tre segni che indicano il passaggio dalla meditazione alla contemplazione, da Giovanni della Croce esposti come passaggio ascetico verso una contemplazione acquisita in 2S 13,2-4 e in 1N 9. Nel Cantico il passaggio è motivato dal desiderio di vedere «colui che più d'ogni altro amo» (2,4), anzi è inserito nella stessa dinamica del desiderio.

[71] Il desiderio di vedere lo Sposo è giunto al culmine. È divenuto desiderio di vederlo faccia a faccia, chiudendo gli occhi a tutte le cose create. Va notata la differenza tra «giustamente» essere privati della luce di Dio, quando si pongono gli occhi su cose all’infuori di Dio, e meritare tal luce «convenientemente» (congruamente) quando si guarda solo Dio. Lo stesso principio viene trattato in 2S 2,1-2; 24,2-4; FB 3,8.

[72] 11 - La strofa con l'Annotazione e commento è esclusiva del CB. In essa continua il desiderio di trovarsi alla presenza dell’Amato, di morire spiritualmente nel vedere l’infinita bellezza di Dio.

[73] Testo classico in cui vengono esposti sinteticamente i modi attraverso cui Dio si fa presente all’anima. Cfr. passi paralleli in 2S 5,3: presenza naturale o essenziale; 2S 5,10-11 : presenza soprannaturale o per grazia; FB 4,7: presenza mistica od oscura, di cui si parla in questa strofa.

[74] Il concetto di «centro», adoperato qui nel Cantico per la prima volta, si ritrova in molti scrittori mistici, specialmente in Meister Eckhart e in Taulero. Giovanni della Croce lo riprenderà in CB 12,1 e 17,1, per sottolineare il crescente dinamismo della ricerca d'amore. Cfr. nn. 10-12.

[75] La bellezza (hermosura) indica l'essere di Dio, Dio stesso, inesprimibile con concetti umani. Eppure Dio si è comunicato alla creazione come somma bellezza, nell’incarnazione del Figlio (CB 5,4), lasciando sue tracce nel mondo (CE 6,1). L'ansia di vedere l'invisibile bellezza che è Dio, ritorna in CE 36, 2. Ma l'anima la scopre già nel limpido specchio della «fonte cristallina» (str. 12, poesia). In Giovanni,della Croce, la hermosura è un concetto chiave, caratteristico della sua arte poetica che si riflette nel suo stile. È fatto di una deliziosa musicalità, che riveste tutto il suo pensiero teologico-metafisico. Partendo dalla hermosura, il santo unisce alla più alta contemplazione, dottrinalmente esposta, la più alta intuizione artistica.

[76] Gia citato in CB 8,3.

[77] 12. - Cfr. nota 3 a CB 11. Per «il centro più profondo», verso il quale corre la pietra, Cfr. FB 1,11-12.

[78] La seguente citazione di Os 2,20 Volg., valorizzata nella letteratura mistica in rapporto al matrimonio spirituale, non permette di dire che qui si è in presenza dell’alto stato d'unione con Dio. Il contesto, in cui si parla di fede, fa pensare piuttosto al fidanzamento spirituale.

[79] Con l'immagine della fonte, la strofa (in CA la str. 11) si riallaccia alla str. 10, cioè al desiderio di vedere l’Amato «faccia a faccia». L'acqua e la fonte sono i simboli della presenza di Dio, presenza che si comunica a tutta la creazione.

[80] In CB 20,2 la fede appare come rivestita d'argento, in stretto parallelismo con la str. 12. Nell’altra vita il rivestimento sarà d'oro perché non occorre più praticare le «virtù forti ed eroiche» (CB 20,2). Ricordiamo che in 2S 21,3-61a fede è il bianco vestito dell’anima che la rende forte contro gli assalti del demonio. Essa lo indossa durante le notti della purificazione.

[81] Giovanni della Croce svilupperà il rapporto fra conoscenza e amore più avanti, in CB 26,8. La sola conoscenza intellettuale, non integrata dall’amore, è imperfetta. Cfr. FB 3,49, dove il santo spiega con maestria la dottrina sulla relazione tra la conoscenza e l'amore, nell'atto dell'esperienza mistica.

[82] Questo passo che tratta della trasformazione d'amore e del matrimonio spirituale suona come un inciso, in cui la desiderata meta viene brevemente illustrata, per essere ripresa nelle str. 22-23 e 26-27. È la prima volta che il santo nel Cantico approfondisce il testo paolino sul matrimonio spirituale, descritto nel n. 8. Eppure, paragonato allo stato della vita beatifica, anch'esso è soltanto un abbozzo d'amore.

[83] Cfr. 6-7. L’autore interpreta la frase biblica citata poco prima in senso fenomenologico.

[84] Quest'aggiunta, che non si trova in CA, traduce il desiderio del santo di caratterizzare, teologicamente, la situazione spirituale di chi si trova alle soglie dell’unione. Rientra nel quadro del programma ascetico-spirituale tracciato all’inizio del CB.

[85] 13. - La strofa, dopo aver descritto l'acme della ricerca, tratta del fidanzamento spirituale.

[86] Cfr. CB 12,2. Il commento puntualizza bene il momento sconvolgente dell'incontro. Sulla base antropologica - il corpo umano nella sua debolezza e incapacità di ricevere l'illuminazione diretta di Dio -, Giovanni mette in luce la sublimità dell’esperienza mistica. L'anima non può sostenerla. Ha la sensazione di morire. Avverte con lancinanti dolori la divisione tra spirito e carne (n. 4).

[87] Il rapimento o l'estasi vengono descritti con il simbolo del volo, nel quale l'anima, libera dal corpo, comunica con lo Spirito.

[88] Giovanni della Croce conosceva gli scritti di Teresa d'Avila, non ancora stampati a quel tempo. Il riferimento può essere a Vita 20, e a Castello interiore, VI. La pubblicazione degli scritti teresiani fu decisa nel 1586. La prima edizione è del 1588.

