19_Angelini_La Testimonianza

Introduzione

La testimonianza è categoria della quale viene fatto uso crescente nel lessico cattolico recente. La riflessione che qui proponiamo intende denunciare un rischio consistente, quello che tale uso acceda di fatto allo svuotamento del senso vero e impegnativo di tale categoria. Ci sono buoni motivi obiettivi per pensare che sullo sfondo del successo della categoria di testimonianza stia la preoccupazione di fondo di "aggiornare" le forme del ministero pastorale rispetto alla sensibilità diffusa della società laica, pluralista e tollerante. Cercheremo di chiarire tali motivi. Nella lingua del Nuovo Testamento la categoria dà invece espressione al profilo critico, e addirittura polemico, del rapporto del cristianesimo con il mondo intorno. Se di tale categoria è fatto uso oggi invece per raccomandare un profilo irenico e amichevole di quel rapporto, è legittimo il sospetto che nella scelta si nasconda qualche equivoco.
Attraverso l'uso indebolito della categoria di testimonianza prende corpo una minaccia di carattere più generale, che incombe sulla predicazione cristiana e rispettivamente sulle forme della coscienza credente. Per accondiscendere alla pressione della cultura diffusa, minaccia d'essere rimosso un profilo assolutamente irrinunciabile del vangelo di Gesù: esso comporta un imperativo, e in tal modo esso dispone le condizioni per apparire come un giudizio. Il vangelo non ha la forma di messaggio sempre e solo e subito consolante; comporta invece un giudizio sulla menzogna che caratterizza la vita comune dei figli di Adamo; in tal senso comporta anche un appello a tutti rivolto perché si convertano.
La cultura laica contemporanea si vanta d'essere liberale e tollerante; essa tollera anche la religione ovviamente, e ogni religione. Accorda tuttavia ad essa soltanto uno spazio ben definito, quello interiore della coscienza individuale, che riconosce in generale come riservato soltanto alla sua competenza esclusiva. Per ciò che si riferisce alle cose dell'anima, ciascuno si regoli come vuole, o come può; se trova nella religione conforto, tanto meglio per lui. Nessuno però deve elevare la pretesa di imporre le sue proprie convinzioni personali ad altri. La religione è intesa in tal senso quasi fosse una sorta di espressione della coscienza soggettiva; così concepita, essa deve essere rispettata. La figura del rispetto ha i tratti della distanza, e quindi anche dell' estraneità. Anche nel caso della coscienza assume i tratti propri del rispetto delle aiuole; rispettarle vuol dire astenersi dal calpestarle, non metterci sopra i piedi; starne fuori. Appunto così è oggi concepito il rispetto delle coscienze.
Nel caso della coscienza il rispetto non può assumere una figura tanto dimessa, come dovrebbe apparire subito chiaro a tutti. La coscienza di ciascuno, per potersi "realizzare", per uscire dunque da quella consistenza solo immaginaria che la minaccia, attende il riconoscimento di altri; e quel riconoscimento non è possibile se non a condizione di riconoscere una prossimità, e quindi anche il riconoscimento delle leggi sacre, che da sempre presiedono alla prossimità. Una reale prossimità è possibile infatti unicamente a questa condizione, che si riconosca come ci leghi gli uni agli altri una promessa, che si riconoscano quindi anche le leggi che sole rendono possibile la promessa, e si rispettino gli impegni conseguenti. La religione dev'essere intesa, in primissima battuta e in maniera certo ancora solo molto formale, appunto come il riconoscimento dell'istanza sacra che presiede alla prossimità reciproca; intesa in tal modo, essa è ingrediente essenziale del rispetto. Nel caso del cristianesimo poi, la fede in Dio addirittura coincide con l'amore del prossimo; ma tale amore non è certo inteso come condiscendenza remissiva alla volontà altrui: assume invece la figura di attesa assai determinata nei confronti dell'altro, impegnativa anche per lui. La forma originaria dell'imperativo dell'amore, la forma per sempre indimenticabile, è quella della Legge. Non dovrebbe stupire il fatto che l'amore impegni ad un rapporto di reciprocità responsabile. Non è un caso che i litigi più facili e dolorosi insorgano esattamente tra coloro più che si amano; essi hanno sempre la figura di conflitti religiosi; sempre riguardano - intendo dire - la rispettiva comprensione della legge sacra, che sta alla base dell'alleanza reciproca.
La cultura della tolleranza confina invece la religione entro lo spazio della coscienza soggettiva e sola, insindacabile e incomunicabile; in tal modo essa configura una sorta di rimozione, non solo della religione, ma della stessa coscienza; religione e coscienza non debbono interferire con le forme dei rapporti pratici quotidiani. Questi assumono, di conseguenza, la forma di rapporti "sociali", tra soci cioè e non tra prossimi; assumono dunque la forma di rapporti solo convenzionali, basati sul contratto, che molto assomigliano ai rapporti mercantili. Contro questo modo di pensare e di vivere i rapporti umani la coscienza cristiana non può che elevare una denuncia. E la forma tipica della denuncia è appunto la testimonianza.
L'annuncio della verità del vangelo non può evitare di valere come richiamo all'altro, agli altri tutti, perché tornino a un'alleanza dimenticata. La qualità dell'alleanza originaria, da sempre rimossa nella vita comune dei figli di Adamo, trova la rivelazione suprema attraverso la testimonianza (appunto) di Gesù. Egli fu ucciso non certo a motivo delle molte opere buone compiute, ma a motivo della sua incredibile e insopportabile pretesa di chiamare tutti a una conversione. Quale pegno della verità di questa sua pretesa egli offrì, alla fine, la sua stessa vita; soltanto sulla croce il suo appello assunse la forma compiuta e perfetta. Con grande forza iconica, il vangelo di Giovanni (19,37) suggerisce questa interpretazione sintetica della croce di Gesù: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto; le parole sono del profeta Zaccaria e interpretano il colpo di lancia con il quale uno dei soldati aprì il fianco del Crocifisso; attraverso il fianco trafitto uscì sangue ed acqua, uscirono i sacramenti, uscì addirittura la Chiesa quale sposa del nuovo Adamo dormiente. Tale lettura della croce fissa con precisione il destino testimoniale della Chiesa: essa dovrà essere nella storia universale il segno permanente dell'attesa elevata da Cristo nei confronti di tutti gli uomini.
Subito si capisce quanto poco condiscendente possa essere la predicazione della Chiesa nei confronti dei luoghi comuni della pretesa sapienza umana. La Chiesa è destinata ad essere il segno vivente dell' amore di Dio, e quell'amore è apparso fin dall'inizio come amore misconosciuto, rifiutato addirittura come fastidioso. La testimonianza non è soltanto uno tra i molti compiti della Chiesa; neppure è sufficiente dire che è il più importante. Essa definisce in radice l'identità della Chiesa: essa è testimonianza in favore del Verbo di Dio fatto carne a fronte di un mondo che sempre da capo lo respinge. Fin dall'inizio, egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe (Gv 1,10).
Nel lessico del cattolicesimo postconciliare la parola testimonianza ha assunto di fatto un grande rilievo, un rilievo addirittura strategico. A quella categoria è affidato con frequenza crescente il compito di suggerire la figura sintetica che deve realizzare la presenza del credente in mezzo ai suoi fratelli, rispettivamente il ministero della Chiesa tutta nella società secolare e dimentica di Dio. La categoria era di scarso impiego in stagioni precedenti del cristianesimo; il fatto che oggi essa sia privilegiata corrisponde - così interpretiamo a un'intuizione di fondo: è necessaria una riforma dello stile ecclesiastico rispetto alla tradizione recente. Più precisamente, appare urgente abbandonare quello stile "apologetico", che ha caratterizzato il ministero della Chiesa cattolica nella lunga stagione della sua polemica contro la nuova cultura laica e liberale. La categoria di testimonianza si candida appunto a valere come formula sintetica per significare uno stile non polemico, ma amichevole e irenico, della proposta religiosa. Testimone è chi non presume di insegnare, non si affida alle parole, ma soltanto opera; attraverso le forme pratiche della propria vita offre un segno della verità del vangelo; in particolare, attraverso le forme della solidarietà con chi è nel bisogno. Carattere pratico della testimonianza e privilegio accordato all' attenzione al povero, al marginale, in genere a chi soffre, costituiscono i due tratti più qualificanti assegnati oggi alla testimonianza cristiana.
Corrisponde questo identikit della testimonianza alla figura proposta dalla predicazione di Gesù e rispettivamente dagli scritti del Nuovo Testamento? Se ne deve dubitare. I due tratti indicati sono certo pertinenti, e tuttavia non rendono ragione dell'aspetto, essenziale, per il quale la testimonianza comporta l'appello dell'altro alla conversione, e dunque a una verità dell' alleanza umana che le forme correnti della vita comune negano. Limitarsi a quei due tratti vuol dire rimuovere la considerazione dell' aspetto per il quale la fede cristiana porta alla luce un conflitto. Gesù un giorno ha proposto ai suoi discepoli questa provocazione: Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada (Mt 10,34). La formula iperbolica e provocatoria documenta come fin dall'inizio le attese nei confronti di Gesù prendessero una direzione sbagliata; quella provocazione appare fino ad oggi pertinente e deve essere raccolta.
Al crescente uso del lessico della testimonianza non corrisponde fino ad oggi una consistente riflessione di carattere teologico. In particolare, decisamente rara e marginale è la letteratura dedicata all' attitudine di tale categoria a valere quale figura sintetica del rapporto tra uomo e verità; mentre una tale attitudine ci pare indubitabile. Il credente certo non "possiede" la verità, e neppure la "comprende"; soltanto l'attesta, ad essa cioè rimanda con tutte le sue parole e con tutta la sua vita. Attestare non è poco, anzi è il massimo. In tal senso la figura della testimonianza ha di che correggere non solo le forme convenzionali della comunicazione cristiana, ma l'idea stessa di verità. Di contro alle immagini raccomandate da una lunga tradizione filosofica, e rispettivamente dal moderno sapere delle "scienze", la verità non ha affatto la consistenza di "oggetto" suscettibile di essere accertato ponendosi in una prospettiva universale e astratta, in tal senso appunto" oggettiva", slegata cioè da ogni riferimento al soggetto; essa ha invece in radice la consistenza di voce che chiama; può conoscere quella voce e dare ad essa parola soltanto chi alla voce risponde. La verità riguarda tutti, certo; e tuttavia a tutti può essere resa nota, rispettivamente deve diventare nota, unicamente attraverso la mediazione del consenso libero della fede. In tal senso essa può essere a tutti notificata unicamente mediante la testimonianza.

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La categoria di testimonianza appartiene al lessico irrinunciabile della tradizione cristiana; su questo non può sussistere dubbio. Non solo, essa definisce in maniera sintetica la forma necessaria che la fede nel vangelo di Gesù deve assumere sullo scenario pubblico della vita dei figli di Adamo. Questa espressione, figli di Adamo, suona per se stessa come tendenziosa; insinua infatti un giudizio sulla storia universale.
Effettivamente, la categoria di testimonianza suona per se stessa come tendenziosa; rimanda infatti a una distanza della verità, alla quale è resa testimonianza, da tutto ciò che è considerato come scontato nella vita comune degli uomini. A tale distanza è sotteso un giudizio: la vita comune degli umani è nel segno della menzogna; essa è attraversata dalla rimozione della verità, che la fede riporta invece al centro. In tal senso, la testimonianza non può che apparire "inurbana", difforme dagli idola fori. Di tale profilo polemico della testimonianza non si trova riscontro nell'uso corrente che della parola oggi fa il lessico cattolico.
Il rilievo centrale della testimonianza è raccomandata già dai testi evangelici, i quali pure non fanno ancora un uso tecnico del lessico corrispondente. Il riferimento alla testimonianza interviene, in particolare, nei discorsi con cui Gesù istruisce i suoi circa la loro missione futura: Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe, comparirete davanti a governatori e re a causa mia, per render testimonianza davanti a loro (Mc 13,9). Prima ancora, la categoria interviene nelle parole con le quali Gesù accompagna il divieto ai miracolati di fare pubblicità dei suoi gesti; il lebbroso guarito, ad esempio, non deve dir niente a nessuno, deve invece presentarsi al sacerdote, offrire per la sua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro (Mc 1,44).
La categoria è raccomandata poi, in forme più precise e diffuse, da tutti gli scritti del Nuovo Testamento. Le immagini che vengono più facilmente alla memoria del cristiano sono quelle del racconto degli Atti degli Apostoli, dedicati nel loro insieme al racconto della testimonianza, appunto, che con grande forza gli apostoli rendevano della risurrezione del Signore Gesù; così è espressamente scritto nel secondo ritratto della comunità di Gerusalemme (At 4,33). Fin dal principio la missione dei Dodici è definita da Gesù come quella d'essere testimoni: Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni (in greco, martyres) a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra (At 1,8). La parola greca martire, in Atti non ha ancora il senso cruento, che diverrà invece poi caratteristico della lingua cristiana; e tuttavia già in Atti è chiaramente descritto il volto agonistico, che la testimonianza cristiana inesorabilmente prende. Il documento più chiaro a tale riguardo è il caso di Stefano: la sua testimonianza in favore di Gesù ha la forma di un discorso davanti al sinedrio; Stefano è lì condotto come imputato, ci si aspetterebbe dunque che il suo discorso fosse un' apologia della propria persona; egli fa invece un discorso di accusa; anche sotto tale profilo la sua vicenda ripete quella di Gesù, che, chiamato a difendere se stesso davanti al sinedrio, invece accusa.
L'elaborazione riflessa più consistente della categoria di testimonianza è quella proposta dal vangelo di Giovanni; in esso l'attenzione alla testimonianza appare strettamente connessa al profilo giudiziale che assume il messaggio tutto di Gesù per rapporto ai modi di sentire, di pensare e di giudicare di questo mondo. Non debbono ingannare gli stereotipi facili talvolta usati, e troppo disinvoltamente usati, quelli cioè che definiscono il quarto vangelo come vangelo dell'amore; il suo aspetto più appariscente, e anche più sconcertante, è l'aspetto polemico. I capitoli centrali del vangelo, dedicati alla cosiddetta vita pubblica di Gesù (in specie i cc. 5-12), hanno l'aspetto di un'interminabile disputa. Gesù afferma espressamente che Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è giudicato (3,17-18a); e tuttavia subito aggiunge che chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio (3,18b). La recensione del confronto tra Gesù e i Giudei, d'altra parte, mostra con implacabile costanza che essi non credono; essi dunque sono giudicati. Il giudizio è già anticipato nel dialogo con Nicodemo, dal quale sono tratte le citazioni precedenti. Nicodemo è un fariseo membro del sinedrio; e tuttavia egli è ben disposto nei confronti di Gesù; va infatti a trovarlo con l'intenzione sincera di apprendere qualche cosa di più a proposito di Dio; ma lo va a trovare di notte; la scelta gli è raccomandata dal carattere soltanto "interiore" e discreto dei temi che intende affrontare con lui. Gesù lo fredda e gli segnala che, per vedere il regno di Dio, occorre invece rinascere dall' alto, ricominciare da capo, e da altrove; non si può aggiungere la dottrina di Gesù alla vita vecchia; occorre invece cambiare in radice la vita. La cosa pare a Nicodemo impossibile; Gesù si stupisce per la sua incomprensione:

Tu sei maestro in Israele e non sai queste cose? In verità, in verità ti dico, noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (Gv 3,10-15).

L'uso della prima persona plurale, noi parliamo, sorprende; a chi si riferisce questo noi? La lettura più attendibile riferisce il noi ai discepoli di Gesù, rispettivamente ai cristiani tutti, che dopo la Pasqua vivono l'esperienza di un'invincibile incomprensione da parte dei Giudei; la loro testimonianza in favore di Gesù, passato sulla terra e non compreso, tanto meno è compresa ora che egli è innalzato da terra; il suo paradossale innalzamento da terra alla gente del mondo appare come sanzione della sua sconfitta e del suo torto. A giudizio dell'evangelista il rifiuto di credere sanziona invece l'inevitabile condanna di coloro che lo hanno respinto; il loro rifiuto nasceva dalla qualità delle loro opere:

Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio (Gv 3,20-21).

La testimonianza cristiana è destinata per sua natura a suscitare conflitti, appunto perché porta alla luce la qualità delle opere rispettive. La predicazione del vangelo di Gesù mira obiettivamente a questo, dare figura nuova alla vita tutta di chi crede, e figura alternativa rispetto a quella assegnata agli umani dalla loro eredità adamitica. La fede assume di necessità forma di conversione. Il battesimo, sacramento della fede, ha appunto la forma di una conversione. Il peccato da cui prendere le distanze non è solo quello personale, è invece quello iscritto nella condizione comune; è in tal senso il peccato del mondo, che l'Agnello di Dio è venuto a togliere, caricandosene il peso sulle spalle. La rinuncia battesimale comporta la presa di distanza da questo peccato, fornite certo anche di peccati personali.
Per comprendere questa figura del peccato del mondo occorre decisamente uscire dalla prospettiva che considera la cultura, il complesso delle forme mediante le quali sono articolati i significati elementari nella vita comune di ogni popolo, come realtà indifferente; soprattutto, come realtà che non sopporta un giudizio nella prospettiva della verità. I luoghi comuni del pluralismo delle culture, rispettivamente dell'insuperabile relatività di ogni cultura, riflettono questa concezione che pregiudizialmente separa cultura e verità, dunque anche cultura e natura, e cioè identità radicale e universale dell'umano.
La configurazione della vita suscitata dalla fede non si realizza in un attimo; non basta in tal senso il battesimo, celebrato una volta per tutte; quella configurazione esige invece una continua ripresa, e addirittura una lotta. Le forze del peccato del mondo premono infatti sempre sulla vita stessa del credente e la sollecitano ad assumere forme contraddittorie rispetto a quelle suggerite dalla fede. In tal senso la conversione battesimale attende d'essere effettivamente realizzata nella vita di ogni giorno.
Illuminante a tale riguardo è l'immagine suggerita da Clemente Alessandrino. Egli paragona il battesimo che sta agli inizi della vita cristiana alla chiglia, indispensabile certo per dirigere la nave, e tuttavia insufficiente per navigare. Per navigare occorre il vento. Ora il vento è immagine dello Spirito, che soffia dove vuole. Clemente distingue nella conversione cristiana tre aspetti o tre momenti, che corrispondono alle tre diverse opere del Verbo, rispettivamente alle tre diverse forme della vita: i costumi, le passioni e le azioni:

Ci sono infatti nell' essere umano tre cose: i costumi, le azioni e le passioni. Il Verbo che converte s'è preso carico dei costumi: guida della religione, egli sta sotto l'edificio della fede come la chiglia sta sotto la nave. A causa di lui, noi siamo pieni di gioia, abbandoniamo le nostre antiche credenze e ringiovaniamo in vista della salvezza; noi uniamo le nostre voci a quella del profeta, che canta Quanto Dio è buono per Israele, per quelli il cui cuore è retto. Un Verbo dirige anche tutte le nostre azioni: è il Verbo consigliere. Un Verbo anche guarisce le nostre passioni: è il Verbo pacificante. Ma in tutte le sue funzioni è sempre l'unico Verbo che strappa l'uomo alle sue abitudini naturali e legate al cosmo, e che lo conduce come pedagogo alla salvezza senza uguali della fede in Dio (1).

La chiglia corrisponde dunque alla regola dei costumi, indispensabile, ma non sufficiente. Perché la nave non sia sballottata da tutti i venti, perché il cammino del cristiano non sia sballottato dalle mutevoli passioni, non basta la legge intesa come regola delle azioni fissata una volta per tutte; occorre invece il discernimento delle passioni. Queste sono plasmate dalla pressione di modelli dubbi, quali quelli proposti dal contesto sociale; per riconoscere lo spirito che ci guida e accedere così alla verità delle azioni, occorre esorcizzare la menzogna del peccato del mondo. La lotta contro l'inganno delle passioni, d'altra parte, è interminabile, come interminabile è la pressione esercitata dall' eredità di Adamo.
La contraddizione tra peccato del mondo e giustizia che nasce dalla fede illumina il senso della testimonianza cristiana. Principio dell' agire del cristiano deve essere quella verità nota alla fede, che rimane invece nascosta alla sapienza di questo mondo, segnata dalla menzogna. L'obbedienza alla verità del vangelo comporta in tal senso la confutazione dei luoghi comuni sottesi alla convivenza umana. Il cristiano depone a favore di Gesù in quel processo che costantemente lo oppone a questo mondo. Gesù rimane infatti sempre sotto processo; e di riflesso rimane sempre esposto a processo anche il mondo ad opera del vangelo. Il cristiano è testimone appunto in questo processo; la testimonianza deve essere intesa in accezione propriamente giudiziale.

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L'uso corrente che oggi viene fatto della categoria di testimonianza non ha occhi per questo suo profilo polemico. La rinnovata fortuna della categoria si produce nella stagione postconciliare, che decisamente privilegia il programma del" dialogo" e della riconciliazione con il mondo contemporaneo; l'idea di testimonianza è piegata alle necessità di questo dialogo. Il nostro intento è appunto quello di argomentare questa denuncia, e chiarire quindi gli equivoci che l'uso irenico dell'idea di testimonianza genera.
L'apologia del" dialogo" ha certo anche ragioni di pertinenza; esprime dunque un'istanza che, in un modo o nell'altro, deve essere recepita. Le ragioni di pertinenza s'intendono sullo sfondo della forma "intransigente" che ha caratterizzato la prima risposta del cattolicesimo dell'Ottocento alle deprecate novità moderne. Di contro a quella forma "intransigente", occorre riconoscere la necessaria mediazione culturale della fede. La verità del vangelo non è quella di una "dottrina", in ipotesi conosciuta una volta per tutte, che potrebbe in tal senso divenire principio di un giudizio universale. Appunto l'illusione di una presunta definizione della dottrina a monte di ogni riferimento alle forme storiche della cultura autorizzava il progetto di una "civiltà cattolica", La verità del vangelo deve invece essere sempre da capo riconosciuta, e quindi anche confessata - testimoniata, appunto -, attingendo ad evidenze di senso, che soltanto attraverso le forme del rapporto civile si dischiudono. La distanza critica, che la coscienza credente deve avere nei confronti della cultura in genere, e della cultura del tempo in particolare, non dispensa il cristiano dalla necessità di riferirsi ad evidenze, che proprio attraverso le forme del rapporto civile si dischiudono; quelle evidenze comportano il rimando a una verità ultima, o escatologica, alla quale il vangelo dà forma.
La fedeltà al vangelo non può che essere "intransigente", certo; in tal senso non può inseguire quello spasimo di apparire sempre" attuale", che pare invece caratteristico della comunicazione pubblica nel nostro tempo. La fedeltà deve sopportare l'inattualità, la distanza inesorabile cioè tra verità del vangelo e fugacità dell' opinione. In tal senso deve realizzare la forma della testimonianza, e non del dialogo. E tuttavia l'intransigenza della fede non va intesa quasi fosse fedeltà a una verità da sempre nota, fissata nella lettera del Libro santo o addirittura nella lettera di un catechismo; è invece fedeltà allo Spirito, il quale soltanto attraverso i segni del tempo parla. TI necessario "aggiornamento" delle forme teoriche pratiche del cristianesimo non può essere inteso quasi comportasse la disposizione a una continua "negoziazione" della verità del vangelo con la verità del tempo; deve invece essere inteso come riflesso della costante attenzione ai segni dello Spirito, che giudica ogni cosa.
L'impossibilità di pensare l'aggiornamento necessario in termini di resa pura e semplice al cosiddetto "moderno" è ulteriormente raccomandata da una precisa evidenza: il "moderno" conosce oggi visibili segni di crisi. Da più parti è addirittura proclamata la sua fine. Formule tanto semplicistiche appaiono precipitose; e tuttavia la transizione civile presente porta effettivamente alla luce problemi obiettivi, troppo a lungo rimossi dalla tanto celebrata epopea civile moderna, tollerante e liberale, e rimossi anche da cattolicesimo intransigente. La crisi è segnalata dalla macroscopica difficoltà che conoscono i processi educativi, dunque i processi di identificazione del singolo, che un tempo parevano invece realizzarsi senza necessità di essere pensati in maniera riflessa. Sullo sfondo di tali difficoltà sta la palese inettitudine della famiglia contemporanea a realizzare il proprio compito; pensiamo in particolare al compito, inevitabile, di fungere quale luogo primario della tradizione culturale, e quindi anche della tradizione religiosa. Nelle immagini correnti, alla famiglia sono oggi assegnati soltanto compiti di rassicurazione affettiva. Questa figura ridotta è incoraggiata da fattori connessi alle forme complessive dello scambio sociale nella società complessa. Pare poi per altro aspetto sanzionata dalla piega "romantica" che ha assunto la moderna cultura liberale del soggetto.
S'impone dunque alla coscienza cristiana un compito critico nei confronti della cultura moderna. Per realizzare una tale critica essa dispone di risorse indubbie raccomandate dalla sua tradizione; e tuttavia tali risorse sono destinate a rimanere solo virtuali, fino a che non si produca una riflessione di carattere teorico a proposito dei complessi rapporti che legano la fede alle forme antropologiche della vita comune. Soltanto una riflessione così predisporrà le categorie necessarie per confrontarsi con la stessa dinamica antropologico-culturale effettiva. Esattamente la crisi presente del rapporto tra le generazioni, assai appariscente, impone con rinnovata evidenza all' attenzione di tutti l'obiettiva qualità testimoniale che l'opera dei genitori assume agli occhi dei figli. La categoria cristiana di testimonianza propizia in tal senso la comprensione dell' esperienza umana universale.
Il compito critico imposto alla coscienza cristiana nei confronti della cultura contemporanea esige sostanziali approfondimenti nei modi di pensare l'esperienza umana in genere. Uno di tali approfondimenti è proprio questo: mettere in luce come l'agire umano abbia sempre e di necessità valore testimoniale; sempre esprime infatti una promessa; lo fa molto prima e molto più di quanto riconosca il soggetto dell' agire. Questi deve alla fine rendersene conto; deve riconoscere cioè quella parola che, pure non deliberata, è obiettivamente iscritta nelle forme elementari del suo agire; deve quindi confermare quella parola con la sua promessa deliberata e consapevole. Le rappresentazioni correnti dell' agire, rispettivamente del rapporto tra soggetto e agire, paiono pregiudicare la possibilità di comprendere tali nessi; pregiudicano quindi anche la possibilità di riconoscere che il soggetto accede alla propria identità unicamente mediante le forme dell' agire. Le forme dell' agire, d'altra parte, sono di necessità mediate dalla cultura, dunque dalle forme simboliche iscritte alla radice della vita comune. La cultura è però soltanto una mediazione; essa rimanda a una verità, che non può mai definire in forma compiuta; appunto a tale verità è possibile accedere unicamente mediante la fede.
La formula che riconduce la vita cristiana alla figura della testimonianza impegna obiettivamente al compito di rendere ragione della verità del vangelo di fronte a tutti; impegna in tal senso al confronto senza limiti con tutte le espressioni dello spirito umano, con ogni esperienza individuale e con ogni cultura. E tuttavia tale confronto non può assumere la forma troppo debole di un "dialogo" infinito e inconcludente; deve assumere invece la forma di attestazione di una verità che tutti interpella. Di fatto accade invece che il ricorso alla categoria della testimonianza sia realizzato oggi in forme tali da sanzionare il carattere autoreferenziale della parola cristiana; questa realizzerebbe un annuncio che trova la propria figura a monte rispetto a ogni confronto con discorsi solo umani; quel confronto infatti indurrebbe ad annacquare il vino del vangelo. il privilegio della categoria della testimonianza propizia spesso una declinazione precipitosamente kerygmatica della verità cristiana; l'intento sotteso è quello di immunizzare la predicazione cristiana nei confronti dei rischi di contaminazioni con la sapienza degli uomini; il risultato effettivo è quello di abdicare al compito del giudizio, che invece è irrinunciabile per il cristiano: 1'uomo spirituale infatti giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno (1 Cor 2,15).
Tra il compito della testimonianza cristiana e l'esame delle forme che assume l'esperienza umana universale sussiste un nesso stretto. Appunto al chiarimento di tale nesso è rivolta la nostra riflessione. Essa non intende essere un trattato teologico e sistematico sulla testimonianza cristiana; preferisce invece la forma della meditazione "non scientifica", che si rivolge a ogni coscienza cristiana. La forma riflette l'origine del saggio; esso riprende i contenuti di una catechesi parrocchiale. La stessa disposizione delle materie è quella suggerita non da un indice sistematico, ma dal proposito di un accostamento progressivo al tema.
All'istruzione dell'interrogativo sono dedicati i primi due capitoli. Più precisamente, il cap. 1 propone una ricognizione descrittiva delle forme che assume il ricorso alla categoria della testimonianza nella lingua cattolica oggi corrente, cerca quindi di suggerire gli interrogativi accesi da quell'uso. Il cap. 2 propone invece un abbozzo di riflessione antropologica, intesa a chiarire la figura della testimonianza quale legge universale della vita umana; non possiamo non essere testimoni, e tuttavia non è subito chiaro come possiamo effettivamente esserlo. Soltanto sullo sfondo di questa obiettiva e universale destinazione degli umani alla testimonianza è possibile intendere il senso della testimonianza nella prospettiva della fede nel vangelo di Gesù.
Dopo questa prima istruzione del tema tenteremo una rinnovata lettura del messaggio delle Scritture cristiane a proposito della testimonianza. Assolutamente privilegiati sono gli scritti del Nuovo Testamento, nei quali soltanto la figura della testimonianza trova la sua caratterizzazione propriamente cristiana. E nel quadro di quegli scritti attenzione preliminare e determinante è ovviamente accordata ai vangeli (cap. 3); più precisamente, all'insegnamento e alla vicenda di Gesù, che appunto nei vangeli trova attestazione; a quell'insegnamento e a quella vicenda occorre sempre da capo riferirsi, per comprendere le successive elaborazioni teologiche. La figura della testimonianza cristiana trova il suo fondamento remoto nei gesti di Gesù, e più precisamente nella loro qualità di segni; essi rimandano a una verità futura, che al momento sfugge; tale rimando è invece respinto dalle folle, le quali dei suoi gesti si appropriano quasi fossero cosa conclusa. Le folle tentano di appropriarsi della sua stessa persona, quasi che essa fosse per loro già al presente ragione di vantaggio; in tal modo il rimando obiettivo di Gesù a un futuro che sfugge genera un conflitto con le folle. A quel rimando sono invece iniziati i discepoli, chiamati alla consuetudine di vita con Gesù esattamente in vista della loro futura testimonianza; essi vivono al seguito di Gesù, in maniera per così dire passiva e inconsapevole, un destino del quale potranno e dovranno invece appropriarsi soltanto in seconda battuta mediante scelta consapevole; la loro fede pasquale assumerà appunto la forma dell' appropriazione di una vita vissuta in prima battuta come portati in braccio (cap. 5). Della vicenda dei discepoli cercheremo di mettere in evidenza la valenza ermeneutica per rapporto alla condizione umana universale: ciò che essi vivono porta alla luce la verità nascosta della vicenda di ogni nato di donna.
Al fine di propiziare l'evidenza di tale nesso - tra esperienza della fede e della sequela da un lato, esperienza umana universale dall' altro - inseriamo tra i due capitoli una riflessione di carattere antropologico (cap. 4), dedicata al soggettivismo, e cioè a quella concezione del soggetto che presume di definirne la figura a monte rispetto alla sua obiettiva referenza ad altro da sé. Una tale concezione attraversa tutta la tradizione occidentale e costituisce una remora consistente alla comprensione della testimonianza cristiana; assume per altro tratti assai diversi nella stagione antica e in quella moderna; prendere atto di tale differenza pare condizione necessaria per chiarire il senso della testimonianza nella stagione contemporanea.
La distinzione tra la forma che la fede assume in quei singoli - malati, peccatori, poveri - che Gesù incontra nel suo cammino e la forma che essa assume invece nei discepoli seguaci illumina la parallela distinzione che, in ogni tempo della storia, deve essere fatta tra fede senza confessione e fede che invece si confessa (cap. 6); la distinzione appare di rilievo fondamentale in un tempo come il nostro, nel quale pare che la fede assuma soprattutto forma non confessionale.
Sullo sfondo della precedente considerazione evangelica sarà poi possibile prendere in esame le elaborazioni teologiche, che il tema della testimonianza conosce negli altri scritti del Nuovo Testamento e cioè in Atti (cap. 7), in Paolo (cap. 8) e soprattutto in Giovanni (cap. 9), il vangelo che dedica a quel tema gli sviluppi più espliciti, e anche più radicali. Concluderemo con una breve ripresa sintetica, nella quale cercheremo di proporre in forma concisa la figura cristiana della testimonianza e il suo valore decisivo in ordine alla comprensione del difficile rapporto tra cristianesimo e forme della cultura del nostro tempo.

