16_Stancari_I passi di un pellegrino

PINO STANCARI
I PASSI DI UN PELLEGRINO
I Canti delle ascensioni (Salmi 120 - 134)

 

 

IL VIAGGIO DI UN PELLEGRINO E IL NOSTRO VIAGGIO

La Parola del Signore ci precede e ci attende sempre; costituisce il vero centro attorno a cui ruotano tutto il nostro impegno di vita interiore, la nostra ricerca, la nostra riflessione e i nostri sentimenti. Ad essa consegniamo tutto quel bagaglio di tensioni, interrogativi, slanci e insieme paure, stanchezze, incertezze e delusioni che, certamente, ci portiamo dietro.
Vogliamo rileggere con questo spirito i Canti delle ascensioni, cioè i Salmi dal120 al134.
Io li rileggo periodicamente, da solo; ne ho bisogno per me stesso e approfitto volentieri dell'occasione di rileggerli insieme con altri.
Essi non saranno trattati qui se non in modo da favorire la riflessione e la preghiera. Li accosteremo uno dopo l'altro, leggendoli con attenzione e ricavandone una prospettiva ordinata e coerente, che aiuti il nostro cammino di fede.

Tappe di un viaggio

I Canti delle ascensioni sono le tappe di un viaggio: il viaggio a Gerusalemme di un pellegrino - l'ascensione, appunto - e il nostro viaggio. Infatti, mentre le varie tappe di quel viaggio si delineano, sono le tappe del nostro dialogo col Signore vivente che si delineano con esse.
Si tratta di una raccolta di quindici Salmi, per lo più molto brevi e molto famosi, noti a tutti e ripetibili a memoria da molti di noi.
Questa raccolta costituiva una specie di libretto destinato ad aiutare chi saliva a Gerusalemme, a far sì che il proprio viaggio si realizzasse in atteggiamento di preghiera.
Sono quindici perché quindici erano i gradini che separavano la zona esterna del tempio dal cortile più interno. Per questo sono anche detti Salmi graduali: salendo i gradini l'uno dopo l'altro si recitavano i quindici canti per essere così pronti a entrare nel santuario.
In realtà, a prescindere da questa loro collocazione liturgica, questi canti sono disposti in modo tale da illuminare il viaggio in tutta la sua interezza, dal momento in cui il pellegrino non si è ancora messo in cammino e dimora nel suo ambiente fino al momento in cui, compiuto il viaggio e svolte a Gerusalemme le varie fasi della celebrazione di una delle grandi feste del calendario liturgico di Israele, egli prende congedo e torna alla sede di provenienza e di normale abitazione.
Così la serie di questi Salmi ci consente di accompagnare il pellegrino in tutto il suo viaggio, da quando decide di partire a quando prende lo slancio per ritornare indietro.

Per un popolo in diaspora

La raccolta dei Canti delle ascensioni è stata redatta, nella forma che il salterio ci consegna, nell'epoca successiva all'esilio, epoca caratterizzata dal fenomeno sempre più vistoso della diaspora. Il popolo di Dio è disperso.
Il fenomeno era antico: risaliva almeno all'epoca dell'esilio, ma certo anche in epoca precedente aveva interessato alcune tribù; e per le grandi tribù del nord la dispersione era stata un evento che metteva in discussione la permanenza di un'unica chiamata per l'intero popolo di Dio. L'aggressione assira le aveva sradicate dal loro contesto.
Poi fu la volta delle deportazioni delle tribù del sud - che coincidevano di fatto con la tribù di Giuda - al tempo di Nabucodonosor.
È vero che dopo la vittoria di Ciro, re dei Persiani, venne emanato un editto che consentiva a coloro che erano deportati a Babilonia di fare ritorno, ma è anche vero che molti di essi non ritornarono. Una componente molto numerosa del popolo di Dio restò dispersa e nell' epoca neo testamentaria costituiva la porzione maggioritaria del popolo di Israele.
In questa situazione, per coloro che vivono lontani, dispersi in tanti diversi contesti dell'oriente e intorno al bacino del Mediterraneo, Gerusalemme resta un riferimento luminoso, chiarificatore, un segnale posto da Dio nella storia umana e in rapporto al quale i frammenti di questo popolo disperso ritrovano unità.

Gerusalemme: il progetto di Dio si conferma

Il disegno, che è così drammaticamente snaturato e afflitto da eventi e lacerazioni che hanno colpito la comunità dei credenti, si ricompone in rapporto a Gerusalemme.
Dalla diaspora si guarda verso di essa; da diversi e distanti luoghi del mondo, periodicamente, i fedeli salgono a Gerusalemme e questo viaggio ha un valore sacramentale.
È la celebrazione di un vero e proprio sacramento di comunione, di riconciliazione, di pace: la storia del popolo di Dio non è abbandonata a se stessa, ma è illuminata da una volontà fedele.
Dio vuole realizzare un suo disegno; e la dispersione in corso non significa il fallimento di quel disegno: esso si realizza passando attraverso gli itinerari più frastagliati e drammaticamente esposti al contatto con le realtà più lontane e con le aggressioni più perverse. Il piano di Dio attraversa queste dolorose realtà per confermarsi con la sua indefettibile efficacia.
La diaspora comporta una quantità enorme di angustie, incertezze, problemi nuovi, scontri e contrarietà: essa non può essere idealizzata; eppure è vero che proprio in essa si conferma la continuità del piano di Dio.
Il viaggio dei pellegrini a Gerusalemme costituisce allora un evento sacramentale che celebra questa paradossale conferma dell'antico disegno, della volontà che Dio ha manifestato fin dall'inizio nella storia degli uomini attraverso la chiamata del popolo, l'alleanza, e la sua sapiente pedagogia.

Verso Gerusalemme, segno della riconciliazione

Noi accompagniamo il viaggio di un pellegrino che sale a Gerusalemme.
Tutta la storia della salvezza è caratterizzata dalla successiva esperienza del viaggiare. I patriarchi, l'esodo con l'attraversamento del deserto, l'esilio, il ritorno e la successiva dispersione verso periferie sempre più remote sono esperienze di viaggio.
Sempre, però, Gerusalemme rimane come riferimento indiscusso e sacramentalmente valido. Per questo da ogni orizzonte pur lontano ci si volge e ci si incammina verso di essa.
Questo può accadere più volte nella vita o almeno una volta; in occasione delle grandi feste o almeno per una di esse. Può accadere almeno per morire.
Sempre più frequente, nell'epoca giudaica, si fa questo fenomeno: la salita a Gerusalemme di coloro che attendono la morte. Ecco perché la città diventò il luogo di ricovero di molti anziani in attesa di incontrare il Messia, che proprio a Gerusalemme doveva manifestarsi.
Molti ebrei provenienti dalla diaspora, che ormai parlano la lingua dei pagani e che sono acculturati al mondo greco - gli ellenisti - salgono a Gerusalemme per attendere la morte; e la città diventa un grande cimitero, fino a oggi.
Agli antichi cimiteri ebraici si sono aggiunti i cimiteri cristiani e quelli musulmani: Gerusalemme è un luogo in cui val la pena morire, e anche questa sua destinazione cimiteriale è componente intrinseca del suo valore sacramentale.
Questa situazione spiega quel passo degli Atti degli Apostoli (cap. 6) dove gli ellenisti si lamentano per il cattivo trattamento ricevuto dai loro anziani: il fatto è che gli anziani costituiscono il numero preponderante dei giudei di lingua greca entrati a far parte della nuova comunità cristiana e la loro assistenza mette in difficoltà gli apostoli.
Gerusalemme, dunque, è piena di anziani di diversa provenienza; e questo dimostra che il popolo di Dio, pur disperso, guarda alla città santa e vi riconosce il segno inequivocabile della fedeltà con cui Dio conduce la storia del suo popolo e compie l'intera storia umana.
I profeti avevano già affermato che tutti i popoli della terra avrebbero volto verso Gerusalemme le loro attese e speranze. Così essa è grande segno ecumenico, segno della riconciliazione che Dio realizza per tutte le sue creature: si parla di "nuovo cielo e nuova terra", con riferimento agli eventi ultimi che proprio a Gerusalemme devono verificarsi.
Quanto avviene a Gerusalemme vale come garanzia di novità per tutte le creature: una novità definitiva.

Cominciamo anche noi il nostro viaggio.

*   DALLA DIASPORA A GERUSALEMME  SALMO 120

L'intestazione «Canto delle ascensioni» annuncia l'inizio della raccolta e si riproporrà puntualmente per tutti i Salmi seguenti, fino al 134.

Un preludio significativo: Dio parla

Il Salmo precedente - il 119 - è anch' esso in una posizione non casuale. La singolare natura di questo lungo Salmo alfabetico - che per ventidue strofe ridice sempre la stessa cosa, che presenta ogni strofa composta di otto versetti con otto termini che sono sinonimi di parola o legge o decreto o precetto, e i termini si ripetono in sequenza diversa in ciascuna delle ventidue strofe (e il tutto senza mai una ripetizione letterale!) - ha una coerenza compatta e pesante fino a produrre un forte senso di noia, schiacciata a sua volta dal mistero di questa ripetizione dell'idea della Parola di Dio... Parola di Dio... Parola di Dio... E alla Parola ci si rivolge in seconda persona singolare, quasi si dicesse: «Tu, il Parlante».
Questo Salmo accompagna i respiri, i sospiri, i gemiti e - diciamo pure - anche i silenzi di colui che è abituato ad affrontare la solitudine di un'esistenza frantumata; un'esistenza che può essere difficilmente descritta con ordine e che trova l'essenziale delle cose là dove, nella solitudine, viene adorata, benedetta, ascoltata, forse non capita... ma ascoltata la Parola del Dio vivente a cui si dice: ...Tu parli, Tu hai l'iniziativa, Tu comunichi qualcosa di tuo a me...
Il Salmo 119 suppone un'esperienza prolungata e poco gloriosa, come la stessa diaspora. Un'esperienza cui certo non ci si può sottrarre e che ha un valore nello svolgimento della storia della salvezza, che non è così immediato riconoscere.

L'esperienza della diaspora e del Nome santo

Da questo Salmo si passa al Salmo 120. In esso troviamo un fedele che vive in diaspora, nel mondo; non importa stabilire dove, se più o meno lontano. Il suo contesto può avere diverse coordinate culturali, sociali, politiche. È nel mondo dei pagani, questo sì.
Il nostro personaggio non ha nome, anche se noi gli daremo ascolto e apprezzeremo l'umiltà con cui ci parla di sé in prima persona senza essere in grado di dirci una identità anagrafica. In realtà egli stesso ignora quale sia esattamente la sua identità. Avrà un nome e un cognome, ma chi è veramente non lo sa nemmeno lui. Eppure ha il coraggio di parlare di sé, pur non essendo in grado di definirsi.
Lo ascoltiamo: vive nel mondo dei pagani e ci vive male. Certo è il suo mondo: avrà un'attività, una famiglia, una storia, generazioni di antenati - alle spalle - che gli hanno reso possibile collocarsi nell'ambiente dove attualmente dimora, magari con prestigio. Eppure egli si sente soffocare.

SALMO 120

1 Canto delle ascensioni.
Nella mia angoscia ho gridato al Signore
ed egli mi ha risposto.

2 Signore, libera la mia vita
dalle labbra di menzogna,
dalla lingua ingannatrice.

3 Che ti posso dare, come ripagarti,
lingua ingannatrice?

4 Frecce acute di un prode,
con carboni di ginepro.

5 Me infelice: abito straniero in Mosoch,
dimoro fra le tende di Chedar!

6 Troppo io ho dimorato
con chi detesta la pace.

7 lo sono per la pace, ma quando ne parlo,
essi vogliono la guerra.

Il Salmo si apre con un grido, nei vv. 1-2 (prima strofa): ...Nella mia angoscia ho gridato al Signore.. .».
La prima parola è il Nome di Dio, «Signore!».
È un uomo affannato, incappato in una strettoia dalla quale non sa come svincolarsi. Così grida quello che riesce: il Nome santo e impronunziabile di Dio.
È strano. Non sa più cosa dire ed è il Nome del Signore il contenuto del suo grido. Eppure è un Nome al di là di ogni potenza espressiva della voce umana, è indicibile.
Il Salmo si apre così con il silenzio, il sospiro silenzioso di chi non ha più parola e voce.
Per tutto il Salmo 119 qualcuno è andato dicendo: «Tu parli... Tu parli... Tu parli...». Il Salmo 120 si apre con questo gemito muto: «Mi resta solo il tuo Nome, mentre sto soffocando. Il tuo Nome, proprio quello che non so e non posso dire!».
È vero, d'altra parte, che il nome di Dio, quale viene custodito dall'adorante devozione del popolo di Israele nelle sue quattro lettere, sigilla un rapporto di familiarità. È Nome santo e caro, affettuosamente custodito come sigillo di una intimità indissolubile.
Strana contraddizione, eppure insuperabile: è un nome impronunziabile, non per dare il senso di una estraneità incolmabile, ma per la ragione opposta: perché questo silenzio ha la densità, la pregnanza, l'insostituibile vitalità, la comunicativa primaria del lessico familiare.
Il Nome santo di Dio non può esser detto perché già è carne e sangue della mia storia. Il silenzio adorante è così non atto di disperazione, ma espressione di vita che si consuma nel contatto con il mistero del Dio vivente.
Si noti come la strettoia di cui il nostro personaggio ci parla qui - la sua angoscia - fa tutt'uno con la prossimità del Signore. Egli è alle strette, in difficoltà, vive male il suo rapporto con la società in cui è inserito... eppure questa fatica, questa stretta, è già sacramentale rivelazione - giorno per giorno - della stretta che il Dio vivente opera dentro di lui.
Egli dice: «lo sono afferrato da Lui, posseduto da Lui, abitato da Lui. Non so come e non so perché. Non so descrivere e dare testimonianza di tutto questo, anche se vorrei; amerei molto poter sciogliere questa stretta e studiarla, scrutarla nei suoi significati. È una realtà da accettare: sto male perché sono stretto nella morsa di questo mondo, ma la morsa che mi stringe è Lui che incontra la mia strada, mi schiaccia, mi solleva, mi toglie il fiato...».
Così quest'uomo può già dire: «Egli mi ha risposto».
Quando ancora non sapeva cosa dire, Dio gli ha tolto la parola. Era alla ricerca dell'espressione giusta - chissà come opportuna - e Dio ha parlato, ha già risposto.

Il conflitto di una fede "estranea"

Il v. 2 riprende con "Signore!». La voce si fa più pacata, diventa un'invocazione: "... libera la mia vita dalle labbra di menzogna.. .».
Quest'uomo vive l'esperienza di un inganno. Si sente smentito e c'è chi dice menzogne su di lui.
Di chi parla? Del suo mondo.
Non si tratta tanto - qui - di esprimere giudizi: è un fatto.
La coerenza che quest'uomo desidera per sé, l'obbedienza al dono ricevuto, che è chiamata, missione, strada da percorrere (Sal 119,105: "Lampada ai miei passi è la tua Parola...» urtano contro una serie di ostacoli. È come se dovesse dire che il suo mondo, senza ulteriori specificazioni, lo smentisce. Questo avviene - ecco l'aspetto drammatico della situazione - non già perché è un mondo particolarmente riprovevole, ma perché nell'impatto con esso tutte le fragilità, meschinità e squallori della sua vita vengono in clamorosa, sconcertante e deludente evidenza. Si accorge di essere denunciato e smascherato.
In diaspora si vive male non perché il mondo è cattivo, quanto perché l'impatto col proprio mondo getta allo scoperto e lascia denudati, scorticati, scarnificati.
Il nostro personaggio è coinvolto in un conflitto; e la seconda strofa del Salmo, nei vv. 3-4, mette in risalto l'entità drammatica e dirompente di esso.
Uno scontro è in atto: «Che ti posso dare, come ripagarti.. .l». L'impatto è con ciò che il mio mondo dice e pensa sulle cose e su di me. Esso sentenzia su di me, sul mio vivere, sul mio impegno e sul mio servizio. Percepisco un contrasto tra me e il mio mondo, ma, più profondamente, il contrasto è dentro di me; il conflitto è interiore.
Il fedele si sente provocato in modo da diventare il più audace accusatore di se stesso e, insieme, avverte la minaccia di chi è esposto al rischio estremo, quello di rinunciare alla custodia del dono che viene da Dio e che egli ha ricevuto: la sua tradizione di fede, la Parola rivolta anche a lui, Parola di grazia, di riconciliazione e di amore.
Il nostro personaggio sa di portare con sé una verità; e non vuole rinunciare a questa consapevolezza. Eppure è smentito, e non solo dall'esterno: il mondo lo mette in difficoltà, ma in realtà egli stesso è pronto a denunciarsi, riconoscendo da sé quale contraddizione c'è tra la verità di cui egli è depositario e la realtà delle cose nella loro evidenza.
«Che ti posso dare, come ripagarti...l». Si agita, cerca di rintracciare il filo conduttore di un disegno che momentaneamente è aggrovigliato. Parla di una «lingua ingannatrice» e di «Frecce acute di un prode, con carboni di ginepro».
Si sente punzecchiato, frustato, insidiato, osservato e giudicato; e il peggiore giudice della sua vita è proprio lui stesso. Così è come un uomo che deve camminare sui carboni ardenti: saltella ridicolo; si sente buffo e goffo.
C'è una nota grottesca nell'immagine che ha di sé: ci fa una figura meschina e sciocca, di cui si accorge anche più degli altri. Il timore che gli altri se ne accorgano peggiora l'immagine che ha di sé. Si sente un giullare, suscita del ridicolo. Troverebbe consolazione - forse - facendo ridere davvero qualcuno, ma la sostanza del dramma rimane. Ecco che esplode: «Me infelice!».
Comincia la terza strofa del Salmo (vv. 5-7). Il salmista dice di essere un forestiero, non altro. «Mosoch»e «Chedar» sono località simboliche della diaspora, l'estremo nord dove vivono nomadi sotto le tende.
È come se dicesse che dovunque si trova è straniero. Si domanda dov'è andato a finire, dove sta andando. Anche se ha una collocazione in una città o in un'altra, è e rimane straniero. Potrebbe far di tutto per superare questa estraneità, per assimilarsi; qualcuno riderebbe di lui e, d'altra parte, approverebbe questa assimilazione. Gli direbbero: .Te l'avevamo sempre detto: ciò che costituisce la tua singolarità di credente è come una nebbia che deve svaporare al sorgere della luce del giorno!...
Eppure il nostro personaggio non vuole imboccare questa strada. Non vuole assimilarsi, ma resta infelice. Lui stesso è pronto a dire che - certo - altri hanno tutte le loro ragioni per deriderlo ed invitarlo a sistemarsi nel mondo dei pagani in modo più coerente e armonioso, ma continua ad aggrapparsi a quel patrimonio di verità che viene da lontano e rispetto al quale si accorge di essere così sprovveduto, così incoerente. Vuol mantenersi fedele e - insieme - affrontare tutti gli urti che nessun privilegio potrà mai evitargli.
La traduzione greca dei LXX usa qui un'espressione significativa: «La mia paroichìa si è allontanata»; la «paroichìa» è la stazione di sosta: non c'è sosta per lui.