[89] Il volo dell’anima, simboleggiato nel volo della colomba, sembra voler perdersi nell’aria. Ma la colomba viene richiamata in terra perché l'incontro con lo Sposo possa continuare quaggiù, senza essere riservato all’aldilà. L'incontro non è soltanto verticale (simbolo del volo nell’aria), ma è anche orizzontale nel sistema sangiovanneo.

[90] Il commento spiega come la ferita d'amore del cervo-Cristo sia in realtà la partecipazione o con-passione con la sposa ferita d'amore.

[91] Alludendo al Cantico biblico, il cervo è visto nel suo gesto di salire in alto (la contemplazione come luogo in cui comincia a farsi vedere, sebbene non completamente, n. 10), e nella sua corsa verso acque fresche (per bere alla fonte d'amore che è la carità).

[92] 14-15. - L'immagine della colomba ritornerà nella str. 34.

[93] Il commento riunisce le due str. 14-15, un capolavoro d'arte poetica che descrive la bellezza della natura, in modo immediato, originale, in rapporto alla sposa che contempla estaticamente quanto lo Sposo divino ha fatto per lei. Pace, gioia, dolcezza, espresse con immagini incalzanti, esprimono l'esperienza profonda del fidanzamento spirituale: qui sono uniti in una cosa sola Dio, l'uomo e la creazione. È la descrizione del paradiso che si realizzerà in pienezza nella str. 22, cioè nel matrimonio spirituale.

[94] Nelle Fonti francescane si racconta che san Francesco trascorse una notte intera ripetendo questa esclamazione (Cfr. Analecta franciscana, Ed. Quaracchi 1897, III, p. 36). E diventata una giaculatoria assunta poi dalla pietà popolare.

[95] «Ìnsulas estrañas», isole esotiche e misteriose, forse è un'allusione a testi biblici (Ger 31,10 e Is 42,4-10; 51,5; 60,9), ma più verosimilmente si riferisce a racconti sulle scoperte del nuovo mondo, cioè dell’America, e anche ai romanzi cavallereschi.

[96] Già in CB 1,17 Giovanni della Croce aveva parlato dei tocchi divini, dicendo anche - in CB 8,4 - che essi «fecondano l'anima e il cuore di amorosa intelligenza di Dio». Qui vengono comparati al simbolo di un'«altissima e soavissima conoscenza di Dio», gustata nel tatto e nell'udito. Producono l'unione, perché scendono nella sostanza dell’anima, quell'unione caratteristica del fidanzamento spirituale.

[97] Il dottore mistico ha lasciato una precisa dottrina sul tema delle visioni, rivelazioni, ecc., in 2S 24-27. Qui dà per scontato al lettore il suo insegnamento su questo argomento.

[98] L'ordine carmelitano vede nel profeta Ella il modello e il padre spirituale o, più precisamente, l'archetipo della propria vita.

[99] Citazione dal libro De mystica theologia, 1, PG 3,999. Si trova anche in altri scritti sangiovannei (2S 8,6; 2N 5,3; FB 3,49) per caratterizzare la contemplazione in questa vita.

[100] Rapimento e fidanzamento non sono la stessa cosa. Qui vengono identificati in riferimento alle grazie iniziali, delle quali si era parlato nella str. 13, cioè il volo dell’anima.

[101] Giovanni della Croce fa sua la distinzione scolastica fra la conoscenza «mattutina» e «vespertina» di Dio, che verrà meglio precisata in CB 36,6-7. Il concetto risale ad Agostino, De Genesi ad litteram, 4,22, PL 34,312, ed è ripreso da Tommaso d'Aquino, STh I, q. 58, a. 6-7; q. 62, a. 1; q. 89, a. 5-6 (indicato da Pacho, p. 231, nota 18).

[102] Il passero solitario è uno dei testi sangiovannei più originali e più caratteristici per descrivere la contemplazione divina. Cfr. D 120, dove il santo parla delle cinque caratteristiche del passero solitario.

[103] Il testo riflette l'esperienza del santo durante i suoi lunghi viaggi. La notte contemplativa, trascorsa nella solitudine degli incantevoli paesaggi dell’Andalusia, comunica «l’armonia di una musica dolcissima», nella quale si rivela l'amato Dio.

[104] Dopo una giornata faticosa, la cena rappresenta il momento del ristoro. Così anche per l'anima. Dopo la lunga, tormentata ricerca dell’Amato, la cena le offre ristoro. Qui la cena è simbolo di Cristo, di Cristo-cervo che, ferito, corre verso le acque fresche (CB 13,9) e rende partecipe del ristoro l'anima ferita d'amore. - Il n. 29 è un'aggiunta del CB, fatta per spiegare il pensiero allegorico con il testo di Ap 3,20.

[105] Questa nota si è resa necessaria nel CB in vista dello spostamento delle strofe in rapporto al nuovo ordine logico. Nel CA l'autore era passato alla descrizione dell’unione piena del matrimonio spirituale, ricorrendo alle immagini del Cantico dei Cantici. Nel CB Giovanni si riserva di descrivere l'ultima tappa della notte di purificazione o del fidanzamento spirituale. Occorreva perciò precisare i limiti del fidanzamento, nel quale l'anima non ha raggiunto il pieno distacco dalla parte sensitiva.

[106] 16. - Cominciando con questa strofa l'autore cambia l'ordine rispetto al CA. Colloca qui subito le str. 25-26 del CA, con le ben conosciute allegorie del paradiso del Cantico dei Cantici (la vigna, i fiori profumati, l'austro, ecc.: Ct 2,15-16; 4,16-5,1; 6,1-2), e le str. 29-31, perché trattano del fidanzamento spirituale.

[107] È un modo di dire, ripetuto da Giovanni della Croce e da altri scrittori, con leggere sfumature nella formulazione. Forse risale a Bernardo, Epistola III, PL 182,2558, come pensa Pacho (p. 240, nota 3).