 

1. Il ritorno della testimonianza

Come già sopra anticipavamo, la parola testimonianza non apparteneva al lessico comune (catechistico) del cattolicesimo convenzionale (2); neppure apparteneva al lessico corrente del cattolicesimo nella lunga stagione precedente, quella dunque della societas christiana. In tal senso, non deve troppo stupire che quella categoria non abbia conosciuto consistenti approfondimenti teorici nella grande tradizione della teologia, quella scolastica. Assistiamo invece a un significativo ritorno della categoria nella stagione successiva al Vaticano IL Quali le ragioni che stanno alla base di tale ritorno?
Si potrebbe pensare che determinante sia stata l'incidenza del generale ritorno alla Bibbia; il lessico della testimonianza appartiene infatti chiaramente ai testi del Nuovo Testamento e ha in essi un rilievo assolutamente centrale. Il ritorno al testo biblico concorre certamente all' affermazione della categoria; e tuttavia non sembra affatto il fattore determinante; è anzi dubbio che il senso del lessico della testimonianza nella lingua oggi corrente corrisponda a quello suggerito dal Nuovo Testamento.
La fortuna della categoria trova invece trasparente alimento, come già si diceva nell'introduzione, nel profondo mutamento di registro che hanno conosciuto i rapporti tra Chiesa cattolica e mondo moderno. La Chiesa cattolica è passata dal registro polemico a un registro decisamente irenico. Su tale sfondo è assegnato alla fede un compito, che prima appariva sostanzialmente sconosciuto: quello dell' annuncio. Che compito è questo? Non ci si può più accontentare ormai di richiamare tutti alla verità della fede, a procedere dall' assunto - non più verificato - che essa, pure per molti aspetti tradita, sia a tutti ben nota. Quella verità ha bisogno invece d'essere da capo annunciata. Precisamente al rinnovato annuncio deve provvedere la testimonianza. E d'altra parte tale annuncio si realizza, assai più che attraverso parole ed esortazioni, attraverso la qualità dell'agire.

Testimonianza della verità, o della propria esperienza?

Il cattolicesimo convenzionale condannava il mondo moderno come eresia; più precisamente come rottura del legame sociale sancito dalla tradizione comune. La cultura liberale moderna è attraversata infatti dall' assunto pregiudiziale per il quale il confronto civile dovrebbe prodursi in forme laiche, sospendendo ogni consenso alla visione del mondo raccomandata da quella tradizione, che appariva appunto come connotata in senso religioso. A tale rottura il cattolicesimo convenzionale oppone un' obiezione di coscienza; essa persegue in tal senso un programma di "restaurazione" cattolica. Nelle nuove forme conciliari e dialogiche invece il cattolicesimo prende decisamente le proprie distanze dalla condanna pregiudiziale del moderno, abdica a ogni pretesa di egemonia civile, e rinuncia a proporsi come orizzonte sintetico e obbligato dei rapporti sociali. L'annuncio cristiano si rivolge alla coscienza dei singoli e alla loro decisione libera. Appunto su questo sfondo deve essere intesa la fortuna della categoria di testimonianza. n cristiano non rivendica, solo attesta. Chi è testimone non insegna, né tanto meno prescrive: semplicemente dice la propria esperienza. Anzi, neppure è necessario e opportuno che dica; basta che viva praticamente la propria fede: in tal modo egli offre la propria vita quale documento della verità in cui crede. Quanto a vedere riconosciuta o meno la verità di quel messaggio, semplicemente si rimette alla libera decisione di ciascuno.
La figura della testimonianza cristiana e la sua necessità sono state spesso suggerite attraverso la citazione di un imperativo proposto nella prima lettera di Pietro: siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Questa citazione ha conosciuto una straordinaria fortuna nella lingua del cattolicesimo postconciliare; è stata scelta come esergo anche dal recente Convegno di Verona della Chiesa italiana (16-20 ottobre 2006). Quella raccomandazione equivale all'imperativo della testimonianza. La speranza che è in voi non deve essere da voi considerata come cosa esclusivamente vostra; essa è invece la speranza di tutti, e dunque nei confronti di tutti dovete riconoscervi in debito. Tutti sono autorizzati a chiedere ai cristiani ragione della loro speranza. Il testo è stato citato spesso a conforto di una figura della testimonianza che la intende quale impegno a rendere ragione della propria fede di fronte a tutti. La forma della proposta cristiana sarebbe quella raccomandata dalla persuasione personale; solo di proposta si tratterebbe, non invece di proclamazione perentoria che attende il consenso di tutti. Il passo della lettera di Pietro, entro il quale è proposto quell'imperativo, propone effettivamente una caratterizzazione sintetica della testimonianza cristiana; merita di essere letto in forma un poco più estesa:

Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo (1 Pt 3,14b-16).

La testimonianza è qui tratteggiata dunque anzi tutto come una forma del comportamento, connotata da dolcezza e rispetto. Il testo mostra tuttavia come il contesto che sollecita la testimonianza sia quello dell'incomprensione, addirittura della franca ostilità. La testimonianza raccomandata si rivolge in tal senso a coloro che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. Di più, essa deve essere resa con retta coscienza; l'espressione sottolinea il nesso tra la testimonianza e la coscienza; per il proprio comportamento il testimone cerca sostegno in una persuasione interiore, che gli viene soltanto da Dio, e non invece dagli interlocutori ai quali di volta in volta si rivolge; retta è la coscienza quando l'attenzione alla voce interiore prevale rispetto ad ogni risentimento e desiderio di rivalsa nei confronti dell'interlocutore. Soprattutto, è qui chiaramente precisato che la testimonianza deve trovare sostegno non nei discorsi, ma nella buona condotta; appunto da una tale buona condotta è attesa la confusione degli interlocutori.
Questa raccomandazione a rendere ragione della speranza trova la propria giustificazione prossima sullo sfondo del disprezzo, di cui il cristiano è fatto oggetto; tale disprezzo preme nel senso dell' abdicazione alla speranza e della resa ai modi di sentire e di giudicare di tutti. La testimonianza può essere resa soltanto a condizione che l'obbedienza alla verità del vangelo liberi il credente da ogni ricerca di complicità umana; proprio mediante una tale libertà è attestata la speranza. La confusione degli interlocutori, espressamente attesa, non deve venire dalla disputa, ma dalla forza di una testimonianza pratica, la quale ha il potere di entrare dentro i cuori e di produrre vergogna. La figura della vergogna - merita di ricordarlo - è quella privilegiata dalla tradizione pitagorica per descrivere il fenomeno della coscienza morale; pensiamo alla famosa massima: Vergognati di fronte a te stesso più che di fronte agli altri (3). La testimonianza cristiana si appella dunque alla segreta complicità della coscienza dell'uditore. Qui, come per altro sempre nel Nuovo Testamento, la testimonianza ha una declinazione fondamentalmente polemica.
L'aspetto polemico della testimonianza trova espressione assai netta in una delle parole di Gesù, che ne definiscono nella forma più icastica il senso, e insieme la necessità; lungo il cammino che lo conduce verso Gerusalemme, incontro alla sua passione, Gesù dice ai discepoli:

Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell'uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio; ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio (Lc 12,8-9).

Sullo sfondo di tale promessa, e insieme di tale minaccia, sta una figura del rapporto tra Gesù e gli uomini segnata dal tratto di una fondamentale ostilità reciproca. In tal senso, i discepoli saranno chiamati dagli uomini a rispondere del loro legame con Gesù quasi si trattasse di una colpa. A motivo della loro fede essi saranno processati; la loro confessione di fede assumerà dunque la forma di una rischiosa deposizione processuale. li nesso diventa esplicito nelle parole che subito seguono nel vangelo di Luca:

Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire (Lc 12,11-12).

Proprio il processo è il contesto esistenziale entro il quale trova la sua originaria definizione la figura del testimone. Non stupisce che la raccomandazione di rendere testimonianza torni sempre in contesti nei quali è annunciata la futura persecuzione dei discepoli. A questa figura della testimonianza quale deposizione di processo corrisponde, nella storia del cristianesimo delle origini, la figura del martire (che alla lettera significa testimone), il primo modello della santità cristiana.
Nel rinnovato e assiduo uso che ne fanno i discorsi correnti, la categoria della testimonianza assume invece connotazione fondamentalmente irenica. La categoria non rimanda in alcun modo a una situazione processuale; rimanda invece a una situazione sociale e culturale, nella quale le parole di carta paiono aver sostituito e rimosso le parole più originarie, quelle che sole sono in grado di istituire il senso di tutte le cose, e quindi il senso della vita stessa; sono in grado, più precisamente, di istituire la speranza della vita. Chiamiamo parole di carta quelle che rimandano subito, sempre e solo ad altre parole, senza che mai si riesca ad uscire dal reticolo leggero dei discorsi. Chiamiamo invece parole originarie (4) quelle capaci appunto di rimandare alle cose stesse, e di portarne ad evidenza la ragione di prossimità alla vita umana. Nella percezione diffusa parole così non possono essere quelle pronunciate soltanto mediante la bocca; sono invece soltanto le parole pronunciate mediante la vita stessa, mediante la qualità delle opere. In tal senso è fatto ricorso alla categoria di testimonianza per definire il messaggio espresso da concrete esperienze di vita. La comunicazione di tali esperienze dovrà certo far ricorso anche alle parole; ad esse tuttavia è assegnato il compito di dire l'esperienza stessa, di volgere dunque l'attenzione di altri a quanto il singolo vive.
Il riferimento all' esperienza effettiva del credente appare certo essenziale per intendere la figura cristiana della testimonianza; essa non si riferisce a un libro, fosse pure il vangelo, ma appunto a una verità che può essere attinta soltanto attraverso l'esperienza vissuta dal credente.
E tuttavia oggetto della testimonianza non è certo l'esperienza del credente, ma la verità stessa del vangelo, alla quale in ipotesi l'esperienza rimanda e che solo attraverso la mediazione di tale esperienza può essere conosciuta.
La forma tipica nella quale si realizza il rimando della vita cristiana alla verità trascendente del vangelo è quella della "trasgressione". Il cristiano trasgredisce le leggi non scritte della complicità ammiccante, che caratterizza invece il regime dei rapporti umani nella tradizione comune dei figli di Adamo.
Attraverso tale complicità gli uomini cercano gloria gli uni dagli altri, cercano in tal modo di sottrarsi al compito troppo arduo di cercare la gloria che soltanto da Dio può venire. E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo? (Gv 5,44); così Gesù obietta ai Giudei, in un discorso tutto dedicato al tema della testimonianza, che poi considereremo in maniera esplicita (5).
Esattamente nella prospettiva della sporgenza della parola che confessa la fede, e prima ancora dell' agire autorizzato dalla fede, rispetto alle leggi della complicità umana deve essere intesa la figura di testimonianza, che di necessità assume la vita cristiana. Non deve sorprendere in tal senso che la testimonianza sia legata in radice al giudizio, e quindi al conflitto che esso genera.

Testimoni dell'invisibile?

Una seconda caratteristica dell'uso presente che la lingua cattolica fa della categoria di testimonianza è la stretta associazione che essa suppone tra testimonianza e carattere invisibile del messaggio. Oggetto della testimonianza sarebbe in tal senso di necessità ciò che è invisibile. Considerevole fortuna ha conosciuto la qualifica del cristiano come "testimone dell'invisibile" (6). La verità cristiana oggetto di testimonianza minaccia in tal modo d'essere pregiudizialmente pensata come una verità di carattere esoterico, slegata dalle forme visibili del rapporto umano così come esso si articola nelle forme quotidiane dell' agire. Anche per rapporto a questo profilo appare necessaria una puntuale verifica del senso della testimonianza a procedere dai testi del Nuovo Testamento. Davvero la verità del vangelo può essere qualificata come verità di un altro mondo? Di un mondo dunque totalmente altro rispetto a quello da tutti abitato e ben visibile? La verità del vangelo in certo senso può effettivamente essere qualificata come "invisibile"; essa è però invisibile al modo in cui invisibili sono le cose che gli uomini tengono nascoste; non invece al modo in cui lo sono le cose delle quali manchi ogni traccia nelle forme della vita comune.
L'associazione tra la testimonianza e l'invisibile trova alimento in un altro tratto caratteristico della religione moderna, quello per cui suo requisito essenziale sarebbe l'interiorità; la verità del vangelo sarebbe iscritta già da sempre dentro la vita di ogni uomo. Tra interiorità e religione il rapporto è nella percezione diffusa tanto stretto, da terminare alla pura e semplice identificazione: la religione sarebbe l'interiorità.
Davvero la verità della religione sta dentro l'uomo? oppure sta sopra? Sta dentro, nel senso in cui si dice che lo Spirito parla dentro a ogni uomo. E tuttavia la voce dello Spirito, anche se rimane in prima battuta senza parole, è obiettivamente iscritta in quelle forme del rapporto umano, mediante le quali soltanto è consentito al singolo di diventare un "io", un soggetto libero, che può e deve decidere di sé. Per altro aspetto, e più fondamentale, lo Spirito sta sopra ogni uomo, lo trascende; viene prima di lui, e insieme è più grande di lui. Lo Spirito rivolge ogni uomo a un Signore che lo supera. Appunto questa è la verità che il mondo non ha conosciuto.
Nella vita di ogni uomo è operante una verità che sta sopra e prima di lui; essa sola permette all'uomo di venire a capo di se stesso; quella verità è fin dal principio e mediante essa sono state fatte tutte le cose. Di questa verità (il logos) parla il prologo di Giovanni come di luce che splende nelle tenebre e che le tenebre hanno soffocato. Appunto una tale verità porta alla luce il Verbo fatto carne. Il mistero principale della fede cristiana è appunto quello dell'incarnazione; e soltanto a procedere dalla carne del Verbo è possibile comprendere il senso e la necessità della testimonianza cristiana.
La religione dei moderni, e soprattutto quella dei postmoderni, appare assai distante dall'idea di una possibile incarnazione di Dio; essa avvolge invece Dio nelle nebbie impenetrabili dello spirito soggettivo. Così si atteggia non solo la religione dei moderni, ma già la religione di quelli presso i quali trovò la sua prima diffusione la predicazione cristiana; prima ancora, così si atteggiava la religione di coloro che furono testimoni oculari della sua opera. Fin dall'inizio infatti egli fu respinto dal sistema religioso giudaico a motivo di una sua pretesa troppo sospetta, quella di coinvolgere Dio stesso nei suoi modi di dire e di fare.
Illustra efficacemente il rifiuto opposto al Figlio di Dio fatto uomo la figura di Giovanni Battista, così come tratteggiata nel quarto vangelo; essa appare come il modello della stessa testimonianza cristiana. Vengono da lui i farisei mandati da Gerusalemme, per interrogarlo, e gli chiedono chi sia e con quale autorità battezzi. L'attesa degli inquisitori è che Giovanni parli di sé e mediante le parole renda ragione di quello che fa. Ma Giovanni non ha nulla da dire a proposito di se stesso; alla loro domanda oppone una triplice negazione: non è il Messia, né Elia, né il profeta. Essi cercano di collocarlo nel novero delle figure già note. Note davvero? Così essi presumevano, e proprio a motivo di tale loro presunzione la risposta non poteva essere che negativa. Aggiunge poi anche una risposta affermativa; dice infatti di essere voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, secondo la profezia di Isaia; tale risposta non è presa in alcuna considerazione dagli inquisitori; la parola del profeta pare infatti troppo oscura, per poter essere verificata. Tornano dunque alle cose ben note: perché battezza, se non è il Messia, né Elia, né il profeta? Allora Giovanni riconobbe espressamente la figura soltanto interlocutoria del suo battesimo di acqua e li rimandò a un altro:

Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, uno che viene dopo di me, al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo (Gv 1,26-27).

Giovanni dunque rende testimonianza a colui che sta in mezzo a tutti, e tuttavia rimane a tutti sconosciuto. In che senso sconosciuto? Soltanto perché a quel punto Gesù non aveva ancora iniziato a predicare e a compiere segni? Questa parrebbe la risposta più ovvia; ma Gesù rimarrà sconosciuto anche dopo, quando comincerà a dire e a fare. Nella prospettiva teologica del quarto vangelo, la dichiarazione del Battista anticipa il destino ultimo di Gesù, quella di rimanere sempre uno sconosciuto. Venne fra la sua gente, infatti, ma i suoi non l'hanno accolto (Gv 1,11).
Un tratto del tutto simile assume anche la testimonianza cristiana; essa si configura infatti sempre e di necessità come una denuncia; Gesù sta in mezzo a tutti, ma la sua presenza è fatta oggetto di una rimozione. Egli non è certo "invisibile", ma le tracce visibili della sua presenza in mezzo a noi sono in fretta rimosse. Se fossero accolte, quelle tracce impegnerebbero a revisioni troppo pericolose di tutto ciò che è noto, o si suppone sia noto. La parola cristiana, confessando la fede in Gesù, propone insieme una denuncia di coloro che lo nascondono e insieme si nascondono dietro la presunta ovvietà indiscussa di molti luoghi comuni.

Testimoni dello spirito

La tesi di fondo, che intendiamo qui illustrare, è appunto questa: la presenza cristiana nel mondo assume forma di testimonianza proprio a motivo del fatto che gli uomini tengono nascosta la verità: quella di Gesù, certo, ma prima ancora quella che da sempre sta alla radice della loro vita e dei loro rapporti umani. La verità radicale è certo quella di Dio; non è possibile infatti coltivare con verità un rapporto umano, se non nel segno della fede nella sua origine sacra. A tale verità radicale Gesù rende testimonianza; soltanto attraverso la sua testimonianza quella verità viene alla luce. L'antica censura opposta dai figli di Adamo alla verità di Dio, segretamente operante nella loro vita comune, assume ora la forma di censura opposta alla presenza stessa di Gesù. La testimonianza cristiana denuncia tale censura; prolunga in tal senso il dramma dell'Incarnazione. La verità di tale dramma è efficacemente proclamata dal vecchio Simeone nel tempio:

Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima (Lc 2,34-35).

Gesù è destinato a rivelare i segreti dei cuori. Non sorprende in tal senso che egli diventi un segno di contraddizione, diventi come una pietra sulla quale di necessità si inciampa. L'incarnazione del Figlio di Dio si mette di traverso sul cammino percorso da ogni figlio di Adamo. Appunto tale consistenza umana della rivelazione di Dio dispone lo sfondo sul quale soltanto è possibile intendere il senso e la necessità della testimonianza, e il suo carattere ineluttabilmente polemico.
Gli uomini tuttavia non hanno occhi per vedere, che il difetto di speranza della loro vita è connesso alla menzogna. Al difetto cercano rimedio mediante messaggi esoterici, che possano essere accolti senza rimettere in discussione la qualità della vita presente. In tal senso essi assegnano alla religione lo spazio dell' "invisibile", di ciò che potrebbe dunque essere conosciuto e creduto senza passare attraverso la testimonianza della carne.

 2. La testimonianza, legge universale della vita

La fisionomia della testimonianza sopra sommariamente tratteggiata trova facile conferma nei testi del Nuovo Testamento; ad essi dedicheremo attenzione proporzionalmente diffusa. La comprensione di quei testi minaccia d'essere però pregiudicata da dogmi antichi e non verificati. Per introdurci alla comprensione dei testi appare in tal senso utile, in un momento preliminare, suggerire come la testimonianza sia figura che si realizza in ogni caso nell' esperienza umana universale. Una tale verità emerge dalla considerazione sia pur solo affrettata dei tratti elementari che assume per noi tutti l'esperienza della vita. Ogni uomo dunque dovrebbe riconoscersi con facilità in debito nei confronti della testimonianza di altri, per accedere al senso e alla speranza che illumina la propria vita. Di fatto una tale evidenza stenta molto ad essere riconosciuta. Le ragioni di tale difficoltà sono molteplici.
Per un primo aspetto, la difficoltà dipende dalla pressione esercitata dai luoghi comuni della cultura corrente. Mi riferisco, in particolare, a un luogo comune assai tenacemente iscritto nella cultura dell'Occidente, e cioè la rappresentazione incautamente soggettivistica del soggetto. Preciso la qualità di tale rappresentazione. Il soggetto è concepito quasi fosse costituito nella sua identità a monte rispetto al dramma, della vicenda effettiva della vita cioè, attraverso la quale soltanto invece egli accede alla propria identità. In particolare, il soggetto è pensato quasi fosse definito a monte rispetto alle evidenze dischiuse dal suo rapporto pratico con altri. Nella realtà effettiva accade il contrario; gli altri sono depositari di competenze a proposito dell'identità del singolo, che appaiono largamente in anticipo rispetto alla sua coscienza. Per accedere alla propria identità il singolo ha indispensabile bisogno del rapporto con altri, e della loro testimonianza a suo riguardo; gli altri sono in tal senso testimoni della verità che lo costituisce; essa pur riferendosi precisamente a lui, è tuttavia da lui in prima battuta ignorata.
Si potrebbe pensare che la rappresentazione soggettivistica del soggetto sia solo il riflesso di un'ingenuità infantile. I bambini non sanno di essere nati; per lungo tempo immaginano che la loro vita sia da sempre; l'evento della nascita appare come rimosso a motivo del suo carattere troppo antico. Così sono anche gli adulti; così pensa il senso comune iscritto nelle forme correnti del rapporto umano. Ma l'ingenuità infantile rappresenta soltanto un lato della questione. Per un altro lato, più radicale e inquietante, la mancata evidenza del rilievo che assume la testimonianza di altri in ordine alla coscienza del singolo è il riflesso di una menzogna, antica quanto Adamo, o quanto Caino. La pagina biblica di Caino (Gen 4) dà infatti perspicua figura a un aspetto assolutamente qualificante del peccato originale: esso comporta il rifiuto della fastidiosa necessità di dipendere dal fratello, da molti fratelli, per trovare la via della propria vita. Perché il singolo possa riconoscere se stesso attraverso la testimonianza che altri gli offrono, occorre che attraverso tale testimonianza egli trovi la verità più antica, quella che Dio stesso annuncia mediante la sua parola creatrice. Appunto quella parola dispone fin dall' origine la prossimità tra tutti gli umani; tale prossimità è la legge fondamentale della vita. Fin dall' origine infatti Dio vide che non è bene per l'uomo essere solo e volle fargli un aiuto che gli fosse simile (Gen 2,18). Un tale aiuto è certo anzitutto la compagna tratta dalla sua stessa carne; ma tale aiuto sono poi anche, e di conseguenza, i figli e i fratelli tutti. Soltanto attraverso la loro testimonianza ciascuno trova la via della propria vita.
Le relazioni familiari debbono essere qualificate come originarie, nel senso che attraverso di esse il singolo ha origine, e insieme è rimandato alla sua origine. Occorre infatti riconoscere come il singolo possa sussistere unicamente a condizione che riconosca la sua origine. Alla coscienza di sé egli giunge, e realizza in tal modo la propria qualità di soggetto, unicamente a condizione di trovare tale origine. La qualità di soggetto suppone che egli sia cosciente, presente a se stesso, consapevole dunque del fatto che, in tutto ciò che fa, vede, sente, conosce, spera o teme, persegue o fugge, sempre di se stesso si tratta. Ora quel se stesso, che in certo modo egli è fin dall' origine, appare insieme come una meta lontana; verso di essa il singolo è sempre in cammino. Ciascuno è un se stesso che si cerca: così potremmo sinteticamente definire l'essere enigmatico dell'uomo.