La decisione di partire per la città della pace

Ed ecco, allora, la svolta: una decisione. Egli decide di fare il suo pellegrinaggio.
La prima strofa era un grido; la seconda descrive il conflitto e la terza annuncia una decisione.
È una decisione battesimale.
Si orienta verso Gerusalemme. Sa che Dio stesso ha posto questo segnale nella storia degli uomini come sacramento, come epifania di quel disegno che anch'egli intende realizzare. E questo disegno si chiama pace.
C'è una volontà di Dio per gli uomini e una vocazione del popolo eletto in riferimento a quella volontà: custodire il segno che rinvia alla realizzazione di quel disegno.
Il segno è Gerusalemme, la Città della Pace, dello Shalòm, che Dio stesso ha collocato in mezzo a noi. Così Egli ha confermato la sua volontà di pace.
«Troppo io ho dimorato con chi detesta la pace...". Per la prima volta è detto il termine che sarà filo conduttore, dal versetto successivo in poi. Il personaggio acquista sicurezza: ,lo sono per la pace!". Era sofferente ed incapace di presentarsi, senza identità. Ora dice «Io», in ebraico: «ani» . «Anì shalòm» - così si chiude il Salmo: «Io sono per la pace", come se dicesse: «lo esisto in rapporto ad essa, esisto in quanto sono proteso verso la pace voluta da Dio".
Di fatto per il nostro personaggio presentarsi ora così significa mettersi in viaggio verso Gerusalemme, riconoscere il segno, cercarlo e trovarlo.
Nell'espressione «Io pace!» si sente come la voce di un bambino: un bimbo ha trovato l'oggetto dei suoi desideri ed ora è proteso oltre ogni difficoltà e impedimento. «Io pace», dice. «Io sono per la pace,,: è un tuffo in avanti, un battesimo. È come se fosse già partito, mentre, pur ancora immobile e preso nel silenzio della sua adorazione, già ripete: ...La Parola di Dio parla a me di pace e io sono pellegrino verso Gerusalemme».

 

CAMMINANDO CON IL "CUSTODE DI ISRAELE"  SALMO 121

Il nostro amico è partito. Si è messo sulla strada attuando la sua decisione.
Il Salmo 121 ci aiuta ad accompagnare colui che ormai è diventato pellegrino nel corso del suo distacco dall'ambiente nel quale stava tanto male, quell'ambiente al quale pure appartiene e dal quale distaccarsi non è stato facile.
Ora affronta strade nuove. Ha nostalgie e ripensamenti, non mancano incertezze. Dinanzi a lui ci sono anche orizzonti nuovi: («Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l'aiuto?». Così inizia il Salmo.

SALMO 121

1 Canto delle ascensioni.
Alzo gli occhi verso i monti:
da dove mi verrà l'aiuto?

2 Il mio aiuto viene dal Signore,
che ha fatto cielo e terra.

3 Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode.

4 Non si addormenterà, 
non prenderà sonno,
il custode d'Israele.

5 Il Signore è il tuo custode,
il Signore è come ombra che ti copre, 
e sta alla tua destra.

6 Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.

7 Il Signore ti proteggerà da ogni male,
egli proteggerà la tua vita.

8 Il Signore veglierà su di te,
quando esci e quando entri,
da ora e per sempre.

Il capo alzato, il timore, la commozione

Ha camminato a testa bassa, ora alza gli occhi.
Ha guardato i sassi della strada, ha cercato di interpretare l'avanzare delle ore nel corso della giornata in base all'inclinazione dell'ombra. A testa bassa: è un tempo di ripensamento interiore, per lui. Comunque la sua avanzata procede ed egli è risoluto.
Questo suo atteggiamento di ferma intraprendenza è confermato dal gesto di alzare il capo. Un gesto da sottolineare.
Un altro pellegrino, il pellegrino per antonomasia - Gesù - alzerà gli occhi per guardare innanzi a sé mentre sale a Gerusalemme. Nel Vangelo più volte viene notato questo gesto proprio nei riguardi di Gesù. Si dice spesso: «Alzati gli occhi» o «Alzato lo sguardo al cielo».
Così il pellegrino alza il capo: dinanzi a lui l'orizzonte è chiuso: una catena di montagne. La visione per certi versi l'intimorisce. Sono montagne che devono essere affrontate, scalate e superate. Ci sono queste che si vedono e poi altre ancora: quante bisognerà affrontarne per raggiungere la montagna su cui è edificata Gerusalemme?
Insieme con il timore - si noti - c'è un senso di commozione. Da quando si è messo in viaggio tutte le montagne che si notano all'orizzonte e che egli ha buoni motivi per considerare una fatica in più sulla sua strada, tutte acquistano per lui il valore esemplare, didattico, di una conferma a riguardo della meta verso la quale è incamminato: se questa montagna in vista non è ancora quella di Gerusalemme è comunque una montagna; essa è momentaneamente occasione di fatica in più, ma assicura che non sono fuori strada. Comunque io sono indirizzato verso una montagna.
Timore ed entusiasmo si confondono.
Il pellegrino non può più volgersi indietro, non può contare su appoggi rassicuranti e situazioni nuove lo attendono: mai percorso questo territorio, mai affrontata questa regione, mai visitate queste montagne... Ecco il timore. Ed ecco, insieme, l'entusiasmo: «È proprio vero, questa montagna di oggi mi parla già della montagna verso cui sono orientati i miei passi; imparo a scrutare l'orizzonte e preparo il mio sguardo alla visione che - immancabilmente - si manifesterà ai miei occhi.

Solo, eppure stretto in un abbraccio

Il pellegrino è sempre più solo, lontano dall'ambiente solito. Quanto tempo durerà il suo viaggio?
Il Salmo ci aiuta a partecipare a quel ripensamento che occupa il cuore del pellegrino, alla sua commozione, intensissima nonostante sia priva di riscontri sensibili; una commozione che sostiene il suo entusiasmo di viandante: «Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra».
Mai come oggi quest'uomo si è reso conto di essere accompagnato. Eppure oggi è solo.
Si lamentava di essere straniero: da quando si è messo in viaggio è più straniero che mai. Ha abbandonato quella terra in cui era straniero e che pure era la sua terra. Chi incontra per la strada è sconosciuto, pericoloso; deve guardarsi da tutti e scrutare gli orizzonti e gli imprevedibili incroci. Eppure proprio adesso il pellegrino scopre di essere accompagnato. Una presenza invisibile, indefinibile e indecifrabile.
Parla di «cielo e terra». Avanza sulla superficie del mondo e avverte di essere stretto in un abbraccio: sotto il cielo e sulla terra. Il cielo è chinato su di lui e la terra lo sostiene.
Quelle montagne di cui si parlava prima, che danno insieme timore e speranza, acquistano un significato simbolico particolarmente persuasivo: sono elemento di congiunzione tra cielo e terra. Dovranno essere scalate e superate con fatica, ma confermano l'attualità dell'abbraccio che il Signore onnipotente concede mediante la docilità di tutte le creature, che si dispongono in modo da rendergli praticabile il viaggio.
L'universo intero, creatura di Dio, gli fa compagnia e il Creatore stesso gli concede questa misteriosa solidarietà con tutte le creature che stanno tra cielo e terra: un sasso nel quale urti col piede, la pioggia che ti sorprende allo scoperto, coloro che incontri lungo il percorso, ogni creatura, in prima istanza forse temuta come una possibile minaccia e poi riconosciuta come dono insostituibile, ed apprezzata. Sono tutti doni preparati provvidenzialmente allo scopo di rendere possibile un viaggio carico di entusiasmo.
Mai così solo e mai così in comunione. Tanto è vasto l'orizzonte, così è grande la presenza del Signore, mediata da una corona consolante di elementi che accompagnano il pellegrino nel viaggio, lo benedicono e custodiscono.

Dal monologo al dialogo

Il Salmo si divide nettamente in due sezioni. La prima è quella che abbiamo letto (vv. 1-2), la seconda si ha nei versetti seguenti.
C'è un evidentissimo salto grammaticale tra le due sezioni. Nella prima il pellegrino parla in prima persona singolare; nella seconda interviene un'altra voce, in terza persona: «Non lascerà vacillare il tuo Piede...».
C'è un salto. Nella prima sezione il pellegrino riflette tra sé e sé, si incoraggia. Nella seconda una voce si rivolge a lui, una voce esterna che commenta il significato della presenza di Dio e la fedeltà dell' opera svolta dal Signore per chi è in viaggio. Un commentatore interviene, un osservatore esterno che dialoga con lui.
Il passaggio dal monologo al dialogo è importante. Una esperienza di meditazione solitaria si apre al dialogo con un'altra voce: un altro viandante si avvicina, qualcuno cammina con lui. Una voce che viene da lontano. Potrebbe essere una sapienza antica, ricordi che emergono dal fondo della coscienza.
Man mano che prosegue il nostro personaggio riesce ad oggettivarsi. In un primo momento è molto preso dal bisogno di dirsi le sue cose, e questo è comprensibile, ma quanto più procede tanto più si accorge che qualcun'altro gli sta parlando.
Assume allora un atteggiamento di ascolto ed emerge allora, con evidenza incontestabile, la presenza di Dio. L'attenzione si concentra, con precisione ed onestà, dove la presenza di Dio si manifesta.
Preoccupato di sé e dei suoi progressi il pellegrino scopre che la presenza del Signore si impone. Monologava ed ora ascolta.
Non sappiamo chi sta ascoltando, ma importa poco. Si aprono spazi nuovi, insondati, nel segreto del cuore. Dio domina e tutto ruota intorno a lui. Ogni vicenda si trasforma in vera e propria contemplazione di colui che in segreto è presente, colui che sconosciuto - è il Signore.
Ricordiamo come il nostro personaggio prima di partire fosse ansiosamente aggrappato al nome indicibile di Dio. Ora avviene che da quando si è messo in viaggio - anche se ancora non ha raggiunto la meta - già incontra il Signore vivente: per il semplice fatto che è in cammino. Già aderisce alla presenza viva di colui che è Signore. La meta forse è lontana, ma il Signore è presente adesso e qui.

Il Signore è il tuo custode

La seconda sezione del Salmo è caratterizzata dalla ripetizione per sei volte di espressioni derivanti dal verbo shamar, custodire. È un tipico verbo del vocabolario pastorale: Shomèr è il custode.
Nella nostra traduzione questo insistente ritorno non appare: per tre volte appare l'espressione «custode», nei vv. 7-8 si parla di protezione e veglia. In ebraico è sempre la stessa radice. Per sei volte si insiste sullo stesso concetto: «Il Signore è il tuo custode... ».
Se si guarda all'ultimo versetto del Salmo 119 si ascoltano queste parole: «Come pecora smarrita vado errando; cerca il tuo servo... » (Sal 119, 176). Per tutto questo lungo Salmo noi abbiamo ascoltato i belati di una pecora smarrita!
Il pastore è già in cammino, alla ricerca. Ora egli è qui.
Gli stessi ostacoli, pesi e drammi sono strumento di cui il Signore si serve per dimostrare che, con pazienza e fedeltà, accompagna il fedele. Egli è così il Signore della tua vita, della tua storia e della storia del popolo e dell'umanità.
Questa sezione del Salmo si divide in tre strofe brevissime con un crescendo nel riconoscimento della presenza pastorale del Signore.
La prima sono i vv. 3-4: «Non lascerà vacillare il tuo piede... ».
Ecco: i singoli momenti di incertezza vedono un suo intervento occasionale, puntuale e momentaneo, fino a quell'essere permanentemente chinato sul pellegrino per cui veglia mentre egli dorme.
Si incontra il Signore nei diversi momenti del viaggio. Questi momenti si infittiscono fino a dare la sensazione di una presenza continuata: la veglia del Signore su di te. n rapporto con il Signore è qui ancora estrinseco. Interviene in singoli momenti e stabilisce un rapporto di vigilanza incessante dal di fuori.
Seconda strofa (vv. 5-6): «... il Signore è come ombra che ti copre…».
Il rapporto si fa più discreto e impalpabile, eppure è più intenso, profondo e interiore. Siamo accarezzati da Lui. Non è solo colui che stende intorno una cintura di protezione. È colui che ti vela, aderisce a te, ricalca la tua fisionomia, penetra in te, ti attraversa e sonda, giunge alla tua profondità interiore. Così è ombra. Un'ombra che protegge. Non perché tiene lontani i raggi del sole e della luna, ma perché penetra e abita in te. Anche una goccia di sudore sotto il sole parla di Lui e un fremito nella notte fa altrettanto.
Ricordiamo Maria, Madre del Signore. Ricordiamo qui l'ombra che la copre.
Dio trova piccole crepe nascoste per entrare in te, anche interstizi che tu nascondi. È una presenza insieme forte e delicata, fedele e paziente. Così è il tuo custode.
Terza strofa (vv. 7-8): «Il Signore ti proteggerà da ogni male...».
Un crescendo, ancora. Qui si dà risalto all'impegno con cui si esprime la libertà di un uomo in cammino. Egli «esce ed entra», espressione che l'evangelista Giovanni usa per parlare della vita delle pecore guidate dal Signore (Gv 10,1-5). È un impegno che suppone armonia e chiarezza interiore, l'intraprendenza di una scelta. Colui che custodisce non è solo colui che interviene da fuori o ti riempie di sé: è colui che suscita in te l'energia di una imprevedibile libertà, motivo di stupore per te stesso. Avanzi e riposi, esci ed entri e sei mosso sempre da una libertà che scaturisce nell'intimo del tuo cuore e dispiega energie nuove. In ogni momento della vita è così.

In ogni momento, per tutti

Questi ultimi versetti sono segnati da espressioni complementari: «il sole... la luna», «la notte... il giorno», !'ingresso... l'uscita, «da ora... per sempre». La presenza di questi binomi conferisce al Salmo un ritmo ondulatorio, oscillatorio: è il dondolio della vita. n viaggio ha un custode nelle salite e nelle discese. I singoli momenti sono sempre occasione preziosa per riconoscere la presenza di lui. Egli è il Dio della vita.
Il ritmo così conferito da un sapiente poeta a questi versi richiama il movimento naturale quando si culla un bambino. Dio culla il suo fedele. Con sapienza e discrezione, con la disinvoltura di chi lo sa fare: gesto naturale e pur così capace di esprimere il segreto della vita.
Sono solo otto versetti, ma densissimi.
La nostra storia coinvolge uno scenario più ampio e drammatico. L'orizzonte si amplia: per la prima volta, nel v. 4, si parla di «Israele». Si dice al pellegrino che il suo custode è «il custode di Israele». Colui che è custode del singolo è custode di un popolo.
Il pellegrino riscopre la sua appartenenza al popolo, alla sua storia. E anche l'universo intero è sacramento della pastorale provvidenza del Signore: tutte le creature ed ogni tempo sono coinvolti nell'amore di Dio. Così riscopre di appartenere a Lui, creatore dell'universo e del popolo. Il viandante può già adorare e benedire: il Signore verso il quale gridava nell'angoscia è chinato su di lui. Ora impara a riconoscerlo ed amarlo: impara davvero a camminare.