[108] Già nell'Annotazione (16,2) l'autore aveva parlato dell’astuzia del demonio. Con l'aggiunta del n. 6 (in CA non era necessario), il santo dottore insiste sull'aspetto di purificazione.

[109] Nel citato passo del Cantico biblico il nome Aminadab sembra avere un significato simbolico. Giovanni della Croce lo identifica con il demonio, identificazione che non ha precedenti nella tradizione spirituale. Vi ritorna in CB 40,3. Potrebbe darsi che il santo abbia riportato qualche tradizione popolare dell’epoca.

[110] Va notato il movimento che caratterizza questa vigna. È in fiore (vitalità, dinamismo) e non in frutto (maturità definitiva, calma e quiete); si cacciano via le volpi e s'intreccia un fascio di pigne per l’Amato, perché possa intrattenersi con la sposa nel giardino dell’anima.

[111] La contemplazione consiste nel trovarsi alla presenza di Dio, senza voler operare con le potenze spirituali e sensitive.

[112] 17. - Ne aveva già parlato in CB 12,1. Qui l'immagine è più precisa.

[113] Il vento del nord (cierzo), la tramontana, deve cedere il posto al soave austro che sparge profumi intorno all’Amato per accoglierlo nella vigna. La strofa è strettamente collegata alla precedente, in CA (str. 25-26) la descrizione poetica continua nell'immagine del giardino (CA 27-28), formando un unico blocco.

[114] L'austro, il soave vento del sud, è simbolo dello Spirito Santo che suscita l'amore nell'anima per lo Sposo divino. Egli recuerda (risveglia, [ri]suscita) l'amore e con le sue mozioni (Cfr. FB 3,26) dispone al matrimonio spirituale. Cfr. CB 22,2: «Il soffio dello Spirito Santo è condizione necessaria e adeguata per arrivare alla perfezione di tale stato». L'anima chiede che venga a spirare in lei (n. 5; il giardino fiorito è simbolo dell’anima), per scoprirle la bellezza dei fiori (simbolo delle virtù che la adornano in questo stato). li tema viene ripreso in CB 39 e rapportato al matrimonio spirituale.

[115] Il termine aposentador non significa soltanto precursore in genere, ma colui che nei viaggi dei reali precedeva, andava a preparare l'alloggio, p. es. il maggiordomo di corte. L'azione dello Spirito Santo viene qui paragonata a tale funzione dell’aposentador.

[116] Il passo si collega a CB 24,2.

[117] 18. - Nel CA, questa era la str. 31, ma il fatto che la sposa debba lottare contro le immagini prodotte dai sensi, mostra chiaramente che essa non si trova ancora nello stato del matrimonio spirituale. Ciò spiega lo spostamento.

[118] In realtà, rimando alle strofe CB 20-21, che seguiranno; in CA si rimanda invece alla strofe 29-30, che precedono.

[119] Probabile rimando a espressioni dei profeti e di Gesù stesso: Cfr. Is 6,10; Mt 13,13ss.

[120] 19. - Il commento di questa strofa formula la richiesta di una maggiore interiorità e di una più intensa partecipazione alla bellezza divina perché l’Amato possa nascondersi meglio nel centro dell’anima. Ritornano le immagini della montagna e delle isole remote della str. 14, ma con un'intenzionalità diversa. Giovanni della Croce compose questa strofa, infatti, in un'epoca posteriore e in un ambiente diverso. La parola escóndete, nasconditi, non dev'esser interpretata nel senso di un allontanarsi dal mondo esteriore.

[121] Nell'originale sp. Carillo, diminutivo arcaico di caro, usato poeticamente, significa assai caro, assai amabile. Ricorda la coplilla, la canzonetta, che il santo cantò prigioniero a Toledo: «Muoio d'amore, / Carillo, come farò? - Muori, trallalà!».

[122] Non è da escludere che questa strofa, con la quale inizia il primo gruppo delle strofe aggiunte nel CA, intenda riprendere il primo verso della str. l.

[123] Lo sguardo di Dio comunica amore e grazie. In CB 5,4 il dottore mistico aveva detto che «nella sola immagine di suo Figlio Dio contemplò tutte le cose». Ritornerà sull'argomento in CB 31,5.8; 33,3.7. Partendo dallo sguardo di Dio, dagli occhi divini che guardano, il santo sviluppa, in seguito (str. 32-33), una vera teologia dell’amore.

[124] 20-21. - L'autore stesso congiunge queste due strofe, in CA 29 e 30, perché il contenuto è unico: lo Sposo procede a un'ultima purificazione della sposa. volendola avere tutta per se. Ciò viene espresso allegoricamente con immagini tratte dalla vita pastorale (egli scongiura, con lire e con sirene, quanto appartiene all’ambiente, di non svegliare la sposa) e anche con immagini del Cantico biblico (le mura che proteggono la sposa). Nell'Annotazione, valevole per le due strofe, spiega teologicamente questa purificazione definitiva come momento in cui l'anima è già spogliata dell’«uomo vecchio» (Cfr. Rm 6,6; Ef 4,22; Col 3,9), ma ha ancora bisogno di essere fortificata nell'amore per celebrare il matrimonio spirituale (per l'uomo vecchio dr. 2N 4,2).

[125] Pace e tranquillità caratterizzano lo stato dell’unione trasformante in cui l’anima gode la presenza e il possesso di Dio in un ininterrotto scambio d’amore.

[126] Giovanni della Croce tornerà sulle quattro passioni dell’anima in CB 26,19 e 40,4, seguendo la classificazione scolastica, insegnata a scuola (Boezio, De consolatione philosophiae, 7, PL 63, 656-658).

[127] Nella teologia spirituale del sec. XVI l'influsso del demonio veniva talvolta esagerato. Oggi la prospettiva è cambiata. Timori notturni trovano spiegazioni psicologiche o psicanalitiche.

[128] Secondo l'interpretazione di Pacho (p. 272, nota 9) si tratta di «una spiegazione tipica del CB e proviene da una nota autografa dell’autore che segue san Tommaso (STh I, q. 59-60; q. 62, a. 6-9»).