La creazione mediante la parola

Per articolare questa definizione, e insieme precisarla, merita suggerire una breve analisi della figura del desiderio. lo sono infatti prima di tutto un desiderio; sono dunque definito nella mia stessa identità dall' aspirazione ad altro rispetto a ciò che attualmente sono. Che io sia un desiderio appare subito evidente; quale sia l'oggetto del desiderio che mi costituisce, tuttavia, lì per lì non saprei dire. Perché quel desiderio che io sono prenda forma - e solo a tale condizione esso diventa davvero mio, e io "realizzo" me stesso, iscrivo la mia identità sconosciuta entro la terra che abito - è indispensabile che acceda alla parola. Il senso più radicale della parola infatti è proprio questo, consentire all'origine che ci costituisce, dunque alla promessa dalla quale siamo svegliati alla coscienza di noi stessi.
In principio era la Parola, proclama solennemente il prologo di Giovanni, e mediante la Parola è stato fatto tutto ciò che esiste. In essa era la vita e la vita era la luce degli uomini (cfr. Gv 1,1-4). In principio Dio disse, e furono tutte le cose; le affermazioni del prologo riprendono e precisano quelle scritte al principio del Libro. Proprio perché le creature tutte vengono alla luce mediante una parola, sono esse stesse come una parola rivolta alla suprema tra tutte le creature; la parola di Dio attende la nostra risposta. Al culmine della creazione sta infatti l'uomo fatto a sua immagine; appunto a lui sono rivolte le parole espresse mediante l'opera creatrice. Proprio l'attitudine dell'uomo a dire una parola, a rispondere in tal modo alla parola originaria, realizza la sua qualità di immagine di Dio.
Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò (Gen 1,27): l'uomo del quale si parla è il genere umano, subito caratterizzato come maschio e femmina; appunto la polarità maschio e femmina dischiude il campo entro il quale soltanto diventa possibile la parola, e con essa il dischiudersi del senso di tutte le cose. La parola è possibile soltanto se coloro ai quali è rivolta sono prossimi; è resa possibile da una prossimità che si realizza in anticipo rispetto all'iniziativa umana. La prossimità tra uomo e donna realizza la prima attestazione della parola che sta al di là delle parole, alla loro stessa origine; attesta la parola creatrice di Dio. Alla parola che precede il cammino degli umani sulla terra e rende possibile la loro parola, nella prima pagina della Genesi è data la forma di una benedizione: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate... (1,28). Le spiegazioni correnti spesso interpretano la benedizione originaria quasi fosse un comandamento; in realtà non di un comandamento si tratta, non di un compito prescritto agli umani, ma di una promessa. La promessa autorizza la vita. A tale benedizione originaria l'autore della prima pagina biblica ha conferito, mediante la fede, la forma di parola umana. Questa è una legge generale della vita: la benedizione originaria di Dio è silenziosa; ad essa può dare forma soltanto l'uomo; lo può fare grazie all'istruzione che viene da ciò che effettivamente sperimenta e suscita la sua meraviglia.
La benedizione di Dio è certo operante prima ancora che l'uomo dia ad essa parola, e confessi in tal modo la propria origine; è operante attraverso le forme immediate della vita grate e subito persuasive. La vita si realizza nei fatti molto prima che diventi possibile per l'uomo volerla. Appunto le forme grate della prima esperienza, che sorprende e apre il cammino, generano la parola umana. Essa interpreta in tal senso la parola originaria che Dio pronuncia mediante il gesto creatore. Appunto fino a questo nesso originario occorre risalire, per comprendere la testimonianza e la sua necessità. La parola umana confessa la verità che sta all' origine della vita e interpella la libertà; tale verità attende risposta, attende di divenire parola; può divenirlo unicamente mediante un atto di fede dell'uomo. La parola umana ha la qualità radicale di una confessione. Questa sua qualità rende ragione del fatto che essa mai possa definire; può solo attestare. Essa rimanda chi ascolta a un' evidenza che sta oltre gli interlocutori, più antica di chi parla e di chi ascolta. L'intesa reciproca è possibile soltanto nella forma del comune rimando alla verità che non è né mia né tua, ma ci costituisce e dispone la nostra prossimità. Lo stesso difetto di intesa reciproca, che spesso interviene, assume di necessità la forma di un conflitto delle interpretazioni; il senso dell' alleanza tra noi disposta fin dall' origine appare controverso; il nostro difetto di intesa rimanda ad un terzo (7).
Nella nostra epoca, la letteratura - e non solo essa ha spesso proclamato in toni patetici la fatale incomunicabilità che affliggerebbe la condizione umana. Tale sentenza tragica deve essere intesa come il riflesso di una tacita rimozione. Il dialogo cercato dall'uomo moderno rimuove il riferimento all'origine, dunque al sacro che sta all' origine della vita; in tal modo esso si espone a un esito ineluttabile: pretendere dall' altro ragioni che l'altro in realtà non può in alcun modo dare.

Un'illustrazione: uomo e donna, genitori e figli

Illustrazione eloquente dell'intuizione sintetica sopra abbozzata possiamo trovare attraverso la considerazione fenomenologica della figura che assume il rapporto tra uomo e donna nell' esperienza contemporanea. Uno dei tratti più appariscenti di tale rapporto è il carattere smisurato delle attese reciproche: l'uomo attende dalla donna ciò che essa non può dare, e viceversa; appunto tale eccesso delle attese reciproche genera prima l'offesa, poi la delusione, e infine la rottura fatale del rapporto. Rilevare i molteplici esempi di obiettiva ingenuità che caratterizza le attese reciproche tra uomo e donna nel rapporto matrimoniale, e in genere nelle relazioni affettive, non dovrebbe essere troppo difficile per ciascuno. Abbondanti documenti al riguardo offrono le esperienze delle persone che ci sono vicine; in questa materia come in tutte è più facile infatti rilevare il difetto negli altri piuttosto che nella propria esperienza. Istruiti dalla testimonianza di altri dovrebbe essere facile per ciascuno di noi verificare d'essere personalmente esposti a tale ingenuità nelle nostre attese. L'ingenuità non dipende solo e subito dal difetto personale; è propiziata invece dall' obiettiva povertà delle risorse simboliche, alle quali la coppia singola può ricorrere per dare parola alla propria esperienza. L'esperienza di coppia è oggi vissuta in regime di fondamentale solitudine, ai margini rispetto agli altri rapporti sociali; in tal senso essa stenta a trovare riscontri, e quindi anche risorse per oggettivare il dialogo reciproco.
La smisuratezza delle attese è strettamente legata alle forme soltanto affettive nelle quali è vissuto il rapporto. Il supremo criterio di verità è cercato nel fatto di sentirsi compresi e accolti: ora il sentimento è criterio che per sua natura sfugge a ogni tentativo di oggettivazione; in tale materia interprete esclusivo e giudice insindacabile appare il singolo. Che l'amore tra l'uomo e la donna nasca nella forma dell'affectus è necessario e giusto. Ma perché esso possa diventare promessa, e dunque scelta, è indispensabile che assuma la forma della parola. E parola può diventare unicamente a questa condizione: che esso confessi la verità promettente iscritta nella prima esperienza sorprendente. La verità di cui si dice è appunto quella disposta dal Creatore fin dall'inizio. In tal senso Gesù può dire che l'uomo non deve separare quello che Dio stesso ha congiunto. Egli ha congiunto all'inizio della creazione, quando li creò maschio e femmina; solo grazie alla promessa espressa dal Creatore è possibile che l'uomo lasci suo padre e sua madre e formi con la compagna una carne sola (cfr. Mc 10,6-9).
Il tratto soltanto affettivo del rapporto tra uomo e donna è indotto dalle forme complessive della vita nella società complessa; in particolare, è alimentato dal regime di sequestro reciproco che caratterizza i rapporti tra famiglia e società. Sotto altro profilo, alla riduzione affettiva concorre l'apologia dell' amore romantico; essa celebra l'amore, come noto, quasi fosse un assoluto, una sorta di religione. Nella stagione moderna l'amore romantico ha assunto in molti modi i tratti di religione secolare. Per il fatto di essere una religione senza Dio, dunque senza memoria del suo gesto creatore, quella religione diventa insieme senza futuro, senza tempo, senza speranza. Il presente assume per gli amanti carattere assoluto; il loro amore non potrebbe sopportare la prova del tempo disteso; a sigillo di questa assolutezza del presente accade che gli amanti invochino addirittura la morte (8).
Sottrarsi all'idolatria dell'amore, al feticismo dell'affetto, alla pretesa dunque che lo stato d'animo presente rappresenti l'unico criterio possibile della verità dell'amore, è possibile soltanto a condizione di riconoscere come l'esperienza di un amore che accade, in tal senso della passione, manifesti una promessa; di tale promessa è possibile appropriarsi unicamente a condizione di scegliere; per questo l'uomo lascia il padre e la madre, le certezze più antiche della vita, e cammina verso la casa nuova promessa. Una tale scelta impegna, configura dunque il tempo futuro. L'impegno trova espressione nella parola che i due si scambiano; essa oggettiva l'affetto e lo iscrive nella storia di tutti. La parola che l'uomo e la donna si dicono, o si danno (promettere infatti equivale a dare la parola), non può essere ridotta alla modesta figura di espressione dei propri sentimenti; ha invece la consistenza oggettiva di attestazione della parola che li precede.
La figura obiettiva di testimonianza, che parole e gesti dell'uomo e della donna di necessità assumono, appare in forma ancor più evidente quando è considerata la consistenza che essi assumono presso il figlio. Ai suoi occhi essi attestano sempre, lo vogliano o no, una verità che eccede le loro intenzioni consapevoli. La loro testimonianza si realizza in maniera spontanea e preterintenzionale. Solo progressivamente essi prendono coscienza della promessa impegnativa fatta al figlio mettendolo al mondo, e quindi anche del prezzo che la fedeltà a quella promessa comporta. Le rappresentazioni correnti del rapporto tra genitori e figli rimuovono questo nesso; propongono del debito educativo una lettura puerocentrica, che ignora il nesso tra compito educativo e verità dell'alleanza reciproca tra padre e madre. Il nesso invece è innegabile e subito evidente. Perché i genitori possano assumere la responsabilità della testimonianza, che essi comunque danno al figlio, lo vogliano o meno, debbono staccarsi dalle rappresentazioni correnti e dai connessi pregiudizi; debbono costituirsi addirittura quali giudici del mondo.

Riflessione antropologica e riflessione teologica

Per rendere ragione del rilievo che la testimonianza ha nella vita cristiana, e determinare quindi le forme pratiche che deve assumere nel contesto storico presente, appare dunque necessaria una riflessione previa sulla figura che la testimonianza ha nella vita umana in genere. Soltanto una riflessione di questo genere predispone le risorse concettuali necessarie per chiarire la comprensione della stessa figura cristiana della testimonianza, per riconoscere quindi che e come la rivelazione cristologica configuri quella testimonianza, che appare in ogni caso ingrediente necessario della vita umana. Per altro lato, la riflessione antropologica generale dispone lo sfondo necessario per chiarire le ragioni per le quali la testimonianza stenti a trovare le proprie forme adeguate nell' esperienza umana del nostro tempo. La comprensione del nostro tempo è d'altra parte condizione necessaria per determinare i compiti proposti al cristiano e rispettivamente alla Chiesa.
Registriamo un dato di fatto: una riflessione teorica a proposito del rilievo della testimonianza nella vita umana in genere fino ad oggi manca (9). Tale difetto espone l'apologia cattolica della testimonianza a un duplice rischio. Anzitutto, di accedere a una concezione ridotta della testimonianza, quella che la intende quasi fosse soltanto forma del discorso e non dell'agire, e più precisamente di un discorso che direbbe soltanto dell' esperienza personale; così intesa, la testimonianza rinuncerebbe a ogni pretesa di suscitare il consenso di tutti. il secondo rischio è che l'apologia della testimonianza incoraggi una concezione precipitosamente kerygmatica della verità cristiana, che si affida subito e solo alla forza della Parola, o magari dello Spirito, e ignora invece il coinvolgimento della persona del testimone; mentre proprio tale coinvolgimento appare la nota qualificante della testimonianza cristiana.
Il chiarimento delle radici antropologiche della testimonianza assolve a un compito solo preliminare, per rapporto al progetto di chiarire la sua figura propriamente cristiana; dispone condizioni soltanto remote per intendere la figura più determinata e compiuta, che la testimonianza assume sullo sfondo della fede nel vangelo di Gesù, e più precisamente sullo sfondo del giudizio universale, che il vangelo propone sulla tradizione dei figli di Adamo. Appunto alla più precisa determinazione di questa figura cristiana della testimonianza ci occuperemo nei capitoli che seguono, dedicati agli scritti del Nuovo Testamento. Si vedrà tuttavia come la lettura di quei testi metta a frutto le considerazioni di carattere antropologico generale qui anticipate

 3. Gesù chiede la testimonianza, e l'istruisce

Il lessico della testimonianza conosce dunque, come si diceva, un consistente ritorno nella vicenda recente del cattolicesimo. A tale ritorno non si può che consentire; la testimonianza infatti è figura assolutamente qualificante per articolare il senso della fede cristiana. E tuttavia le forme nelle quali si produce questo ritorno appaiono dubbie, distorte, come esse sono, dalla pressione di pregiudizi profondamente iscritti nella cultura corrente. Il lessico della testimonianza è messo al servizio di un'immagine più amichevole e fraterna della verità cristiana; mentre i testi fonda tori del cristianesimo introducono la categoria della testimonianza esattamente per dare figura all'aspetto profetico del messaggio cristiano, dunque a quell'aspetto per il quale esso è denuncia della menzogna che opprime le forme della vita comune considerate come ovvie.
Suggerisco un'illustrazione appena un poco più concreta di questa indicazione generica, riferendomi al tratto fraterno del rapporto che il cristiano cerca nei confronti di tutti. La testimonianza è da intendere come determinazione di tale tratto di prossimità fraterna, e dunque amichevole, che il cristiano cerca con tutti. Proprio un tale tratto tuttavia ha di che apparire fastidioso e addirittura ostile ai fratelli. Il termine suona come assai impegnativo; esso è spesso usato quasi si trattasse di luogo comune scontato; specie dopo che del termine si è appropriata la lingua declamatoria della rivoluzione liberale, è usato in accezione retorica e vuota. Tanto comporta la cancellazione del riferimento al Padre comune, e dunque a quell'origine che sola consentirebbe di intenderne la verità. Il cristiano riconosce come fratelli anzitutto quelli che sono legati a lui dalla fede in un unico Padre dei cieli; poi anche gli uomini tutti; può farlo soltanto perché tutti riconosce quali figli dell'unico Padre, anche quando essi sono distanti da ogni professione di fede in Lui; non basta perché li si possa chiamare fratelli la comune umanità. Il riconoscimento dell' altro come fratello non può certo essere considerata come registrazione di una verità di fatto; assume invece, inevitabilmente, la consistenza di un' attesa nei confronti degli altri, e addirittura di una pretesa. Proprio perché gli altri sono fratelli, io non sono affatto indifferente a quello che fanno, dicono e sentono. Il riconoscimento del vincolo fraterno, che lega il cristiano a tutti, insieme lo impegna alla testimonianza nei loro confronti; autorizza insieme ad un' attesa nei confronti di coloro ai quali egli si volge. Tale circostanza ha di che apparire invadente e indebita. Il cristiano - detto con formula breve spesso appare ostile proprio perché pretende d'essere fratello; tale pretesa suscita facilmente l'impressione d'essere esorbitante, addirittura arrogante, in ogni caso fastidiosa. Esige in ogni caso che il cristiano ne renda ragione; appunto questo è il compito della testimonianza.
Illustra nella forma più efficace il tratto inquietante e fastidioso della testimonianza la figura del martire, che rappresenta, senza ombra di dubbio, la forma paradigrmatica della testimonianza cristiana (10). Essa non è certo figura che susciti consensi facili nel nostro tempo, neppure presso coloro che pure si professano cristiani. Il martire appare indisponente; la certezza invulnerabile, che egli esibisce, offende; in particolare, offende quel tratto "autarchico", in forza del quale pare non avere bisogno di chiedere il consenso di altri per vivere come vive. Davvero il martire è ucciso perché crede? O non forse a motivo delle pretese esorbitanti che nutre nei confronti degli altri? Il diritto di credere è riconosciuto a tutti, nella nostra società tollerante. Il martire suscita fastidio ed è tolto di mezzo non perché crede, ma perché eleva la pretesa di fare della propria fede un manifesto, sfacciatamente esibito davanti a tutti, quasi che la verità in cui crede debba riguardare tutti; appunto tale pretesa offende. In tal modo, infatti, la fede diventa inevitabilmente un atto di accusa nei confronti di quelli che non credono.
Quando si leggano onestamente tutti i testi del vangelo, senza produrne una censura previa, occorre riconoscere che Gesù stesso eleva una pretesa tanto invadente, di attestare cioè una verità che tutti riguarda, e addirittura tutti giudica e condanna. Non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori, egli afferma (Mc 2,17); e certo egli presume d'essere venuto per tutti, e dunque esige da ciascuno una confessione di colpa. Il vangelo di Gesù ha l'obiettiva forma di un giudizio universale. Proprio in forza di tale profilo il credente è impegnato alla testimonianza; egli testimonia in favore di Gesù davanti a un mondo che rifiuta il giudizio di Gesù, anzi intende condurre esso stesso un processo contro Gesù.
Negli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II H. U. von Balthasar ha indicato proprio nella figura del martire il caso serio della fede nel nostro tempo; lo ha fatto in particolare in un aspro pamphlet polemico (11) che accusa le forme assunte dal cattolicesimo di quegli anni, "dialogiche" ad ogni costo. Sotto accusa è, più precisamente, l'apologia del "cristiano anonimo": egli sarebbe tale pur senza la necessità che la sua fede diventi tema di confessione (12); tale apologia equivale, a suo giudizio, alla svendita della verità del vangelo, in cambio di un generico umanesimo, sul quale facile è il consenso di tutti; esso non può essere certo apprezzato quale segno di fedeltà al vangelo di Gesù.
Il lessico della testimonianza si è affermato di fatto nelle forme correnti del discorso pastorale recente; ma non pare proprio abbia propiziato la riabilitazione della figura del martire. Come già si accennava, il ricorso a tale categoria è messo al servizio di una riforma dello stile pastorale; esso deve essere umile e discreto, estraneo a ogni rivendicazione di autorità. La presenza del cristiano nel mondo dovrebbe assumere questi tratti; egli sarebbe solo testimone, nel senso che si limiterebbe a mettere la sua esperienza al servizio di tutti, rinunciando a ogni arrogante pretesa di giudicare l'esperienza degli altri.
La testimonianza cristiana comporta invece di necessità un giudizio; la confessione della fede assume forma di testimonianza nel senso giudiziale del termine. Nella vita comune dei figli di Adamo è in atto un processo, in cui imputato è Dio stesso; la causa di Dio è rappresentata, nella sua forma compiuta, dal Figlio; contro di lui i popoli tutti della terra hanno fatto lega attraverso i loro potenti, come suggerisce la preghiera della comunità di Gerusalemme, che parafrasa e interpreta il Salmo 2: Davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo santo servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e i popoli d'Israele (At 4,27). Appunto nel quadro di questo processo a carico di Gesù il cristiano si costituisce come testimone; la sua parola non può evitare di apparire fastidiosa, come fastidiosa apparve anzitutto la presenza del Figlio di Maria, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori (Lc 2,34-36).
Recuperare il profilo giudiziale della testimonianza cristiana appare urgente. E tuttavia suscitano molti sospetti i toni apocalittici usati da von Balthasar contro Rahner; essi minacciano di sanzionare il carattere univocamente alternativo del rapporto tra verità del vangelo e tutto ciò che come verità è apprezzato dai figli di Adamo. La verità attestata da Gesù rimanda invece di necessità ai significati articolati dalle forme comuni del vivere, dunque dalle forme civili; in esse è oggettivamente iscritta una verità, che tuttavia il peccato dei figli di Adamo nasconde; a quella verità l'attestazione del vangelo non può rinunciare. Possiamo in tal senso riferire a tutti gli uomini ciò che Paolo espressamente afferma a proposito dei greci, e cioè dei pagani del suo tempo:

Essi sono inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa (Rm 1,21).

La verità di Dio, e quindi la verità tout court, ha la figura di un appello alla libertà umana. Il nesso stretto tra verità e libertà appare invece rimosso, e anzi francamente negato, da coloro che professionalmente si occupano di verità, e cioè i filosofi; fin dall'inizio essi hanno proposto della verità un'immagine intellettualistica, che si prolunga fino ad oggi. La verità sarebbe un' evidenza garantita dalla ragione, a prescindere da ogni riferimento alla libertà dell'uomo, dunque alla qualità delle sue scelte. Le cose stanno in maniera decisamente diversa. Nella vita umana la verità prima di tutto accade; si rende presente attraverso le forme della vita effettiva, in deciso anticipo rispetto a ogni nostra precisa conoscenza, e anche rispetto ad ogni nostra precisa intenzione pratica deliberata. Il suo accadimento è segnalato dalla meraviglia. Per giungere alla conoscenza piena di ciò che inizialmente soltanto si annuncia è necessario che a quell'annuncio originario corrisponda una scelta; e tale scelta ha in ogni caso la figura della fede. Al primo accadere della verità, che interessa tutti gli uomini, deve corrispondere una libera risposta; la conoscenza della verità appare in tal senso come sospesa alla qualità delle successive scelte umane. Tale risposta si realizza di fatto nella storia universale in forme distorte. La qualità di tali risposte effettive comporta la negazione pura e semplice delle evidenze prime della vita.
La figura della conoscenza della verità, e dunque di Dio stesso, in tal modo insinuata attende d'essere chiarita sotto il profilo propriamente concettuale. Un concorso decisivo a tale chiarimento offre la considerazione attenta della distensione temporale della vicenda umana. Tale considerazione, necessaria da sempre, appare addirittura urgente nel nostro tempo, segnato da un' accelerazione spasmodica del tempo. Offrono un'immagine eloquente, e insieme inquietante, della caducità di ogni verità del giorno i quotidiani, che in fretta sono gettati nella carta straccia. Il passato prossimo pare condannato in fretta a diventare passato remoto, e dunque irrilevante. Al carattere sospeso e incompiuto del presente non si arrendeva Maria, che serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore (Lc 2,19); ella offre un'immagine efficace della resistenza al potere logorante del tempo che fugge.
La figura della testimonianza trova la propria radice nella scansione della vita umana in due tempi: quello delle prime esperienze grate della vita e quello della loro ripresa libera. Le prime esperienze annunciano una verità, che solo attraverso la successiva ripresa può trovare configurazione. Tale configurazione appare insidiata dal peccato universale. Tale tratto della esperienza umana universale trova la sua suprema illustrazione nella vicenda di Gesù. Una delle formule più sintetiche per dire il senso del suo vangelo è quella proposta da Marco (1,15): Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo. La formula qualifica l'annuncio di Gesù come annuncio del tempo pieno, nel quale finalmente è possibile la decisione suprema, quella appunto della conversione e della fede; non è solo possibile, è necessaria. Il vangelo di Gesù riempie di senso il rimando a un compimento, che è innegabilmente iscritto nell'esperienza di ogni uomo, e tuttavia pare sfuggire a ogni determinazione. Il compimento comporta un giudizio sulla tradizione umana universale. Appunto tale nesso ci proponiamo di illustrare.