*   NESSUN PASSO È STATO INUTILE E LA GIOIA ORA È GRANDE  SALMO 122

Il nostro pellegrino giunge in vista di Gerusalemme. Non sappiamo quanto sia durato il suo viaggio. Ora vede e riconosce la meta.
Per i pellegrini che venivano da occidente, dalla costa, o dal nord il luogo che permetteva di riconoscere Gerusalemme era ben noto e ancora frequentato dai pellegrini cristiani. Nel corso del medioevo fu denominato il mons gaudii, il monte della gioia, dove sostavano le carovane a cantare il Salmo 122.

La visione di Gerusalemme, città della pace

Il fedele sosta, contempla Gerusalemme ancora a una certa distanza; ma appaiono inconfondibilmente i contorni delle mura e la città brilla nella luce.
È un momento di intensa commozione e vivissima gioia: la città è contemplata, ammirata, apprezzata, amata e benedetta.

SALMO 122

1 Canto delle ascensioni. Di Davide.

Quale gioia, quando mi dissero:
"Andremo alla casa del Signore".

2 E ora i nostri piedi si fermano
alle tue porte, Gerusalemme!

3 Gerusalemme è costruita
come città salda e compatta.

4 Là salgono insieme le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge di Israele,
per lodare il nome del Signore.

5 Là sono posti i seggi del giudizio,
i seggi della casa di Davide.

6 Domandate pace per Gerusalemme:
sia pace a coloro che ti amano,

7 sia pace sulle tue mura,
sicurezza nei tuoi baluardi.

8 Per i miei fratelli e i miei amici
io dirò: "Su di te sia pace!».

9 Per la casa del Signore nostro Dio,
chiederò per te il bene.

Il Salmo si divide in due strofe, con una introduzione.
Questa comprende i vv. 1-2 e ci aiuta a precisare quale sia la posizione nella quale si trova attualmente il pellegrino. Si tratta insieme del luogo ove si trova e del suo atteggiamento interiore.
Le strofe del Salmo sono facilmente riconoscibili: la prima comprende i vv. 3-5 e la seconda i successivi.
Si noti che l'introduzione si conclude col nome di Gerusalemme. Per la prima volta nella raccolta dei Canti delle ascensioni questo nome viene espressamente pronunciato. All'inizio di ogni strofa esso ritorna (v. 3 e v. 6).
Le due strofe sono nettamente distinte tra loro per altri motivi ancora. La prima ci aiuta a guardare verso Gerusalemme mentre il pellegrino è in sosta ed è in estasi per questa visione. È descritta allora la città come il pellegrino la vede dalla sua ideale e reale balconata, occasione che fa emergere i sentimenti, e non una pura visione del paesaggio fisico.
La seconda strofa consiste in una serie di auguri e benedizioni mentre il pellegrino muove i suoi passi. Pronuncia parole di pace; e questo termine torna tre volte: nel v. 6, primo rigo (non nel secondo rigo, come invece riporta la nostra traduzione), nel v. 7 e nel v. 8. Per tre volte ritorna Shalòm.
Ricordiamo un altro pellegrino che sale a Gerusalemme, la vede e le annuncia la pace. Ricordiamo Gesù, nel Vangelo secondo Luca in particolare, con una nota drammatica: Egli guarda la città e piange e dice: «Se tu avessi compreso oggi quel che riguarda la pace! Se tu avessi accolto l'augurio di pace per cui il pellegrino giunge a te!». Teniamo sullo sfondo di questa scena l'immagine del Messia che piange: annuncia la pace e incontra un rifiuto...
Prima di dare uno sguardo ai versetti si noti ancora come le due strofe individuate - la descrizione della città e l'annuncio di pace - sono disposte in modo da costituire un commento al nome stesso di Gerusalemme, interpretato secondo una etimologia approssimativa, ma molto antica e importante nella rivelazione biblica. Il nome Gerusalemme significherebbe città della pace: Ieru-shalàim, città della pace. Una etimologia difficilmente accettabile dal punto di vista scientifico, ma questo importa molto poco.
Gli autori biblici ricorrono a questa interpretazione popolare e antica per commentare il nome di Gerusalemme e la sua vocazione nella storia.
Ecco allora la prima strofa, dedicata al termine città, e la seconda, l'augurio di pace, la pace voluta da Dio.
Siamo di fronte, dunque, a un commento del nome della città voluta da Dio come segno epifanico della sua pace.

Una gioia che interpreta il passato

Vediamo allora l'introduzione del Salmo.
La gioia è esplosiva: il viaggio non è stato inutile, per quanto difficile.
Si noti però che il nostro pellegrino non sta semplicemente testimoniando la gioia nel momento attuale. Egli guarda all'indietro: «mi dissero...". Egli rievoca gli eventi dai quali fu determinato l'avvio del suo viaggio. Qualcuno lo ha invitato in una carovana, lo ha convinto: direttamente o no, per invito esplicito o per rispetto a una tradizione antica cui si è sottoposto, il nostro amico, quando ancora dimorava in quel suo ambiente, ha ricevuto una spinta e adesso guarda indietro e dice: «Quale gioia quando io ascoltai quella voce, quando ricevetti quel suggerimento e mi prestai ad accoglierlo!».
A dire il vero ciò che allora è avvenuto non è descritto nel Salmo 120 con note particolarmente gioiose; anzi «Nella... angoscia... » si apre quel Salmo. Ora, invece, egli guarda ad allora con una gioia che ha valore retroattivo. Ripercorre il passato a partire da un evento attuale che porta in sé un tesoro sepolto fin dall'inizio nella storia e allora non valorizzato. Quel segreto appare ora con la sua verità: fin dal tempo dell'angoscia e per tutto il tempo della fatica una grande gioia era ed è presente. Egli non vedeva, anzi gridava e protestava dichiarandosi infelice e derelitto: non se ne rendeva conto... e adesso è in grado di leggere in profondità il significato degli eventi che si sono compiuti nel corso della sua storia passata. Un potenziale di gioia era seminato in lui in vista di una immancabile fioritura e fruttificazione. C'è stato il tempo dell'ascolto ed ora è il tempo della visione. Allora tutto era buio e amaro, ora rilegge l'intero svolgimento e scruta quella oscurità, la penetra e la illumina. Gusta e assapora quella amarezza piena di doni ai quali era insensibile. Ricostruisce tutto il tragitto nella continuità della gioia.
La sua non è semplicemente la consolazione di chi ce l'ha fatta. La gioia di oggi è ricapitolazione di tutto il passato e conferma della coerenza interiore del viaggio.
«E ora i nostri piedi si fermano... »: guardare Gerusalemme è la conferma della forza trainante da cui era ispirato fin da quando era amareggiato o esposto ai pericoli.

La contemplazione del mistero glorioso di Gerusalemme

Ora ecco Gerusalemme. La prima strofa del Salmo si suddivide in tre battute. Sono rispettivamente i vv. 3, 4 e 5.
I vv. 4 e 5 si aprono con un avverbio di luogo: « ». Lo sguardo è fisso su Gerusalemme, calamitato. Il pellegrino la guarda e ammira, e riconosce in lei la gioia che dicevamo: un tesoro, una perla preziosa depositata nella sua vita.
Seguono tre battute.
La prima è un apprezzamento rivolto alla struttura e alla forte compagine della città. La vede tutta cinta delle mura. Una immagine di solidità e robustezza che nel linguaggio biblico serve a rimarcare la prerogativa della bellezza.
Nella nostra sensibilità, bellezza e imponenza – o robustezza - forse non si associano immediatamente. Noi pensiamo, per bellezza, a figure agili ed aggraziate. Nel linguaggio biblico non è così: una creatura è bella quando è poderosa, pesante. Così Gerusalemme è bellissima perché è solida, compatta, radicata, indistruttibile. Nei Cantici di Sion torna questo tono e così nei testi profetici che riguardano Gerusalemme e le sue prerogative.
Gerusalemme è bellissima. Non ci sono criteri estetici che specificano ulteriormente questa ammirazione. Gerusalemme è bellissima perché è creatura amata e scelta dal Signore, da Lui benedetta e abitata, e resa solida per questa presenza. Sono criteri teologali, per dire il bello: ciò che è poderoso è bello e – in quanto è bello - è depositario di un dono. Anche dell'uomo si dice "bello" quando è "ben piazzato"...
Gerusalemme è bella perché su di lei pesa l'attenzione dell'Onnipotente.
Il rapporto tra il pellegrino e Gerusalemme ha anzitutto un valore estetico, e poi un'importanza pastorale o pratica. Una "estetica teologale" si esprime qui.
Seconda battuta v. 4). Quanto più guarda alla città, tanto più egli si accorge che essa è meta di tanti come lui. Là salgono le tribù, per strade diverse, ma comunque convergenti; in tempi diversi, eppure ritmati secondo un'armonia di cui solo adesso egli può rendersi conto. .
Ha compiuto il viaggio da solo o con pochi altri e spesso ha temuto di incontrare briganti, evitando tanti sconosciuti. Giunto a Gerusalemme constata che insieme a lui e come lui tanti viandanti - incontrati o che lo hanno preceduto o che verranno - sono pellegrini verso la stessa città.
Vedere Gerusalemme è già vivere un'intensissima esperienza di comunione. Tutte le "tribù di Israele" salgono là come avanguardia della corrente che trascina con sé tutta la storia umana.
Se il pellegrino non si fosse messo in viaggio non avrebbe mai potuto sperimentare questo dono di comunione: esso è per i pellegrini e solo per loro. Guarda Gerusalemme e già si accorge di essere inserito nel flusso di una moltitudine immensa: gli uomini della strada, gli uomini di questo mondo.
Per il popolo disperso guardare Gerusalemme significa ritrovare la comunione che si realizza in modo davvero imprevedibile e pure con una efficacia incontestabile. Dai percorsi più diversi e difficili tutte le strade convergono su Gerusalemme.
Solo dal momento in cui vede Gerusalemme si rende conto di questo.
Non basta: una terza battuta (v. 5) amplia la meditazione su questo spettacolo.
Guardare Gerusalemme significa scrutare in direzione della reggia. È la città conquistata da Davide e da lui trasformata in capitale del suo regno. Là è la reggia e i «seggi del giudizio», tribunale e governo. È la città che custodisce la promessa davidica, la promessa riguardante il Messia, colui che siederà sul trono di Davide.
In epoca post-esilica non esiste più una discendenza davidica, non c'è più istituzione monarchica, eppure guardare alla città significa guardare il volto che il Messia offre a tutti i pellegrini: luce splendente sulla loro strada. Si sale a Gerusalemme per imparare a contemplare il volto del Messia.

Il volto del Messia e il nostro volto

In poche battute si ricapitola per intero il mistero glorioso di Gerusalemme, che ricapitola in sé tutta la storia della salvezza: Gerusalemme splendore di bellezza; Gerusalemme sede della comunione; Gerusalemme promessa del Messia. Profezia, Sacerdozio, e Regalità sono evocate nella loro sapiente tradizionale struttura: la bellezza di Gerusalemme, contemplata dai profeti; la comunione che si realizza a Gerusalemme, là dove è lodato il Nome del Signore, nel luogo santo; la regalità del
Messia, che a Gerusalemme si impone.
Guardare, contemplare ed ammirare quella città fa tutt'uno con la visione del volto del Messia.
Il Salmo 122 è stato pregato anche da Gesù, pellegrino alla città della promessa. Qui Gesù piange: il volto maestoso di un Messia immerso nelle lacrime, un volto da vedere. Sono proprio quelle lacrime, che coprono il suo volto, che lo rendono visibile come il volto del Signore. Una cortina che copre rende possibile riconoscerlo ed accogliere quel volto perché, a nostra volta, possiamo consegnare il volto di cui siamo dotati e che siamo andati mascherando nel corso del nostro viaggio. Mediante quel volto velato, che così si rende "guardabile" in modo da non bruciarci, ci viene restituito il volto che noi stessi roviniamo o che ignoriamo di possedere. Chi sale a Gerusalemme ritrova una faccia: si sale là per incontrare il volto del Messia e, in quel volto, trovare un volto per sé.

Un augurio di pace

Il Salmo si conclude, nella seconda strofa, con una serie di auguri. Il pellegrino si avvicina e ripete auguri di pace.
Annunciare pace a Gerusalemme, la città la cui vista ridà pace al viandante, significa anche ricordare che Gerusalemme è abitata - questo particolare non è affatto indifferente e nel seguito di questi Salmi rivelerà aspetti anche drammatici -; «coloro che ti amano» sono esattamente gli abitanti, coloro che vivono entro la cerchia delle mura e difesi dai baluardi di esse. Il pellegrino augura pace a questi.
I vv. 8 e 9 prolungano l'augurio di pace in una duplice direzione: .Per i miei fratelli ed i miei amici io dirò Dapprima l'augurio viene rilanciato in rapporto alla presenza dei fratelli e degli amici. A Gerusalemme è augurata pace a motivo dei fratelli e degli amici incontrati nel viaggio e ora riconosciuti vicini mentre si entra nella città. Già il v. 4 ci informava su questo: quando ancora non si è raggiunta Gerusalemme si riconosce che essa ha consentito di apprezzare la presenza di fratelli e di nuovi amici. Ci si avvicina alla città in atteggiamento da debitore: mentre ancora si è viandanti e mendicanti un dono grande è riconosciuto e dà gioia.
Il v. 9, ancora, indirizza e motiva l'augurio perché in Gerusalemme è riconoscibile la casa del Signore, il tempio. Il luogo santo è inseparabile da questa città. Eppure non sono coincidenti: Gerusalemme è benedetta anche a causa della presenza del tempio. È un elemento determinante, che la qualifica insieme ai suoi abitanti e ai fratelli che si incontrano andando verso di essa.

*   ANCHE A GERUSALEMME LA DUREZZA DELLA STORIA  SALMI 123 - 124

La città delude

Il pellegrino ha contemplato e benedetto la città. Ora essa è a portata di mano. C'è un'ultima valle da scendere e risalire e, mentre sta risalendo lungo la china, guarda verso Gerusalemme e si accorge che ormai può toccarla. Allora alza lo sguardo ed è come se esso non si fermasse più ad osservare la meta tanto desiderata.
Il v. 1 di questo Salmo è brevissimo, ma densissimo. Precisa che lo sguardo del pellegrino è orientato verso colui che abita nei cieli. Eppure alla fine del Salmo precedente lodava Gerusalemme perché in essa è la casa del Signore! Tra i due brani si nota un salto. È come se il contatto con Gerusalemme disturbasse il nostro viandante. Ora che è così vicino da poterla toccare, un senso di ripulsa lo assale. Non per questo si arresta o perde l'orientamento, ma il suo gesto - gesto di chi distoglie lo sguardo - ha un senso di amaro disincanto. La meta diventa motivo di sofferenza, addirittura di scandalo.
Oltre tutto succede quello che è normale in ogni luogo di pellegrinaggio: chi viene da lontano, povero e devoto, è subito trattato come un cliente da imbrogliare.. con la massima devozione! Nel caso migliore viene deriso e ci si approfitta di lui.
Così il pellegrino si accorge subito che il contesto non è in sintonia con l'intensa partecipazione interiore, con la preparazione affettuosa e devota che ha caratterizzato il suo lungo viaggio. Si accorge di trovarsi in un contesto dove egli è considerato uno straniero e che Gerusalemme è occupata.
Anche questo non è in sé una novità sorprendente. La storia della salvezza parla spesso della città invasa da culti idolatrici e stranieri. Gerusalemme, la Bella, l'Eletta, la Benedetta, è inquinata.

SALMO 123

1 Canto delle ascensioni. Di Davide.

A te levo i miei occhi,
a te che abiti nei cieli.

2 Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni;
come gli occhi della schiava,
alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio,
finché abbia pietà di noi.

3 Pietà di noi, Signore, pietà di noi,
già troppo ci hanno colmato di scherni,

4 noi siamo troppo sazi
degli scherni dei gaudenti,
del disprezzo dei superbi.