[129] Nel matrimonio spirituale l'anima ha ricevuto comunicazioni sostanziali, motivo d'immensa gioia, e nessun'altra gioia accidentale può sostituirle o superarle.

[130] Nella dimensione spirituale, nella piena comunicazione con Dio, nella quale l'anima partecipa all’essere del Dio trino (Cfr. str. 38-39).

[131] Il concetto di festa conviviale viene sviluppato nella Fiamma d'amar viva come festa dello Spirito. Qui l’amore sponsale è una festa per l'anima che gode sul petto dell’Amato, come l'apostolo Giovanni riposava sul petto di Gesù. L'immagine ritorna in tutta la letteratura mistica, specialmente medievale.

[132] Allusione a Fil 4,7 («Pax Dei... superat omne sensum»). Il testo veniva letto nella liturgia della terza domenica d'Avvento (capitolo di Nona).

[133] Si riferisce a CA, dove il tema del giardino viene ampiamente trattato nelle str. 27-28. Nel CB queste strofe andranno sotto i nn. 22-23.

[134] 22. - Con questa strofa (in CA 27) inizia la tappa definitiva del cammino verso l'unione con Dio: il matrimonio spirituale. La sposa non vi giunge con i propri sforzi. È lo Sposo divino che compie l’opera di liberazione interiore della sposa chiamando in causa il pastore, l'autore ricorda che nella poesia El pastorcico (Un pastorello) Cristo cercava invano la sua sposa senza trovare risposta.

[135] In CA questa strofa, insieme alle seguenti (cioè str. 27-28), descrive l'ingresso della sposa nel giardino del matrimonio spirituale. In CB viene gettato uno sguardo sul cammino passato; si sviluppa con maggiore ampiezza il periodo dei principianti, si sintetizza lo stato del fidanzamento (raggiunto al termine della via contemplativa), distinguendolo con precisione dallo stato dei perfetti, la via unitiva che conduce al matrimonio spirituale.

[136] È una bellissima definizione del matrimonio spirituale. Ricorda l'autentica esperienza dei mistici, a partire da san Bernardo. Il bacio esprime il momento di indisturbata intimità fra due persone che si amano, e questo momento non viene violato nemmeno nel matrimonio spirituale, ne dalla tentazione del demonio o della carne, ne dal mondo o dal desiderio disordinato (Cfr. 24, 5). Affermazioni simili si trovano in 2N 14,1 e 23,12.

[137] 23. - Il mistero dell’incarnazione, «il più importante di tutti» i misteri, si trova al centro della dottrina sangiovannea (Cfr. lo studio di F. Garcia Muñoz, Cristologia de San Juan de la Cruz, Madrid 1982, pp. 221-230). In questa strofa l'incarnazione è descritta come mistero di redenzione e di ricapitolazione perfetta dell’uomo.

[138] Giovanni della Croce fa suo il tradizionale simbolo dell’albero in mezzo al paradiso (sotto il quale avvenne il peccato originale) e il simbolo dell’albero della croce (sul quale Cristo compì l'opera della redenzione). CI Roberto de Tombelaine, Super Cant. Cant. Expositio, c. VIII PL 79, 541, opera che nel sec. XVI venne attribuita a Gregorio Magno.

[139] Il peccato originale è il punto più oscuro ed esecrabile della storia dell’uomo. Cristo abbatté le barriere fra Dio e l'uomo con la sua morte in croce, ridandoci il medesimo «stato d'innocenza», come dirà il santo in C 26,14. Per mezzo del sacramento del battesimo inizia un crescente dinamismo che condurrà l'uomo, nella misura che risponderà all'azione della grazia, alla perfetta unione d'amore con Dio. Questa si realizza sotto il «melo», che non è più simbolo dell’albero dell’Eden, ma di quello della croce.

[140] In CA 28,1 (testo parallelo alla presente strofa) viene detto che la «prima madre è Eva»; qui è sottinteso. «Tua madre» è Eva, la madre di tutti i viventi, ed è perciò «la natura umana» che fu «violata» dal peccato.

[141] Le traduzioni recenti condotte sul testo biblico ebraico rendono così: «Sotto il cedro [o il melo] ti ho svegliata: là ti ha concepito tua madre, là ha concepito e generato te».

[142] Il n. 6 è un'aggiunta, introdotta dall’autore per mettere in chiaro la differenza tra il «matrimonio» operato da Cristo una volta per sempre con l'incarnazione redentrice e iniziato nell’uomo con la grazia del battesimo, e il «matrimonio» spirituale, frutto di un lento processo di santificazione. Nel sistema sangiovanneo i due «matrimoni» significano la pienezza del mistero pasquale che sfocia nell’unione mistica.

[143] 24. - S'intende: le due strofe precedenti nel CA, dove la presente strofa è la 15ª, preceduta dalle strofe 13-14 (in CB 14-15). Ma stando al contenuto, non è del tutto impossibile collegare questa con le str. 22-23 del CB, tenendo però conto delle immagini mutuate dal Cantico biblico. I simboli e le allegorie della presente strofa presuppongono, anzi si armonizzano meglio con il canto delle grandezze dell’Amato nelle str. 14-15 (CA 13-14).

[144] Il matrimonio spirituale significa l'unione e il possesso dell’Amato, felicità e sicurezza possesso di doni e di virtù, perfezione nell’amore, grande pace interiore. Va osservato che il santo non accenna in nessun modo a grazie e privilegi straordinari. Il matrimonio spirituale altro non è che il momento conclusivo, culminante, raggiunto da pochi, di un normale processo di crescita della vita interiore con l'aiuto della grazia.

[145] Qui non come persona, ma nel senso che nessuna tentazione riesce a disturbare l'anima nel matrimonio spirituale.

[146] Nell’originale: «en púrpura tendilo». La traduzione è difficile. Pacho (p. 296, nota 7) propone «tessuto di porpora». In altre traduzioni si dice: «nella porpora steso» oppure «ardente di porpora».