L'ordine della trattazione

Lo faremo nella forma della recensione sintetica degli scritti del Nuovo Testamento; nella forma dunque di una sorta di concisa teologia neotestamentaria della testimonianza. La dizione teologia appare per altro eccessiva; meglio porre la nostra riflessione sotto il titolo più modesto di meditazione. Davvero modesto è questo titolo? Uno dei rischi più consistenti della ricerca specialistica sulla Bibbia nella stagione recente è la sua distanza dalla fede; più precisamente, dalle forme della coscienza credente, dunque da quelle evidenze alle quali tale coscienza si affida, e rispettivamente dagli interrogativi che la inquietano. Usiamo la categoria di meditazione per indicare l'attenzione costante che la nostra riflessione accorda - nelle intenzioni almeno - alle forme della coscienza credente. Ovviamente saranno tenute presenti le acquisizioni analitiche della ricerca specialistica; la preoccupazione però sarà quella di evitare che gli alberi nascondano la foresta. Anche per riferimento al Nuovo Testamento è rilevante il rischio che la scienza cancelli la coscienza; in tal caso i testi finiscono per essere chiusi dalla scienza entro un laboratorio inaccessibile al comune cristiano, e per lui anche irrilevante.
Le acquisizioni della ricerca specialistica sul Nuovo Testamento impongono anzitutto di non leggere i testi narrativi, vangeli e Atti degli Apostoli, quasi fossero ingenue narrazioni dei fatti; essi interpretano i fatti, e lo fanno nella luce della fede; in tal modo rendono testimonianza di quella verità alla quale per altro fin dall'inizio i fatti rimandavano. Quella verità sfuggiva ai protagonisti; la fede nel vangelo di Gesù si realizza in tal senso nella forma di una ripresa, che corregge la precipitosa comprensione iniziale. Nei confronti della storia originaria rimaniamo per altro sempre in debito, per poter dire la verità del vangelo; in tal senso, il lettore contemporaneo non può esimersi dal compito di suggerirne la almeno probabile consistenza. La tentazione facile è quella di sciogliere semplicemente la verità del vangelo dal riferimento ai fatti. Tale tentazione non caratterizza certo soltanto la stagione contemporanea; fin dagli inizi della storia cristiana è stata assai consistente la tentazione gnostica, di ridurre cioè il vangelo a verità iniziatica ed esoterica, suscettibile d'essere affermata senza più bisogno di alcun riferimento alla vicenda effettiva di Gesù.
In tutto ciò che Gesù ha detto e fatto nei giorni della sua presenza sulla terra era operante il rimando a una verità escatologica, o rispettivamente a una verità spirituale, che sfuggiva invece ai testimoni oculari; era anzi da essi in molti modi inconsapevolmente negata. Appunto l'attenzione a questa verità connota la memoria dei fatti prodotta dagli scritti del Nuovo Testamento. La nostra lettura cercherà in tal senso di restituire evidenza alla profondità di campo - per così dire - che caratterizza i testi; cercherà cioè di rendere esplicita la differenza di piano tra eventi originari e loro ripresa credente. Proprio a motivo del rifiuto opposto al rimando escatologico, oggettivamente iscritto in tutto ciò che Gesù faceva e diceva, ai discepoli parve a un certo punto che la verità di Gesù, in cui essi avevano creduto, si dissolvesse. Nel momento supremo persero il contatto con Gesù; recuperarono la comunione con lui, e la verità di tutto ciò che il Maestro aveva fatto di loro, soltanto dopo la Pasqua, tornando alla memoria di tutto ciò che egli aveva detto e fatto.
Cercheremo dunque di mostrare in che modo gesti e parole di Gesù rimandino fin dall'inizio a una verità, che soltanto il compimento pasquale rende accessibile. Prima di tale compimento, Gesù trattiene le folle e i discepoli stessi nel loro desiderio di divulgare la notizia di lui. Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti! (Mc 7,37), così pieni di stupore tutti commentano i gesti prodigiosi di Gesù; e tuttavia egli ordinava di non parlare dei suoi gesti; ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano (Mc 7,36). Il cosiddetto "segreto messianico", oggetto di deliberata e insistente attenzione specie nel vangelo di Marco, dà espressione assai chiara alla cura con la quale Gesù trattiene le forme intempestive che assume la testimonianza in suo favore; esse appaiono come precipitose ed equivoche ai suoi occhi. La considerazione di questo aspetto del ministero di Gesù offre un contributo assolutamente decisivo all'istruzione del tema della testimonianza. Appunto di esso ci occupiamo nel presente capitolo.
Il vangelo di Gesù, oggetto di fede sincera da parte di molti, mancava tuttavia di essere compreso nella sua verità. Occorre esprimersi in forma più cauta, almeno per riferimento a coloro la cui fede è espressamente riconosciuta e lodata da Gesù; la verità del suo messaggio da costoro è in qualche modo anche compresa; e tuttavia la loro comprensione non rende ancora possibile la testimonianza di fronte a tutti. Proprio in rapporto alle necessità della futura testimonianza, Gesù affida la verità del suo vangelo a pochi discepoli seguaci; egli li chiama al suo seguito, e già così li stacca virtualmente dalla folla; a procedere da un certo momento poi si occupa di essi soltanto. Alla vicenda dei discepoli seguaci dedicheremo una considerazione esplicita, dal momento che essa offre un concorso decisivo alla configurazione della testimonianza cristiana (cap. 5).
Tra questi due capitoli interponiamo una riflessione di carattere teorico, che non riguarda il vangelo, ma i modi di pensare l'uomo (cap. 4). I modelli di pensiero offerti dalla tradizione appaiono tali da pregiudicare in maniera inesorabile la comprensione della figura della testimonianza; sono infatti caratterizzati da un assunto pregiudiziale indebito: dell'uomo si potrebbe dire come di un soggetto libero, definito nella sua identità a monte rispetto alla sua vicenda. Così non è; per comprendere la necessità della testimonianza occorre riconoscere anzitutto il rilievo essenziale della vicenda perché il soggetto giunga a realizzare e conoscere la propria identità. Del soggettivismo appunto ci occuperemo, di quello antico e rispettivamente di quello moderno; esso infatti vizia da sempre il pensiero occidentale, ma ai nostri giorni esso vizia non solo il pensiero, ma le stesse forme pratiche della vita. Questo capitolo riprende la riflessione antropologica che abbiamo abbozzato nel capitolo precedente.
Sullo sfondo della recensione del rapporto tra Gesù e i discepoli sarà possibile tratteggiare una distinzione necessaria, e insieme ardua: quella tra la figura di una fede che Dio soltanto conosce e la figura di una fede che è invece in grado di attestarsi di fronte a tutti gli uomini (cap. 6); in ordine alla salvezza conta soltanto la prima figura; ma la seconda figura è essenziale per intendere la Chiesa e la sua necessità in ordine alla presenza del Signore in tutti i tempi e in tutti i luoghi della storia, per intendere dunque le forme storiche del cristianesimo.
Ci occuperemo finalmente delle forme che assume la testimonianza cristiana nella predicazione apostolica successiva alla Pasqua. Nostra cura sarà chiarire l'aspetto per il quale quella testimonianza assume la figura della memoria; più precisamente, di una ripresa interpretante della vicenda vissuta in precedenza al seguito del Maestro. In quella vicenda era iscritta una verità, che allora sfuggiva alla loro consapevolezza; proprio perché sfuggiva, alla fine tutti abbandonandolo fuggirono (Mc 14,50). La successiva testimonianza assumerà dunque figura di confessione del peccato. La testimonianza della fede comporta di necessità il coinvolgimento del testimone nel messaggio; tale ingresso del credente nella testimonianza non si configura però come arrogante raccomandazione di sé e della propria esperienza; al contrario, assume il profilo di confessione del proprio difetto per rapporto al messaggio attestato.
La recensione della figura che la testimonianza assume nella predicazione apostolica procederà dal racconto degli Atti degli Apostoli (cap. 7); pur essendo questo uno scritto relativamente tardo, in ogni caso posteriore alle lettere di Paolo, per la sua qualità narrativa consente un accesso alla figura sintetica della predicazione apostolica, che appare più ardua a procedere dagli scritti paolini. Solo poi ci occuperemo delle elaborazioni teologiche della figura della testimonianza: di quelle di Paolo, che mostra per il tema un interesse solo marginale, e tuttavia assai illuminante (cap. 8); di quelle di Giovanni, il cui pensiero appare invece attraversato da un' attenzione costante e strategica al tema della testimonianza (cap. 9).

Il vangelo attestato mediante segni

La testimonianza si riferisce, per sua natura, a una verità che è stata oggetto dell' esperienza personale del testimone. Nel caso della fede cristiana, la testimonianza si riferisce a ciò che i nostri occhi hanno visto e le nostre mani hanno toccato, come dichiara formalmente la prima lettera di Giovanni (1,1); nella loro crudezza queste formule appaiono addirittura provocatorie. Sottolineano come oggetto dell' annuncio non sia un preteso vissuto interiore, arcano e sfuggente, del quale potrebbe dire soltanto colui che ha vissuto l'esperienza in questione; oggetto dell' annuncio è invece ciò che si è prodotto obiettivamente davanti agli occhi di chi parla, ciò che addirittura le mani hanno potuto toccare. La crudezza della lingua s'intende sullo sfondo di incipienti tentazioni docetiste operanti nella comunità cristiana; già allora la verità del vangelo, dunque la verità di Gesù stesso, minaccia d'essere intesa come verità di una dottrina, non invece come verità di un fatto. Le formule qui usate dalla 1 Giovanni hanno un nesso stretto con la famosa formula del prologo del Vangelo: il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. E tuttavia già quella formula è subito seguita da una confessione di fede: e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre (Gv 1, 14). Il Verbo si fece carne, e tuttavia non fu possibile vedere la gloria dell'Unigenito con gli occhi. La fede dipende da ciò che gli occhi hanno visto, nel senso che le cose viste proponevano un appello, al quale il discepolo ora finalmente risponde.
La confessione di fede del discepolo non ha i tratti della confessione come intesa in epoca moderna. Il prestigioso vocabolo della confessione, legato al nome di Agostino, ha assunto nella lingua moderna, e quindi nelle forme letterarie che così si intitolano (13), un significato diverso e decisamente più modesto, quello cioè dell'apertura dell'animo. Le confessioni moderne molto assomigliano alle forme della comunicazione confidenziale cara agli adolescenti. La confessione cristiana si riferisce invece a una verità obiettiva; quello che il cristiano ha personalmente vissuto infatti è gravido di una verità che riguarda tutti; riguarda, più precisamente, la qualità dei vincoli che legano tutti. Che tali vincoli rimandino a una verità è circostanza rimossa nelle forme correnti della vita comune. Il necessario rimando a quella verità pare sfuggire anche al singolo; può essere recuperato unicamente a prezzo di un laborioso cammino spirituale. La confessione cristiana istituisce appunto il compito di un tale cammino.
In certo senso, si può anche dire che la testimonianza si riferisce a ciò che non si vede; proprio per questo essa appare ardua. Ma, come già s'è detto (14), ciò che non si vede è ciò che è stato nascosto, non invece ciò che sfuggirebbe per natura sua ai nostri occhi. Viviamo oggi in un mondo" scientifico"; esso si occupa solo dei fatti e addirittura ne celebra il culto; le uniche cose che contano sarebbero appunto i fatti. Così accade quanto meno nella vita sociale; per ciò che si riferisce alla vita personale invece, oggetto di culto sono i modi di sentire: il rispetto dei sentimenti è un imperativo categorico. La frattura tra modi di sentire e leggi della vita sociale pare sottrarre ogni spazio alla testimonianza.
La testimonianza cristiana rimanda a una verità rimossa. La figura di tale rimando è efficacemente illustrata dai segni che Gesù compie. Essi sono per loro natura visibili, addirittura troppo visibili; in tal senso essi suscitano un immediato apprezzamento da parte di tutti. Secondo Gesù però essi rimandano a una verità che in prima battuta rimane nascosta; soltanto la comprensione di tale verità consente la testimonianza a loro riguardo. La verità dei segni appare lì per lì non accessibile ai testimoni oculari; per questo Gesù proibisce loro di parlare. Il suo divieto è di regola trasgredito. Gesù si vede presto costretto a fuggire un assedio nei suoi confronti, che è generato appunto dalla pubblicità intempestiva e impertinente resa ai suoi gesti.

Il lebbroso

Un'interessante istruzione circa il senso della testimonianza offre già il primo gesto di guarigione compiuto da Gesù: la guarigione di un lebbroso, così come riferita da Marco (1,40-45). Il racconto contiene il primo riferimento esplicito al compito della testimonianza.
La guarigione del lebbroso suscita subito un applauso plebiscitario; come non applaudire il fatto della salute sorprendentemente recuperata da quell'uomo? Tale interpretazione del suo gesto appare però incongrua agli occhi di Gesù, che vi si oppone: ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: Guarda di non dir niente a nessuno (vv. 43-44a). L'ordine appare strano. Esso è decisamente irrealistico; come sarebbe stato possibile per l'uomo nascondere la propria guarigione? Essa era troppo manifesta. E d'altra parte, come avrebbe potuto rispondere quell'uomo alle prevedibili domande di parenti e amici, se non raccontando di Gesù? Come interpretare dunque un divieto tanto poco plausibile?
Al divieto Gesù aggiunge un ordine positivo, altrettanto strano: Va', presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro (v. 44b). Al lebbroso sanato sarebbe stato decisamente più facile e grato raccontare a parenti e amici piuttosto che riferire a un sacerdote. Così di fatto egli si comporterà; e in tal modo mancherà al compito di testimonianza, che Gesù gli ha proposto.
Per capire l'ordine di Gesù occorre anzitutto ricordare che la legge mosaica prescriveva al lebbroso di far constatare la propria guarigione ai sacerdoti: solo grazie alla loro certificazione sarebbe stato di nuovo ammesso alla vita comune. Le prescrizioni della legge in materia (vedi Lv 14,1-32), sono molto analitiche; hanno di che apparire addirittura crudeli nei confronti del lebbroso; riflettono la scarsità obiettiva di risorse di cui dispone la legge per contenere il contagio inquietante della lebbra. Prima ancora, scarse sono le risorse che essa ha per dare figura più determinata all' oscura minaccia, che la lebbra comporta per la vita comune. Alla minaccia grande e indistinta la legge oppone un argine insicuro. Gesù, rimandando il lebbroso al sacerdote, intende anzitutto mostrare che egli non è venuto per abolire la legge, ma per portarla a compimento (cfr. Mt 5,17). Di più, il suo ordine esprime la nascosta intenzione di rendere manifesto al sacerdote, custode della legge antica e imperfetta, ciò che supera la legge e in tal modo la porta a compimento. Nell'interpretazione di scribi e sacerdoti, però, la legge non prevede alcun compimento; il gesto di Gesù in tal senso suona come condanna della figura che la legge ha agli occhi di scribi e sacerdoti. L'espressione in testimonianza per loro assume in tal senso significato polemico; la testimonianza ha un profilo giudiziale. Così confermano le due circostanze nelle quali la medesima espressione è usata in Marco:

Se in qualche luogo non vi riceveranno e non vi ascolteranno, andandovene, scuotete la polvere di sotto ai vostri piedi, a testimonianza per loro (6,11).

Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe, comparirete davanti a governatori e re a causa mia, per render testimonianza davanti a loro (13,9).

La guarigione del lebbroso vale come documento della fine del regime antico di scomunica. Il fatto che Gesù ordini all'uomo di tacere suppone in ogni caso questo principio: per comprendere la verità del gesto di Gesù non basta apprezzare la salute. Oggi ancora appare abbastanza diffuso il positivo giudizio dato sul cristianesimo perché esso è riconosciuto quale fattore di promozione umana; un apprezzamento così è in difetto rispetto alla verità intesa da Gesù; essa può essere compresa unicamente quando sia messa a confronto con la legge di Mosè, o meglio con ciò che in essa rimaneva sospeso. Vale per la guarigione del lebbroso ciòche è in molti modi detto nei vangeli a proposito delle guarigioni compiute da Gesù in giorno di sabato: esse non aboliscono affatto il sabato, piuttosto ne portano a compimento la verità; riempiono un precetto che fino ad allora appariva come vuoto e poco vero. Nella sua formulazione antica la legge appare imperfetta, rimanda a una verità futura; il sacerdote, constatando la guarigione del lebbroso, dovrebbe insieme riconoscere come siano giunti i tempi che la legge obiettivamente prometteva.
Il lebbroso guarito non obbedisce al divieto: comincia a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte (Mc 1,45). Il lebbroso torna alla vita comune, mentre "scomunicato" a quel punto appare Gesù stesso. Come il lebbroso si comportano molti altri guariti da Gesù: a tutti è proibito di parlare, di rendere testimonianza dunque; e invece tutti fanno grande pubblicità ai gesti di Gesù. La pubblicità non realizza la figura della testimonianza; fraintende invece i gesti di Gesù e lo costringe alla clandestinità.
Il comportamento del lebbroso, chiaramente disapprovato, interrompe - per quanto è in suo potere - l'annuncio del vangelo del regno. Il gesto di Gesù, trasformato in prodigio apprezzato da tutti senza necessità di riferirsi alla fede, non può certo valere come segno che chiama alla conversione. I consensi che verranno a Gesù grazie alla parola di quell'uomo non realizzano la consistenza di documenti della fede in lui. Nella lingua oggi corrente il comportamento del lebbroso sarebbe facilmente qualificato come testimonianza, e sarebbe in tal senso anche approvato. La circostanza segnala la distanza tra modi correnti di intendere la testimonianza e sua verità evangelica.
Al rischio di fraintendere la testimonianza siamo esposti tutti fino ad oggi. La gioia per la salute recuperata, per ogni altra prova che per un momento ci abbia tenuti in ansia e poi sia stata superata, cerca facilmente conferma attraverso la celebrazione sociale. La verità di ogni gioia deve invece essere cercata nel rinnovato incontro solitario con Dio; essa contiene un messaggio segreto, una parola promettente che può essere ascoltata unicamente a condizione di essere cercata nel silenzio.

Il paralitico

I gesti prodigiosi di guarigione compiuti da Gesù non possono essere compresi nella loro verità, e quindi anche apprezzati nel loro effettivo valore, se non a una condizione: che non ci si affidi a precedenti modi di sentire a proposito di salute e malattia, si riconosca invece che quei gesti sorprendenti annunciano una verità altra della malattia e della salute, una verità dello Spirito; di quella verità occorre rimanere in attesa. I modi di sentire precedenti sono certo molto umani, ma anche troppo umani; soltanto a condizione di accedere alla verità dello Spirito sarà possibile rendere testimonianza dell' opera di Dio.
Questo rimando alla verità dello Spirito trova espressione esplicita in un successivo racconto di Marco, la guarigione del paralitico (Mc 2,3-12). Esso non propone certo una recensione realistica dei fatti; risulta invece dalla rilettura del gesto di Gesù alla luce della fede pasquale. Più precisamente, risulta da una sofisticata rielaborazione di un precedente racconto più sobrio; la traccia precisa di tale rielaborazione è l'aggiunta al testo precedente di una interpolazione, abbastanza facile da riconoscere. Il racconto originario suonava pressappoco così:

Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov'egli si trovava e, fatta un'apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico [...]: Alzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua. Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: Non abbiamo mai visto nulla di simile! (Mc 2,3-5a.11-12).

L'evangelista (o forse già la tradizione precedente) avverte il rischio che il racconto in questa forma induca a un fraintendimento del gesto di Gesù; aggiunge dunque un'interpolazione. Vista la loro fede, Gesù, non dice subito all'uomo: alzati e cammina; gli dice invece: Ti sono rimessi i tuoi peccati. In tal modo è anticipato in maniera audace appunto il senso spirituale della guarigione, il messaggio dunque che Gesù intende esprimere con quel gesto; esso può essere compreso soltanto da coloro che credono. Quanti erano presenti però non credevano ancora. Non erano credenti in particolare alcuni scribi, che pensavano in cuor loro: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?» (Mc 2,6-7). Secondo ogni verosimiglianza, l'obiezione degli scribi alla pretesa di Gesù di rimettere i peccati non fu espressa in quella precisa occasione; essa è tuttavia nota attraverso molteplici indizi; più volte nei racconti evangelici ritorna infatti la notizia di una mormorazione dei farisei contro Gesù motivata dal fatto che egli mangia e beve in compagnia dei pubblicani e dei peccatori (cfr. Mc 2,16). Alla radice della mormorazione sta la convinzione che i peccatori non possono cambiare; se Gesù dunque mangia con loro, questo è il segno chiaro che non viene da Dio. Gesù invece dichiara espressamente di essere venuto per i peccatori (vedi Mc 2,17). Appunto tale pretesa di Gesù è respinta dai farisei come una bestemmia; e a motivo di tale incomprensione essi non possono intendere neppure i segni che egli compie.
Gesù dunque, avendo subito conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, chiese: Che cosa è più facile, dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? (Mc 2,8b-9). Un tale interrogativo è proposto anche a tutti noi: che cosa è più facile? Pare più facile dire: ti sono perdonati i tuoi peccati; una tale dichiarazione infatti non consente in alcun modo di essere verificata. Per riferimento alla sensibilità presente, in particolare, appare assai chiaro come tutto ciò che è detto a riguardo del peccato minacci di non contare nulla; la rimozione del peccato è uno dei tratti più appariscenti delle forme assunte dalla diffusa coscienza religiosa nel nostro tempo. Tale rimozione è strettamente legata all' altra, che colpisce appunto il profilo di testimonianza che di necessità assume la fede. Appunto perché tutti sapessero che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, Gesù ordinò al paralitico: Alzati e va' a casa tua (vv. 10-11). Attraverso tale configurazione del racconto, il vangelo di Marco dà testimonianza del gesto di Gesù; non si limita a informare, ma attesta la verità nascosta di quel gesto; segnala come esso non possa essere apprezzato a poco prezzo.
Proprio in forza del suo profilo di testimonianza il testo impegna il lettore a intendere la parola di Gesù come parola che lo riguarda. La verità spirituale del segno è l'annuncio del perdono di Dio; testimoni di esso potranno essere soltanto coloro che riconoscono tale verità. Essa, d'altra parte, subito trasforma il gesto di Gesù in un motivo di litigio. La guarigione, per se stessa, avrebbe messo facilmente tutti d'accordo; interpretata in quel modo, invece, diventa motivo di litigio. Così accadde allora, e così accade anche oggi, così deve accadere sempre.
Sappiamo riconoscere questa verità spirituale? Per farlo, occorre che noi riconosciamo prima ancora come la questione seria posta dalla paralisi delle gambe, e da qualsiasi altra infermità del corpo, sia appunto quella del peccato. La malattia non propone all'uomo subito e solo il compito di liberarsene. Un compito così, d'altra parte, per sua natura è affidato ad altri: al medico, ai farmaci, a competenze altre rispetto a quelle proprie della libertà di ogni uomo. Il rimedio clinico in molti casi non trova alcun competente; sicché alla nostra infermità, e anche a quella dei fratelli, sembra necessario arrendersi come a male ineluttabile. Ma la questione seria posta da ogni infermità non è quella clinica, ma quella spirituale. Il rimedio radicale alla malattia è la risposta alla questione del senso, o meglio del non senso, che la malattia obiettivamente solleva. Non la sofferenza è la vera questione, ma il difetto di senso della sofferenza (15); anzi, non solo della sofferenza, ma della vita tutta; lo strapotere della malattia si manifesta in questo, che essa rende dubbio il senso della vita cosiddetta "normale". La paralisi delle gambe, nel caso, pare interrompere in maniera tragica il cammino della vita tutta. Il cammino nella lingua biblica è la metafora fondamentale alla quale si ricorre per dire il senso dell'agire. Il fatto che dalla paralisi delle gambe sia arrestata la vita intera è conseguenza del fatto che la vita si affida in maniera troppo incauta alle gambe, e alle mani, e agli occhi, per trovare la via praticabile. Vissuta in questa prospettiva la vita appare di necessità a rischio; anzi, è condannata senza rimedio a finire. Colui che è colpito dalla paralisi delle gambe è fatalmente abbandonato alla sua sorte infelice.
Il paralitico del vangelo viveva la sua infermità come il segno di un castigo di Dio; neppure se ne rendeva bene conto; e tuttavia così stavano obiettivamente le cose. La fede induce lui e gli amici a rivolgere una richiesta a Gesù; la richiesta è espressione di una ritrovata consapevolezza: "la mia vita è possibile unicamente a questa condizione, che tu, Signore, abbia pietà di me". Non solo il paralitico, ma tutti noi viviamo ogni nostra infermità come il segno di un castigo, come indice del nostro peccato; non ce ne rendiamo conto, anzi rifiutiamo sdegnati questa interpretazione, quando essa ci sia proposta. E tuttavia proprio così stanno le cose. Riconoscerlo, parrebbe ai nostri occhi moderni e secolari come un'indebita indulgenza a modi di sentire arcaici e superstiziosi; la malattia dipende da fattori organici, e non da Dio; così assicura la scienza. In realtà, occorre riconoscere che la percezione emotiva di un nesso tra il peccato e la malattia non è affatto frutto di superstizione, è invece esperienza gravida di una verità innegabile. Perché quella verità possa essere compresa, occorre prima di tutto che essa sia cercata; e può essere cercata soltanto nel quadro del confronto ravvicinato con Gesù; egli solo infatti conosce quello che c'è nel cuore dell'uomo; soltanto mediante il confronto con lui possiamo venire a capo di ciò che si nasconde nel nostro cuore.
Il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, e dunque di esorcizzare quel potere del nemico, che si manifesta attraverso l'inesorabile senso di colpa che la malattia accende nei cuori. La malattia nostra, e anche quella di altri - anzi, soprattutto quella di altri -, appare come un male per il quale non abbiamo risorse; di fronte ad essa dunque noi facilmente fuggiamo. La comunità cristiana, come già la compagnia di Gesù, è composta - non a caso - soprattutto da poveri, sofferenti, malati; appunto la loro presenza impone alla fede il compito della testimonianza, il compito cioè di attestare una verità altra rispetto a quella che è posta al fondamento della vita "normale".

La moltiplicazione dei pani

Il segno visto dagli occhi rimanda a una verità dello Spirito, alla quale si accede soltanto mediante la fede. La dinamica illustrata per riferimento alla guarigione del lebbroso e del paralitico si realizza nel caso di tutti i segni compiuti da Gesù. Rilievo decisamente privilegiato assume il segno della moltiplicazione dei pani, il più clamoroso tra tutti quelli compiuti da Gesù, il più incautamente pubblico; a suo riguardo particolarmente forte è apparso il rischio che esso alimentasse un'intempestiva pubblicità. Quel gesto segna, non a caso, l'apice del processo di progressivo distacco di Gesù dalle folle: Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo, così interpreta efficacemente Giovanni (6,15). Al distacco dalle folle corrisponde la cura più precisa di Gesù per i discepoli; soltanto essi possono intendere il senso della moltiplicazione dei pani; a questa comprensione debbono essere condotti. E tuttavia, in prima battuta, neppure loro comprendono; tale incomprensione è registrata da Marco con franchezza addirittura spietata (6,52; 8,14-21).
In quel giorno Gesù, in un luogo deserto, aveva ancora una volta predicato il Vangelo del regno e operato molte guarigioni. Nell' ora in cui il giorno cominciava a declinare - così precisa il racconto di Luca (9,12-17, v. 12) - i Dodici suggeriscono a Gesù di congedare la folla, perché cerchi dove alloggiare e trovar cibo. Gesù rifiuta il consiglio e ordina ai Dodici di dare essi stessi da mangiare alla gente. Compie quindi il gesto strepitoso. A seguito di quel gesto muta di segno il desiderio dei Dodici; ora vorrebbero trattenere le folle e raccogliere in tal modo il successo che l'entusiasmo generale prometteva. Il nuovo desiderio dei Dodici nei vangeli non è espresso a parole; è facile immaginare che neanche nei fatti sia stato espresso a parole, e tuttavia esso appare chiaramente iscritto nella dinamica complessiva del racconto. In quel desiderio dei discepoli è facile riconoscere l'espressione di un desiderio anche nostro: i momenti di festa, che paiono dare immagine visibile e convincente alla famosa "comunità", a un rapporto visibile di amicizia che dà figura sulla terra alla verità sfuggente del vangelo di Gesù, suscitano facilmente il desiderio di trattenerli. Gesù, ancora una volta, non accoglie il desiderio dei Dodici; li rimette subito sulla barca, perché cerchino la verità del segno da lui compiuto altrove, in luoghi distanti dalla folla. Egli stesso rimanda poi la folla e sale solo sul monte a pregare (così in Mc 6,45-46).
Il racconto del segno dei pani costituisce una sorta di parabola breve ed efficace di tutto il vangelo. Il lieto annuncio è proclamato da Gesù mediante segni e prodigi, che si producono sotto gli occhi di tutti e suscitano stupore; la sua verità deve però essere cercata in segreto e nella solitudine. Appunto di questa verità nascosta - iscritta nei segni esteriori, ma che deve essere sempre da capo cercata mediante la preghiera - la predicazione apostolica offre testimonianza; unicamente nella forma della testimonianza quella verità può essere detta. Certo non basta essere testimoni oculari, insieme alla folla, dei gesti di Gesù; occorre un cammino di appropriazione personale. E quel cammino impone uno strappo dalle folle. Non stupisce in tal senso che la parola della testimonianza assuma il volto di parola che rompe i luoghi comuni e le attese diffuse; prenda addirittura la figura di deposizione giudiziale.