Devozione a Dio, sospetto e solidarietà

Dopo il v. 1, con il valore introduttivo di una dichiarazione così esplicita di desiderio di Colui che rimane Puro, Libero e Splendente nella Santità, il v. 2 contiene uno svolgimento meditativo. Di nuovo il pellegrino, con prudenza, guarda Gerusalemme, la sua realtà che si impone.
Ripensa e prende posizione. Dice quello che succede; e si descrive in rapporto alla città che vede: un servo che rimane vigilante in attesa di quel gesto con cui il padrone gli comunicherà il da fare. È atteggiamento di grande devozione e affetto, accompagnato da un tono di allarme, da un brivido di sospetto. C'è una tensione che cancella la nota di letizia che aveva accompagnato l'ultimo tratto del viaggio. Gli occhi sono fissi, calamitati. Solo un gesto del padrone e quest'uomo sfodererà gli artigli come un cane fedele in difesa dell'amato.
Così egli guarda al Signore, e non solo lui!
Nel v. 1 si esprimeva in prima persona singolare, nel v. 2 parla in prima persona plurale. Questo passaggio dal singolare al plurale non è indifferente. Non è solo, ci sono altri con lui. È confermata quell'esperienza di comunione che il Salmo precedente ha illustrato ed esaltato, anche se lo è sul versante del sospetto, dell'allarme e della tensione. Comunque il pellegrino anche così si riconosce parte di una realtà comunitaria.
Insieme si noti l'ultimo rigo del v. 2: «finché abbia pietà di noi...». La pietà di cui si parla è l'atto del chinarsi. Dio si piegherà su di noi per occuparsi di noi e sollevarci. Quella tensione che si esprimeva - generata da fervore e intransigente coerenza - si stempera in modo da trasformarsi in una vera e propria invocazione che esprime uno stato di miseria e debolezza estrema. Se il Signore non si piega sulla nostra bassezza nulla sarà possibile ancora per questi pellegrini stranieri in casa e per questo solidali. Si aspettavano pace e solidarietà dalla intera comunità di Israele.
Sono delusi e consolati solo dalla presenza di altri simili a loro. In questo uso del «noi» si percepisce la convinzione profonda che esiste una solidarietà anche nei confronti di coloro che accolgono male o imbrogliano i pellegrini. Questi sono ignari dei raggiri che li coinvolgono, li scoprono quando sono danneggiati e derisi. Allora dicono «noi», si riconoscono tra loro, sfortunati e poveri. Eppure in questo «noi» non sono del tutto assenti anche coloro che fanno da avversari e forestieri.
Il nostro pellegrino incontra a Gerusalemme gente che fa finta di essere straniera in quel luogo. Allora egli si rivolge al Signore e si dichiara totalmente fiducioso, per tutti, nella pietà che viene da Lui.

Un grido

Così gli ultimi due versetti del Salmo riportano un grido. È come se a nome di tutti il pellegrino dicesse: «Basta! Non ne posso più!».
Il Salmo si era aperto con il levare lo sguardo al Signore, ora il pellegrino lo implora di chinarsi su persecutori e perseguitati. La sua sazietà - il non poterne più - è relativa agli scherni subiti, ma anche a quelli restituiti, perché il testo originale - su questo il nostro testo non ci aiuta a capire - fa comprendere che coloro che approfittano di Gerusalemme per i loro bassi interessi non sono le sole fonti di disgusto. Il pellegrino dice anche: «Noi siamo troppo sazi... del disprezzo» per i «superbi» (v. 4): il disprezzo con il quale noi rispondiamo loro. È sazi età per una infame violenza reciproca, di cui ci si ingozza fino alla nausea. In ogni caso il Salmo si conclude con questa semplice e perentoria dichiarazione: "Basta!».
A sua volta anche Gesù dirà «Basta!. (Lc 22,38) a chi lo invita alla violenza.
Siamo così al Salmo 124.

SALMO 124

1 Canto delle ascensioni. Di Davide.

Se il Signore non fosse stato con noi, .
- lo dica Israele -

2 se il Signore non fosse stato con noi,
quando uomini ci assalirono,

3 ci avrebbero inghiottiti vivi,
nel furore della loro ira.

4 Le acque ci avrebbero travolti;
un torrente ci avrebbe sommersi,

5 ci avrebbero travolti
acque impetuose.

6 Sia benedetto il Signore,
che non ci ha lasciati,
in preda ai loro denti.

7 Noi siamo stati liberati come un uccello
dal laccio dei cacciatori:
il laccio si è spezzato
e noi siamo scampati.

8 Il nostro aiuto è nel nome del Signore
che ha fatto cielo e terra.

Un orizzonte di grazia per ogni cammino

Il testo suppone l'intervento di un solista e del coro. "Se il Signore non fosse stato con noi» - dice il solista - e il coro ripete il ritornello «lo dica Israele se il Signore non fosse stato con noi...».
Questa ricostruzione liturgica rinvia a un contesto vivo nel quale si fa udire la voce di un personaggio in una assemblea. Immaginiamo di ricostruirlo così: siamo alla sera di quell'importante giorno dell'arrivo alla città. L'ingresso vero e proprio non è ancora avvenuto. Al bivacco ciascuno dei convenuti racconta le proprie avventure davanti al fuoco, a turno. Anche il nostro pellegrino racconta le sue.
Ora è possibile trovare degli interlocutori attenti o almeno gentili. Ciascuno si apre e un coro commenta, sommesso: "Se il Signore non fosse stato con noi non saremmo qui...".
I racconti sono diversi: ciascuno ha percorso una sua strada e le situazioni sono originali, eppure il ritornello ricapitola e fonde in un orizzonte di grazia ciascuna vicenda. Così esse si re interpretano l'una con l'altra: « Tutti siamo qui perché il Signore è stato con noi!».
L'aneddotica personale e di gruppo, le barzellette, le fantasie, i racconti che ingigantiscono avventure... tutto serve a dire che si è lì ed è possibile raccontarsi e ascoltarsi perché «il Signore è stato con noi». In contatto con le mura di Gerusalemme ci si ritrova tutti condotti alla meta.
Si noti l'espressione alla prima persona plurale: «con noi». Si potrebbe anche tradurre diversamente: «Se il Signore non fosse stato per noi» oppure «in noi» (così il testo greco e la Vulgata: «in nobis»). Non solo il Signore è colui che ha accompagnato con il suo intervento prodigioso il viaggio. Egli era presente nei viandanti.
In questa direzione suggerivano di pensare anche i Salmi 121 e 122, che abbiamo già letto. Ora è possibile dichiararlo espressamente: era Lui che sosteneva i passi, che gestiva il quotidiano della fatica; Lui rendeva prodigiosa la piatta realtà di ogni momento. Se non fosse stato così non si sarebbe arrivati. Non c'è nessun momento - neppure il più trascurabile e non raccontato - che non sia stato pieno di valore impagabile, perché il Signore ne ha pagato il prezzo.

La liberazione dagli inferi genera benedizione

La prima sezione del Salmo, fino al v. 5 dice come il nostro pellegrino racconta di sé. La seconda sezione si sviluppa in forma di preghiera e di benedizione.
Noi che abbiamo letto il Salmo 121 possiamo pensare che il suo viaggio non sia stato ricco di quegli incontri spaventosi di cui parla adesso. Può darsi anche che tenda a ingigantire le cose, ma importa poco: anche se non fosse successo niente, la ragione per cui il viaggio si è compiuto è intrinsecamente straordinaria. È una ragione che non ha una consistenza autonoma indipendentemente dal fatto che il Signore vi si è impegnato e manifestato. Lui ha riempito, in modo gratuito, di senso e di valore quell'itinerario grigio che si era intrapreso.
Dice allora che «uomini ci assalirono» con la «loro ira...». Racconta un'aggressione, in due immagini: una belva feroce digrigna i denti e una massa d'acqua esce dal proprio alveo. Sono immagini anche contraddittorie: la furia della fiamma dell'ira e una marea travolgente. Sono entrambe immagini infernali, comunque.
L'inferno della vita avrebbe racchiuso in sé il viandante, lo avrebbe bloccato, insabbiato e intrappolato. Gli uomini sono da esso ridotti a misurarsi come protagonisti di una sua iniziativa fallita. Il Signore strappa da questo inferno; un inferno sperimentato e ricordato con pena. Il Signore non ha permesso che fosse questa l'esperienza disperante e definitiva.
Allora «Sia benedetto il Signore...». Egli ci ha liberati. Queste sono le cose grandi del Signore, eppure tanto semplici. Le scene invocate sono quasi infantili: un uccellino liberato, un frullio d'ali e non c'è più. Le grandi cose sono semplici: «non ci ha lasciati, in preda ai loro denti.. .».
Tutti concludono come nel Salmo 121. Si passa ancora da «Il mio aiuto viene dal Signore» (Sal 121,2) al «nostro aiuto». Lui ha condotto tutti in uno spazio libero, per volar via. Lui fa di questa piccola storia mia una storia raccontabile. Essa diventa parte della storia comune, commento alla storia degli altri e comprensibile solo con la loro, davanti allo sguardo di Dio. Tutti sono così al termine di un viaggio che si è compiuto solo perché «il Signore è stato con noi».

 

 

IL SIGNORE VEGLIA PERCHÉ I GIUSTI BENEDICANO SALMI 125 - 126

Dentro la città santa: le risonanze del pellegrino

Dopo la prima notte in prossimità di Gerusalemme, col Salmo 125 si comincia a parlare del primo giorno in città. La meta è raggiunta, la prospettiva si capovolge: lo sguardo non è più rivolto verso Gerusalemme, ma da essa può ormai volgersi intorno. Il pellegrino è entrato, sente il terreno sotto di sé e la sua consistenza. Dopo giorni e giorni di viaggio è un po' sbandato ed appesantito. Cambiano i ritmi, in un modo brusco che stordisce.
Leggendo il Salmo 125 ci rendiamo conto che il pellegrino vive questo impatto con Gerusalemme in modo non certo banale. Già lo vedevamo nei Salmi precedenti: interrogativi importanti vanno ora affrontati.
Si può dividere il Salmo in tre brevi strofe.
La prima sono i vv. 1 e 2: il pellegrino descrive quel che vede verso l'esterno. Così percepiamo come sta, cosa sente.
La seconda strofa coincide con il v. 3. Viene qui precisato quale sia il pericolo di cui egli si sta rendendo conto e di cui ci vuole informare. Descrive quel che avviene e come lo considera.
La terza strofa comprende i vv. 4 e 5 e ci aiuta ad accompagnare il pellegrino nel suo slancio chiarificatore e liberante, oltre le ambiguità che si sono presentate.

SALMO 125

1 Canto delle ascensioni.
Chi confida nel Signore è come il monte Sion:
non vacilla, è stabile per sempre.

2 I monti cingono Gerusalemme:
il Signore è intorno al suo popolo
ora e sempre.

3 Egli non lascerà pesare lo scettro degli empi
sul possesso dei giusti,
perché i giusti non stendano le mani
a compiere il male.

4 La tua bontà, Signore, sia con i buoni
e con i retti di cuore.

5 Quelli che vanno per sentieri tortuosi
il Signore li accomuni alla sorte dei malvagi.
Pace su Israele!

Città stabile per l'abbraccio fedele di Dio

Vediamo la prima strofa. Il respiro è un poco ansimante e il ritmo è serrato. Certo il pellegrino è finalmente in sosta, una sosta ansimante però. Il viaggio è finito, ma è ancora come se egli fosse infervorato e agitato.
Poggia i piedi sul solido fondamento del monte Sion. Su questa montagna è edificata Gerusalemme; ed ora il monte sostiene anche lui. Così è «Chi confida nel Signore»: «stabile» come questo monte glorioso, «per sempre». Questo si può dire di chi abita nella città, ma anche di chi vi giunge.
Si noti che la solidità di Gerusalemme viene rigorosamente collegata con l'attuazione di un disegno divino. Solo apparentemente il fatto più importante è il suo essere edificata sulla montagna. La fonte vera della stabilità è la confidenza nel Signore.
Mentre, da un lato, viene dichiarata la raggiunta stabilità - oltre ogni pericolo e scandalo -, dall'altro, tutto viene rigorosamente rinviato alla fedeltà del Signore, dunque alla gratuità del gesto con cui Egli sostiene coloro che, abbandonati a se stessi, vacillerebbero e inevitabilmente cadrebbero. Solidità e gratuità vanno insieme.
Il pellegrino calca i piedi su un terreno solido, ma è come se insieme avvertisse la precari età di quel medesimo terreno. Tutto dipende dalla fedeltà con cui il Signore tiene in mano la situazione, mantiene in piedi chi cade, conserva stabili gli equilibri e le relazioni. Ora che il pellegrino è giunto alla stabilità si rende conto più che mai di essere affidato a un gesto di purissimo amore.
Si guarda attorno compiaciuto, ma fino a un certo punto: l'orizzonte è chiuso. Da Gerusalemme non si godono panorami perché la collina di Sion è la più bassa tra le colline circostanti. Da tutti i lati ci sono valli e poi colline più alte.
Il profeta dirà in epoca successiva che verrà un tempo in cui Gerusalemme si innalzerà e finalmente sarà visibile da lontano. Intanto la situazione è diversa e chi cerca di scrutare l'orizzonte si sente mancare il fiato: esso è bloccato, oscurato. C'è una nota di delusione in questo sguardo, la stessa del Salmo 123. Delusione perché non si può guardare lontano, la realtà è circoscritta e soffocante.
Eppure il v. 2 prosegue con una sorpresa: «il Signore è intorno al suo popolo...». Il dato di fatto così deludente viene interpretato come segno dell'abbraccio con cui il Signore circonda il suo popolo. Quell'esperienza amara si trasforma dall'interno in compiacimento per la confidenza - che va crescendo - nella delicatezza con cui il Signore tiene nelle sue mani, solleva con le sue palme, stringe nelle sue braccia... il popolo che gli è caro. Quella stessa cerchia di montagne, che suscita una impressione cupa di minaccia, acquista un significato sacramentale di premurosa vicinanza.
Questa stretta rivela il Signore. L'esperienza di soffocamento dice la premura con cui Egli stringe. Ancora una volta posso ricordarmi che sono oggetto del suo impegno affettuoso. Tutto questo ha il valore di un richiamo al vero significato di una presenza a Gerusalemme: si è lì per riconoscere che il Signore è fedele con tutto il popolo e con ciascuna storia personale. La storia delle fatiche e delle delusioni del pellegrino è storia in cui il Signore è coinvolto.

La tentazione di condividere la logica degli empi

Il v. 3 aiuta ad intendere il contenuto della minaccia che, in modo confuso, il pellegrino ha percepito ed ora si precisa.
Il Signore interviene, con decisione. In presenza di Lui appare una pesante calamità che affligge la città: «lo scettro degli empi». È come fosse una occupazione abusiva: il «possesso dei giusti» è inquinato, infettato. C'è chi fa da padrone là dove, solo per misericordia di Dio, si può dimorare.
Gli aspetti più minacciosi non riguardano la pesante prepotenza degli empi nel luogo santo; ma il senso della minaccia in corso riguarda esattamente il modo di reagire del nostro pellegrino. Conta ciò che avviene in lui, il rischio che si abitui a questo stato di cose.
Ora si siede, cerca il suo angolo nel contesto; e l'immobilismo imposto dallo scettro degli empi troverebbe complicità nella sua rinuncia a qualunque preoccupazione sulla risposta da dare fino in fondo all'invito, in forza del quale si è messo in viaggio. È questa un'ipotesi che ha una consistenza molto persuasiva.
Nello stesso tempo è vero che il nostro pellegrino si rende conto di essere minacciato perché la presenza di ingiusti in quel luogo santo gli suggerisce la opportunità di fare il male a sua volta. È tentato di assumere metodi, strumenti, comportamenti di quelle persone. La cosa è affascinante, come se il predominio di quelli potesse essere contrastato assumendo, di quella empietà, la metodologia operativa. Un'ipotesi particolarmente drammatica.
Su tutto veglia il Signore. Egli non permetterà l'esasperazione dei giusti. Egli libera dalla delusione e dai suoi effetti perversi. Non ci interessa l'identità degli empi o come combattere contro di loro: si tratta di vigilare sulla risonanza interiore che la loro presenza provoca e su come essa acquisti connotati di verità, di valore e sapienza. Il pericolo è l'assuefazione e l'imitazione della prepotenza. Questo il Signore non permetterà. La delusione è molto pericolosa, è tentazione subdola, come un parassita che corrode le forze e distrugge.