[147] 25. - Le più alte grazie mistiche non si limitano alla persona che le riceve. Hanno anche una dimensione ecclesiale. La presente strofa parla di questo cristocentrismo comunitario, di cui si trova già un accenno in CB 23,2-6 e che ritornerà in seguito (CB 30,7; 33, 8;36,5).

[148] In senso spirituale. Le giovani Sono le anime devote che avanzano sul cammino della perfezione, seguendo Cristo, col quale s'incontrano avendo ormai raggiunto la «nudità di spirito e il distacco da tutte le cose» (n. 4).

[149] «Tocco di faville» (centella): tocco delicatissimo della grazia di Cristo, qui in riferimento a Ct 5,4: «Et venter meus intremuit ad tactum eius» (Cfr. CB 25,6). Il santo segue qui la tradizione medievale che vedeva in questo tocco la sottilissima comunicazione d'amore di Dio, percepita nel fondo dell’anima. Giovanni della Croce allude a questa grazia in FB 1,33. Ne parla anche Teresa d'Avila (Vita, 15,4-5; Castello interiore, VI, 1,11; 2,4). «Aromato vino»: l'originale sp. (adobado vino) indicherebbe un vino stagionato, arricchito di ingredienti aggiuntivi, una specie di balsamo, come potrebbe suggerire Ct 8,2 insieme a 1,2. Questo vino conferisce all'anima vigore e abbondanza di «soave ebbrezza» (CB 8).

[150] Il termine spagnolo manera, cioè pertugio, usato dal santo, ha creato difficoltà ai traduttori. Oggi si pensa che il santo abbia voluto indicare la fessura della porta, il passare la mano per la fessura («per foramen») di Ct 5,4. citato sopra.

[151] La distinzione è assai utile, non per frenare gli slanci dei giovani, ma per sottolineare il valore della perseveranza nella vita spirituale.

[152] 26. - Allusione alla str. 24.

[153] Già l'annotazione annuncia il proposito dell’autore di esaltare i doni dello Sposo all'anima, con i quali questa s'incammina verso l'uguaglianza d'amore con Cristo. Simile grazia, assai sublime, verrà espressa simbolicamente.

[154] Trovarsi nella cella interiore dell’Amato e bere il vino che egli vi tiene per l'anima, è il simbolo del matrimonio spirituale. Per spiegare quella «cella» nell’originale bodega, cioè cantina, il santo cerca il confronto con i sette doni dello Spirito Santo, L'anima che possiede questi doni è perfetta ed è entrata nella cella interiore. L'insegnamento del santo è in linea con la tradizione mistica, Cfr. I sette gradi d'amore di Ruusbroec o l'altro suo libro Il regno degli amanti.

[155] Parole sintetiche per descrivere lo stato di trasformazione d'amore nel matrimonio spirituale (Cfr. CB Il, 34). Simili descrizioni si trovano in 2S 24,4-5; 26,5-6; 2N 13,2; FB 1,4; 2,34; 3,18-22.68-69.

[156] Il passo è importante per la relazione conoscenza-amore nell’atto mistico, in cui è ben possibile amare senza conoscere. Cfr. l'esposizione sangiovannea in 2N 17,7 e FB 3,49-50. Ivi il santo cita Ct 2,4 per spiegare che tutte le potenze dell’anima bevono insieme nella cella interiore, intendendo l'unione attuale. Nell’unione permanente ciò non è possibile.

[157] Essere lontani dal mondo (l'estasi dell’atto mistico) assume qui un'interpretazione positiva: l'anima è riempita della sapienza di Cristo nei confronti della quale ogni sapere umano è ignoranza. In CB 37,2 viene detto infatti che «conoscere i misteri dell’incarnazione è la più alta e soave sapienza». È la sapienza dell’uomo spirituale (2S 19,11; 26,14), dell’uomo nuovo, dell’uomo trasformato in Cristo.

[158] L'idea dello stato d'innocenza paradisiaca è assai cara a Giovanni della Croce. Ne parla in 3S 26,5; 2N 24,2 e anche in CA 37,5, mentre in CB preferisce evitare il termine.

[159] Il paragone della grande luce che assorbe in se la piccola luce serve anche ad altri mistici per designare l'unione trasformante.

[160] Il santo dottore aveva descritto la fatica di liberazione interiore in CB 3 con termini presi dalla vita dei pastori: l'anima lotta contro il «gregge» della passione e delle inclinazioni morbose (Cfr. anche CB 28,7).

[161] 27. - La «dolcezza di Dio»! Un lettore che vedesse in Giovanni della Croce soltanto il dottore delle terribili notti di purificazione, di croci, di mortificazione, di una serie di «nulla», qui ha modo di convincersi che egli sa parlare - e con insistenza - della bontà del Padre desideroso di abbracciare il figlio ribelle. Dio agisce come «madre amorosa» con il proprio bambino (1N 1,2) mostrando all'uomo «l'amore della sua bontà» (FB 4,13).

[162] La strofa, in continuazione con la precedente, descrive poeticamente la mutua donazione nel matrimonio spirituale. Nel testo originale si ripete tre volte allí, «là», un avverbio non facile da tradurre, che indica la cella interiore (luogo mistico del matrimonio spirituale), in cui l'anima gode dell’intimità dell’Amato. Qui egli le comunica i suoi segreti e il suo amore, l'anima si consegna totalmente a lui. La strofa è uno dei testi più belli della letteratura spirituale cristiana, non priva di una leggera nota erotica che ricorda l’esperienza dei grandi mistici medievali.

[163] L'originale de hecho, «in realtà», significa che ora quello che l'anima desiderava con ansie nel periodo della ricerca, è diventato realtà: lo Sposo si è consegnato a lei, facendola «completamente sua» (27,6), ed essa a lui.

[164] Affermazione importante nel sistema sangiovanneo. La teologia mistica è scienza «segreta» e «gustosa», «scienza appresa per amore», è «contemplazione» (Cfr. CB 27,5 con il passo di 2N 5,1).