Il vino di Cana

Il senso spirituale dei gesti di Gesù trova espressione ancor più esplicita ed elaborata nel quarto vangelo, qualificato non a caso come il vangelo teologico. Illustrazione perspicua a tale riguardo offre in particolare il segno di Cana, il primo riferito in quel vangelo. Esso è compiuto per i discepoli, come dice espressamente il testo: Così Gesù diede inizio ai suoi segni in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui (Gv 2,11). Solo i discepoli saranno testimoni della sua gloria. Del tutto ignorata è la parte avuta nella vicenda dagli sposi; il maestro di tavola è ricordato soltanto come testimone dell'insipienza che affligge la gente di mondo.
Una considerazione distinta merita la parte avuta nel gesto dalla Madre. Essa è descritta, in prima battuta, in termini che suscitano stupore e addirittura scandalo. Mi riferisco alle parole dure, con le quali Gesù si rivolge a lei; esse paiono respingere il suo intervento: Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora (Gv 2,4). La risposta scostante di Gesù assomiglia all' altra, che egli dà al funzionario del re; l'accostamento delle due risposte aiuta a intenderle entrambe. Quell'uomo chiedeva la guarigione del figlio malato; Gesù gli disse: Se non vedete segni e prodigi, voi non credete (4,48). Il seguito del racconto mostra come in realtà quel tale fosse un vero credente, che non aveva bisogno di vedere per credere; nel momento in cui Gesù gli promise la guarigione del figlio, infatti, credette alla parola che gli aveva detto Gesù e si mise in cammino; grazie a questa sua fede meritò di vedere la grazia che chiedeva: mentre scendeva, gli vennero incontro i servi a dirgli: «Tuo figlio vive!» (4,50-51). Dunque, anche nel caso del funzionario, come nel caso della Madre, la presa di distanza iniziale di Gesù appare in seconda battuta precipitosa e ingiustificata. In realtà, nei due casi le parole dure poste sulla bocca di Gesù debbono essere intese non come un giudizio, ma come un'istruzione, o un comandamento (16); esse non riferiscono certo le parole effettive pronunciate allora da lui, ma danno espressione all'istruzione espressa dai suoi gesti per i discepoli che verranno. Nel racconto di Giovanni, Gesù rimanda fin dall'inizio al senso spirituale del gesto che egli si accinge a compiere; credere in quel senso è la condizione per vedere il segno. All'istruzione di Gesù subito risponde il funzionario che, pur senza avere visto ancora nulla, sulla sua parola subito si mette in cammino. E all'istruzione di Gesù risponde anche la Madre, che subito ordina ai servi: Fate quello che vi dirà (2,5); in tal modo ella suggerisce la forma che deve assumere la vita secondo la fede, la forma che sola sovverte la legge triste della vita, alla quale la gente di questo mondo pare invece rassegnata; mi riferisco alla legge che decreta la scarsità fatale, alla quale la vita dei figli di Adamo sarebbe esposta. Tale legge è proclamata dal maestro di tavola, per registrare poi subito che essa a Cana è stata smentita:

Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po' brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono (Gv 2,10).

La scelta di Giovanni di riferire alla richiesta della Madre stessa il tratto imperfetto e intempestivo, che assumono tutte le richieste da noi fatte a Dio prima che venga l'ora di Gesù, appare certo assai audace. La tua grazia vale più della vita, dice il Salmo (63,4); soltanto a condizione di conoscere la sua grazia, che supera la qualità della vita che noi spontaneamente cerchiamo, e di apprezzare tale grazia più della vita, sarà possibile conoscere la vita vera, che non ha bisogno d'essere gelosamente trattenuta, al contrario ha bisogno d'essere donata per non essere persa. Appunto alla grazia del Figlio la Madre si affida prima ancora di vedere; a tale prezzo ella vedrà esaudita la sua preghiera. Quella grazia diverrà oggetto della testimonianza cristiana, che il vangelo di Giovanni configura.
La considerazione dei segni compiuti da Gesù offre dunque un primo contributo, assolutamente imprescindibile, alla comprensione della testimonianza cristiana, del suo senso e insieme della sua necessità. Alla verità del vangelo è possibile accedere unicamente a condizione che si riconosca in tutto ciò che gli occhi vedono, le mani toccano e tutti i sensi apprezzano, una verità altra rispetto a quella resa manifesta dai sensi stessi. L'accesso a tale verità suppone un cammino. Gesù non si limita a compiere i segni che rinnovano la meraviglia originaria accesa dall' opera del Creatore; anche istruisce quel cammino, che solo abilita la fede a rendere testimonianza di fronte a tutti. Quello che Gesù fa, postula la testimonianza dei credenti per raggiungere tutti; e tutti Gesù vuole in effetti raggiungere. Gesù non si limita a disporre mediante i suoi gesti l'oggetto della testimonianza; egli anche istruisce i discepoli, perché possano finalmente accedere alla capacità di rendere testimonianza.

4. Soggettivismo e rimozione della testimonianza

Introduco a questo punto una sospensione della lettura dei testi del vangelo, per riprendere la riflessione antropologica, sul senso che la testimonianza assume nella vita di tutti. Come già sopra anticipato (17), infatti, la testimonianza cristiana corrisponde a un profilo proprio dell' esperienza umana universale; quel profilo essa riprende e conduce alla sua verità compiuta. Più precisamente, la testimonianza cristiana realizza il rimando a un compimento - addirittura a una salvezza - oggettivamente già presente nell'esperienza umana universale. La ripresa della riflessione antropologica intende precisare la collocazione della figura della testimonianza sullo sfondo dell' esperienza contemporanea. Il fatto che la verità, a cui di necessità rimanda l'esperienza umana, appaia sfuggente senza rimedio alla coscienza induce a negare in radice il rimando. Tale rimozione è una tentazione da sempre, certo, ma per molti aspetti essa è caratteristica dell'uomo contemporaneo.
Illustra efficacemente l'abdicazione a cercare la verità che sfugge la famosa sentenza scettica di Pilato: Che cos'è la verità? (Gv 18,38a); che interviene nel dialogo processuale tra lui e Gesù; a Pilato che lo interroga a proposito della sua regalità, Gesù risponde: 

«Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37).

Pilato non capisce di che cosa parli Gesù e attraverso l'interrogativo retorico Che cos'è la verità? intende chiudere il discorso. TI dialogo con Gesù lo induce a confessare d'avere già da tempo rinunciato a un' ambizione tanto grande, quale sarebbe quella di conoscere la verità. Pilato appare sotto tale profilo interprete inconsapevole del punto di vista proprio di questo mondo. Appunto questo mondo è al fondamento del suo potere; e tuttavia il mondo si nasconde e manda avanti lui (cfr. Gv 19,10-11).
All'incauta rimozione della questione della verità, imposta dal suo carattere insolubile (così pare), è da attribuire la negazione della stessa testimonianza quale figura necessaria della vita.
Una delle determinanti più decisive, che alimentano la rimozione della questione della verità nella tradizione occidentale, è la concezione soggettivistica dell'uomo; essa pregiudica in partenza la possibilità di intendere come il singolo debba di necessità riferirsi alla testimonianza di altri per venire a capo di sé. Ci proponiamo qui di chiarire il senso di tale soggettivismo; più precisamente, intendiamo distinguere due diverse forme del soggettivismo, che insieme concorrono a rimuovere il destino obiettivo dell'uomo, di essere testimone della verità.

Cristianesimo e civiltà

La figura della testimonianza, come già si notava (18), non è mai diventata oggetto di un consistente approfondimento ad opera della teologia. Nella storia effettiva della tradizione cristiana essa ha avuto certo un rilievo essenziale; ma non era avvertita la necessità di pensarne la figura. La circostanza non deve troppo stupire; sempre accade che le ultime idee a divenire oggetto di un chiarimento riflesso siano quelle che hanno rilievo fondamentale nella vita effettiva. L'univocità di quelle idee pare garantita dalle forme effettive dell' esperienza assai più che dalle definizioni. Così accade nella storia civile, e così accade anche nella storia cristiana.
Idee di rilievo assolutamente radicale, come ad esempio quelle di maschio e femmina, di padre e madre, di figlio e fratello, non hanno alcun bisogno di essere definite per apparire chiare nella vita effettiva. Quel chiarimento appare non solo non necessario, ma impossibile; proprio perché si tratta di idee tanto radicali, esse stentano ad essere messe a tema del discorso. Per ciò che si riferisce alla storia cristiana, possiamo citare l'esempio dell'idea di sacramento: essa è stata formalizzata dal pensiero teologico soltanto a procedere dal XII secolo; ma certo i sacramenti hanno avuto rilievo fondamentale nella vita effettiva della Chiesa fin dalle origini.
La necessità di un approfondimento riflesso si produce, tipicamente, a seguito di sollecitazioni pratiche, che rendono dubbie idee che in prima battuta apparivano invece del tutto chiare, senza alcuna necessità di essere pensate. La stessa idea di teologia, dunque di un sapere metodico a proposito della verità della fede, si afferma soltanto con la nascita della schola. Nella stagione che vede la nascita della teologia, l'idea di testimonianza non pareva proporre più quei motivi di urgenza, che avevano propiziato invece il suo grande rilievo nei primi secoli di vita della Chiesa.
Documento di tale rilievo è la celebrazione della figura del martire nei primi due secoli che precedono l'avvento di Costantino; il martire è appunto il testimone. Con l'Editto di Milano il cristianesimo è proclamato religio licita, compatibile con la lealtà nei confronti dell'impero; è in tal modo decretata la fine delle persecuzioni. Il cristianesimo si affermò poi abbastanza in fretta come unica religione viva; il paganesimo appariva infatti ormai sfinito ed estinto quale effettiva forma della coscienza religiosa, in quanto non esisteva più il contesto istituzionale e di costume capace di fare della religione pagana una pratica atta a provvedere alle necessità della coscienza individuale. Neppure esisteva più un pensiero pagano; la filosofia in particolare non mostrava alcun bisogno di ricorrere all' eredità mitologica del paganesimo per elaborare il senso delle forme della vita quotidiana. Il cristianesimo al contrario si appropriò della stessa eredità pagana, dei suoi miti come anche delle virtù del mondo classico, restituendo ad essi rinnovata vitalità. Questo appare come uno dei paradossi della storia cristiana in Occidente: la conservazione del patrimonio simbolico della tradizione greca e latina, fino all' età di mezzo e addirittura fino alla stagione moderna, fu assicurata appunto dalla tradizione cristiana. Interpretare l'egemonia civile del cristianesimo, come spesso si fa, quasi fosse conseguenza di un'operazione di potere è semplicistico; non il potere imperiale rese cristiano l'Occidente, ma la capacità della verità cristiana a riprendere e restituire forza persuasiva alla stessa tradizione civile comune.
L'avvento di una respublica christiana comportò certo anche consistenti minacce alla fedeltà della Chiesa nei confronti della verità del vangelo. Il cristianesimo è obiettivamente sollecitato ad assumere la forma. di religione civile. Lo possiamo verificare considerando il destino storico del termine respubblica. Cicerone definiva la respubblica come «una moltitudine ordinatamente consociata sulla base del consenso alla legge e volta al fine dell'utilità comune» (De Republica, I, 25). In base a tale definizione, la respublica non era un semplice regime politico; sotto questo profilo essa poteva assumere figure assai diverse: poteva essere tanto "popolare" quanto "regia", come afferma espressamente Cicerone (De Republica, III); il termine respublica definiva invece la forma dell' alleanza sociale; essa non si opponeva alla monarchia, ma semmai ai governi tirannidi, che calpestano le leggi poste a fondamento della vita comune. Il termine respublica assume un'accezione decisamente diversa nel medioevo, proprio grazie al cristianesimo. Comincia allora a indicare un ordine sociale universale, fondato sulla pace e sulla giustizia. Suo fondamento sarebbe appunto la verità del vangelo. Che il vangelo possa diventare il fondamento di un ordine civile appare oggi convinzione assai dubbia, in obiettiva contraddizione rispetto all'immagine del cristiano quale martire, testimone dunque di una verità che il mondo non conosce, né può conoscere.
A seguito della diffusione rapida della fede, quindi dell' egemonia civile del cristianesimo, forma eminente della santità non è più quella del martire, ma quella del confessore. Tale figura è rappresentata tipicamente dal vescovo, che dedica tutta la propria vita alla predicazione del vangelo; e rispettivamente dal monaco, che pure dedica tutta la vita alla testimonianza del vangelo, non mediante la predicazione, ma mediante la pratica di una vita ascetica. I vescovi stessi d'altra parte sono scelti di preferenza tra i monaci. Essi sono testimoni, nel senso che attestano la verità del vangelo attraverso una forma di vita celeste, o apostolica. La formula vita apostolica, usata per definire la vita monastica, non si riferisce in origine alla missione di predicare il vangelo, ma alla comunione dei beni praticata dalla prima chiesa di Gerusalemme.
Appunto attraverso la comunione dei beni è atte stata una forma di vita escatologica, altra rispetto a quella comune tra i figli di Adamo.
Anche il confessore, come il martire, è testimone di una verità altra rispetto a quella posta a fondamento della vita comune, così come essa si configura anche in una società cristiana; è testimone di una verità addirittura contraddittoria rispetto a quella. Anche il confessore denuncia la menzogna di questo mondo e sollecita alla fuga dal mondo. E tuttavia il fatto che egli viva come monaco in un eremo o in un cenobio, che esprima il suo impegno pratico nella forma dell' ascesi (la parola significa esercizio), o che viva come vescovo libero dalle cure della famiglia, rende meno evidente il fatto che la sua vita realizza una nuova interpretazione delle forme comuni della vita, dunque del matrimonio, della famiglia, del lavoro, della stessa vita politica. La vita ascetica appare assai più come fuga dalle forme comuni della vita (fuga mundi, appunto), che come una ripresa critica di quelle forme.
Certo la vita cristiana, considerata nella sua forma ascetica, comporta obiettivamente anche una lotta contro la menzogna di questo mondo. Tale lotta è interpretata ora però in termini decisamente "interiori", come lotta tra le diverse potenze dell'uomo, e non tra la giustizia terrena e quella escatologica e celeste. Dunque nei termini del conflitto tra logos (o ratio) e passioni, non nei termini del conflitto tra verità della fede e pretesa verità della respublica. Appunto su questo sfondo occorre intendere il deciso declino della testimonianza intesa nel suo preciso significato giudiziale, che è poi quello originario.
Nel tempo dei confessori l'ordine civile sotteso alle forme comuni del vivere appare ormai come giusto, addirittura sanzionato dal potere ecclesiastico (sacerdotium): la società è infatti ormai accomunata dal con senso alla fede cristiana. La lotta ascetica non si riferisce in tal senso a un'ipotetica menzogna di tale ordine esteriore, in contraddizione rispetto alla fede; si riferisce invece al carattere laborioso che assume l'appropriazione interiore di quella giustizia, che pure è attestata in forma soltanto esteriore anche dalle forme della vita comune. Tale appropriazione interiore, inoltre, è descritta sempre più frequentemente in termini di gnosi, di conoscenza o di contemplazione delle verità dello spirito, piuttosto che in termini di conversione dei costumi.
La figura del martirio conosce certo ragioni di rinnovata attualità nelle successive stagioni civili. Soprattutto nella stagione delle missioni, in Oriente prima, in Africa poi. Non a caso, proprio nelle regioni di Oriente furono più cospicue le occasioni di martirio: in quei paesi infatti la predicazione cristiana doveva confrontarsi con contesti civili segnati da grandi tradizioni, di carattere insieme etnico e religioso. In America e in Africa continuavano a sussistere troppo forti ragioni di complicitàtra la missione cristiana e la persistente egemonia civile dell'Occidente. La stessa situazione presente dispone virtualmente lo sfondo propizio alla rinnovata attualità della testimonianza; mi riferisco alla nuova contiguità del cristianesimo con tradizioni etnico-religiose diverse nella società multietnica. La realizzazione effettiva di un pensiero sulla testimonianza pare per altro pregiudicata dall'inerzia di pregiudizi antichi.
Mi riferisco in particolare alla concezione soggettivistica del soggetto. Essa postula che il soggetto individuale possa e debba realizzare la propria identità senza riferimento al contesto civile e culturale entro il quale realizza la propria vicenda esistenziale. Questa concezione appare fino ad oggi come la più diffusa, anche se molti indici mostrano la grande dipendenza del singolo dai pregiudizi comuni.
Il postulato di una pretesa insularità del soggetto ha una storia molto lunga e complessa. Assume forme assai diverse nelle diverse stagioni. E tuttavia attraversa la tradizione del cristianesimo occidentale in tutto il suo arco storico. Ricorrendo a uno schema semplice, possiamo distinguere due figure fondamentali del soggettivismo: quella propria del pensiero antico e quella propria invece del pensiero moderno. Nel caso moderno il soggettivismo non è più soltanto un modo di pensare, ma è uno stile concreto di vita alimentato dalle forme complessive che assumono oggi i rapporti umani.
Il soggetto diventa tema esplicito di discorso e di pensiero soltanto nei tempi moderni; si produce allora addirittura una vera e propria apoteosi del soggetto. Il primato del soggetto, come comunemente riconosciuto, è il tratto più qualificante del pensiero moderno. Tale primato è pensato, e poi anche praticamente perseguito, nella forma fondamentale dell' emancipazione del soggetto dalla soggezione alla tradizione civile. Appunto questa è la forma sintetica del programma illuministico. Il tramonto del moderno, di cui vanno parlando i fautori del postmoderno, assume questo tratto non marginale: l'abbandono di quel troppo ambizioso programma di emancipazione. La retorica del moderno - quella dunque che proclama la libertà del soggetto e l'impossibilità di sindacarne le convinzioni di coscienza - continua tuttavia fino ad oggi a prevalere nelle forme del dibattito pubblico, e in specie del dibattito politico.
Il soggetto e la sua autonomia diventano una sorta di causa santa soltanto nei tempi moderni. In tal senso, parrebbe a priori poco persuasiva la tesi che proponiamo, che si possa cioè parlare di una sindrome soggettivistica già per rapporto al pensiero antico. La tesi chiede una spiegazione. Occuparsi del pensiero antico appare in ogni caso importante fino ad oggi, perché le forme del pensiero antico non sono affatto passate: offrono invece fino ad oggi gli schemi di pensiero che stanno al fondo dei discorsi comuni; offrono, in particolare, anche gli schemi del discorso che a proposito dell'uomo propone la dottrina cattolica.

Un soggettivismo antico?

Nella stagione antica, il soggettivismo riguardava le forme del pensiero, della filosofia in particolare, assai più che le forme pratiche della vita. I caratteri di tale soggettivismo debbono essere precisati.
Del tema preciso del soggetto il pensiero antico non si occupava; si occupava però dell'uomo e ne dava rappresentazioni segnate da un deciso tratto naturalistico. L'identità dell'uomo pareva fissata dalla sua natura, suscettibile in tal senso di accertamento a monte rispetto ad ogni considerazione delle forme effettive del vivere. Soprattutto, quella definizione non aveva necessità di riferirsi espressamente alla coscienza dell'uomo, dunque alle forme della presenza del soggetto a se stesso. L'uomo era descritto in tal senso come può essere descritto ogni essere di natura. Ma non stanno affatto in questi termini le cose. Illustriamo queste affermazioni, troppo rapide e oscure, con qualche illustrazione esemplificativa.
Gli occhi dell'uomo non sono come quelli di ogni animale. Gli occhi umani, dice il Qoelet, non sono mai sazi di guardare; il desiderio insaziabile degli occhi umani può essere compreso soltanto quando si consideri il nesso stretto che li lega al desiderio, dunque alla coscienza, allo spirito stesso dell'uomo. Il desiderio che cerca inutilmente la propria sazietà attraverso gli occhi è, senza ombra di dubbio, desiderio dell'anima, non degli occhi. Per essere appena un poco più concreti, pensiamo a una forma paradigmatica del desiderio degli occhi, l'attrattiva tra maschio e femmina: essa nell'uomo non ha certo la stessa fisionomia che ha nel caso degli animali. Non a caso, tale attrattiva è interpretata nella Bibbia come il riflesso di una precisa disposizione di Dio: Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile (Gn 2,18). Proprio grazie all'incontro tra uomo e donna nasce la parola, la forma fondamentale mediante la quale è articolato il significato di tutte le cose. La relazione tra i sessi (se si può usare per un momento un' espressione tanto grossolana) nel caso umano appare più che il mezzo per provvedere alla riproduzione, decisamente molto di più. Nel caso degli umani, d'altra parte, la generazione stessa ha un profilo più complesso rispetto a quello della mera riproduzione della specie: attraverso il rapporto tra genitori e figli trova determinazione la speranza arcana, originariamente dischiusa dall'incontro tra uomo e donna. Quello che si dice degli occhi deve essere detto analogamente di tutti i cosiddetti sensi esterni.
Anche le facoltà superiori, quelle specifiche dell'uomo, la ragione dunque e la volontà, la facòltà di conoscere e quella di agire, sono concepite nella tradizione del pensiero antico quasi fossero mere facoltà, disposte dalla natura stessa dell'uomo; in quanto definite dalla nascita, esse sarebbero immuni da ogni debito nei confronti del dramma effettivo della vita. Occorre invece riconoscere che l'uomo mai potrebbe giungere ad agire e anche a conoscere in forza della sola natura; a disporre quelle facoltà concorre tutto ciò che egli sperimenta; più precisamente, tutto ciò che egli vive inizialmente nella forma passiva dell' essere affetto. Per volere, non basta affatto disporre di una facoltà naturale; occorre invece che si realizzi una certa vicenda, un seguito di passioni e di azioni, mediante le quali soltanto si dischiude al soggetto il volto promettente della vita. La coscienza di sé è propiziata da una serie di accadimenti lieti; essi predispongono le condizioni remote, che sole permettono la configurazione della sua intenzionalità, sia di quella teorica che di quella pratica, dunque sia della sua conoscenza che della sua volontà.
Il principio trova illustrazione eloquente nell' esperienza dell'incontro tra uomo e donna, così come efficacemente interpretata dal racconto biblico. Adamo, prima di svegliarsi dal suo sonno arcano, non è in grado di volere una compagna; può volerla unicamente sullo sfondo della prima esperienza sorprendente. Svegliandosi dal sonno, egli vede accanto a sé colei che riconosce come aiuto a lui corrispondente; soltanto la meraviglia dischiude ai suoi occhi la possibilità di riconoscerla come carne della sua carne e osso delle sue ossa (Gn 2,23). Soltanto così egli può volerla. Anzi, a quel punto egli non solo può, ma addirittura deve volerla. La grazia dell'incontro promettente genera l'impegno corrispondente.
Alla conoscenza del senso di tutte le cose l'uomo è abilitato non da una pretesa facoltà naturale, quale sarebbe in ipotesi la ragione, ma grazie alla meraviglia originaria, segno di un' anticipazione della propria vita ad opera di altri. Già i filosofi antichi hanno più volte riconosciuto questo nesso radicale tra conoscenza e meraviglia (19), senza che mai tale riconoscimento trovasse riscontro nel loro pensiero sistematico. La meraviglia è accesa da ciò che accade, e accadendo sorprende, alla lettera prende da sopra. Sorprende, appunto perché manifesta un'intenzione antecedente a noi rivolta, che ci precede e ci istruisce sul cammino della vita.
Troviamo un'illustrazione chiara e illuminante di tale rapporto tra conoscenza e meraviglia nella prima esperienza del bambino. Tra i tre e i quattro anni i bambini ripetono in maniera addirittura ossessiva la domanda: che cos'è? Solo grazie a tale domanda, e quindi attraverso l'attesa di cui essa è documento, essi imparano a nominare tutte le cose, non certo mediante spiegazioni della ragione. Interrogano e possono apprendere, perché prima di tutto sono colpiti dalle cose che vedono, toccano, sentono. Colpiti perché in tutte le cose avvertono una ragione di prossimità alla loro vita; prima ancora di sapere che cos'è questo o quello, intuiscono che questo o quello li riguarda. La vita è possibile soltanto grazie a un' anticipazione che apre il cammino. Per interpretare tale stato di cose, possiamo azzardare il ricorso a una formula breve, assai impegnativa, suggerita dalla lingua cristiana: la vita umana è possibile soltanto in forza della grazia. La tua grazia vale più della vita, dice il salmo (63,4); soltanto in forza della tua grazia, o Dio, diventa per me possibile la vita.
Lo schema di pensiero fino ad oggi più comune a proposito dell'uomo appare lontano da questa prospettiva. Mi riferisco allo schema che può essere sinteticamente definito come" antropologia delle facoltà". Secondo tale schema, gli atti davvero umani, e cioè volontari, procederebbero dalle facoltà naturali: dalla ragione, che conosce il fine e quindi la legge; e dalla volontà, che in obbedienza alla ragione comanda gli atti conformi alla legge. In riferimento a un modello di pensiero come questo appare giustificato parlare di soggettivismo: il termine segnala un'indebita maggiorazione delle facoltà del soggetto. In forza di tale maggiorazione è rimossa la dipendenza originaria del soggetto da altro da sé, da ciò che accade, più precisamente dalla presenza di altri alla propria vita; mentre proprio grazie a tale presenza il soggetto accede alla coscienza di sé.
La rappresentazione soggettivistica del soggetto preclude la possibilità di intendere la figura della testimonianza e il suo rilievo essenziale in ordine alla costituzione del soggetto. Illustro il nesso con qualche indicazione esemplificativa.
Pensiamo al rapporto tra genitori e figli. Per raccomandare ai figli le leggi del vivere accade oggi che i genitori si affidino a principi di carattere generale. Questo accade con più evidenza nell' età dell' adolescenza; nell' età infantile infatti il figlio pare riconoscere la pertinenza delle leggi che il genitore gli propone senza alcuna necessità di spiegazioni. In realtà nella stagione civile più recente accade che i genitori avvertano la necessità di ragionare e giustificare espressamente davanti ai figli le indicazioni di comportamento che propongono loro già in età infantile, soprattutto nella fanciullezza. Alla radice della crescente necessità di spiegazioni sta un obiettivo difetto di densità simbolica dei comportamenti dei genitori, e degli adulti in genere; tali comportamenti appaiono sempre meno idonei ad attestare ai figli l'ordine universale dei rapporti umani. E tuttavia fino ad oggi la testimonianza dei genitori appare assolutamente necessaria perché possa essere istituito il senso della legge. La norma che impone di chiedere per piacere e dire grazie, ad esempio, non può apparire pertinente e vera al figlio se non a questa condizione, che il figlio riconosca in essa la norma iscritta nelle forme effettive del suo rapporto con i genitori, a monte della sua precisa consapevolezza.
La norma istruisce a proposito di un' alleanza già da sempre realizzata e assolutamente irrinunciabile per il figlio. Non a caso, la prima sanzione che una madre minaccia al figlio per la sua disubbidienza è il proprio dispiacere: "Se fai così, la mamma non è contenta". Il bambino non può in alcun modo sopportare l'idea che la mamma sia scontenta per colpa sua. Non può sopportare in genere l'idea che la mamma sia scontenta, e non sa immaginare altra possibile ragione per la sua eventuale scontentezza se non quella che nasce dai suoi comportamenti: se la mamma è scontenta, il bambino pensa che sia sua la colpa. Anche in tal modo egli diventa testimone involontario di una verità profonda, della quale certo non è consapevole: il figlio èragione di vita per la madre. La madre stessa è ragione di vita per il figlio. La verità, immediatamente attestata dalle forme della relazione primaria, dunque di carattere solo affettivo, è quella di una promessa. Alla determinazione di quella promessa madre e figlio possono giungere soltanto attraverso le forme del loro rapporto distese nel tempo. La verità della promessa potrà essere trovata unicamente a condizione di venire a parola, di essere così oggettivata, strappata cioè alle sue forme soltanto affettive. Venendo a parola quella verità configura addirittura una visione del mondo, e di Dio stesso. Rimarrà per sempre indimenticabile la referenza di tale visione al dramma originario. Precisamente in tale prospettiva occorre intendere il senso e la pertinenza del comandamento onora il padre e la madre.
Padre e madre, per raccomandare le norme morali, invece di riferirsi alle immagini offerte dai rapporti effettivamente vissuti tra di loro, fanno oggi riferimento troppo precipitoso a principi generali. Tale circostanza ha di che apparire agli occhi del figlio come una proditoria sottrazione dei genitori alla loro responsabilitàdi testimoni. La tentazione di rifugiarsi in pretesi principi generali, o di ragione, indipendenti dunque dalla propria persona, diventa ancor più facile nell'età dell'adolescenza del figlio: prevedibile è infatti allora la difficoltà di confermare la verità espressa dalla relazione primaria, quella di un padre e di una madre eterni, a fronte della crescente complessità della vita del figlio. E tuttavia anche allora il figlio intende, giustamente, il ricorso a principi generali come un tradimento.
Nell'età dell'adolescenza, d'altra parte, la tentazione di sostituire l'appello a pretesi principi generali alla memoria della relazione primaria coi genitori si rende operante per il figlio stesso; egli teme infatti che la memoria lo respinga sempre da capo alla condizione infantile. Come noto, gli adolescenti inclinano al massimalismo idealistico, o forse meglio ideologico; attraverso di esso cercano rimedio all' obiettivo difetto di identità. Il rimedio a questo inganno ideologico è la testimonianza, la fedeltà cioè al vincolo che l'originaria alleanza impone a genitori e figli. Tale fedeltà non può essere impedita da incomprensioni inevitabili, ma solo transitorie. Anche a proposito di Gesù dodicenne nel tempio è scritto che i genitori non compresero le sue parole; e tuttavia egli partì con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. L'incomprensione non è dimenticata come uno spiacevole e transitorio incidente; sua madre serbava invece tutte queste cose nel suo cuore, in attesa che esse divenissero chiare. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini (Lc 2,50-52).