L'invocazione della pace

Ed ecco l'ultima strofa del nostro Salmo, i vv. 4 e 5. Un uomo messo alla prova da delusione e tentazione esclama una invocazione senza ambiguità. È una benedizione: è giunto a Gerusalemme per questo, non per altro. Non è qui per misurarsi, per superare altri nella violenza. È qui per incontrare il Dio vivente e confermare la sua appartenenza ad un popolo che è destinatario di una missione, strumento di un servizio che Dio solo conosce e solo sa come apprezzare. Allora invoca «Pace su Israele».
In questa universale benedizione vuole consumare la propria esistenza. Il Signore saprà come fare. È Lui che sa mantenere solidi i passi o far scivolare i sicuri. Un abbraccio affettuoso e risoluto viene da Lui, fin dall'inizio del Salmo.
È un momento di svolta. Il Salmo 125 appare contorto, sì, ma la delusione si trasforma evidentemente in benedizione.
Così Gesù guarderà Gerusalemme e piangerà dice Luca - ma poi benedirà: è venuto per questo, pur in mezzo a contraddizioni gravi.

La contemplazione del ritorno di tutti

Guardiamo allora subito al Salmo 126, un momento di riflessione più matura.

SALMO 126

1 Canto delle ascensioni.

Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion,
ci sembrava di sognare.

2 Allora la nostra bocca si aprì al sorriso,
la nostra lingua si sciolse in canti di gioia. Allora si diceva tra i popoli:
"Il Signore ha fatto grandi cose per loro».

3 Grandi cose ha fatto il Signore per noi,
ci ha colmati di gioia.

4 Riconduci, Signore, i nostri prigionieri,
come i torrenti del Negheb.

5 Chi semina nelle lacrime
mieterà con giubilo.

6 Nell'andare, se ne va e piange,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con giubilo,
portando i suoi covoni.

Questo Salmo ci parla del pellegrino che prosegue la sua permanenza con un respiro più calmo. La sua lettura degli avvenimenti si fa più ampia e penetrante. Siamo a una riflessione ricapitolativa del viaggio, ma svolta in modo da rievocare il viaggio in cui tutto il popolo è coinvolto dal tempo dell'esilio in poi. Un grande flusso di intere generazioni convoglia verso Gerusalemme coloro che ritornano. È la storia di una conversione di generazioni e generazioni di fedeli... Ma ci sono ancora molti fedeli dispersi. Anche per loro è auspicato e sollecitato il viaggio di ritorno: il pellegrinaggio di oggi anticipa e orienta il percorso dei dispersi, rinnovando visibilmente la memoria dei già radunati.
Due le strofe: la prima guarda al passato, la seconda all'avvenire. Si aprono con le medesime espressioni, al passato e al futuro: «Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion..." (v. 1) e ,Riconduci, Signore, i nostri prigionieri..." (v. 4). Tra passato ed avvenire sta il pellegrinaggio attuale.
La prima strofa parla dell'opera del Signore. Fu lui e lui solo a ricondurre.
Oltre che in forma transitiva, questo verbo può essere usato anche in forma intransitiva: indica così un movimento dello stesso soggetto: non solo Egli fece ritornare, ma Lui stesso ritornò e ritornerà.
Il Salmo dice: «i prigionieri di Sion", e non "di Babilonia", è strano! Il fatto è che coloro che furono trascinati là restarono vincolati a Sion. In esilio furono, sì, maltrattati dagli aggressori, ma in realtà legati a Gerusalemme. Il vincolo che li legava a Gerusalemme non è stato infranto.
Si ricordi il Salmo 137,6: guai a me «Se ti dimentico, Gerusalemme.. .". Infatti in esilio sono rimasti prigionieri di Sion, sempre. L'essere prigionieri là ha acquistato un valore sacramentale, quello di un doloroso richiamo perché non ci si dimentichi di appartenere a Gerusalemme e al Signore.
Il ritorno è avvenuto sull'onda di un sogno. Un sogno che non ha niente di illusorio, ma fa riferimento all'esperienza profetica e alla sua lucidità, dolente ma incontestabile: .11 malessere che ci ha afflitto è dono di comunione ed appartenenza al Signore. Dal giorno in cui così abbiamo imparato a sognare siamo ritornati liberi. Poco importa allora un trasferimento geografico, perché il sogno è l'esperienza profetica che rende lucido il nostro discernimento. Mentre stiamo male ci invade una gioia che illumina ogni pena: come è possibile star così male ed essere tanto contenti?". È esperienza del vero credente. Essa è avvenuta e i prigionieri sono tornati, sull'onda di una sapientissima esperienza profetica.
«Allora la nostra bocca si aprì al sorriso.. .». Il Signore è grande e fa cose grandi. Così Elisabetta saluterà la Madre di Dio e questa esulterà dopo il suo viaggio: il sorriso di Dio trova modo di specchiarsi nel sorriso di una creatura piccola e ansimante.
Così sorridono tutti, qui... anche i popoli della terra. Il Signore ha dato una grande gioia.
Ecco allora la seconda strofa. Coloro che torneranno saranno come torrenti impetuosi che attraversano il deserto.
È una immagine strana, ma fa pensare a torrenti di lacrime: saranno coloro che avranno imparato - a forza di lacrime - a irrigare il deserto. Ritorneranno come una alluvione che rende fertile la regione, arida e aspra per definizione.
Le lacrime hanno il valore di una semente: "Nell'andare, se ne va e piange...". Sono semi che trovano modo di germogliare anche nel deserto.
Coloro che tornano giubilanti sono coloro che hanno portato questo seme, con assillante afflizione, nel viaggio della vita. In contrarietà e sconfitte hanno gettato il seme e ora gioiscono. Hanno pianto nella irreparabilità delle cose. Hanno offerto il loro pianto impotente, che non sa trasformare il mondo. Ancora piangeranno e il pianto, che rivelerà la loro inettitudine, non trattenuto, ma offerto, irrorerà il deserto e ne trarrà raccolti giubilanti.

 

*   IL SIGNORE HA CURA DI CHI RIPOSA IN LUI: L'AMICO "DORMIENTE" SALMI 127 - 128

L'ingresso nel tempio in costruzione

Il Salmo 127 mostra il nostro personaggio che si muove ormai con discreta disinvoltura nella città. Dopo aver preso coscienza della situazione, è pronto per entrare nel tempio.
Non è un momento scontato e banale. Il pellegrino si guarda intorno e constata che il tempio è in fase di rifacimento. Questa constatazione offre lo spunto per la meditazione iniziale.
Sono due strofe. La prima va fino al v. 2 e la seconda segue dal v. 3. La prima è caratterizzata dalla ripetizione dell'avverbio «invano».
La seconda è introdotta, in modo energico, dall' «ecco" che approfondisce lo sguardo con elementi nuovi.
Al v. 5 tutto si chiude con una beatitudine che apre così al Salmo seguente, che comincia con una beatitudine. Dal rischio della vanità alla lode lo sviluppo del Salmo è in crescendo.

SALMO 127

1 Canto delle ascensioni. Di Salomone.

Se il Signore non costruisce la casa,
invano vi faticano i costruttori.
Se il Signore non custodisce la città,
invano veglia il custode.

2 Invano vi alzate di buon mattino,
tardi andate a riposare
e mangiate pane di sudore:
il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno.

3 Ecco, dono del Signore sono i figli,
è sua grazia il frutto del grembo.

4 Come frecce in mano a un eroe
sono i figli della giovinezza.

5 Beato l'uomo che ne ha piena la faretra:
non resterà confuso quando verrà a trattare
alla porta con i propri nemici.

Il tempio è ancora in costruzione.
Spesso fu riparato, ampliato, rimodernato. È un edificio segnato dalla storia stessa del popolo, con vittorie e sconfitte.
Quando Gesù viene pellegrino a Gerusalemme si è appena concluso un ultimo restauro durato 46 anni, una impresa monumentale.
Niente di strano allora che quando il nostro pellegrino giunge in città sia spettatore di una scena abituale. È aperto un cantiere e la Casa del Signore è in costruzione.
Questo si ricollega ad altri elementi cui il viandante assiste a Gerusalemme: come il tempio, che è in ricostruzione, così anche la città ha spesso avuto bisogno di restauri, se non di ricostruzioni. Un cantiere permanentemente aperto: anche questo è Gerusalemme.
E in questo cantiere gli uomini esercitano il loro ingegno, compiono imprese mirabili - come le mura e lo stesso tempio - spendono energie e denari, frutto delle offerte annuali dei fedeli. Chi vuole essere considerato davvero parte del popolo versa ogni anno mezzo siclo d'argento alle casse del tempio per i lavori che vi si svolgono.
Si tratta dunque di una partecipazione corale; e il tempio ne è la grande insegna, sigillo di riconoscimento del popolo eletto. Diventa quindi il centro di tutto, per ragioni teologiche, culturali, cultuali, economiche, affettive.
In ogni modo il popolo apprezza il valore inestimabile di questo centro. L'attività per il tempio è simbolo di ogni laboriosità del singolo e della comunità.

Lo spazio di accoglienza per l'opera di Dio

Eppure il pellegrino si guarda intorno e dice: «invano". Parla certo a bassa voce, ma quanto dice tra sé e sé conta molto. È l'espressione di un animo ormai pacificato, che ha superato lo spirito aspro e intraprendente della polemica. Egli sta piuttosto ironizzando, con un sobrio sorriso. Questo non toglie consistenza alla triplice dichiarazione: «invano.. .".
Invano gli uomini intorno si danno tanto da fare. Non perché il nostro amico stia disprezzando l'impegno umano meticoloso e sapiente, quotidiano e paziente... solo dice che è inutile se non è il Signore che costruisce, custodisce e dà il pane: «il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno.. .».
Torna qui l'immagine del "dormiente", quella già presente nel Salmo 126 Di nuovo si parla di chi nel sonno riceve quel che è necessario, perché l'iniziativa è del Signore e rimane sua.
Questo non toglie alcun valore al significato della fatica e del serio impegno degli uomini, dal mattino alla sera; ma quello che conta - ed è affermato come certo, ormai - è che il Signore dà quel che occorre ai suoi amici nel sonno. Qui si tratta di imparare a dormire e a sognare, di imparare a consegnarsi per quella iniziativa di cui Dio solo è il protagonista. Si tratta di conoscere il modo giusto per dargli iniziativa: il sonno.
Si ricordi qui - proprio a proposito della edificazione del tempio - Salomone. Il primo, vero, grande costruttore è lui, gli altri saranno ricostruttori del suo tempio.
Il Salmo 127 è il Salmo centrale della raccolta, e nella sua intestazione compare proprio il nome di Salomone. Questo è il canto che aiuta a ritrovare il grande re come testimone di un rapporto col Signore che è valso per lui - e ora per noi - per una vera adesione al mistero del Dio vivente.
Il pellegrino entra nel tempio - ma più esattamente nell'opera di Dio - al passo e alla scuola di Salomone. Sta trovando il modo per entrare in quel vortice di eventi mossi con gratuità dalla iniziativa di Dio, che costituiscono la sua opera nella storia umana.
Come noi partecipiamo all'opera di Dio? Come Salomone ha costruito il tempio? Come noi entriamo al seguito di Salomone nel tempio? Nel cap. 3 del Primo libro dei Re, Salomone, appena intronizzato, si ritira presso il santuario - ancora una tenda - e passa la notte lì. Nel sonno ha un sogno e in esso chiede la sapienza del cuore.
Nel Secondo libro di Samuele, quando Salomone nasce gli viene dato il nome di Iedidià, l'amico del Signore (2 Sam 12,25). Ed è esattamente il termine che compare qui, nel versetto del Salmo.
È Salomone - l'amico del Signore - che attraverso il sogno ha ottenuto la sapienza del cuore; è proprio vero che quel sogno del Salmo 126 è quello attraverso il quale sono diventati esperti di sapienza profetica i reduci dall'esilio. Salomone, il sapiente costruttore, è colui che vive in obbedienza all'iniziativa di Dio ed è così strumento efficace di cui l'Onnipotente può servirsi per una impresa colossale, come fu la costruzione del tempio.
Non si può parlare di un Salomone disimpegnato e astratto: il sognatore è il costruttore, amico del Signore, pronto ad aderire all'iniziativa del Dio vivente. Da questo gli deriva una valorosa abilità operativa. Il Signore lo trova docile, trasparente e discreto.
Un altro personaggio è esemplare nella sacralità del sonno: Noè. Anche lui è amico del Signore dormiente. In Gn 9 lo si vede. Noè è nel cap. 5 il consolatore e nel cap. 6 colui che ha trovato grazia agli occhi dell'Onnipotente. È colui che ha coltivato la terra dopo il diluvio, che l'aveva rovinata. Lui sa come trarre un frutto prelibato da quella terra, un frutto che allieterà il cuore degli uomini: il vino. Noè si. trova a essere testimone del diluvio e quando l'acqua si ritira si mette all'opera, coltivando la vite.
Così Gesù dirà che suo Padre è un vignaiolo, in attesa di trarre gioia dalla sua vite, da Lui attentamente coltivata.
Al modo di Noè, dormiente nel segreto di Dio, la Sapienza prepara lo spazio accogliente e riposante di una comunione a cui parteciperanno tutte le creature. Non c'è attività più intensa di quella che la Sapienza di Dio esplica e non c'è pienezza nella creazione che non coincida con il riposo nel segreto della vita trinitaria; in esso è preparato un frutto davvero grande. Se lo spazio di accoglienza è pronto, la Sapienza prepara un riposo per tutte le creature. È un riposo pieno e vivo: il riposo degli amici e dei viventi.

La fiducia in un Dio che tiene nelle mani il futuro

Il Salmo prosegue con un rilancio dell'attenzione verso la sollecitudine con cui il Signore interviene a portare a compimento la sua iniziativa nei confronti delle sue creature. Si parla dei «figli». Essi indicano qui le generazioni che verranno. Simboleggiano la storia futura: il Signore tiene nelle mani il futuro e sa manifestarsi perché i figli portino a compimento l'opera iniziata da Lui con disegno provvidenziale.
Il pellegrino respira in modo sempre più pacato. Il soggiorno lo va espropriando di tensioni e angustie. Tutto si semplifica, il bagaglio si alleggerisce, come per incanto.
Tutto è misurato dalla gratuità dei disegni di Dio: beato l'uomo che si affida alla gratuità della provvidenza divina.
I figli simboleggiano tutto questo, la loro abbondanza permette di non aver più di che vergognarsi.
Cambia la vita, non c'è più la vergogna di chi non ha identità o l'ha perduta, come i progenitori nel giardino di Eden, dopo il loro peccato. Il nostro uomo sta tirando un respiro di sollievo e si accorge che entrando nel tempio gli è tolta la maschera che, in modo pesante, ha determinato le scelte della sua vita. Quella maschera si chiama vergogna. Ora è un uomo che non conta su altro rivestimento se non sulla fedeltà del Signore, colui che si prende cura dei piccoli e poveri, che da Adamo in poi fanno di tutto per coprirsi in qualche modo.
Beato l'uomo che ha innanzi a sé un'unica strada da percorrere: la fiducia in Dio. Non c'è più preoccupazione di prestigio o successo, anche nella migliore gestione di sé. Un uomo sempre più nudo si scopre amico del Signore e riposa nel grembo del Padre. Là è la casa di Dio, la sua Sapienza creatrice e custode dell'universo, pienezza della storia umana.
Passiamo al Salmo 128.

SALMO 128

1 Canto delle ascensioni.

Beato l'uomo che teme il Signore
e cammina nelle sue vie.

2 Vivrai del lavoro delle tue mani,
sarai felice e godrai d'ogni bene.

3 La tua sposa come vite feconda
nell'intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d'ulivo
intorno alla tua mensa.

4 Così sarà benedetto l'uomo
che teme il Signore.

5 Ti benedica il Signore da Sion!
Possa tu vedere la prosperità di Gerusalemme
per tutti i giorni della tua vita.

6 Possa tu vedere i figli dei tuoi figli.
Pace su Israele!

La preparazione all'incontro

La beatitudine appena ascoltata nel Salmo precedente prosegue aprendo questo canto.
Si rievoca una situazione paraliturgica, nel tempio. Prima di partecipare al culto i pellegrini vengono fermati sulla soglia e catechizzati, in un locale predisposto dove sono raccolti per gruppi e lingue. Qui si rievoca una di queste catechesi sulla soglia.
Uno dei grandi libri dell'Antico Testamento è un insieme di queste catechesi: il Deuteronomio.
Così i fedeli partecipano al culto solo se illuminati circa i contenuti fondamentali della fede. Non si possono lasciare poco chiare le intenzionalità profonde.
Due i temi fondamentali: l'unicità di Dio e i precetti, ricapitolati nell'unico comandamento, già decisivo per la legge antica: «amerai il prossimo tuo come te stesso».
Vivendo in contatto con i pagani i pellegrini devono essere liberati da influenze idolatriche e poco coerenti, e portati alla limpidezza della loro apertura interiore. La fede di Israele ha una sua purezza, da difendere e gustare.
Il Salmo ha una prima sezione (vv. 1-3) in cui s'ode l'eco di una di queste catechesi. Un addetto propone una sintesi. Nel v. 4 c'è la risposta del pellegrino. Ciascuno deve dire il suo "sì" e chiede di essere benedetto, cosa che accade nei 00. 5 e 6 Uno per uno i pellegrini sono accolti, istruiti e benedetti: non si accede al culto in massa, ciascuno ha una sua situazione e una particolare testimonianza di credente.