[165] Nell’originale: fe y firmeza de desposorio, «perseveranza nella promessa del matrimonio». In questo senso va inteso tutto il commento a questa strofa.

[166] Anche qui il termine desposorio significa matrimonio.

[167] Questa frase offre lo spunto per la strofa seguente, nella quale si parla, con immagini bucoliche, di una pastorella che abbandona il gregge, per significare l'abbandono definitivo del mondo consueto da parte della sposa. D. Alonso vede in questi testi sangiovannei tracce di poesia popolare (o. c., pp. 118-119).

[168] 28. - Il tema dell’uguaglianza nell’amore; tanto caratteristico della dottrina mistica del santo, verrà ripreso e sviluppato in CB 31-32 e 37-39.

[169] La piena donazione della sposa al suo amato Dio si esprime con l'affermazione diretta: «l’alma mia s'è data» (vv. 1-2), con il rafforzamento della disposizione del donarsi, escludendo tutto il resto (vv 3-4), e con l'affermazione sintetica; «solo in amar è il mio esercizio».

[170] Nell’originale spagnolo viene usato il termine caudal, cioè risorsa, che nel lessico sangiovanneo significa qualcosa di più della ricchezza. Esso equivale all'insieme delle potenze e delle capacità dell’uomo.

[171] Santa Teresa di Lisieux aveva trovato in quest'affermazione la sua vocazione all'amore. Il n. 8 spiega, poi, come questo esercizio impegni tutte le capacità naturali e soprannaturali dell’uomo. Le sue operazioni, azioni e scelte fondamentali vengono trasformate in amore.

[172] 29. - I nn. 2-4 mettono ben in luce l'utilità della vita contemplativa pura per la crescita spirituale della Chiesa. Che Maria Maddalena si fosse nascosta ne! deserto per trent'anni è una leggenda diffusa da qualche apocrifo. È infondata storicamente. Si poteva leggerla ne! Flos Sanctorum.

[173] Il santo ozio di Maria ai piedi di Gesù è un'immagine tipica, presente in tutta la letteratura mistica medievale in seguito all'opuscolo attribuito a san Bernardo, Tractatus de charitate, c. 8, PL 184,600-601.

[174] La contemplazione è nella Chiesa la misteriosa sorgente, dalla quale scorre l'acqua che alimenta tutte le sue attività pastorali. Giovanni della Croce doveva ricordarlo già al suo tempo alle religiose del suo ordine, essendo penetrata anche nel chiostro la tentazione all'attivismo.

[175] La parola spagnola ejido, «territorio comunale» arcaico castigliano, è difficile da tradurre. Giovanni della Croce la impiega nelle due possibili accezioni: luogo pubblico del comune dove la gente s'incontra, e prato dove i pastori pascolano le greggi, perciò fuori del villaggio. È preferibile la prima accezione.

[176] Vivere pienamente in Cristo significa perdere tutto. E uno dei capisaldi della dottrina sangiovannea, qui ripetuto per ricordare la dimensione cristocentrica dell’unione trasformante.

[177] 30. - La strofa dedica il commento alla spiegazione allegorica, con l'immagine dei fiori, ovverossia delle virtù che crescono nel giardino dell’anima. Le str. 30-33 (CA 21-24) formano un tutt'uno, pieno di tenerezza e di amore sponsale.

[178] Il passo apre di nuovo la prospettiva ecclesiale. È la Chiesa che, ornata di virtù, siede alla destra di Cristo, come regina vestita d'oro.

[179] Continua la prospettiva ecclesiale. La Chiesa è fatta di anime sante: vergini, dottori, martiri che formano le tre ghirlande me abbelliscono lo Sposo Cristo.

[180] Nel testo sp. calzados, cioè scarpe, calzature, viene dal santo, carmelitano scalzo, interpretato come sandali.

[181] 31. - La strofa continua il medesimo argomento. La carità è il vincolo - il capello, come dice il versetto della poesia - che unisce tutte le altre virtù, rendendole preziose agli occhi di Dio.

[182] Collo, capello e occhi sono immagini mutuate dal Cantico dei Cantici e vengono interpretate simbolicamente. La fragilità di un capello indica la costante possibilità di rompere una virtù, con la conseguenza di romperle tutte, dato che esse sono legate fra loro (Cfr. su ciò l'insegnamento di san Tommaso, STh I-II, q. 65). D. Alonso sostiene che il valore del capello derivi da un sonetto di Garcilaso (o. c., p. 122).

[183] Giovanni della Croce rimanda in questo numero, un'aggiunta del CB, a FB 1,18-25 e 2,23-30, passi scritti press'a poco nella medesima epoca. Si può vedere, in questo rimando, una prova dell’autenticità della redazione B del Cantico.

[184] 32. - Dio ha guardato l'anima con amore: è il tema di questa strofa che getta uno sguardo retrospettivo sulle grazie e comunicazioni ricevute prima di giungere all'unione sponsale. Tutta la storia dell’uomo passa sotto lo sguardo di Dio: è una storia d'amore se viene vissuta nella ricerca del Cristo e nell’impegno della santificazione (Cfr. CB 12,4-5: «gli occhi desiderati» dello Sposo: allora erano troppo luminosi per sopportarli).

[185] In questo paragrafo Giovanni della Croce formula la condizione posta da Dio per imprimere la sua grazia nell’anima. Dio ama se stesso, esclusivamente, e ama tutte le creature in se stesso. Questa è la radice dell’uguaglianza d'amore. Dio stesso innalza l'anima - «la rende bella» e «partecipe della natura divina» (n. 4) -, tanto da poter amare in essa se stesso, in un unico amore.

[186] L'affermazione, di sapore autobiografico, fa vedere chiaramente come la sublime esperienza mistica comporti l'adorazione riconoscente di un Dio d'immensa bontà, suscitata dal ricordo dei propri peccati, nella consapevolezza di trovarsi dinanzi a un puro dono. Con questi sentimenti, ripresi nella strofa seguente, termina la terza parte del CB.