Il soggettivismo moderno

Il soggettivismo assume in epoca moderna forme abbastanza diverse. Assai più che alimentato dalle teorie, ossia dalle forme del pensiero concettuale, esso ha ora i tratti di un destino pratico. La profonda trasformazione civile pare decretare infatti per il soggetto uno smarrimento, o quanto meno un'eclisse, di quei criteri che soli potrebbero propiziare la sua identificazione.
La trasformazione di cui si dice è sinteticamente definita dal passaggio da una società organica a una società complessa. La qualifica di società complessa si riferisce al fatto che la società perde la propria unità simbolica; perde ogni riferimento a un cielo di certezze da tutti condivise. Un cielo di questo genere sussisteva invece nelle società convenzionali, presso le quali il consenso civile aveva evidente qualità religiosa. Il cielo appare pregiudizialmente rimosso dalla nuova realtà sociale, che si presume laica. La laicità non nasce solo, né prima di tutto, dalla nuove forme del pensiero e neppure dalla divisione delle Chiese o dal successivo conflitto delle ideologie; la sua radice più profonda è invece la frammentazione dei singoli sistemi di scambio sociale e la loro conseguente secolarizzazione. La politica si divide dalla religione, poi anche dalla famiglia, dai sistemi di scambio affettivo in genere. Dalla religione, e da qualsiasi riferimento a principi ideali, si separa soprattutto l'economia, e cioè quel sistema di scambio reale che è il mercato; esso appare per sua natura indifferente alle convinzioni ideali che presiedono alla vita dei singoli. Dalla religione si separano infine anche i nuovi saperi scientifici. Ogni singolo sistema parziale di scambio sociale pare condannato a reggersi su regole sue proprie, rigorosamente sequestrate dai convincimenti ultimi dei singoli.
Il processo di frammentazione sociale si produce soltanto in tempi distesi. E tuttavia il destino della trasformazione sociale è segnato fin dall'inizio. La società èdestinata a divenire semplice sistema dei bisogni (la formula è di Hegel), un sistema dunque comandato dai bisogni individuali, definiti a monte dello stesso rapporto sociale. In tal modo, la società perde la sua antica attitudine a valere quale configurazione dell'immagine della vita buona; che cosa sia vita buona è deciso dal singolo in maniera insindacabile - così quanto meno si pensa. In realtà, la figura della vita buona non può trovare definizione altro che sullo sfondo della vita comune, o della polis. Il termine stesso di politica conosce in epoca moderna un mutamento del suo significato; un tempo si riferiva alla polis; ora si riferisce invece allo stato, l'istituzione deputata all'esercizio del potere legittimo. In tale contesto sociale il singolo pare come condannato a diventare individuo, a rappresentarsi dunque come soggetto individuale definito nella sua identità prima di ogni rapporto con altri. In questo senso appunto il soggettivismo appare come un destino.
Sullo sfondo di tale destino civile occorre intendere le stesse forme del pensiero recente. Il soggettivismo assume nella stagione moderna la forma di una critica al soggettivismo antico. Quello accordava poteri irreali alle facoltà del soggetto, e non si poneva in alcun modo la domanda a proposito della sua identità; il soggetto individuale era pensato come semplice esemplare di un genere. Mancava, più precisamente, la considerazione della coscienza, intesa precisamente come il complesso delle forme mediante le quali si realizza la presenza a sé del soggetto. I criteri dell' agire - di volta in volta pensati come la virtù, il bene, oppure la legge - erano in ogni caso pensati come determinati in termini oggettivi, tipicamente quale opera della ragione, senza riferimento al tempo e alle forme singolari che la coscienza assume nel suo divenire. La nascita del pensiero critico, all'inizio dell' epoca moderna, contesta la pretesa qualità razionale di quei criteri; denuncia la loro dipendenza dal pregiudizio sociale. Contro tale pregiudizio afferma il primato della coscienza, o - come dice Cartesio - del cogito: soltanto le forme nelle quali si realizza la presenza a sé del soggetto avrebbero una certezza sottratta ad ogni ragionevole dubbio.
Il primato della coscienza nel pensiero di Cartesio e in molta parte di tutto il pensiero moderno, quello kantiano tipicamente, è interpretato ancora in termini razionalistici, identificando dunque la coscienza a priori con la voce della ragione. Ma nel Novecento si afferma con crescente evidenza il carattere inesorabilmente formale di questa concezione razionale della coscienza. L'identità singolare del soggetto diventa allora qualche cosa di insostituibile, ma insieme ineffabile. Il criterio di verità dell'agire umano diventa, a quel punto, l'autenticità, come a dire la fedeltà del soggetto a se stesso; così si esprime in particolare la lingua del pensiero esistenzialista del Novecento. L'agire è inteso a quel punto quale espressione di un soggetto, la cui identità ineffabile sarebbe determinata a monte rispetto alla sua vicenda pratica. Questo modo di pensare - o forse solo questo modo di dire - pare quello fino ad oggi più comune presso le persone colte.
Appunto questo è lo sfondo entro il quale trova definizione la nuova immagine di testimonianza, caratteristica della lingua oggi corrente, e anche di molta parte della lingua cattolica. Come testimone è considerato e apprezzato il soggetto che dice fedelmente di sé, che si confessa e non si nasconde sotto il velo delle convezioni sociali. Il genere letterario delle nuove confessioni, come già accennato, è di qualità assai diversa rispetto al modello originario proposto da Agostino (20); le confessioni moderne non si producono davanti a Dio; non sono il documento della resa del singolo alla verità, che da sempre interpella e alla quale troppo a lungo è stata opposta resistenza; non è più resa alla voce di Dio che parla nei cuori; non è più resa alla sua grazia e confessione del proprio peccato; diventano invece mere aperture dell'animo.
È davvero possibile l'apertura dell'animo? A quali condizioni? Per divenire possibile, essa avrebbe bisogno di interlocutori affidabili. Di fatto ci si accontenta di interlocutori complici. La confidenza - come già si accennava - è la forma di comunicazione tipica degli adolescenti, non a caso; per essi l'ammiccamento reciproco assume la consistenza di surrogato necessario per il fisiologico difetto di identità. Passata quell'età, un interlocutore affidabile anche solo in questo senso modesto appare sempre meno probabile. La confessione è raccolta allora in un libro. Già gli adolescenti, per altro, spesso affidano le loro confessioni al "caro diario". Nel caso dei più noti scrittori le confessioni assumono la forma di una sorta di lettera scritta agli assenti, magari addirittura ai posteri (21); in ogni caso a destinatari la cui interlocuzione è considerata non rilevante per apprezzare la verità di ciò che si confessa.

Fisionomia della testimonianza

Le considerazioni proposte consentono di suggerire una descrizione più articolata della figura della testimonianza e del rilievo necessario che essa assume per rapporto alla realizzazione del soggetto libero.
La vita dell'uomo anzitutto accade, si realizza dunque a monte di ogni consapevole intenzione; lo stesso agire umano, nelle sue prime forme spontanee, è denso di un'intenzione, o di un senso, che ancora sfugge alla consapevolezza del soggetto, ma che dispone le condizioni perché egli possa e debba avere intenzioni. In quelle sue prime forme l'agire è possibile grazie all'anticipazione di altri, che attendono il soggetto e - per così dire - lo chiamano. La vocazione però, che sola e fin dall'inizio rende possibile la vita, viene a coscienza soltanto in un secondo tempo. La risposta libera a quella vocazione è possibile unicamente nel momento in cui ad essa è data parola, quando il soggetto può dare la propria parola, e dunque promettere. Il primo significante della vocazione è appunto quel primo cammino facile e grato della vita; l'agire libero assumerà poi l'aspetto di ripresa di quel cammino. Più precisamente, l'agire libero ha la forma della risposta alla promessa attestata da quel primo cammino.
Efficace metafora per descrivere il primo cammino della vita è l'immagine del bambino portato in braccio.
Egli non sa camminare e neppure gli è chiesto subito tanto; alla capacità di camminare egli giunge soltanto passando attraverso l'esperienza di essere portato in braccio. La metafora suggerisce come nel primo cammino della vita il soggetto ancora non sa quello che fa, e tuttavia fa. Ancor meno sa quello che dice, e tuttavia in fretta dice. La verità dei suoi primi gesti spontanei è custodita dalla madre che lo porta in braccio. Egli giunge a consapevolezza di sé nella misura in cui si appropria della parola che la mamma gli dice, e più in generale del senso conferito ai suoi gesti dall' anticipazione della madre. Essa è in tal senso testimone della verità della sua vita. Soltanto in un secondo tempo il bambino diventa capace di riprendere in maniera deliberata i suoi primi comportamenti, e di confermare in tal modo i legami che essi già attestavano tra lui e la madre, tra lui e tutti. Nella misura in cui può, anche deve.
Alla luce di queste elementari considerazioni possiamo suggerire una prima determinazione della figura della testimonianza. Meglio è possibile distinguere due diverse determinazioni di quella figura, per altro strettamente legate. In un primo senso, solo interlocutorio, realizzano la figura della testimonianza tutti quei comportamenti spontanei, attraverso i quali si producono i primi legami della vita, e quindi anche le condizioni che sole rendono possibile l'insorgenza del soggetto. In un secondo senso, più vero, realizzano invece la figura della testimonianza quei comportamenti mediante i quali il soggetto consente alla verità attestata dai primi comportamenti spontanei. Tale consenso diventa possibile soltanto grazie alla parola; essa è resa possibile soltanto grazie a quella prossimità arcana che si realizza tra gli umani a monte rispetto alla loro consapevole intenzione. Le prime forme dell' agire sono documento di una verità che trascende il soggetto, e tuttavia essa sola consente al soggetto di venire a coscienza di sé. L'attestazione realizzata dalle prime forme dell' agire dispone le condizioni perché, in seconda battuta, io stesso possa e debba rendere testimonianza alla verità che mi costituisce.
Le illustrazioni più facili ed eloquenti della testimonianza non deliberata sono quelle offerte dalla relazione tra genitori e figli. Quello che i genitori fanno per i figli spontaneamente, assisiti dall' affetto, senza consapevolezza previa adeguata, impegna la loro libertà futura; essi attestano ai figli una promessa, di cui intendono il senso solo in un secondo tempo. Quando ciò avviene, a misura dunque in cui essi accedono al senso della loro prima promessa, debbono anche esprimere un'intenzione corrispondente. Il rifiuto di questa seconda e piena forma della testimonianza da parte dei genitori fa apparire i loro comportamenti precedenti come un inganno, e pregiudica la possibilità che il figlio trovi la propria origine.
La seconda testimonianza assume esplicitamente la forma di confessione di una verità che precede figli e genitori. In tal senso, accettare il compito della testimonianza equivale a confessare mediante la propria vita libera la verità annunciata dagli inizi. A questo compito si oppone una tentazione radicale: negare la trascendenza degli inizi, negare dunque la misteriosa origine grazie alla quale soltanto è possibile il cammino della vita; rivendicare invece una competenza esclusiva circa il senso delle proprie azioni. Esse sarebbero sempre e solo espressione di nostre intenzioni, sottratte ad ogni possibile sindacato di merito da parte di altri.
L'affermazione di una tale assolutezza delle intenzioni personali comporta, di necessità, la negazione dei vincoli che dall'inizio ci legano gli uni agli altri grazie alle relazioni primarie. Ai suoi inizi la vita è possibile soltanto nel segno dell' alleanza con altri; e questi inizi attestano una verità che vale per sempre; il compito della testimonianza è appunto quello di onorare questi vincoli che legano per sempre.
L'esperienza umana comporta in ogni caso il compito della testimonianza. Prendere atto di tale sua necessità universale è condizione essenziale per intendere il senso della stessa testimonianza cristiana; per intendere anzitutto il senso che la testimonianza assume nella vita di Gesù, e quindi nella sua relazione con tutti gli uomini. La figura cristiana della testimonianza è oggi esposta a un' obiettiva censura, perché prima ancora è ignorata e addirittura negata la necessità inesorabile della testimonianza per tutti i nati di donna. La figura cristiana della testimonianza interpreta e insieme realizza un compito che fin dall'inizio è proposto a tutti i nati di donna dal comune mestiere di vivere.
I luoghi comuni della retorica" democratica" conferiscono alla testimonianza cristiana il profilo di pretesa arrogante. Nessuno infatti pare autorizzato a elevare una pretesa tanto grande, come sarebbe quella di rendere testimonianza alla verità ai fratelli; essa appare inevitabilmente arrogante. Comporterebbe infatti - così si obietta -la pretesa di "possedere" la verità. Il cristiano non eleva certo la pretesa di "possedere" la verità; semmai confessa di essere dalla verità posseduto; riconosce insieme che Gesù effettivamente eleva una tale pretesa e a quella sua pretesa acconsente. Dio nessuno l'ha mai visto, e tuttavia di Lui da sempre si tratta nella vita di tutti noi; siamo per così dire" condannati" a occuparci di Lui, così come siamo" condannati" a occuparci della verità. Quello che nessuno ha mai visto proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato (Gv 1,18). Per accedere alla sua rivelazione è necessario correggere la segreta abdicazione pregiudiziale a cercare la verità.

5. Il modello decisivo: il discepolo

Torniamo alla considerazione dei testi evangelici, per verificare come essi impongano una correzione del significato di testimonianza così come esso è configurato dall'uso crescente della categoria nella lingua del cattolicesimo contemporaneo. Tale significato appare vicino a quello sugge:rito dal soggettivismo moderno: a procedere dalla concezione pregiudiziale del soggetto come individuo solipsistico, la testimonianza è intesa come la parola che dice quello che tale soggetto vive; la parola in genere sarebbe solo espressione del soggetto, e non invece confessione della verità. Il privilegio accordato alla categoria di testimonianza nella lingua parlata dai cristiani stessi rifletterebbe un analogo privilegio ad essa accordato in genere nel quadro di una cultura egalitaria.
È necessario essere un poco più cauti e considerare un altro lato della questione. Il privilegio della categoria di testimonianza, se da un lato corrisponde all'apologia moderna del soggetto e dei suoi inalienabili diritti, dall'altro riflette una giustificata diffidenza che la coscienza individuale nutre nei confronti della cultura dominante a livello di comunicazione pubblica. Tale cultura appare spiccatamente declamatoria; più precisamente, essa proclama con facilità principi astratti, di scoraggiante genericità; difetta invece di riferimenti alle forme concrete dell'esperienza del singolo, alla sua coscienza, rispettivamente ai modelli di vita ai quali il singolo si affida nella sua pratica di vita. Su questo sfondo prende forma un positivo apprezzamento della parola del singolo, della testimonianza che dice quello che egli personalmente vive. Considerata in tale ottica, la testimonianza del singolo è opposta alle forme soltanto retoriche e declamatorie del discorso pubblico e astratto, e dunque preferita ad esse.
Per rendere più concreta la figura di testimonianza a cui ci riferiamo, pensiamo alle "testimonianze" frequentemente proposte nei convegni ecclesiastici celebrati nei tempi recenti. Accanto a interventi di carattere propriamente teorico, proposti da coloro che sono riconosciuti come cultori professionali del tema affrontato, sono previste spesso "testimonianze"; in tal caso la parola dei testimoni interessa quale documento di un vissuto, e non (subito) come apporto di pensiero. Che anche tali interventi possano effettivamente offrire un positivo contributo alla intelligenza cristiana del reale è indubbio; ma perché tale contributo effettivamente si realizzi occorre che, al di là del testimone, intervenga la parola che chiarisce come quella testimonianza illumini il vangelo. Perché l'esperienza del singolo assuma la fisionomia effettiva di testimonianza non basta certo che susciti ammirazione; occorre invece che rivolga l'attenzione di chi ascolta al vangelo di Gesù. Il senso cristiano dell'idea di testimonianza è decisamente più preciso e impegnativo di quello troppo generico, per il quale come testimonianza è qualificato il resoconto di un' esperienza interessante.
Occorre tuttavia riconoscere che la ricerca di testimoni, intesi nell' accezione ancora generica sopra tratteggiata, riflette un' esigenza vera. La fede esige per sua natura la confessione, e dunque un'attestazione pubblica; essa è invece vissuta oggi troppo spesso come esperienza soltanto interiore, addirittura ineffabile. La verità del vangelo non è accessibile se non attraverso la mediazione di coloro che credono in esso e a testimonianza di tale verità offrono la loro stessa vita. Non a caso Gesù sulla montagna raccomanda, o meglio comanda, ai discepoli di produrre opere buone; solo a tale condizione la fede che egli ha acceso in loro potrà essere una luce non nascosta sotto il moggio, un sale che mantiene il suo sapore: risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli (Mt 5,16).
E tuttavia Gesù anche raccomanda ai discepoli di nascondere le loro opere buone; quando essi fanno un' elemosina, la sinistra non deve sapere ciò che fa la destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà (cfr. Mt 6,3-4). Quello che Gesù dice espressamente per riferimento all'elemosina, alla preghiera e al digiuno (cfr. Mt 6,218), vale assolutamente per tutte le opere, come è precisato all'inizio di quella sezione del discorso del monte: Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli (Mt 6,1).
Rendere testimonianza dunque, e insieme nascondersi agli occhi degli uomini: le due raccomandazioni paiono a prima vista contraddittorie; si tratta però soltanto di apparenza. La prima raccomandazione deve essere intesa come imperativo di rendere operante la fede nella vita effettiva, di fame dunque il principio di un modo di agire; essa equivale in tal senso alla sentenza posta al culmine del discorso del monte: Non chiunque mi dice: Signore, Signore, - infatti - entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli (Mt 7, 21). La seconda raccomandazione invece mette in guardia nei confronti di un pericolo preciso, e cioè che l'agire del discepolo cerchi conferma nell' approvazione degli uomini. Le opere buone del cristiano saranno in grado di suscitare la fede di molti, di indurre dunque molti a rendere gloria al Padre dei cieli, soltanto a condizione che esse siano compiute non per rispondere alle loro attese e ottenere così il loro consenso, ma unicamente per corrispondere all' attesa del Padre. In tal senso esse si configureranno come una testimonianza, che non attira su di sé l'occhio di chi vede, ma lo rimanda subito a Colui che abita nel segreto.
Il rischio che la testimonianza cristiana assuma forma pubblicitaria è consistente; nei confronti di tale rischio Gesù mette in molti modi in guardia. Già la considerazione dei segni prodigiosi compiuti da Gesù e della sua pretesa impossibile che essi rimanessero segreti suggeriva con efficacia il suo sospetto nei confronti della pubblicità. Tale sospetto conduce progressivamente Gesù a fuggire le folle e a dedicarsi unicamente ai discepoli seguaci; la cura espressa nei loro confronti mira appunto a questo obiettivo, rendere possibile una testimonianza pubblica del vangelo che non assuma forma pubblicitaria, rimandi invece ciascuno a quella stanza segreta, nella quale soltanto è possibile incontrare il Padre dei cieli.
Nel presente capitolo ci proponiamo di illustrare il cammino attraverso il quale Gesù conduce i discepoli, per iniziarli al compito di una testimonianza non pubblicitaria.

La testimonianza quale parola giudiziale

Merita che si indugi un poco preliminarmente sull' analisi di questa dialettica: necessaria pubblicità delle opere e insieme loro necessaria segretezza.
Quando accade che la confessione della fede assuma incongrua forma pubblicitaria? Anzitutto, quando essa è resa soltanto mediante discorsi; più precisamente, mediante discorsi che si riferiscono subito e solo a principi di carattere generale, che hanno inevitabilmente i tratti dell'ideologia, e anzi dell'utopia, del disegno cioè di una visione idealistica che rimuove il riferimento al reale. Una tale visione del mondo eleva la pretesa di essere apprezzata come vera a prescindere da ogni riferimento alla vita effettiva: a quella di chi parla, e anche di quella di chi ascolta. In particolare, essa ignora la qualità dei vincoli concreti che da sempre legano la vita del testimone alla vita di chi ascolta; quando siano ignorati i vincoli che obiettivamente legano il cristiano a tutti i suoi fratelli, è inevitabile che l'apostolato assuma forma "pubblicitaria".
Tale forma del discorso religioso è propiziata oggi dal contesto sociale effettivo; la netta dominanza che assumono le forme della comunicazione pubblica, anche per riferimento al tema religioso, induce a conferire alla stessa predicazione cristiana forma pubblicitaria. Su questo sfondo, e quasi come reazione al carattere pubblicitario della comunicazione religiosa, s'intende il grande favore di cui godono oggi le figure dei testimoni; quel favore riflette il rifiuto istintivo che la sensibilità diffusa oppone, con fastidio crescente, all' aspetto pubblicitario della predicazione. Un tale profilo ha caratterizzato in maniera spiccata le forme assunte dall' apostolato cattolico nella stagione del conflitto con la cultura liberale. Ma un profilo pubblicitario la parola ecclesiastica assume spesso fino ad oggi, sia pure con tratti diversi. Sollecita nel senso della pubblicità non tanto la preoccupazione polemica nei confronti di una cultura pubblica segnata dal rifiuto della religione, quanto la smania di correggere la marginalità della religione e della Chiesa per rapporto alle forme secolari del confronto pubblico.
La grande insistenza sul carattere personale della testimonianza corrisponde in tal senso alla percezione di una necessità obiettiva: il messaggio cristiano può apparire credibile soltanto a condizione che, a conforto della verità che propone, il singolo offra la propria stessa esperienza, addirittura la propria vita. La confessione della fede coinvolge di necessità il vissuto personale. Solo a condizione che il testimone si "esponga", la sua testimonianza può evitare il sospetto di essere soltanto propaganda.
E tuttavia il riferimento all' esperienza personale certo non basta a realizzare il profilo propriamente cristiano della testimonianza. Perché ciò accada, la parola del testimone deve mostrarsi in grado di rimandare chi ascolta a una verità in qualche modo già presente e operante nella sua stessa esperienza, che tuttavia egli pare rimuovere. In tal senso, realizza effettivamente la figura della testimonianza soltanto la parola che colpisce, e non solo stupisce; trafigge, e non solo seduce, penetra cioè nel cuore stesso di chi ascolta e ne porta alla luce i segreti; rompe dunque quelle noiose regole di correttezza politica della società secolare, che prescrivono di astenersi sempre e in ogni modo dall' entrare nella coscienza di altri. La parola cristiana realizza la forma della testimonianza solo se è "violenta". Tale carattere "violento" è da intendere più precisamente per riferimento al tratto giudiziale della testimonianza. L'uso della categoria nei libri del Nuovo Testamento ricorre prima di tutto, e soprattutto, in contesti giudiziali, come già si diceva.
Il riferimento al giudizio è espressamente presente nei discorsi di missione, mediante i quali Gesù istruisce i discepoli sul loro compito di annunciare il vangelo. Occasione privilegiata per rendere testimonianza è a suo giudizio appunto la persecuzione alla quale i discepoli saranno esposti:

Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe, comparirete davanti a governatori e re a causa mia, per render testimonianza davanti a loro (Mc 13,9).

La persecuzione offrirà occasione privilegiata alla testimonianza, nel senso che alla sua origine sta l'opposizione di governatori e re alla parola di Gesù. Ora una tale opposizione appare come documento appariscente dell'obiettiva contraddizione che sussiste tra la verità del vangelo e la qualità delle certezze poste a fondamento della vita comune. Opporsi a tali certezze offre un' opportunità privilegiata per dire della valenza critica che il vangelo ha per rapporto ai luoghi comuni della sapienza di questo mondo. Proprio in quella occasione ai discepoli sarà data una lingua speciale e ispirata:

Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire (Lc 12, 11-12).

Il processo, al quale i discepoli saranno convocati davanti agli uomini, costituisce in tal senso il momento privilegiato nel quale essi potranno offrire, a conforto della loro parola, la loro stessa vita.
E tuttavia la persecuzione e la corrispondente testimonianza vengono soltanto in seconda battuta. La predicazione del vangelo non può cominciare certo dai tribunali; in quel contesto è solo confermata una parola attestata in prima battuta in altra forma. Si realizza anche nel caso della missione cristiana la legge generale della vita: in prima battuta essa si realizza in maniera spontanea, persuasiva e anche grata; in seconda battuta essa esige una scelta, che appare onerosa; quella scelta ha la figura di un atto di fede. La prima forma della vita dispone le condizioni che rendono possibile e doverosa la scelta, e dunque la seconda navigazione contro vento. Soltanto in questo secondo tempo della vita diventa oggetto di scelta consapevole e libera la verità dischiusa dal primo cammino facile della vita. La fedeltà a quella verità assume appunto la forma della testimonianza; essa trasgredisce le leggi comuni della convivenza e suscita per questo prevedibile resistenza.
La legge generale della scansione della vita in due tempi si realizza anche nella vicenda di Gesù, e quindi nel suo annuncio del vangelo. Tale annuncio assume, in prima battuta, forme tali da determinare il facile e grato consenso; soltanto in un secondo momento emergono gli aspetti ardui che comporta la fede in quel messaggio; soltanto allora la verità del vangelo giunge alla sua piena rivelazione. La medesima legge, che impone la scansione in due tempi, caratterizzerà anche l'annuncio pubblico del vangelo da parte dei discepoli; si realizzerà poi in generale nella vita di ogni credente. E d'altra parte, la vita in genere è possibile sempre e solo a questa condizione, che essa assuma la forma di atto di fede.