Temere il Signore e camminare nelle sue vie ogni giorno

«Beato l'uomo che teme il Signore...». Questa espressione riassume quanto dicevamo leggendo il Salmo 127. Il timore del Signore è il sentimento del mistero cui il cuore umano si apre con la lode.
Colui che è proteso e immerso nel mistero, colui che vive in comunione con esso - che pure è inafferrabile e irraggiungibile - è colui che non ha altra esistenza da realizzare se non quella che si esprime nel sentimento del mistero stesso. Sul mistero di Dio c'è poco da dire, o poco si potrebbe anche se si volesse; eppure l'esistenza può essere spesa in obbedienza a esso.
Qui si parla di un uomo attivo, che «cammina nelle sue vie...». Il quotidiano cammino è affrontato con pazienza, ma sono vie «sue», le vie di Dio.
L'uomo percorre strade della sua vita, che sono, proprio esse, il luogo della gratuita avanzata di Dio.
L'uomo timorato del Signore è colui che si trova alle prese con il quotidiano come incontro col Signore. Una esistenza piatta e concreta, esigente e pesante, è strada percorsa dal Signore, dono suo, prezioso e impagabile. Il seguito della catechesi insiste su questo punto: l'umile obbedienza e la povera accoglienza sono beate.
Ecco allora il v. 2. L'attenzione viene concentrata su un esempio tipico di questa singolare sintesi tra vita quotidiana e dono di Dio: la mensa. Il catechista chiede: "Come è fatta la tua mensa?». Essa è frutto della fatica delle tue mani, eppure insieme rivela quanto non hai ottenuto con l'opera di esse. Mangi quanto hai realizzato con fatica, ma non c'è mensa senza figli che la circondano, senza un funzionamento della casa tutta, nel suo segreto. La mensa è punto d'arrivo del lavoro, ma sempre si realizza come evento gratuito per la solidarietà che attorno a essa si stringe, per i vincoli di comunione che non saranno mai frutto del lavoro, ma doni impagabili.
Questa mensa chiama ad affacciarsi sul mondo intero. Ciascuno di noi può mangiare anche nel segreto di una cella, eppure da come mangia si determinano delle relazioni antropologiche profondissime. Anche il solitario che mangia è in comunione con un mondo cui appartiene: la mensa è sempre occasione di incontro con il mondo, anche se solitaria. La mensa sta tra la casa e il mondo.
Per questo è il frutto del lavoro e insieme dono: per il fatto che siedi alla tua mensa tu sei cittadino del mondo. Beato l'uomo che, mentre mangia il frutto della sua fatica, scopre che tutto è dono. Egli riconosce la Provvidenza, con gioia. «Così sarà benedetto l'uomo che teme il Signore...», ripete il pellegrino e fa suo l'insegnamento, chiedendo la benedizione.
La formula con cui è benedetto lo inserisce entro la storia della salvezza: "Possa tu vedere il Messia atteso, con i tuoi figli e il tuo popolo. Possa tu e il tuo popolo amato avere la pace. Possa il Messia bussare alla tua porta per partecipare alla tua mensa! Benedetto tu che sei pronto a far festa con tutta Gerusalemme». Avanzi verso la morte, giorno per giorno, ma vai incontro al Signore, alla definitività della sua benedizione che sai riconoscere ogni giorno.

*   MA NOI VI BENEDICIAMO SALMI 129 - 130

L'attesa di una Parola che cambi la vita

Il pellegrino partecipa a tutte le solenni celebrazioni che si tengono in occasione della festa per la quale è salito alla città. È normale approfittare dell'occasione per offrire un sacrificio espiatorio.
Oltre alla partecipazione agli avvenimenti corali della festa in corso, ciascuno si iscrive nella lista degli offerenti per un rito espiatorio. Salendo al tempio avvenimento raro nella vita - i fedeli sfruttano l'occasione per chiedere il perdono dei peccati. Ci sono anche riti espiatori comunitari e la grande festa della purificazione, con rito solenne - l'unico momento in cui il grande sacerdote entra nel Santo dei Santi ma nel corso dell'anno i riti espiatori vengono offerti per la devozione di ciascun fedele, per i suoi peccati personali.
È scontato che il nostro pellegrino abbia dei problemi di coscienza. Nel salterio ci sono molti Salmi che esprimono gli stati di disagio di fedeli che cercano rifugio presso il santuario. Una parola di Dio è attesa da loro, come sogno o oracolo o profezia, per indicare loro la via di un cambiamento di vita. Così il pellegrino si iscrive nell'elenco e attende il suo turno. Giunge il suo giorno e offre il giusto, secondo le regole dettate dagli addetti al culto.
Secondo una prassi liturgica e pastorale che andò acquistando una rilevanza crescente, il rito espiatorio si compie mentre il fedele partecipa all'offerta con un suo travaglio interiore e una sua ricerca spirituale, che lo ha accompagnato durante tutto il viaggio.
La prassi comportava una vera e propria confessione dei peccati. Di questo ci sono molteplici testimonianze nella Scrittura. Si guardi qui al Salmo 130: «Dal profondo a te grido, o Signore...». Questa è la preghiera di confessione con cui il fedele partecipa al rito che avviene al di là della balaustra, secondo le sue regole e per mano dei sacerdoti. Il perdono gli è impartito in forza del sacrificio espiatorio celebrato e della confessione dei peccati, espressa con la preghiera di supplica. Anche a questo riguardo c'è chi lo aiuta, come è familiare alla nostra tradizione cristiana per il sacramento della riconciliazione.

La vita giudicata:

la connivenza con la storia ingiusta

Il Salmo 130 ci parla allora del rito. Esso si svolge in un giorno preciso. Quando esso arriva, il rito viene preparato e il Salmo 129 si svolge in un momento antecedente al rito: è un esame di coscienza. Come il Salmo 124, suppone la presenza di un solista e di un coro: «lo dica Israele...».
È la sera prima del rito e il pellegrino fa un esame della sua vita approfittando della presenza di chi vuole stare ad ascoltarlo. Così ricapitola i dati della sua esistenza passata ed attuale. Parla in prima persona - sono fatti suoi - ma insieme cerca aiuto, chiede consiglio e sostegno agli altri. Stenta a dimenticare tutte le attenuanti che ridimensionano i suoi sbagli evidenti. Non minimizza gli ostacoli incontrati, le afflizioni e le ingiustizie di cui la sua vita ha portato il carico. Tutto questo fa parte della sua vita. Rivive aspetti drammatici con animo tumultuoso.
Il Salmo si divide in due strofe e una coda. La prima va dal v. 1 al v. 4 e contiene in modo sommario la rievocazione dei fatti passati. I particolari importano poco.
La seconda strofa va dal v. 5 al v. 8, escludendo l'ultimo rigo. Questa strofa contiene una vera e propria imprecazione. Mentre il pellegrino ricorda, si manifesta una tensione dirompente e incontrollabile: risentimenti, insofferenze e rancori esplodono qui.
Il salterio non tralascia anche questa tonalità della preghiera, di cui noi ci scandalizziamo abbastanza. Così anche l'imprecazione serve - nella Scrittura a far comprendere che il piano d'amore di Dio redime anche le più profonde tensioni. E la scelta fatta dai moderni liturgisti di espungere queste parti dalla Liturgia delle ore nella nostra lingua è per questo molto discutibile, quasi che la rabbia dell'uomo non possa, non facendo più parte della preghiera, essere evangelizzata.
L'ultimo rigo del v. 8 andrebbe isolato. Bisognerebbe chiudere prima le virgolette e lasciare isolata una frase conclusiva: noi «vi benediciamo nel nome del Signore».

SALMO 129

1 Canto delle ascensioni.

Dalla giovinezza molto mi hanno perseguitato,
- lo dica Israele -

2 dalla giovinezza molto mi hanno perseguitato,
ma non hanno prevalso.

3 Sul mio dorso hanno arato gli aratori,
hanno fatto lunghi solchi.

4 Il Signore è giusto:
ha spezzato il giogo degli empi.

5 Siano confusi e volgano le spalle
quanti odiano Sion.

6 Siano come l'erba dei tetti:
prima che sia strappata, dissecca;

7 non se ne riempie la mano il mietitore,
né il grembo chi raccoglie covoni.

8 I passanti non possono dire:
«La benedizione del Signore sia su di voi,
vi benediciamo nel nome del Signore».

La prima strofa inizia con il ritornello. È come se il pellegrino dicesse di essere stato molto provato e offeso, piagato e mortificato, vittima di una congiura. Il nostro amico freme, con orgoglio: «ma non hanno prevalso...».
È la storia di quest'uomo e la storia di tutto un popolo. Basti ricordare la prigionia in Egitto. Si evocano, però, le zolle rimosse di un campo: una storia segnata fin dall'inizio da una promessa di fecondità.
Una storia di sempre esaspera il fedele, una storia sbagliata, con tante violenze. È pronto a ritenersi vittima di una ingiustificata prepotenza. Fino a un certo punto questo modo di interpretare le cose è vero, ma è anche vero che al di là di tutte le pesanti contrarietà affrontate, egli registra ora la sua infedeltà e l'imitazione dei metodi dei malvagi che detesta.
Così anche Israele in Egitto: vittima della violenza faraonica eppure poi nostalgico proprio di quell'Egitto detestato; un popolo pronto a riconoscere la sovranità del faraone, potente e violento.
Sarà poi sempre così: il popolo di Dio è vittima di un'aggressione, ma anche pronto a dichiararsi connivente con i propri aggressori; può lamentarsi finché vuole, ma la responsabilità del fallimento è sua, senza alternative.
Il nostro pellegrino racconta i fatti, allora, cercando una difesa: «Fortuna che Dio è giusto e interviene in mia difesa!». Dio è sempre l'unico di cui fidarsi e l'unico che merita la fiducia. Ma la sua coscienza è in fermento, muove cose in sé, che lo turbano.

La "benedizione" della storia ingiusta

Seconda strofa del Salmo: la tensione esplode in imprecazione. Gli avversari del passato sono rintracciati con la memoria e maledetti: «Siano come l'erba dei tetti. ..", erba senza radici e subito secca, insoddisfazione per il mietitore e per chi raccoglie. È una formula di maledizione contro empi e aguzzini, con le loro catene e i loro tranelli.
Ed ecco il v. 8: impossibile benedire quell'erba secca. Il nostro uomo stenta a pronunciare esplicitamente la formula della maledizione. Essa è implicita; e si rivela così una delicata sfumatura: dire che non è possibile benedire è un modo per maledire - ma con un certo ritegno - quasi già esercitando moderazione nei confronti dei forti sentimenti provocati da questa confessione.
La piena della furia arretra e l'ultimo rigo opera un ribaltamento: «I passanti non possono» benedirvi, ma noi «vi benediciamo...». È uno scarto sorprendente. È come se dicesse: ...Basta così! Noi vi benediciamo, con tutti i vostri inganni. Benedetti voi, strumenti del Signore per la nostra crescita!".

Dio ascolta il grido del cuore trafitto

Si apre allora il Salmo 130.
Il tumulto è passato: inutile andare a caccia di ombre, la maledizione è stata gridata perché il cuore doveva essere inciso e liberato dal suo veleno. Un uomo con il cuore trafitto confessa ora la sua verità.
Il Salmo si apre con una introduzione, ai vv. 1 e 2. Un grido proviene da una grande profondità, tanto grande che solo il Signore sa ascoltarlo e interpretarlo: l'abisso del vivente che muore, che nel peccato costruisce la propria morte. Una vita, in cui è incisa la morte, grida e si consegna al Signore. Le sue orecchie attente ascoltano e comprendono con pazienza e accoglienza, un'esistenza sbagliata e inquinata. Una vita che si sente morire precipita in Lui.

SALMO 130

1 Canto delle ascensioni.
Dal profondo a te grido,
o Signore;

2 Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia preghiera.

3 Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi potrà sussistere?

4 Ma presso di te è il perdono:
e avremo il tuo timore.

5 lo spero nel Signore,
l'anima mia spera nella sua parola.

6 L'anima mia attende il Signore
più che le sentinelle l'aurora.

7 Israele attenda il Signore,
perché presso il Signore è la misericordia
e grande presso di lui la redenzione.

8 Egli redimerà Israele
da tutte le sue colpe.

Dal v. 3 all' 8 si ha la seconda sezione del Salmo, con una supplica in tre strofe.
La prima sono i vv. 3 e 4, la possiamo definire la strofa Tu.
La seconda sono i vv. 5 e 6, la strofa lo.
La terza i vv. 7 e 8, la strofa Israele.
È uno sviluppo su questi tre soggetti.
Il verbo qui tradotto con «considerare» è lo stesso che descrive il Signore come pastore nel Salmo 121. Egli è custode anche qui, colui che osserva attentamente.
Sotto il suo sguardo è questa vita che produce morte. Il Signore si occupa di chi muore. Il pellegrino può sperare: «Io spero nel Signore!».
Il Salmo è stato molto usato e pregato e il testo ci è giunto un po' rovinato, ma i problemi di traduzione non ci impediscono di gustarlo.
L'anima del peccatore, dunque, spera. Pur nella disperata constatazione della propria impotenza di fronte alla morte - provocata - un'aurora sorge all'orizzonte e illumina.
Una sentinella scruta e gli sguardi si incrociano: il Signore si china su noi che moriamo; e noi tendiamo lo sguardo nel buio, incontrando la sua luce che sorge.
Uno spazio nuovo si apre nell'anima del pellegrino: un'attesa e un respiro profondo. La storia sbagliata del peccatore che muore è storia dove il Signore rivela impreviste possibilità. Una potenza di pietà e d'amore fa tutt'uno con la vergogna del peccatore che non si sottrae allo sguardo di Dio.
Nasce allora una grande pietà per ogni altra creatura: si impara un nuovo respiro.
Ecco allora la terza strofa. Tutto il popolo di Dio viene interpellato. Il pellegrino offre il sacrificio espiatorio per i peccati personali. È momento di solitudine eppure di grande comunione con la vicenda del popolo tutto. Una nuova lucidità, sapiente e bella, comincia a esprimersi.

 

 

  IL VOLTO NUOVO DEL FIGLIO DI UN SORRISO SALMO 131

Il brevissimo Salmo 131 è composto di soli tre versetti, il terzo dei quali riprende il v. 7 del Salmo 130, con lo stesso verbo in ebraico. Il Salmo 131 è così legato al precedente, al modo di una strofa aggiuntiva. Là si parla della redenzione dell'intero Israele, entro la quale si svolge la vicenda di confessione e di perdono nella quale è trasformato il nostro pellegrino.
È un evento pasquale: passaggio e risurrezione. Questo evento fa del singolo fedele un segno di redenzione per tutto il popolo.
Il Salmo 131 costituisce un momento di intenso raccoglimento meditativo - come un sussurro - ma in grado di manifestare la novità che l'opera redentiva di Dio realizza per la salvezza del mondo. Un sussurro, tenue e soave, eppure espressione di un momento di pienezza pacificata nell'esperienza del perdono.
Il testo si divide in due strofe - VV. 1 e 2 - e un ritornello conclusivo: v. 3.
La prima è costituita da tre negazioni. È la fine di un tempo e si dice quel che non è più. La seconda riporta un'affermazione: la novità ormai instaurata. La fine di un tempo e l'inaugurazione di un tempo nuovo.

SALMO 131

1 Canto delle ascensioni. Di Davide.
Signore, non si inorgoglisce il mio cuore
e non si leva con superbia il mio sguardo;
non vado in cerca di cose grandi,
superiori alle mie forze.

2 lo sono tranquillo e sereno
come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l'anima mia.