[187] 33. - La fonte delle riflessioni e della stessa poesia è costituita da Ct 4,9 e soprattutto 1,3-4 Volg.: «Sono bruna, ma bella», in libera interpretazione, piena di ricordi della poesia popolare lirica. Nel Canzoniere cinquecentesco spagnolo è abituale discolparsi del colore bruno, cioè scuro, come ha mostrato D. Alonso (o. c., pp. 121-122). Tra gli altri esempi riportati da Alonso: Salinas, De musica libri septem, Salamanca 1577, p. 325: «Anche se sono brunetta e scura / per me non ha importanza, / ché ho l'amore che mi aiuterà».

[188] Il testo sp. come riportato da Giovanni della Croce recita così: «mi ha fatto entrare nell’intimità del suo letto».

[189] Nell’originale sp. ritorna il termine condición, cioè la grande generosità propria di Dio, nonché la sua larghezza (liberalidad), affermata dal santo in 3S 20,2, qui ricordata per introdurre il passo di Mt 13,12.

[190] Di nuovo il santo sottolinea la dimensione ecclesiale: l'anima, arricchita di grazia e di virtù, fa risplendere la Chiesa di santità e bellezza.

[191] 34. - In stretto riferimento al Cantico biblico, l'anima, simboleggiata dalla bianca colomba, ritorna nella casa del Padre. L'allegoria del ritorno della colomba nell’arca di Noè e il simbolo delle verdi rive significavano, nella mistica precedente, l'ingresso nel paradiso, dopo un ripetuto volo sulle acque delle imperfezioni, portando nel becco il ramoscello fresco, simbolo della pace (Cfr. le esposizioni di Ugo di San Vittore, De arca Noè mystica, PL 176,681-682).

[192] Il colore bianco della colomba significa simbolicamente la vittoria definitiva sul colore oscuro del peccato: pura e limpida, l'anima vola nell’arca di Dio. Ricordiamo che in questa strofa parla lo Sposo per far presente alla sposa che è ormai arrivato il desiderato stato del matrimonio spirituale. Insieme a questo è sopraggiunta la desiderata pace dell’anima che riposa fra le braccia dell’Amato (Cfr. CB 22,2). L'anima è pura (color bianco), come al momento in cui Dio «l’ha creata» (CB 34,4).

[193] Giovanni della Croce si rivela qui non solo acuto osservatore della natura, ma altresì profondo conoscitore della tradizione spirituale, nella quale il simbolo della colomba o tortorella viene ampiamente sfruttato.

[194] 35. - La strofa, un magnifico inno alla solitudine tipica del deserto, insieme al relativo commento, ricco di esperienze personali del santo, lancia uno sguardo retrospettivo che termina con il possesso del luogo dove l'anima gode pace e gioia nell’intimo contatto con l’Amato.

[195] Il santo distingue due solitudini; la prima è quella ascetica, l'abbandono di tutte le cose; la seconda è la solitudine dell’intima unione con Dio. È il nido della tortorella, dove l'anima non è più disturbata da immagini dei sensi. La strofa canta perciò, completato, quanto era stato detto nella str. 26.

[196] Ritorna il tema del Pastorello innamorato. L'amato è visto qui non solo nel mistero dell’incarnazione redentrice. Al piano reale si sovrappone il piano irreale, immaginativo, motivato dal mistero dell’amore che è tanto grande anche nella sposa: ha ferito lo Sposo: «Vulnerasti cor meum...» (Ct 4,9).

[197] 36. - Le ultime cinque strofe del Cantico manifestano un notevole cambiamento. Pur parlando del presente, questo è vissuto come desiderio e anticipazione della gloria della vita futura. Si passa a una nuova fase, che implica una forte tensione escatologica che sorpassa i limiti del matrimonio spirituale. Non è più la descrizione di una situazione stabile, di quiete, di rilassamento. Ricomincia il movimento: «andiamo», «penetriamo». Gli studiosi hanno notato che questa nuova prospettiva nel commento al CB è un notevole cambiamento rispetto all'andamento seguito nella prima redazione. In CA continua la situazione del matrimonio spirituale. Qui sorgono alcuni dubbi circa la paternità sangiovannea della seconda redazione. E sembrato impossibile che il santo abbia operato un tale cambiamento!

[198] La strofa approfondisce quanto l'autore aveva già affermato nelle str. 5 e 11 sulla bellezza, la hermosura, «la più alta formula riguardo a Dio: bellezza è per Giovanni un'ossessione, è per lui meta, ma anche via (H. U. von, Balthasar, Gloria: III. Stili laicali, Milano 1997, p. 138), Non è la bellezza in generale, ma la bellezza di Dio che brilla nella creazione e che Dio vuole vedere anche nell’uomo nuovo, trasformato in sua immagine.

[199] Questo paragrafo, uno dei testi più belli della letteratura spirituale, dev'essere ascoltato con profondo rispetto come un sublime canto, spontaneamente innalzato dal cuore di chi appassionatamente ha cercato di perdersi nella somma bellezza, La continua ripetizione della parola bellezza è come un arpeggiare l’accordo dominante sul quale si muove la dolce melodia.

[200] Il possesso definitivo della bellezza dello Sposo avviene quando l'uomo entra nella gloria di Dio.

[201] Sulla conoscenza mattutina e vespertina dr, str. 14-15 con la nota 10.

[202] L'uomo non finisce mai di entrare nella bellezza di Dio perché è immensa e perché la porta per entrarvi è, nel sistema sangiovanneo, la croce, all'inizio del cammino, lungo il cammino e anche alla fine di esso (n. 13).

[203] 37. - La strofa è fondamentale per la cristologia di Giovanni della Croce. Ritorna il verbo entrar, entrare, addentrarsi, qui usato per penetrare nel mistero dell’unione ipostatica della natura umana con il Verbo di Dio, che nella visione beatifica significa la piena partecipazione alla filiazione del Verbo.