Il modello della sequela terrena

Consideriamo dunque la vicenda che i discepoli vivono al seguito di Gesù: essa offre l'illustrazione più precisa del senso che assume la testimonianza cristiana. Ad essa occorre sempre da capo riferirsi per intendere la figura di quella testimonianza; anche in questo senso occorre intendere la qualità apostolica della Chiesa.
L'obbedienza dei discepoli alla chiamata di Gesù appare, in prima battuta, facile e spontanea, come facile e spontanea è in generale la fede di tutti coloro che accolgono fin dal principio il messaggio di Gesù. Questo aspetto facile della sequela ai suoi inizi minaccia d'essere dimenticato nelle letture che della loro vocazione sarà data in tempi successivi; tale lettura subito insiste sugli aspetti del distacco, dunque della laboriosa conversione che la sequela comporterebbe. La prima obbedienza alla chiamata di Gesù è facile, e tuttavia coinvolge i seguaci in una vicenda che certo sfugge alla loro iniziale consapevolezza; obbedendo a quella chiamata essi promettono assai più di quanto sanno. La verità piena di quella loro iniziale fede diventerà manifesta - a loro stessi, e anche agli altri - soltanto in un secondo tempo, quando ai discepoli saràrichiesto di tenere ferma la loro scelta iniziale pur contro l'ostilità di molti, e addirittura di tutti. A fronte di tale prova la loro fede vacillerà; per un momento essa parrà addirittura svanire come una nube del mattino. Il momento della prova è quello della passione del Maestro; essa farà apparire l'inconsistenza delle attese da essi poste nel Maestro. Soltanto poi, dopo l'abbandono e addirittura il rinnegamento del Maestro, si mostreranno finalmente capaci di tenere fede alla loro prima scelta. A tanto li condurrà la manifestazione del Signore risorto; essa dischiuderà ai loro occhi quella verità del loro primo cammino, che prima sfuggiva alla loro consapevolezza. In questo secondo tempo la fede perfetta sarà possibile soltanto a prezzo della confessione del peccato precedente. Soltanto allora, correggendo il precedente scandalo, i discepoli diverranno capaci di una testimonianza sicura davanti a tutti, ferma e insieme lieta.
Rappresentazione concisa ed efficace di questa articolazione in due tempi del cammino dei discepoli al seguito del Maestro offre l'ultimo dialogo tra il Signore risorto e Simon Pietro, come proposto nel vangelo di Giovanni. Gesù chiede a Pietro di correggere il suo triplice rinnegamento; lo fa attraverso la richiesta tre volte ripetuta di una professione di amore, trasparente riferimento al triplice rinnegamento; Pietro risponde in maniera affermativa alla triplice richiesta. A quel punto, quasi a sigillo della nuova alleanza, Gesù gli disse:

In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi» (Gv 21,18-19).

Quando eri più giovane...: Gesù si riferisce al tempo nel quale Pietro era più giovane non solo quanto all'età, ma anche per ciò che si riferisce alla sua fede. In quel tempo Pietro non avvertiva ancora quale laboriosa obbedienza e quale passione comportasse la sua fede; l'amore per Gesù appariva allora ai suoi occhi facile, corrispondente ai suoi modi spontanei di sentire. Ma quando sarai vecchio, invece, si renderà a te manifesto il legame necessario tra amore e passione; allora tu tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste. Le parole sembrano lì per lì riferirsi alla circostanza che il vecchio ha bisogno di essere aiutato anche solo per vestirsi, per compiere in genere tutti i gesti elementari della vita. Di una tale passività ovvia è però subito suggerito il significato cruento: allora altri ti porterà dove tu non vuoi. L'evangelista espressamente precisa che questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio: la suprema testimonianza della fede è data mediante la consegna della vita, non mediante il governo di essa. La consegna della vita porta a compimento il senso obiettivo che la fede di Pietro aveva fin dall'inizio; essa significava infatti la consegna della vita nelle mani del Maestro. La necessaria passività della fede, nel momento della sua forma matura, comporta anche un' attività, un libero consenso, in tal senso una scelta, e si tratta anzi della scelta suprema. Allora Gesù gli disse: Seguimi; gli ripeté dunque il comando che gli aveva proposto già all'inizio del cammino. Soltanto nel momento in cui Pietro sale sulla croce diventa perfetta la sua sequela; allora Pietro seguirà Gesù nel cammino supremo, in quel cammino che la prima volta aveva invece interrotto la sua sequela.
La testimonianza perfetta del messaggio evangelico è realizzata soltanto mediante la consegna della propria vita da parte del testimone. Il principio vale per Gesù, e anche per i discepoli. La consegna della propria vita assume forma cruenta nel caso del martire; esso porta alla luce la verità profonda di ogni altra forma di testimonianza. Appunto in questo senso deve intendersi il valore di paradigma che il martirio (la parola greca significa testimonianza) assume per rapporto alla testimonianza cristiana, e più in generale per rapporto alla vita cristiana; la confessione della fede è possibile soltanto nella forma del martirio, non solo per coloro che hanno la missione di predicare il vangelo, ma per tutti i credenti. Per tutti infatti la fede comporta il compito dell' attestazione; e la verità del vangelo di Cristo può essere attestata con univocità soltanto nel contesto di un confronto processuale con il mondo.
In questa luce si comprende anche il fatto che il lessico della testimonianza trovi i suoi impieghi privilegiati in testi di genere letterario apocalittico. La letteratura apocalittica dice infatti la verità di Dio in contesto di persecuzione e nella prospettiva del conflitto escatologico.

Dalla sequela alla imitazione

La necessità per i discepoli di accedere a una ripresa del loro primo cammino al seguito del Maestro è segnalata da Gesù fin dall'inizio. Mi riferisco in particolare alle parole con le quali Gesù li istruisce, dopo averli separati dalla folla. Nel loro primo cammino i discepoli non avvertono subito che la sequela di Gesù li separa dalla gente, dai modi di pensare e di credere comuni ai molti. A misura in cui emerge la distanza di Gesù dalle folle - dai molti che pure in certo modo seguono Gesù con consenso e addirittura con entusiasmo - si manifesta la distanza che separa i discepoli dal loro Maestro, addirittura una tensione che li oppone a lui.
Un primo segno di tale distanza e tensione si manifesta già nel racconto del primo incontro di Gesù con le folle, che secondo Marco si produce nella sinagoga di Cafarnao; esso decreta un grande successo di Gesù presso la folla; riflesso di tale successo è il tentativo della gente di Cafarnao di trattenere Gesù. Il tentativo della gente trova eco in Pietro stesso, che si fa interprete di quel disegno presso Gesù:

Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce e, trovatolo, gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni (Mc 1,35-39).

Non è registrata la risposta di Simone e degli altri. Come spesso accade, le parole che Gesù rivolge ai discepoli rimangono come sospese nell' aria; secondo ogni verosimiglianza, essi non comprendono, e tuttavia non è detto espressamente. Presumibilmente, essi stessi non dicono: rimandano a un momento successivo la comprensione di quel che al momento appare oscuro. Così accadrà sempre; in particolare, nelle molteplici occasioni in cui, nel quadro della prima predicazione pubblica di Gesù, emerge il consenso dei discepoli ai modi di sentire, desiderare e giudicare delle folle; Gesù li corregge, ma non è registrata la loro reazione. I discepoli sono seguaci, si adeguano in tal senso alle scelte di Gesù, ma senza capirne le ragioni; sono in tal senso simili ai bambini; la loro sequela è solo infantile.
Tornando alla pagina di Cafarnao; il proposito dichiarato da Gesù - Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto! - allude abbastanza chiaramente a questa verità: ciò che egli ha detto e fatto a Cafarnao ha un significato diverso da quello inteso da coloro che pure lo hanno applaudito. Verso la verità di quello che i loro occhi hanno visto e i loro orecchi hanno udito i discepoli sono condotti dalla decisione solitaria di Gesù; il fatto aver visto non basta a costituirli come testimoni; tali essi diventeranno soltanto istruiti dal seguito del loro cammino in compagnia del Maestro.
La distanza tra Gesù e le folle trova la sua espressione più esplicita e diffusa nella scelta che, a un certo momento del suo cammino, Gesù fa di parlare alle folle in parabole. Questa forma indiretta di comunicazione è adottata da Gesù esattamente in risposta alla sostanziale incomprensione del proprio messaggio da parte delle folle. I discepoli non capiscono la scelta di quella lingua criptica da parte di Gesù:

Quando poi fu solo, i suoi insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli disse loro: «A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole, perché: guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano e venga loro perdonato» (Mc 4, 10-12).

Anche in questo caso non è detto quale sia stata la reazione dei discepoli alla parole di Gesù.
La contraddizione tra Gesù e i discepoli emerge in maniera più chiara nel momento in cui Gesù comincia a parlare del destino del Figlio dell'uomo, e dunque della sua passione. Il primo annuncio in tal senso è riferito da Marco in coincidenza con la confessione di fede di Cesarea. Quella confessione è sollecitata da Gesù stesso, mediante un'interrogazione esplicita dei discepoli; la forma in cui è posto l'interrogativo prospetta a priori la necessaria separazione dei Dodici dalla gente: Chi dice la gente che io sia? ... E voi chi dite che io sia? (cfr. Mc 8,27-30). In effetti, la risposta di Simon Pietro è diversa da quella della gente; egli confessa l'identità messianica di Gesù. Le sue parole dicono la verità, come mette in evidenza con grande enfasi il passo parallelo di Matteo (Mt 16,1719); e tuttavia ancora una volta Gesù impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno (Mc 8,30). Il motivo del divieto è facile da intuire; Gesù si rende bene conto del fatto che la verità professata a parole dai Dodici non è ancora intesa dalla loro mente.
Subito dopo la confessione di Simon Pietro dunque Gesù cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire. Gesù faceva questo discorso apertamente, ma Simone lo prese in disparte e tentò di dissuaderlo; l'opposizione tra il discorso aperto di Gesù e il discorso in disparte di Simone offre virtualmente una precisa determinazione dei tratti della testimonianza cristiana; solo virtuale è quella determinazione, e tuttavia assai efficace. Il tentativo di dissuasione di Simon Pietro è realizzato in disparte, perché sollecita Gesù stesso a mettersi da parte; la sua esposizione pubblica appare al momento troppo pericolosa, lo condannerebbe alla passione. Ma quando mai potrà giungere il momento in cui l'esposizione pubblica cessi d'essere pericolosa per Gesù? Appare ormai chiaro come, per seguire Gesù, occorre assolvere a questa condizione, rinunciare a difendere la propria vita. Appunto questo messaggio Gesù subito propone in maniera assai esplicita alla folla e insieme ai suoi discepoli: Se qualcuno vuoI venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. (Mc 8,34). I discepoli sono già venuti dietro di lui, ma lo hanno fatto senza conoscere il senso e il prezzo della loro scelta; soltanto alla luce del destino del Figlio dell'uomo essi potranno venire a capo della loro prima scelta, e soltanto allora essi diverranno capaci di attestare la verità della loro sequela davanti a tutti.
Merita di sottolineare questo fatto: la verità che i discepoli dovranno annunciare a tutti non è diversa da quella da essi professata già a Cesarea; e tuttavia essa diverrà consapevole soltanto a prezzo di una ripresa; quella ripresa, d'altra parte, sarà possibile unicamente davanti a tutti. Così suggerisce espressamente il discorso di missione:

Non li temete dunque, poiché non v'è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all' orecchio predicatelo sui tetti. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna. [...] Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli  (Mt 10,26-28.32-33).

La possibilità di confessare la verità del Figlio davanti agli uomini, e insieme la necessità di farlo, si affermano soltanto grazie al fatto che si fa evidente il conflitto tra Gesù e i discepoli; fino a che quel conflitto rimane nascosto, rimane insieme nascosta la verità stessa del vangelo. Sussiste un nesso stretto tra il fatto che la rivelazione della verità del vangelo conosca il suo compimento sulla croce e il fatto che la testimonianza assuma di necessità la forma di martirio.

Testimonianza e agire: la differenza tra agire e fare

L'immagine della testimonianza cristiana proietta una luce nuova sul dramma della vita di noi tutti. Torniamo ancora una volta a considerare il riflesso che gli aspetti della sequela sopra tratteggiati producono per rapporto alla comprensione della condizione umana universale.
Il profilo giudiziale della testimonianza cristiana, e dunque il profilo per cui essa assume la forma di deposizione processuale a favore di Gesù, pare in prima battuta allentare il nesso tra testimonianza e forme dell' agire: la testimonianza sembra prendere la figura di un patire piuttosto che quella di un agire. Tale conclusione appare però precipitosa, e anzi francamente errata. Essa procede dall'incauta identificazione dell'agire con il fare, dunque con il produrre; in tal senso non ci sarebbe agire dove non si vedano risultati tangibili in questo mondo, come accade appunto nel caso del testimone. Ma in realtà la qualità propriamente umana e libera dell' agire non è compresa, quando si definisca l'agire come il potere di dare inizio a un nuovo corso di eventi, che non ha altra causa che la volontà del soggetto. Proprio questa è invece l'idea di libertà che propongono i filosofi moderni.
Kant - per fare un esempio (ma certo si tratta di uno tra i più rappresentativi filosofi della modernità) - dice che libero è quel comportamento che non ha altra causa che la scelta stessa del soggetto. Tale definizione della libertà procede dal confronto dei comportamenti umani con i fatti di natura. Questi attimi sarebbero contrassegnati dal determinismo; tutto ciò che accade in natura trova la sua spiegazione in una causa, e ogni causa opera in modo assolutamente univoco, appunto in maniera deterministica. Per differenza rispetto ai fatti di natura sono intesi i comportamenti liberi; essi hanno certo una consistenza empirica, sono cioè suscettibili di rilevazione sensibile ad opera di tutti; in tal senso essi appartengono al mondo delle cose di natura; e tuttavia non hanno altra causa rispetto alla volontà da cui procedono; quella volontà d'altra parte non è necessitata in un senso solo. I comportamenti liberi costituirebbero dunque uno strappo nel tessuto compatto del determinismo universale. Libero equivarrebbe appunto a non determinato. Una visione della libertà di questo genere è divenuta quella assolutamente prevalente in Occidente, dagli inizi della stagione moderna fino ad oggi. La libertà definita per contrasto rispetto al determinismo riflette l'incauta riduzione dell' agire alla figura del fare, e dunque del produrre effetti.
Tale visione della libertà trova una potente complicità nella scienza, e più precisamente nella tecnica, che della scienza è figlia. Nella stagione moderna, e soprattutto in quella contemporanea, la scienza non è più privilegio di pochi addetti ai lavori, ma diventa ingrediente della cultura di tutti. Essa nutre, in particolare, quell'apologia dell'homo faber, che è appunto uno dei tratti distintivi della cultura moderna. Il progresso dell'uomo sarebbe determinato dal suo crescente potere sui fatti di natura; mediante tale potere l'uomo civile mette la natura tutta al servizio dei propri bisogni. La cultura moderna ha celebrato in molti modi l'apologia del dominio della terra, realizzato appunto grazie alle risorse della scienza e della tecnica. Tale celebrazione dell'homo faber ha conosciuto qualche smagliatura nei tempi più recenti, ma non si è affatto estinta. Gli uomini di pensiero conoscono sempre più chiaramente i limiti del sapere scientifico, e anche le minacce che il potere tecnico comporta; l'uomo della strada invece, e soprattutto il giornalista che dell'uomo della strada è servo, fino ad oggi ripone nelle sempre crescenti risorse della tecnica la propria fiducia in un futuro migliore per la propria vita.
L'apologia dell'homo faber si scontra in maniera frontale con la visione cristiana della vita; questa intende infatti il senso e il valore della vita per riferimento alla sua qualità testimoniale. La vita umana vale per ciò che attesta, molto prima e molto più che per ciò che produce. La vita umana assume in tal senso la figura del martirio, con tutto ciò che una tale affermazione comporta sotto il profilo pratico. Con grande insistenza è raccomandata la pazienza piuttosto che l'agonismo contro la sofferenza e tutte le sue cause. La salvezza dell'uomo non consiste certo nel fatto di essere finalmente liberati dalla sofferenza; quando mai questo potrà accadere? Al rimedio che la medicina moderna trova a molte forme di sofferenza fisica corrisponde la lievitazione di altre forme di sofferenza, meno facili da descrivere; si usa definirle forme di sofferenza psicologica. Esse hanno un rapporto stretto con il non senso, e dunque con lo svanire di quella visione sensata e promettente della vita e del reale tutto, che invece caratterizzava il mondo antico. Il rimedio a questo nuovo genere di sofferenza non può certo essere affidato ai progressi della tecnica.
L'apologia della tecnica diventa in effetti oggi oggetto di diffuso sospetto, quando non addirittura di franca denuncia. Esprimono tale denuncia soprattutto i filosofi. A procedere dall' elaborazione della" scuola di Francoforte", è da molte parti proposta una critica della cosiddetta "ragione strumentale"; essa ha contagiato la retorica diffusa degli intellettuali. Già nella stagione anteriore alla seconda guerra mondiale molti filosofi avevano proposto critiche catastrofiche dell'Occidente, dominato dal pensiero calcolante, dal sapere a proposito del fare piuttosto che dal sapere a proposito del senso; testimone privilegiato in tal senso è Martin Heidegger. Oggi ormai appare evidente a tutti che una civiltà ispirata al principio del primato dell'homo faber conduce a esiti nichilistici. La denuncia del nichilismo dell'Occidente è in effetti abbastanza comune. E tuttavia da questa critica non vengono tratte le conseguenze che invece dovrebbero essere tratte; non è istituita in particolare una precisa e determinata critica degli ideali di conoscenza perseguiti dal sapere scientifico. Tra dominio della tecnica e dominio della scienza infatti sussiste un nesso assai stretto.
La critica che si deve opporre al sapere della scienza, o più precisamente alla sua pretesa d'essere la forma suprema del sapere, è prevedibile: quel sapere nulla sa del senso di tutte le cose. La scienza non si occupa infatti del senso, ma dei fatti. All' origine del suo prodigioso progresso sta proprio questa scelta, sospendere pregiudizialmente tutti gli interrogativi a proposito del senso delle cose, e prima di tutto a proposito del senso dell' agire umano. Per interrogarsi sul senso dell' agire, occorrerebbe riconoscere preliminarmente che l'agire ha un senso, che esso dunque non può essere in alcun modo ridotto alla figura del fare. Il senso dell' agire umano è da intendere come la verità che esso attesta; assai prima e assai più che produrre risultati, l'agire infatti attesta un senso; quel senso decide anche del valore. L'agire non è il mezzo per ottenere altro, per ottenere cioè quei risultati, dei quali la scienza si occupa in maniera esclusiva; esso ha invece un valore in sé, è documento della nostra speranza.
Soltanto riconoscendo il valore dell' agire è possibile anche volere. Vogliamo noi davvero quello che facciamo? Lo vogliamo in maniera incondizionata, oppure lo vogliamo soltanto a condizione che esso serva ad altro, sicché quando poi accada che manchino i risultati attesi ritrattiamo la nostra iniziale volontà? Non è forse vero che la nostra volontà rimane sempre come sospesa, in attesa di vedere le conseguenze dell'agire? In base a quelle conseguenze, al presente ancora incerte, decideremo se valesse o meno la pena di fare quello che abbiamo fatto; soltanto allora apprezzeremo finalmente il valore delle nostre azioni.
Per volere davvero, è necessario accettare il distacco dalle nostre azioni: esse possono produrre frutti soltanto se le affidiamo a Colui che vede nel segreto. Se pretendiamo di misurare il loro valore in base alla corrispondenza o meno delle loro conseguenze alle nostre attese, concluderemo in fretta che nessuna azione vale. Le azioni debbono essere consegnate nelle mani di Dio, come il seme deve essere consegnato alla terra. Gesù nella sua predicazione ricorre spesso alla metafora del seme. Lo fa per dire del mistero del Regno di Dio; ma lo fa insieme per dire della fede, e dunque dell' azione umana. Del Regno infatti non si può dire in altro modo che questo, in maniera drammatica, raccontando una storia; raccontando più precisamente la storia di colui che crede. Appunto questa storia raccontano le molte parabole del seme. Per esempio:

Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga (Mc 4,26-28).

Meglio si dovrebbe tradurre: accade del regno di Dio come di quell'uomo... Del regno di Dio è possibile dire unicamente ricorrendo a immagini; e l'immagine privilegiata è appunto quella del gesto del seminatore che getta il seme nella terra e attende dal cielo che esso produca frutto. il seminatore si stacca dal seme, così il credente si stacca da tutto quello che fa; il suo distacco non è certo da intendere come abbandono di ogni attesa per il futuro della propria opera; nasce invece dalla scelta di affidare ad altri il compito di portare a compimento la propria opera; ad altri, e soprattutto all' Altro per eccellenza, Dio stesso. Appunto questa figura, la consegna all'Altro della propria vita, realizza la figura della testimonianza.
Poco più di un secolo fa F. Nietzsche propose una polemica aspra contro il cristianesimo e i suoi ideali ascetici. La sua convinzione era quella che il cristianesimo proponesse come ideale di vita la rinuncia alla spontaneità dei desideri. Così egli intendeva e disprezzava il distacco cristiano. L'equivoco nascosto in quella critica deve essere chiarito prendendo in considerazione il senso dell' agire, e dunque il suo carattere testimoniale. La polemica di Nietzsche nasce da una lettura faziosa del distacco predicato da Gesù: esso sarebbe distacco da tutti i desideri spontanei, dunque da quei desideri dai quali soltanto - secondo Nietzsche ma anche secondo noi - è possibile che prenda inizio la vita, e anche l'agire umano. Quel distacco comporterebbe in tal senso una sorta di criminalizzazione del desiderio spontaneo; ma tale criminalizzazione condurrebbe di necessità al nichilismo, all'impossibilità cioè di qualsiasi apprezzamento del reale.
Nella tradizione ascetica gli ideali cristiani sono stati spesso effettivamente descritti come ideali celesti, senza rapporto ai desideri terreni; in tal senso quegli ideali realizzavano la figura di una sorta di "platonismo per il popolo". Gli ideali cristiani sono stati spesso descritti come la voce della ragione che si oppone alle passioni spregevoli della carne. La pratica morale cristiana è stata troppe volte intesa quasi essa fosse pratica ascetica, dunque pratica di rinuncia (22). Anche la recente enciclica di Benedetto XVI sull' amore, la quale pure afferma con grande audacia la pertinenza indubitabile dell' eros (dunque del desiderio spontaneo) alla figura cristiana dell' amore, e così si distacca decisamente dalla lettura del cristianesimo quale ideale ascetico, quando poi si tratta di descrivere il processo che deve condurre da eros ad agape, ricorre subito e solo al lessico della rinuncia (23).
L'interpretazione del cristianesimo in termini ascetici, d'altra parte, non interessa soltanto i discorsi, ma anche le forme della pratica; in molti modi essa manifesta disprezzo nei confronti dei beni sensibili, o - come si esprime D. Bonhoeffer - "dei beni penultimi"; alimenta in tal modo un'immagine della vita cristiana che ha occhi soltanto per gli angoli bui della sofferenza e del peccato, nei quali si troverebbero le ragioni che persuadono a occuparsi di Dio.
La verità del cristianesimo raccomandata dai documenti fonda tori, dai vangeli e da tutti gli scritti del Nuovo Testamento, non è certo questa. Prima ancora, non è questa l'immagine della vita religiosa proposta da Mosè e dai profeti; e la loro testimonianza è assolutamente essenziale per intendere la verità stessa del vangelo di Gesù. Non a caso, la valorizzazione dei beni penultimi si congiunge nelle intenzioni di Bonhoeffer a un rinnovato apprezzamento dell' Antico Testamento. Lo schema concettuale di fondo, al quale occorre riferirsi per comprendere la verità di Dio, non è quello che oppone il cielo alla terra, il materiale allo spirituale, il visibile e all'invisibile; ma quello che oppone semmai il presente al futuro, l'inizio al compimento. Meglio ancora, lo schema è quello che oppone due visioni opposte del presente; la prima visione è quella dell'uomo superbo, che guarda al presente come a test dell'affidabilità di Dio; la seconda visione è quella dell'uomo credente, che riconosce nel presente il tempo della prova della propria libertà. Si chiamò quel luogo Massa e Meriba, - è scritto a interpretazione di una delle molte mormorazioni che scandiscono il cammino del deserto - a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es 17,7). L'uomo che non riconosce il proprio presente come tempo in cui alla prova è messo egli stesso, inevitabilmente si erge a giudice dell'opera di Dio; egli troverà certo molti argomenti per diffidare di Lui, ma insieme perderà se stesso.
Anche l'altra immagine che la tradizione cristiana propone della vita buona e perfetta, quello che oppone azione e contemplazione a tutto vantaggio della contemplazione, appare eccepibile: anch' essa infatti ignora la considerazione del profilo testimoniale dell' agire e deve in tal senso essere corretta. Il primato della contemplazione rispetto all' azione, della teoria dunque rispetto alla prassi, è da intendere come il riflesso di una concezione troppo scadente dell' agire, quella che lo intende come mezzo in vista della realizzazione di determinati scopi; appunto questa visione riduttiva suscita la contrapposizione tra azione e contemplazione, o addirittura tra opere e fede, ovviamente a danno delle opere. Quando l'agire umano sia ridotto al rango di semplice mezzo, suscettibile dunque di apprezzamento unicamente per rapporto a un fine, si realizza una forma di apprezzamento dell' agire di carattere utilitaristico: bene sarebbe quello che serve, male quello che nuoce. Serve a che cosa, e nuoce per rapporto a quale fine? n fine dell'agire sarebbe il bene sensibile, dunque un bene di questo mondo.
L'apprezzamento di tale bene è inteso come di necessità legato alla sensazione, e dunque esposto al rischio di obbedire al criterio dell' amore delle creature piuttosto che a quello dell' amore del Creatore. n bene supremo, quello honestum e non solo utile, sarebbe noto soltanto al soggetto che contempla, non al soggetto che agisce.
La tradizione cristiana, che afferma il primato della contemplazione, ampiamente dipende dalla tradizione platonica. n primato della teoria corrisponde al primato del logos, dunque dell'idea o dell'ideale, rispetto a tutto ciò che è sensibile e a tale titolo può essere oggetto di desiderio. I testi del Nuovo Testamento, e quelli della Bibbia tutta, non autorizzano in alcun modo la tesi del primato della contemplazione rispetto all'azione. Non chi dice, infatti, ma chi fa entrerà nel regno dei cieli, afferma espressamente Gesù. Non saremo giudicati in base alla nostra conoscenza di Dio e dei suoi misteri, ma unicamente in base a ciò che avremo fatto nei confronti dei fratelli più piccoli. La perfezione cristiana consiste nell' agape, dunque in una forma di agire, e non nella contemplazione; a tale proposito non può esserci spazio per il dubbio. D'altra parte, la fede stessa è forma di una pratica secondo Mosè, e non forma di una teoria, o di una conoscenza.
E tuttavia le opere buone, che sole seguono quanti muoiono nel Signore oltre la vita presente (cfr. Ap 14,13), non sono opere che possano essere apprezzate per rapporto agli effetti materiali che producono; esse sono invece apprezzate per rapporto alla qualità della fede e della speranza che attestano. Appunto al profilo della testimonianza occorre rivolgere l'attenzione per giudicare della qualità buona o cattiva dell' agire; così occorre fare nel caso dell'agire del cristiano, ma così occorre fare in ogni caso. L'agire dell'uomo in ultima istanza vale perciò che attesta, e non invece per ciò che produce.