3 Speri Israele nel Signore,
ora e sempre.

Cuore, volto e mano di fronte a Dio

La prima strofa. Per tre volte «non». Si comincia con la invocazione del Nome di Dio e così si finirà al v. 3. Si augura a tutto il popolo l'incontro con il Signore vivente che ha determinato la novità di cui il nostro pellegrino può costituire un segno.
Dice che è finito il tempo in cui il cuore si inorgogliva, lo sguardo era superbo e i passi erano orientati verso la realizzazione di grandi imprese. Si noti la terna citata: il cuore, lo sguardo, i passi. È una di quelle teme che danno una completa descrizione antropologica, nel linguaggio biblico. Siamo dinanzi a una rielaborazione raffinata di una tema di dimensioni umane che possono essere identificate con il cuore, il volto e la mano. La vita umana è queste tre cose, non ha semplicemente questi tre elementi.
Il cuore significa l'interiorità segreta, il mistero profondo, la sede interiore dove si ascolta, si pensa, si progetta e si attuano decisioni circa l'intera esistenza. Il cuore ha le sue traversie, ha durezze e chiusure sempre possibili; si impietrisce e si ripiega su se stesso. Può non ascoltare o restare indeciso, senza progetti.
L'uomo è un cuore e poi anche un volto: sacramento visibile del mistero imperscrutabile che è custodito nel cuore umano. L'invisibile identità profonda ha una trasparenza visibile nel volto; attraverso il volto, il cuore può ricevere e trasmettere: il volto, con la sua complessità e la sua mutevolezza. In esso spiccano gli occhi e la bocca. Con entrambi si assimila e si trasmette. Il volto può essere tenebroso e mascherato: chi lo purificherà e gli darà quella bellezza che il Creatore ha voluto imprimere in esso per potercisi specchiare?
Infine la mano, lo strumento dell'operatività. Nel nostro Salmo si parla del piede e dei suoi passi: gesti con cui è efficace la propria presenza nel mondo, presenza progettata e voluta nel cuore. Anche a proposito della mano - o del braccio o della gamba - lo stato di peccato e di decadenza fa sì che possa essere strumento di potere violento. Eppure la mano è stata data all'uomo perché sia pronta a benedire, perché sia laboriosa e capace di segni di comunione; è stata creata per essere aperta, paziente. Chi libererà la mano dell'uomo? Chi la costringerà ad aprirsi?
Tutta la storia della salvezza si condensa nell'evento decisivo della Pasqua del Figlio dell'Uomo che muore e risorge: l'evento nuovo è un uomo dal cuore puro, dal volto luminoso e dalla mano aperta.
Quest'uomo dal cuore puro è sapiente e libero e sa come interferire nei progetti del nostro cuore.
Egli è il Figlio di Dio che scandaglia il cuore umano e ne scioglie la durezza.
Egli ha un volto luminoso e lo offre come specchio perché il volto mascherato dell'uomo finalmente perda la propria menzogna e si specchi nella immagine esemplare di Lui: l'icona che è secondo il compiacimento di Dio. È il volto bellissimo per eccellenza... e si manifesta segnato dal dolore, piagato e orrendo, coperto da ogni vergogna umana perché noi possiamo cessare di nascondere la nostra vergogna. In Lui ritroviamo luce e bellezza, quelle che il Creatore si attendeva fin dall'inizio nel dialogo e nel confronto con la sua creatura.
Nella pienezza dei tempi il Figlio di Dio è colui che si consegna nelle nostre mani. È Lui che viene colpito, aggredito e gettato via. Egli ha mani aperte, da povero; mani di colui che si arrende, mani del Crocifisso e Risorto. Sono le nostre mani di uomini, assuefatte alla violenza, che si sono strette su di Lui e poi perdono la presa, ridotte all'impotenza e sconfitte. L'aggredito apre le sue mani e benedice, mentre - vivente e glorioso - sale al Padre. Allora noi siamo costretti alla resa.
C'è un povero in mezzo a noi che libera il cuore umano; c'è uno svergognato in mezzo a noi che illumina il nostro volto e gli restituisce bellezza; c'è un derelitto, vittima della nostra violenza, che ci costringe ad aprire le mani perché siamo sconfitti. La nostra violenza si è scaricata addosso a Lui, che l'ha assorbi ta per intero con le mani alzate in gesto di resa.
Il Salmo parla di queste cose fin dal v. 1.
Il cuore può indurirsi. n verbo usato indica più esattamente l'azione di arcuarsi, di ingobbirsi su se stessi. Ora esso ha perso la sua gobba, si è spaccato, aperto. Non c'è medicina che valga a guarire il cuore umano, né delicato massaggio che possa addolcirlo: il cuore umano deve essere spaccato. Questo cuore non si difende più, fortificandosi in se stesso.
Così lo sguardo non si leva con superbia, gli occhi non si affilano e tendono per ferire, come una lama minacciosa.
Infine quest'uomo non si muove più per realizzare eventi spettacolari, per manovrare e manipolare. Il vortice delle grandi parate ha stancato quest'uomo, egli vuole riposare dal suo male orgoglioso e si arrende.
Sono occhi bruciati dalla vergogna personale e dalla storia umana; occhi che hanno riconosciuto il Signore sofferente e la sua bellezza indicibile, che viene dal Padre. Nella vergogna del Signore anche l'uomo è accolto e i suoi occhi si aprono a pietà e compassione; e queste non passeranno più perché egli è svergognato insieme al suo Dio.
Allora anche l'uomo è bello, nel Figlio Beneamato: e la mano è consegnata e, con lei, tutto il corpo, tutta la libertà, ambiguo strumento della ricerca di se stessi e della propria esaltazione.
Ogni astuzia che cerca di addossare il proprio orgoglio alla comunità o alla causa cui si appartiene è smascherata: è impossibile santificare o nobilitare il proprio male quando si è di fronte al Crocifisso, come il malfattore di cui parla Luca. Questo malfattore riconosce in Gesù il salvatore che lo libera dal suo male orgoglioso, il male che è ormai superiore alle proprie forze voler giustificare.

Un bimbo svezzato gioca sulla tana del serpente

Ed ecco la seconda strofa, una affermazione molto bella: placata e zittita è la mia anima, come un bimbo svezzato rivolto a sua madre.
Ecco chi sono io, ora. Placato il respiro e spenta la tensione inconcludente, la vita del nostro amico non è più agitata. Ma attenzione: potremmo essere disorientati da una immagine che coincidesse con la realtà di un neonato a suo agio in braccio alla mamma, quasi un ritorno alle realtà infantili. Non è così. Qui si parla di un bambino svezzato, uscito fuori da un rapporto simbiotico con la madre e dall'intimità con lei propria del lattante. Questo bambino non è più allattato, è stato sottratto al seno della madre: guarda altrove, ormai, e ha altri interessi. Sta in braccio alla madre, ma non la guarda. Guarda il padre, in dialogo con il mondo che lo circonda e con chi lo domina.
Il termine «bimbo svezzato», in ebraico gamùl, compare in alcuni testi dell'Antico Testamento. Ne citiamo tre.
Il primo è nella Genesi, al cap. 21. Per la prima volta si dice di un personaggio che è svezzato. È Isacco, figlio di Abramo. Il suo nome significa figlio del sorriso: il Signore insegna ad Abramo e a Sara a sorridere, a sperare in Lui. Isacco viene svezzato, nel cap. 21, e nel cap. 22 può seguire il padre verso il sacrificio. Ora è il figlio pronto per dire "amen", per aderire alla volontà del padre. Così il personaggio del nostro Salmo.
Il secondo testo è nel Primo libro di Samuele, al cap. 2. Qui è Samuele lo svezzato. Viene portato dalla madre al santuario perché vi dimori. Egli resta presso Eli e cresce con lui. Il bimbo svezzato è colui che ormai appartiene alla casa del Signore e in essa diventa profeta. Nel Vangelo di Luca, al cap. 2, Gesù viene trovato dai genitori nel tempio e, sgridato, dice loro che ormai deve occuparsi «delle cose del Padre», delle faccende della sua casa.
Il terzo testo è nel libro di Isaia, al cap. 11. È un oracolo messianico, visione del mondo nuovo: l'agnello e il leone, l'arsa e il capretto insieme. Un bimbo si trastulla sulla tana del serpente: gamùl. È il Messia, svezzato, che addomestica il serpente. Egli è pronto alla battaglia decisiva, a inchiodare il serpente là dove egli stesso è pronto a essere inchiodato. Il serpente è trasformato in gioco e l'universo intero si rinnova.
Quando il nostro personaggio si paragona a un bimbo svezzato non fa appello al nostro buon cuore, dunque. Stando in braccio alla madre il bimbo dell'immagine guarda alla volontà del Padre, lo segue e con lui lotta contro il male in una battaglia decisiva. Tutto questo senza garanzie o ripari: fino al limite estremo dove il Messia ci ha preceduti, contro una vipera sorda e velenosa.
Quando ormai Paolo sta per concludere il suo viaggio, l'ultimo, in Atti 28, sbarca a Malta dopo una tempesta e viene morso da una vipera. Il morso, però, non lo danneggia ed egli scuote la vipera via da sé, nel fuoco.
Nel Vangelo di Luca si parla di vipera nella predicazione di Giovanni il Battista. «Razza di vipere», chiama i giudei. Dall'inizio del Vangelo alla fine degli Atti tutta l'opera lucana è racchiusa da questa doppia testimonianza: il Battista chiama alla conversione i figli del serpente e Paolo è ormai sottratto alla pericolosità del suo morso, come bimbo svezzato e pronto per portare a compimento il ministero che gli è stato affidato.

*   L'UOMO GIURA, DIO MANTIENE SALMO 132

Il Salmo 132 è il più lungo della serie. Si inserisce nel contesto di una celebrazione liturgica che prevede un rito processionale.
Questi riti rievocavano la prima grande processione guidata da Davide, quando introdusse l'arca a Gerusalemme. Allora Davide danzò, accompagnato dal popolo, fino alla città, con l'arca santa. Ogni processione è - da allora - momento di intensa comunione; è una specie di laboratorio dove si realizza un pellegrinaggio simbolico. Il popolo tutto può così fare il suo pellegrinaggio, anche gli abitanti di Gerusalemme.
Al di là di tutte le distanze e differenze si produce la comunione per la possibilità offerta a tutti di partecipare simultaneamente a un unico viaggio e di ritrovarsi tutti pellegrini. Almeno in virtù del rito tutti sono in viaggio verso Gerusalemme. Questo lo sfondo.
Sono due le sezioni del Salmo, ciascuna in due strofe. Le due sezioni sono elaborate in parallelo, anche se la seconda rinnova profondamente il messaggio rispetto alle premesse.
La prima sezione va fino al v. 10 e la seconda comincia col v. 11, fino alla fine.
In apertura e chiusura di ciascuna sezione risuona il nome di Davide: nei vv. 1.1 Q-ll e 17
La prima sezione si apre col ricordo del giuramento compiuto a suo tempo da Davide, la seconda col giuramento compiuto in quella medesima occasione dal Signore.
Viene rievocata la scena di cui si parla nel Secondo libro di Samuele, al cap. 7: Davide vuole costruire una casa per il Signore; di rimando questi giura a Davide che Lui stesso gli costruirà una casa.
Davide è ormai forte e sicuro, ha superato prove che lo hanno reso mansueto e padrone della situazione, ha mezzi e benessere. L'arca santa, invece, è ancora sotto una tenda! Il profeta prima approva, poi smentisce e rivela il vero desiderio di Dio: Davide avrà una casa, cioè una discendenza gloriosa fino alla pienezza dei tempi. Così non lui costruirà una casa al Signore, ma questi a lui.
Davide si sentiva sicuro e pensava di poter contare sulla forza sua e dei suoi discendenti. Le cose, invece, andranno diversamente e Davide subirà nella sua famiglia un conflitto dopo l'altro. Sarà il Signore a procurare una discendenza davvero gloriosa nella quale compiacersi: sarà Dio a dare il Messia, non il re Davide!

SALMO 132

1 Canto delle ascensioni.
Ricordati, Signore, di Davide,
di tutte le sue prove,

2 quando giurò al Signore,
al Potente di Giacobbe fece voto:

3 «Non entrerò sotto il tetto della mia casa,
non mi stenderò sul mio giaciglio,

4 non concederò sonno ai miei occhi
né riposo alle mie palpebre,

5 finché non trovi una sede per il Signore,
una dimora per il Potente di Giacobbe».

6 Ecco, abbiamo saputo che era in Efrata,
l'abbiamo trovata nei campi di Iàar.

7 Entriamo nella sua dimora,
prostriamoci allo sgabello dei suoi piedi.

8 Alzati, Signore, verso il luogo del tuo riposo,
tu e l'arca della tua potenza.

9 I tuoi sacerdoti si vestano di giustizia,
i tuoi fedeli cantino di gioia.

 

10 Per amore di Davide tuo servo
non respingere il volto del tuo consacrato.

11 Il Signore ha giurato a Davide
e non ritratterà la sua parola:
«Il frutto delle tue viscere
io metterò sul tuo trono!

12 Se i tuoi figli custodiranno la mia alleanza
e i precetti che insegnerò a essi,
anche i loro figli per sempre
sederanno sul tuo trono».

13 Il Signore ha scelto Sion,
l'ha voluta per sua dimora:

14 «Questo è il mio riposo per sempre;
qui abiterò, perché l'ho desiderato.

15 Benedirò tutti i suoi raccolti,
sazierò di pane i suoi poveri.

16 Rivestirò di salvezza i suoi sacerdoti,
esulteranno di gioia i suoi fedeli.

17 Là farò germogliare la potenza di Davide,
preparerò una lampada al mio consacrato.

18 Coprirò di vergogna i suoi nemici,
ma su di lui splenderà la corona".

Davide giura di dare casa a Dio

Guardiamo quello che succede nella prima sezione. Essa ha due strofe; la prima dal v; 1 al 5. Si dice quello che fece Davide, il suo giuramento.
La seconda strofa aiuta a intendere invece il gesto che i fedeli compiono oggi, la loro processione.
La promessa di Davide fa seguito all'ingresso del l'arca a Gerusalemme.
Il Salmo si rivolge subito al Signore perché si ricordi di Davide. Tutti si identificano con lui, con le sue prove che lo hanno educato alla mansuetudine e alla saggezza. Egli fu educato e plasmato in modo da raggiungere la mitezza, massima virtù.
Reduce da una vicenda impegnativa e tormentata, ora è nella pace, dopo la fuga, il deserto, la tentazione della vendetta, il rifiuto degli altri. Gli avvenimenti della sua vita lo hanno trasformato: ora non ha progetti minacciosi.
Di lui il Signore si ricordi, delle sue imprese, ma soprattutto della sua interiore conversione. Di lui il Signore ricordi quando gli fece giuramento.
Davide non vuole avere riposo in casa sua finché non abbia costruito una casa per il Signore. È una promessa che condiziona anche il momento della molte: prima che essa sopraggiunga dovrà essere rispettato l'impegno. In realtà Davide non riuscirà a compiere l'opera... e occorre considerare come mai si è così frainteso, sbagliando discernimento. Intanto per il suo giuramento lo apprezziamo ed esaltiamo e per esso diciamo al Signore di ricordarsi di lui.
Nella seconda strofa si parla del gesto liturgico che si svolge. Si ripetono richiami per orientare la preghiera del popolo in festa.
Il modello è quello di Davide che precede l'arca santa in Gerusalemme con danze. Egli è in ansia finché il Signore non abbia una casa; e tra questa ansia e la danza di cui si racconta c'è una continuità.
Si immagina che l'arca santa sia stata prima collocata in un luogo alle porte di Gerusalemme, dove Davide la trova.
Nel tempio ricostruito dopo l'esilio l'arca santa non esiste più e il Santo dei Santi è una stanza vuota. I riti processionali non accompagnano più la cassa contenente le tavole della Legge, oggetto preziosissimo. Siamo dinanzi all'invisibile ricordo di quel segno di alleanza, si rievoca l'arca, ma nessuna nuova arca può sostituire quella. Così si rinnova, sì, quella danza, ma in presenza dell'invisibile. L'ansia di Davide trova riscontro nel rito immutabile.
Con un «Alzati, Signore...» e con la descrizione dei partecipanti comincia la liturgia del cammino. Ci sono tutti, fedeli e sacerdoti. Il Signore entra nel luogo per Lui preparato, secondo il giuramento di Davide: gli eredi di quel giuramento indicano al Signore il tempio fatto da loro come casa per Dio e là lo accompagnano; intanto Gli chiedono di tener conto dell'ansia, del desiderio di Davide e del loro desiderio.
L'ultimo versetto chiede che per amore di Davide che giurò e per amore degli eredi di quel giuramento, per la sua e la loro danza, Dio conceda un Messia.
Prima dell'esilio a Gerusalemme esiste davvero un consacrato: il re che siede sul trono di Davide. Ora non c'è più un discendente e lo si attende. Così questi fedeli chiedono in coro: "Per amore di Davide dacci un Messia nel cui volto ti compiacerai e rispecchierai».