[204] La forma circolare della figura della melagrana significa che in Dio non vi è inizio né fine.

[205] La citazione di Ct 8,2 consente all'autore di accostare il succo di melagrane all'«aromato vino» di CB 25,7.

[206] 38. - Come CB 27, anche questa strofa inizia con allì, «là», e lo ripete, ma è nella str. 28 che viene spiegato in che cosa consiste questo allì.

[207] Questo passo costituisce l'esposizione più precisa sull'uguaglianza d'amore. Nello Spirito Santo, che è vincolo d’amore fra le tre Persone divine, l’anima può veramente amare Dio così come da lui è amata.

[208] Il testo citato si trova al c. 2 (Èd. Vivés delle opere di san Tommaso d'Aquino, Paris, XXVIII, pp. 404-425). Nell'opera sangiovannea si riscontrano anche altre allusioni o velate citazioni di quest'opera apocrifa (p. es. 2N 18,5), che ancora nel sec. XVI veniva attribuita a san Tommaso ed era assai diffusa.

[209] Pacho (p. 395, nota 4) mette in rilievo che con il n. 6 «avviene il mutamento più importante fra la prima e la seconda redazione del Cantico». Infatti, nel CA, «l'altro dì» indicava lo stato della giustizia originale, uno stato di ardente fuoco d'amore, sperimentato dall'anima come ritorno all'innocenza del paradiso, e nessun evento poteva disturbarla. In CB, invece, la spiegazione si dilata a partire dalla parola chiave aggiunta dall'autore al margine del CA: «la predestinazione». Di conseguenza «aquel otro dia» è il «giorno dell’eternità» in cui «Dio ha predestinato l'anima alla gloria».

[210] In quell'«altro di» l'anima riceverà «la pietruzza bianca», simbolo dell’ammissione al regno della gloria, Viene da chiedersi se Giovanni della Croce abbia conosciuto l'edizione latina dell’omonimo libro di Ruusbroec, La pietra brillante, in cui il simbolo trova ampio sviluppo.

[211] Nella gloria, l'anima-sposa berrà il «Succo delle melagrane», cioè l'«aromato vino», di cui aveva già parlato la str. 25. Nella trasformazione d'amore, che sarà definitiva nella gloria, l'anima berrà veramente la «comunicazione sostanziale di Dio che si diffonde sostanzialmente» (CB 26,5).

[212] 39. - Questa strofa che intende parlare della «fruizione», del modo di godere la visione beatifica, s'addentra nelle grazie mistiche più alte, voltando «a lo divino» espressioni poetiche mutuate da Garcilaso. Si riducono a una sola: lo spirare. D. Alonso ha mostrato che lo spirare dell’aria-vento e il dolce canto dell'usignolo (sp. filomena) sono due dementi che provengono direttamente da Garcilaso (o. c., p. 78).

[213] La trasformazione dell’anima, che le consente di partecipare alla stessa vita trinitaria, è un argomento caratteristico dei mistici del nord, specialmente di Ruusbroec. Tuttavia non si può parlare di una dipendenza di Giovanni della Croce dalla dottrina del mistico brabantino. Si tratta piuttosto di coincidenza, nata per aver percorso un cammino di esperienze autenticamente cristiane, pieno di medesimi contenuti.

[214] Va ricordato che quanto «accade ai beati nell'altra vita», avviene «ai perfetti in questa, nella maniera suddetta» (n. 4), cioè anticipatamente, nel desiderio, ma realmente, sebbene non in modo fisico.

[215] La Fiamma d'amor viva s'interrompe, infatti, quando si parla di questa sublime grazia (Cfr. FB 4,16-17). Giovanni della Croce, qui nel Cantico, la crede possibile perché siamo «figli di Dio», creati a immagine e somiglianza di Dio. È importante notare che il dottore mistico cita qui Gv 17,20-23, un passo che, secondo le testimonianze dei contemporanei, aveva particolarmente colpito il santo. Durante i suoi viaggi recitava volentieri l'intero c. 17, con tale devozione che sembrava essere in lui una preghiera personale (Dep. di fr. Jeronimo de la Cruz; Ms. Vaticano 2.862, fol. 137v; cit. in Rodríguez, p. 747, nota 3).

[216] Nell'originale: doctrina, cioè attraverso il loro insegnamento.

[217] Si ripete nuovamente l'affermazione circa l'impossibilità d'esprimere a parole le comunicazioni e illuminazioni divine, percepite nel profondo dell’anima.

[218] Nella tradizione mistica, risalente forse a Bonaventura, la figura della «filomena», espressione poetica di usignolo, appare spesso come simbolo dell’anima devota che innalza a Dio il dolce canto.

[219] Il testo sp. contiene le parole: «los oídos de Dios»: Dio ascolta attentamente. Ciò esprime il suo desiderio di sentire la voce di giubilo perfetto dell’anima.

[220] Il n. 12 è una breve sintesi delle esposizioni sangiovannee nella Notte oscura. Nel n. 13 viene però detto che nella gloria futura la notte della contemplazione si trasforma in «visione chiara e serena di Dio». Diventerà «giorno luminoso» della conoscenza di Dio.

[221] Il n. 14 s'ispira a quanto l'autore dice nella Fiamma d'amor viva, in particolare in FB 1,27-30.

[222] 40. - Nella strofa conclusiva, il ritmo e lo stile del poema cambiano, come «una meravigliosa sensazione finale di cessazione, di rilassamento, di discesa» (D. Alonso, o. c., p. 176). La vetta è stata descritta nelle ultime strofe precedenti. Ora il santo getta uno sguardo sintetico sul cammino Interiore felicemente percorso.

[223] Circa l'interpretazione Cfr. CB 16,7 con la nota 4.

[224] Prendendo lo spunto da Ct 6,12 l'autore intende dire che l'anima può ora saziarsi alle acque dello Spirito Santo, senza essere disturbata dai «carri» di Aminadab, cioè dalla «cavalleria» dei sensi corporali.

 

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