Dio giura e promette il Messia

La seconda sezione ha una costruzione parallela, ma gli equilibri teologici e spirituali sono ribaltati. Anche qui due strofe. La prima dal v. Il al 13 e la seconda va fino alla fine.
Prima strofa: non è il giuramento di Davide che si realizza come lui lo ha formulato. Non lui, ma suo figlio costruirà il tempio; e questi è il figlio della promessa fatta da Dio. .
Il Signore ha giurato e mantiene, non Davide: «Il frutto delle tue viscere.. .». Il v. 13 parla allora della scelta del Signore, più che dell'impegno di Davide. Il Signore ha scelto una casa per sé proprio giurando a Davide di dargli una casa. La casa che il Signore costruisce per il suo consacrato sarà anche la sua. È il Signore che ha scelto Sion, una città e una famiglia, una carne umana in cui abitare: la prospettiva è ribaltata.
Nella processione i fedeli compiono il gesto di accompagnare il Signore al suo riposo e si accorgono, pian piano, di essere loro accolti e condotti da Lui.
Il Signore costruisce una casa per Davide ed è una casa per sé e per il popolo. Egli dà un figlio a Davide ed è il Figlio suo, di cui Egli si compiace.
La processione non ha più come meta la conquista di Gerusalemme, ma l'ingresso nel luogo del riposo che Dio stesso ha scelto per sé.
Questo - a dire il vero - era già il significato di quella conquista che Davide compì allora; egli ebbe la città perché Dio gliela concesse, perché Dio l'aveva scelta per lui e per sé.
Ed ecco l'ultima strofa, la seconda della seconda sezione: «qui abiterò, perché l'ho desiderato...».
La liturgia procede e Dio vi partecipa.
Il rito è strumento di cui il Signore si serve per mostrarci il suo gesto: Egli riposa, mentre Davide è in ansia. Questa è la sua danza, la danza del Figlio che è il suo riposo: la Pasqua.
Da qui si manifesta una benedizione dilagante. Si riprendono espressioni già usate nella prima sezione del Salmo, ma al superlativo: «Benedirò... sazierò... Rivestirò... esulteranno.. .», La terra produce raccolti abbondanti, i poveri sono saziati, i sacerdoti risplendono nei loro paramenti liturgici, i fedeli saltano di gioia.
Negli ultimi versetti si parla del luogo dove sarà costruito il tempio, dove la casa di Davide avrà una storia nel tempo, là dove il discendente di Davide sarà generato. Là, nella carne umana scelta da Dio per il suo riposo, «farò germogliare la potenza di Davide» e «preparerò una lampada al mio consacrato».
Si noti il ribaltamento: Davide porterà frutto in quanto Dio prepara per sé un Messia secondo il suo compiacimento.
Non è più il caso di ribadire l'invocazione di prima se non ribaltandola: non si dice di dare un Messia per amore di Davide, ma di ricordarsi di Davide per amore del Messia che Dio ha già deciso di procurarsi come specchio della sua gloria. È Davide a essere salvato; la processione di oggi è protesa al futuro evento piuttosto che al ricordo del re passato.
L'ultimo versetto promette la vittoria al Consacrato che verrà. Si parla di «corona», «nèzer», che ha assonanza col termine che vuol dire "germoglio" (e ci ricorda la "Nazaret" di Gesù); "nazir" è il "consacrato" al Signore; e così Gesù è di Nazaret; è il "germoglio" ed è il "consacrato" che ricapitola tutta l'esperienza dei consacrati dell'Antico Testamento fino all'assunzione della "corona", un simbolo - qui - sacerdotale, regale.
La corona fiorisce dalla terra. Questo fiore spunta trascinando dietro di sé la vergogna della terra, la vergogna dei nemici.
Il verbo «Coprirò» è lo stesso di «Rivestirò» del v. 16, verbo già presente al v. 9 («I tuoi sacerdoti si vestano.. .»). I nemici si vestono di vergogna. Là dove il fiore sorge dalla terra i nemici sono rivestiti in modo tale da acquistare titoli di presentazione: la loro vergogna sarà titolo non di esclusione, ma di ammissione.
Il Figlio di Dio fa della vergogna umana una veste da presentare a Dio. Il riposo di Dio assume in sé la storia della umanità svergognata, quando il Figlio discende e risale nella sua danza che salva. Dove il Signore Onnipotente riposa, compiacendosi di suo Figlio crocifisso, noi abitiamo e un ladrone pentito dice a Lui «Ricordati di me nel tuo Regno...».
La processione liturgica è splendido corteo di salvati guidato dalla lampada accesa del Consacrato.

*   INSIEME FRATELLI: LA VITA SENZA PAURA SALMI 133 - 134

Si celebra un sacrificio di comunione, un banchetto che prevede di consumare insieme una parte della vittima del sacrificio. Su questo sfondo si canta il Salmo 133, breve ma carico di valori affettivi e teologali insieme. Si apre con una esclamazione di gioia, poi ha due immagini che la spiegano: l'olio e la rugiada; e infine si ha una sentenza conclusiva, nella seconda metà del v. 3.

SALMO 133

1 Canto delle ascensioni. Di Davide.
Ecco quanto è buono e quanto è soave
che (fratelli vivano insieme!

2 È come olio profumato sul capo,
che scende sulla barba,
sulla barba di Aronne,
che scende sull'orlo della sua veste.

3 È come rugiada dell'Ermon,
che scende sui monti di Sion.
Là il Signore dona la benedizione
e la vita per sempre.

La città: una difesa dalla fraternità

Gerusalemme è qui la sede della vita fraterna. Con stupore commosso e grato il nostro pellegrino celebra il banchetto di comunione.
Nella normalità delle cose i fratelli sono in dissidio tra di loro: nella città santa succedono cose strane e persino i fratelli vivono insieme, un'eventualità bella e dolce.
La storia della salvezza è segnata dal ricorrente fallimento di relazioni fraterne, fin dall'inizio; dal cap. 4 della Genesi i fratelli falliscono nella loro relazione; e falliscono drammaticamente! Da allora c'è tutta una storia di fratelli in difficoltà.
Guardiamo al primo episodio di vita fraterna, Abele e Caino. La pagina ci permette di scoprire che il tema della vita fraterna è legato a quello della città. Su Gerusalemme nel Salmo 122 il pellegrino invocava pace, una pace solida e inespugnabile.
Fraternità e città sono temi inseparabili. Perché?
Dopo che Caino ha ucciso il fratello si ritira ad oriente dell'Eden, vagabondo inquieto e spaventato; teme la vendetta, non tanto quella di coloro che incontrerà nel suo vagabondaggio: teme se stesso. Non sa più come regolarsi, ha verificato in modo tragico che le sue possibilità di azione contengono esiti catastrofici. Caino è spaventato perché teme di essere ancora condotto in quel baratro che ha sperimentato una volta.
È in fuga; genera un figlio - che si chiama Enoch - poi va e costruisce una città. Egli è l'inventore della città. Egli deve trovare un riparo per la sua angoscia, ha bisogno di una difesa soddisfacente. Nei confronti della città vede la propria possibilità di sopravvivenza e le è affezionata come a suo figlio: difesa e certezza del futuro in un contesto ostile.
Questo contesto è costituito dalla eventualità di incontrare un vendicatore, ma - più radicalmente di incontrare un fratello. Dopo quel che è avvenuto Caino ha paura di se stesso e di ritrovarsi in quella situazione terrificante di cui ha fatto l'esperienza; inventa la città allo scopo di evitare l'incontro con un fratello.
Questo consente a Caino di organizzare una convivenza umana, di strutturare un vero e proprio consorzio civile, avendo eliminato l'eventualità insopportabile - per lui e per ogni uomo come lui - di incontrare un fratello.
La città è pensata per consentire agli uomini di stare insieme con strumenti culturali, economici, giuridici, politici... da cui dipende la conquista del mondo. Ci si organizza nei confronti dell'universo intero avendo garantito l'eliminazione del fratello. La città consente agli uomini di guardare al mondo assicurando ad essi che non avranno mai più a che fare con un fratello. Caino ha trovato la soluzione al suo dramma e con lui tutti gli uomini.
La rivelazione biblica racconterà le contraddizioni della città fin dal suo sorgere. Nel cap. 11 della Genesi queste contraddizioni giungono al culmine, con la torre di Babele. Sono emozionanti conquiste che affascinano le moltitudini: eppure resta sempre la città di Caino, il povero Caino in fuga.
Così per edificare la città umana e i suoi progressi è programmatica l'eliminazione del fratello: è dovuta, legittima, doverosa.
La legge della città è che ciascuno non avrà nulla da temere dal proprio vicino; egli sarà sempre più sconosciuto e, quanto più ci si ignorerà, tanto più progredirà la città. Così l'uomo conquista il mondo e nel cap. 4 della Genesi si narra come proprio nella discendenza di Caino si sviluppano tecniche e arti civili.
Il progresso sorge sulla paura di Caino, che deve essere in qualche modo rassicurata e difesa. Gli uomini possono affacciarsi proprio nella città su un orizzonte largo; diverso è ciò che avviene in un piccolo paese. In città è possibile ignorare il vicino e possedere il mondo. Caino non può fare altrimenti, nella sua angoscia e disgrazia. Così è della storia umana: tanto meglio realizza i propri scopi quanto più saprà cancellare la figura del fratello.
Sappiamo che in realtà la crescita di una città così fondata produce catastrofi inevitabili, una dopo l'altra. Essa scoppia. Concepita per poter dialogare senza essere fratelli e poter costruire ed assorbire tensioni ed energie, essa si trasforma in un mostro che inghiotte, un vero drago divoratore.
Il progetto che doveva garantire equilibri, l'idea di una città piccola, dominabile e da cui si domina il mondo, fallisce.
Chi vive in un paese sa che conosce centinaia di persone e da esse è conosciuto. Nella città non conosci nessuno, ma essa ti consente di affacciarti su un orizzonte amplissimo. Chi conosce tanta gente in città, o si sforza di farlo - il prete, per esempio - è un'eccezione ridicola. Così la città esplode perché viene inevitabilmente coinvolta in un processo di crescita che non è più controlla bile; e perché quel rapporto con il mondo che doveva mantenersi su un piano di asettica distanza diventa in realtà un rapporto di conquista. La città ingloba e scoppia.
Ci sono momenti di entusiasmo e trasporto, con le istituzioni che funzionano bene, ma prima o poi si scoppia. Tutto parte dalla premessa fondamentale della città: scopo di essa è evitare l'incontro e per questo è amata da Caino.

Gerusalemme città della fraternità attesa

Oltre a questo, il tema della città è proposto dalla Scrittura in un secondo e un terzo grande quadro.
Il secondo coincide con la città di Gerusalemme. Dio stesso interviene nella storia degli uomini per salvare Caino. Egli sa bene che questi non può più vivere senza una città e ha pietà di lui, gli va incontro. Sul piano della storia degli uomini Dio interviene e pone una città perché sia segno di altro, rispetto a quello che gli uomini intendono raggiungere costruendo la propria. Così pone una città che sia segno di comunione fraterna.
Ed ecco Davide e il popolo con lui, e la storia di pellegrinaggi a Gerusalemme che diventano apprendistati nella fraternità. Questo è stupefacente: c'è una città in cui è possibile essere fratelli.
La salvezza di Caino è proprio questa: gli viene restituito un fratello. Questa possibilità esiste. Certo è ancora solo un segno, contraddittorio: Gerusalemme è anch'essa come le altre città del mondo, Babilonia o Ninive.
Gesù a Gerusalemme sarà un fratello rifiutato e l'Apocalisse dice di essa che è come Babilonia.
La storia è cruda, ma Gerusalemme rivela comunque sempre l'intenzione di Dio: insegnare agli uomini che è possibile incontrare un fratello.
Questo lo scopo di ogni pellegrinaggio.
Per questo dopo la Pasqua di Gesù - pellegrinaggio della Chiesa dalla morte alla vita - parte una missione fino a Roma e da qui si torna a Gerusalemme per incontrare Colui che torna nella storia.
Tutta la storia umana è coinvolta in questo apprendistato, a partire dalla città dove si incontra un fratello.
Il terzo grande quadro sulla città è costituito dalla Gerusalemme che scende dall'alto, negli ultimi capitoli dell'Apocalisse (capp. 21-22).
Le porte di questa città sono aperte: essa è dotata di misure capaci di accogliere l'universo e in essa le nazioni sono accolte. La sua luce risplende e l'Agnello vi siede sul trono. Tutta la rivelazione biblica si struttura così sul tema della città, da Caino al segno dell'opera di Dio, fino al dono finale.
Il percorso che conduce gli uomini a trasferirsi nella città di Caino li porta ad abitare nella città fatta da Dio.
Gesù, fratello rifiutato, realizza rapporti più stabili di quelli fondati sulla paura. Il Rifiutato qui è re. Ricevuto il rifiuto conferma la sua volontà di comunione e realizza un vincolo nuovo.
Così nell'Apocalisse i martiri sono i costruttori della città umana. Questi sono i testimoni di una fraternità più forte della morte per una città liberata dall'angoscia di Caino.

La fraternità è il vero culto e la vita secondo Dio

Per giungere a questa meta il Signore traccia un percorso graduale di liberazione. In questo percorso Gerusalemme è segno di fraternità e serve da scuola.

Si impara a riconoscere il vicino fino a scoprire che proprio colui che abbiamo abolito ci sta costruendo una città nuova. Quello che rende abitabile la città è l'escluso. Di questo gioisce il pellegrino: «Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!». Si notino i due aggettivi: «buono» (4ov,) e «bello» («nahim»). È una cosa sorprendente! I due aggettivi sono ripresi in rapporto alle due immagini proposte per illustrare la vita fraterna.
L'olio è detto, nella nostra traduzione, profumato», ma l'aggettivo è sempre «tov». È una dolcezza esemplare. Cosa vuol dire "olio"? Si parla di un sacerdote barbuto, solenne nelle sue vesti e unto, in modo esagerato, si direbbe.
L'olio è connesso con la consacrazione sacerdotale ed è un richiamo alla funzione mediatrice che compete al sacerdozio. Il sacerdote avanza tra il popolo fino a Dio e al popolo ritorna. Così l'olio di cui si parla qui dice che la vita fraterna realizza una funzione sacerdotale, per se stessa. Essa è efficace nell'offrire a Dio e nel benedire il mondo, come la funzione sacerdotale. Tra gli uomini e Dio si realizza così una mediazione gradita a Lui.
Seconda immagine, la rugiada. Dalla presenza della rugiada dipende la fertilità della terra promessa da Dio al suo popolo.
Sembra che l'espressione «terra in cui scorre latte e miele» voglia dire la terra su cui si deposita la rugiada, cosa che non avviene nella steppa. Ora, se non c'è rugiada non c'è raccolto e quindi non c'è la vita. Per questo da essa derivano il latte e il miele e tutti i frutti necessari.
Si noti il riferimento alle alte montagne del Libano... fino alla collina su cui è edificata Gerusalemme, meta del pellegrinaggio. Quelle montagne settentrionali erano ritenute la sede del Pantheon dei Cananei, la casa delle loro divinità. Il fatto che la rugiada venga da lì sta a significare un'abolizione dell'idolatria. Il monte santo di Sion ricorda che la possibilità della vita umana coincide con la liberazione dall'idolatria.
La vita si insedia dove l'idolatria è stata espulsa, altrimenti è impraticabile, come un prezzo da pagare alla morte. La vita fraterna è come rugiada, cioè come vita umana liberata dall'idolatria perché ricondotta alla comunione.
Con la immagine precedente il Salmo diceva che la vita fraterna realizza la funzione mediatrice che compete al sacerdozio; ora dice che essa è la liberazione dall'idolatria e l'affermazione della vita come Dio l'ha pensata.
Ed ecco la conclusione, che riprende le due immagini precedenti e le due benedizioni di partenza: «Là il Signore dona la benedizione e la vita per sempre».
L'olio e la rugiada, la bellezza e la dolcezza sono donate per sempre da Dio dove c'è comunione.
Quando Gesù lascia i discepoli, affida loro un comal1damento nuovo, come un lascito di quel che è suo. Vuole che si amino come Lui li ha amati, da vero fratello che costruisce una nuova città.

SALMO 134

1 Canto delle ascensioni.
Ecco, benedite il Signore,
voi tutti, servi del Signore;
voi che state nella casa del Signore
durante le notti.

2 Alzate le mani verso il tempio
e benedite il Signore.

3 Da Sion ti benedica il Signore,
che ha fatto cielo e terra.

L'ultimo Salmo narra lo stato d'animo del nostro pellegrino al suo ritorno. Giunge il momento di partire; e se ne va benedicendo. Si rivolge a quelli che rimangono, dimenticando ogni polemica che li ha divisi. Dice loro di benedire sempre il Signore, che li ama tutti.
Ogni ombra è eliminata e si conferma l'intensità del vincolo di comunione realizzato tra lui, che viene e va lontano, e chi rimane nella città amata.
Di rimando coloro che assistono alla sua partenza rispondono al saluto: «Da Sion ti benedica il Signore!». Colui che torna nella sua difficile realtà è seguito e accompagnato dal Signore di Gerusalemme - città della pace - e del mondo intero, creato da Lui. Il vincolo di comunione stretto a Gerusalemme è riconfermato per sempre, qualunque distanza separi i fratelli.
I Canti delle ascensioni sono finiti, ma i Salmi seguenti - i Salmi 135 e 136 - sono la preghiera che il pellegrino ripete tra sé mentre torna: lode alla misericordia di Dio che accompagna, trasforma e custodisce nella vita rinnovata

 

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