6. Fede che salva e fede che attesta

L'ordine di tacere, che Gesù dà a seguito di ogni suo segno prodigioso, è certamente orchestrato in maniera intenzionale nel vangelo di Marco; in tal modo quel vangelo intende suggerire la distanza che separa il segno dal significato, i gesti che Gesù compie dalla verità escatologica alla quale essi rimandano (24). E tuttavia l'ordine di tacere nel suo nucleo originario risale a Gesù stesso; esso costituisce la determinazione maggiore del cosiddetto "segreto messianico".
Questa espressione è raccomandata in particolare da un preciso ordine di tacere, tra i tanti dati da Gesù; esso non è dato a margine di una guarigione, ma a margine della confessione che Simone fa di lui come Messia a Cesarea. La sua confessione è certamente vera; come tale essa è riconosciuta espressamente da Gesù stesso, secondo Matteo; e tuttavia Gesù ordina ai Dodici di non parlare di lui a nessuno. Gesù è il Messia, ma che cosa questo significhi non è affatto chiaro a Simone nel momento della sua confessione. Subito dopo egli sarà infatti cacciato lontano da Gesù come un satana, i cui pensieri non sono quelli di Dio ma quelli degli uomini.

La fede che salva è muta

Un principio analogo vale anche per coloro che non sono discepoli seguaci, e tuttavia rispondono con la fede a tutto ciò che Gesù dice e fa. Sono davvero credenti? Dio solo lo sa. In molti casi mostra di saperlo anche Gesù, e lo dichiara in termini espliciti. E tuttavia anche in quei casi la fede espressa da costoro si riferisce a una verità che ad essi ancora sfugge. La rivelazione di quella verità si produrrà soltanto poi, e soprattutto soltanto grazie a una configurazione della loro fede ad opera di Gesù stesso. La rivelazione della verità escatologica dell'identità messianica di Gesù è sospesa al destino finale del Figlio dell' uomo; prima ancora, è sospesa a un'ulteriore istruzione delle forme spontanee in cui si produce la fede popolare, e tale istruzione può realizzare soltanto Gesù.
Illustrazione concisa e perspicua di questa necessità, che intervenga un'istruzione di Gesù per dare forma alla fede, offre il racconto di quella donna che da dodici anni era affetta da un'emorragia (Mc 5,25-34). Ella aveva molto sofferto per opera di molti medici, dice il vangelo; aveva speso tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando. Avendo però sentito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Il senso del suo gesto è interpretato espressamente da Marco, che riferisce quali fossero i suoi pensieri nascosti; essa diceva dentro di sé: Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita. Questo suo segreto ragionamento pare prospettare un caso di superstizione piuttosto che di fede. E tuttavia quella donna, appena ebbe toccato Gesù, subito sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male. L'accadimento fortunato e arcano è gravido di una verità che sfugge alla donna stessa ed è invece noto a Gesù. Avvertita la potenza che era uscita da lui, egli subito si voltò alla folla dicendo: «Chi mi ha toccato il mantello?». La domanda di Gesù sorprende i discepoli; anch' essi infatti stanno solo alla superficie degli eventi; vedendo Gesù premuto da ogni parte dalla gente, si stupiscono del fatto che possa chiedere chi lo ha toccato. A quel punto la donna stessa mostra di capire il senso della domanda di Gesù; da essa sollecitata, impaurita e tremante, si getta davanti a lui e gli disse tutta la verità. Stranamente, la donna mostra subito di comprendere il carattere furtivo del proprio gesto; ella ha rubato, per così dire, la sua guarigione. Questa sua improvvisa consapevolezza non deve apparire in realtà così strana. Furtiva è ogni guarigione, quando non sia accompagnata dalla confessione; soltanto la confessione della fede nel vangelo di Gesù consente un apprezzamento vero e non furtivo della salute recuperata; a meno che intervenga una tale confessione il vantaggio della salute recuperata rimane dubbio. Gesù disse a quella donna: Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male. La parola di Gesù conferma la guarigione; più precisamente, porta a rivelazione la verità della guarigione. La guarigione non garantisce la pace, fino a che essa non conduca alla confessione della fede nel vangelo di Gesù.
Una formula simile è usata anche nel caso del cieco di Gerico: Va', la tua fede ti ha salvato (Mc 10,52, vedi in genere vv. 46-52). In tal caso per altro l'uomo non se ne va, segue invece Gesù sulla strada di Gerusalemme: E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada. La figura del cieco di Gerico assume, nella trama narrativa di Marco, la consistenza di un paradigma; egli è figura del vero discepolo seguace; questi non perde il proprio tempo a divulgare la notizia, ma si pone subito al seguito di Gesù e in tal modo cerca la verità escatologica, alla quale la vista da lui recuperata obiettivamente lo rimanda.
Il caso del cieco di Gerico appare simile a quello del cieco incontrato da Gesù a Gerusalemme secondo Giovanni (c. 9); la vista da lui riacquistata appare decisamente come un guadagno soltanto nel momento in cui egli crede in Gesù. La sua illuminazione suscita un vivace dramma, a conclusione del quale Gesù pronuncia una sentenza particolarmente eloquente per intendere la differenza tra ciò che gli occhi vedono e la verità alla quale i segni rimandano. Il cieco illuminato da Gesù diventa oggetto di un'inquisizione ostile da parte dei Giudei, e poi addirittura del loro disprezzo; egli è cacciato fuori. Soltanto dopo essere stato cacciato fuori, incontra finalmente Gesù, questa volta ad occhi aperti; Gesù lo interroga: Tu credi nel Figlio dell'uomo? Alla domanda egli non sa ancora rispondere; la vista già recuperata non basta; egli stesso formula una domanda a Gesù, che è insieme domanda della fede: E chi è, Signore, perché io creda in lui? Soltanto a quel punto Gesù può dirgli: Tu l'hai visto: colui che parla con te è proprio lui. La rivelazione rende possibile la confessione di fede di quell'uomo: lo credo, Signore! E gli si prostrò innanzi (cfr. Gv 9, 35b-38). La sua fede porta a compimento la rivelazione della verità iscritta nel gesto prodigioso compiuto da Gesù; egli stesso dichiara quale sia questa verità:

Gesù allora disse: «lo sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo forse ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane» (Gv 9,39-41).

La cecità irrimediabile, alla quale Gesù allude, è quella che affligge coloro che pensano di vederci benissimo. Appunto questa intempestiva pretesa di vederci impedisce di accedere alla verità attestata da Gesù mediante i suoi gesti.
Il racconto dei vangeli mostra con chiarezza come, ad attirare l'attenzione delle folle su Gesù, inizialmente concorre più di ogni altra cosa la sua attività taumaturgica (25); essa suscita l'interrogativo a proposito della sua identità (26); e tuttavia abbastanza in fretta sulla meraviglia prevale l'entusiasmo; la gente ritiene di sapere bene ormai chi è Gesù e che cosa ci si può aspettare da lui; egli divenne agli occhi di tutti un taumaturgo. Nei confronti di questa immagine di lui propiziata dai miracoli e del messaggio da essa espresso, Gesù si affretta a mettere in guardia; il fatto è messo in evidenza più chiara dal racconto di Marco, con intenzione che appare deliberata. I miracoli per se stessi non costituiscono affatto un segno univoco del senso del messaggio di Gesù e della sua verità; vale a proposito di quei segni il principio generale: può intendere soltanto chi ha gli orecchi adatti. La comprensione o meno del messaggio iscritto nei segni operati da Gesù dipende dalla qualità delle disposizioni libere di ciascuno. li messaggio risulta univoco, tipicamente, per coloro che sono beneficiari dei miracoli e nel momento preciso in cui li ricevono; essi sono infatti compiuti proprio grazie alla fede di costoro e in risposta alla richiesta da essa suggerita (27); Gesù non può compiere segni, e così realizzare l'annuncio del regno di Dio, se non a condizione di trovare chi crede e attende. Del villaggio di Nazaret è scritto espressamente che Gesù non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità (Mc 6,56); anche così si mostra la necessità che qualcuno creda, perché possa realizzarsi la rivelazione di Dio per tutti. li vangelo può prendere forma nel tempo soltanto a questa condizione, che trovi chi lo accolga, che trovi un resto, o un piccolo gregge (cfr. Lc 12,32), disposto a credere. Il principio offre un'illustrazione precisa della qualità storica della rivelazione cristologica.
Le forme del racconto evangelico mettono in molti modi in evidenza il legame stretto tra miracolo e fede. Per lo più, accade che Gesù stesso registri la fede e addirittura la lodi: Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico... (Mc 2,5p); Va', e sia fatto secondo la tua fede (Mt 8,13); Figlia, la tua fede ti ha salvata (Mc 5,34; cfr. la stessa formula anche in Mc 10,52; Lc 17,19); alla Cananea è detto; Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri (Mt 15,28). Talvolta però Gesù esorta preventivamente alla fede; così per esempio nel caso di quel capo della sinagoga: Non temere, continua solo ad aver fede (Mc 5,36).
Altre volte Gesù chiede espressamente una previa professione di fede, per esempio quando dice ai due ciechi: Credete voi che io possa fare questo? (Mt 9,28).
Come precisare la figura della fede, di cui si tratta in tutti questi casi? In prima battuta, essa pare quella realizzata dalla mera fiducia che Gesù possa fare questo. Tale fiducia è interpretata da Gesù, e quindi poi anche dai vangeli, come equivalente alla fede in Dio senza ulteriori specificazioni; alla fede, s'intende, come intesa dalla tradizione di Mosè. In questa luce si comprende l'espressione stupita di Gesù, a commento della fede del centurione: Amen vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande (Mt 8,10). L'equivalenza tra fede che ottiene i miracoli e fede che ottiene la salvezza s'intende sullo sfondo del significato obiettivo che i miracoli assumono nell' economia del ministero messianico di Gesù; essi sono appunto il segno della presenza vittoriosa del regno di Dio, e dunque della prossimità benevola di Dio ad ogni uomo che lo invochi, qualunque sia la sua condizione e per quanto irrimediabile essa appaia in questo mondo.
Il messaggio dei miracoli si rivolge però a tutti. Non a caso, le città del lago saranno giudicate per non aver accolto l'invito alla conversione che, secondo Gesù, era stato loro proclamato esattamente mediante i miracoli compiuti in esse (Mt 11,20-24p). E a tutti il messaggio dei miracoli potrà giungere soltanto a condizione di trovare un' oggettivazione che consenta di staccare quel messaggio stesso dall' esperienza personale e lo renda universalmente accessibile.

Anche ai Dodici è ordinato di tacere

Degno di nota è un fatto già segnalato: oltre che ai beneficiari dei suoi gesti miracolosi, l'ordine di tacere è proposto anche ai Dodici. È dato in occasione della confessione di Cesarea (Mc 8,30), come abbiamo già visto, ma anche in occasione della visione del monte Tabor. In questo secondo caso è espressamente precisato il termine fino al quale l'ordine dovrà essere osservato:

Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse risuscitato dai morti. Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti (Mc 9,9-10).

La verità della visione sul monte diverrà dunque manifesta soltanto alla luce della risurrezione. Quello sarà insieme il momento per confessare la verità piena di Gesù.
La precisa categoria di testimonianza (martyrìa) (28) conosce nei testi del Nuovo Testamento una progressiva elaborazione teologica, che fa di essa una nozione per così dire tecnica. Essa avrà declinazioni distinte nei diversi autori; tipicamente, nei "teologi" del Nuovo Testamento, che sono per eccellenza Paolo e Giovanni. Le diverse declinazioni non sono certo contraddittorie, ma neppure tautologiche e immediatamente sovrapponibili. Di tali declinazioni ci occuperemo poi. Notiamo tuttavia come il riferimento alla testimonianza ricorra già nel discorso con il quale Gesù istruisce i Dodici circa la loro missione in Galilea. Egli propone loro questa norma: Se in qualche luogo non vi riceveranno e non vi ascolteranno, andandovene, scuotete la polvere di sotto ai vostri piedi, a testimonianza per loro (Mc 6,11). Anche in questo caso la testimonianza è realizzata nella forma di un gesto che ha valore giudiziale: scuotere la povere dai piedi significa protestare la propria dissociazione nei confronti di quel luogo.
In senso analogo il termine torna, ormai molto vicino al senso tecnico della parola testimonianza, nel discorso apocalittico, che dice dei tempi successivi alla passione del Figlio dell'uomo. In tale contesto si parla della missione dei discepoli non più soltanto in Galilea, ma fino ai confini del mondo. Tra l'altro è detto: Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe, comparirete davanti a governatori e re a causa mia, per render testimonianza davanti a loro (Mc 13,9). La testimonianza al vangelo sarà data dunque dai discepoli esattamente nel momento in cui essi saranno condotti in tribunale.
Il lessico della testimonianza ricorre poi con significativa frequenza nel racconto del processo. In tal caso non si tratta però della testimonianza in favore del vangelo, ma della testimonianza contro Gesù che i giudici cercano inutilmente; si trovano certo alcuni falsi testimoni, ma subito è precisato che nemmeno su questo la loro testimonianza era concorde (Mc 14,59); la falsa testimonianza perpetua inesorabilmente il litigio tra loro; anche in tal modo è resa testimonianza della verità di Gesù, sia pure in maniera preterintenzionale.

Raccordo all'ottavo comandamento

Il contesto entro il quale si parla di testimonianza è sempre quello giudiziale. Si deve dunque concludere che la missione cristiana è di necessità connotata da un contesto giudiziale? Effettivamente tale conclusione s'impone. La predicazione apostolica articola il giudizio universale di Dio sulla storia dei figli di Adamo. Prima ancora, la stessa vicenda di Gesù, che è all' origine della missione, realizza il giudizio di questo mondo. Alla luce della fede nel vangelo di Gesù si potrà, e anzi si dovrà, riconoscere che da sempre, dunque da prima ancora che si produca la rivelazione cristologica, la vita dei figli di Adamo assume la forma di un processo, nel quale ciascuno è chiamato a prendere posizione.
Una conferma in tal senso, e insieme una più precisa illustrazione di questo profilo giudiziale, offre la formulazione dell' ottavo comandamento del decalogo. Il catechismo corrente lo interpreta come divieto di mentire; la formulazione originaria ricorre però alla categoria di testimonianza, intesa in senso precisamente giudiziale: Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo (Es 20,16), cioè non produrre una testimonianza falsa a carico del tuo prossimo quando è condotto in giudizio. La formulazione corrisponde, secondo ogni probabilità, al senso letterale che il comandamento aveva nella sua prima enunciazione. Esso è stato poi inteso tuttavia, e giustamente, come riferito ad ogni forma di menzogna. Ma proprio l'originaria formulazione in termini giudiziari porta alla luce la ragione di male di ogni menzogna. La parola che mente non può essere intesa a procedere dal confronto tra le parole e i fatti, come farà invece per lo più la tradizione culturale dell'Occidente, la quale riflette in tal senso il solito pregiudizio intellettualistico; deve invece essere intesa a procedere dal confronto tra il singolo e tutti gli altri, dunque come tradimento del patto che lega ad essi. La prossimità spontanea tra gli umani trova il suo sigillo nella lingua, nelle parole con cui ci intendiamo. E tuttavia proprio le parole dispongono la ragione di maggiore vulnerabilità della nostra vita ad opera dei fratelli.
La parola è meno violenta, così pare, della spada; e tuttavia la parola, falsificando la verità dei rapporti, arma la spada; e prima ancora, essa può ferire per se stessa più di una spada: essa infatti penetra nel profondo.
Della parola stessa di Dio si dice che è come una spada, anzi è più tagliente di una spada a due tagli; il taglio è ovviamente spirituale e non carnale. Così si esprime la Lettera agli Ebrei:

Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v'è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto (4,12-13).

Appunto come un riflesso del tratto cruento della parola di Dio è da intendere il carattere cruento che assume la stessa testimonianza cristiana. Attraverso di essa il credente si fa interprete della rivelazione di Dio, che porta alla luce in maniera inesorabile i segreti dei cuori, mentre i figli di Adamo vorrebbero tenerli per sempre nascosti. Quanto ad ogni singolo, il giudizio sarà certo soltanto quello del Figlio dell'uomo nell'ultimo giorno. Anche la verità della fede nascosta del singolo sarà proclamata allora da lui stesso, con sorpresa di molti (quando mai, Signore, ti abbiamo dato da mangiare?). E tuttavia fin dal tempo presente ciascuno deve essere ricondotto al confronto con lui attraverso la testimonianza, attraverso la confessione della fede dunque dei discepoli che hanno creduto nel Signore. 

 

7. La testimonianza apostolica negli Atti

Nella tradizione apostolica l'idea di testimonianza ha conosciuto una sostanziosa elaborazione, che ne ha fatto la nozione tecnica propria della lingua cristiana. Tale elaborazione ha concorso certo anche alla redazione delle memorie di Gesù nei vangeli; e tuttavia essa si manifesta in maniera più esplicita negli altri scritti, in Atti, negli scritti di Paolo e in quelli di Giovanni. Non tentiamo qui un esame analitico dei diversi testi, né tanto meno a una loro comparazione; cercheremo invece di raccogliere dai singoli scritti le indicazioni più significative in ordine alla riflessione sistematica. Cominceremo da Atti, che certo è scritto più recente delle lettere paoline, ma di lettura più "facile"; in forza del genere letterario narrativo è possibile raccogliere in quel libro documento delle forme effettive assunte dalla testimonianza cristiana, assai più che elaborazioni teologiche a proposito della nozione corrispondente. Un' elaborazione di questo genere è invece chiaramente presente negli scritti di Giovanni, che considereremo soltanto in terzo luogo.
Interponiamo alcune glosse a proposito del concorso che offrono all'idea di testimonianza le lettere di Paolo, che non sviluppano una dottrina organica a proposito della nozione, e tuttavia offrono indicazioni preziose per rapporto alla articolazione reciproca tra testimonianza cristiana e forma antropologica della coscienza morale.

La struttura della testimonianza secondo Atti

Della testimonianza cristiana offre dunque rappresentazione efficace il libro degli Atti nella forma della narrazione. Come abbiamo ampiamente illustrato nelle nostre considerazioni precedenti, appartiene alla struttura di fondo della testimonianza il riferimento a fatti accaduti sotto gli occhi di tutti, i quali rimandano a una verità rimasta inaccessibile a coloro che pure ne sono stati informati. Tale duplicità di piano trova espressione in Atti, e già nel vangelo di Luca, attraverso la distinzione esplicita di due soggetti della testimonianza, i Dodici e lo Spirito Santo. Documenta con chiarezza tale duplicità dei soggetti della testimonianza la formula usata da Pietro davanti al Sinedrio; di contro all'intimazione del silenzio che il sinedrio aveva prescritto agli apostoli, Pietro ribadisce l'annuncio della risurrezione di Gesù: essi lo hanno crocifisso, ma il Dio dei padri lo ha risuscitato. Il suo annuncio si conclude con queste parole: E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui (At 5,32). I fatti a cui Pietro fa riferimento sono quelli della passione del Signore; essi sono noti a tutti, ma sono contraffatti nella recensione pubblica. Per altro lato oggetto di testimonianza è la risurrezione di Gesù, nota soltanto a testimoni prescelti. Subito occorre precisare che il fatto della risurrezione (se pure lo si può qualificare come un fatto) non si aggiunge semplicemente agli altri a tutti noti; determina invece il vero significato di ciò che tutti sanno, o presumono di sapere. La recensione della passione di Gesù nota a tutti ha infatti la fisionomia di una contraffazione; al suo vero significato è possibile pervenire unicamente grazie allo Spirito, dato soltanto a coloro che si sottomettono a lui; la notizia della risurrezione suppone dunque la decisione della fede. La testimonianza dello Spirito non si aggiunge in tal senso a quella degli apostoli quasi fosse testimonianza parallela; conferisce invece alla parola stessa degli apostoli la fisionomia di testimonianza vera, capace di rendere ragione dell' opera che il Dio dei padri ha realizzato mediante la vicenda di Gesù.
Il libro degli Atti, proprio grazie alla sua forma narrativa, privilegia decisamente il profilo per il quale la testimonianza nasce dalla visione, e più in generale dalla partecipazione in prima persona agli eventi mediante i quali si realizza la rivelazione di Dio e che sono dunque oggetto di annuncio. È ricordata certo la parallela testimonianza dello Spirito; è in molti modi suggerito come tale testimonianza non possa essere affatto intesa come "parallela", ma configuri la testimonianza stessa degli apostoli. E tuttavia la forma narrativa per sua natura non esige né consente che si entri nella considerazione della più precisa consistenza che assume tale configurazione.
Per chiarire il senso del rapporto tra testimonianza e visione è utile un confronto con l'altro rapporto qualificante, quello tra testimonianza e ascolto. Per dire del rapporto tra lo Spirito e il testimone i testi del Nuovo Testamento privilegiano in genere il registro dell'ascolto, e dunque quello della parola, piuttosto che quello della visione e dell'immagine. Tale registro è privilegiato già dalla tradizione dell' Antico Testamento, per dire della parola profetica; i profeti dicono la parola che hanno udito da Dio, non quello che hanno visto. illustra con efficacia il primato della parola la formula che il quarto vangelo pone sulla bocca di Giovanni battista, per inter pretare la sua testimonianza in favore di Gesù:

Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: L'uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo. E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio (Gv 1,33-34).

Colui che ha inviato Giovanni a battezzare con acqua gli aveva detto: appunto la parola di Dio è all' origine della possibilità di Giovanni di riconoscere il Figlio di Dio. Certo Giovanni anche vede, ma quello che egli vede appare per se stesso molto criptico; pensiamo alla sua dichiarazione: Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui (Gv 1,32). Nella successiva narrazione (ma quanto poco narrativa!) il quarto vangelo introduce formule ancor più esplicite per suggerire il primato dell' ascolto della parola rispetto alla visione degli occhi; in particolare là dove pone sulla bocca di Gesù questa legge fondamentale del rapporto di tutti nei suoi confronti:

Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me (Gv 6,44-45).

Ancor più univoco appare il primato della parola nelle formule che Gesù usa per dire dalla sua stessa testimonianza; egli attesta la parola udita dal Padre: io dico al mondo le cose che ho udito da lui (Gv 8,26); vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi (Gv 15,15). Lo stesso Spirito promesso ai discepoli, che solo li condurrà fino alla verità di colui che essi non possono ancora conoscere e li renderà capaci di testimonianza in suo favore, è descritto come colui che ascolta e dice: Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future (Gv 16,13).
Una prima caratteristica della figura della testimonianza proposta in forma narrativa da Atti è il privilegio del registro della visione rispetto a quello dell'ascolto, per dire il fondamento della testimonianza. Appunto alla testimonianza così intesa si riferisce il secondo dei tre ritratti sintetici che il libro propone della comunità di Gerusalemme, per dire il ministero degli apostoli:

Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia (At 4,33).

Le indicazioni più illuminanti che Atti offre per intendere la struttura sintetica della testimonianza apostolica sono però quelle offerte dalla struttura dei discorsi di annuncio. Il libro propone diversi esempi di primo annuncio del vangelo (29); in essi è possibile riconoscere una struttura essenziale, illuminante a proposito della figura di fondo della testimonianza cristiana. Cerco di illustrare tale struttura riferendomi al discorso di Pietro dopo la guarigione del paralitico. Merita di rileggere per esteso l'inizio:

Uomini d'Israele, perché vi meravigliate di questo e continuate a fissarci come se per nostro potere e nostra pietà avessimo fatto camminare quest'uomo? Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino e avete ucciso l'autore della vita. Ma Dio l'ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni. Proprio per la fede riposta in lui il nome di Gesù ha dato vigore a quest'uomo che voi vedete e conoscete; la fede in lui ha dato a quest'uomo la perfetta guarigione alla presenza di tutti voi. Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi; Dio però ha adempiuto così ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo sarebbe morto. Pentitevi dunque e cambiate vita, perchésiano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli mandi quello che vi aveva destinato come Messia, e cioè Gesù (At 3,12-20).

Una prima considerazione interessante, che questo modello di annuncio suggerisce, è la seguente: l'occasione per rivolgere la parola a quella gente è offerta a Pietro dalla meraviglia dei presenti; gli uomini d'Israele si meravigliano del gesto di Pietro e Giovanni, e proprio per questo continuano a fissarli, quasi fosse per loro potere e per la loro pietà che sia divenuto possibile camminare a quell'uomo. La meraviglia non è soltanto un' occasione, ma è condizione essenziale perché sia possibile la predicazione cristiana. Tale predicazione realizza la figura di testimonianza per il fatto che essa risponde a una domanda già accesa in chi ascolta grazie alla meraviglia; quella meraviglia dispone obiettivamente all'attesa di una parola, che interpreti ciò che stupisce. La meraviglia è indispensabile non solo agli inizi della predicazione apostolica, ma in ogni tempo; soltanto grazie ad essa possono essere pronunciate con verità le parole che proclamano il vangelo.
Come già sopra abbiamo suggerito, riflettendo in prospettiva antropologica, sempre la parola nasce sullo sfondo della meraviglia, dunque sullo sfondo di un vissuto effettivo che, prima ancora che sia pronunciata una qualsiasi parola, sorprende; la sorpresa è il segnale di una presenza insospettata, la quale appare insieme decisiva perché si possa venire a capo della consistenza del cammino dell'uomo. Anche nel caso della parola cristiana si deve riconoscere come essa non sia possibile se non sullo sfondo della sorpresa. Non si può cominciare subito dalle parole. Neppure Gesù aveva cominciato subito dalle parole: la sua prima predicazione è strettamente connessa ai gesti, alla cura cioè di ogni sorta di malattie e infermità nel popolo (cfr. Mt 4,23); i segni sorprendenti che egli operava accedevano l'attenzione sulla sua parola.
La meraviglia non è accesa soltanto da segni prodigiosi. Nella vicenda della Chiesa, essa è accesa dal nuovo genere di vita che i cristiani realizzano; esso meraviglia, deve meravigliare, e in tal modo suscitare in tutti un interrogativo. Così si dice già della comunità di Gerusalemme: Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore. Il primo ritratto sintetico che Atti propongono della chiesa di Gerusalemme sottolinea come proprio grazie al loro genere di vita i discepoli suscitassero la simpatia di tutto il popolo; grazie alla testimonianza realizzata mediante le forme della vita comune accadeva che il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati (cfr. At 2,46-48). La meraviglia dunque sollecita una parola che interpreti i fatti sorprendenti, e in tal modo consenta di appropriarsi del loro significato.
Tornando al caso della guarigione dello storpio, l'interpretazione di quel fatto sorprendente è da cercare, secondo Pietro, in ciò che ha fatto il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri (un Dio noto dunque ai suoi ascoltatori, o quanto meno un Dio che essi dovrebbero ben conoscere) ha glorificato il suo servo Gesù; la sua opera ha smentito la vostra; voi infatti lo avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; in tal modo avete rinnegato il Santo e il Giusto ... e avete ucciso l'autore della vita. A questa vostra opera si oppone l'opera di Dio che lo ha risuscitato dai morti; appunto di questo noi siamo testimoni. In ogni tempo la risurrezione di Gesù assume anzi tutto questo significato: essa smentisce le opere che i figli di Adamo compiono.
Pietro poi, quasi a chiarire che effettivamente del Dio dei nostri padri si tratta, precisa che l'opera da lui compiuta in favore del Figlio corrisponde alla promessa antica dei profeti: egli ha adempiuto così ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo sarebbe morto; appunto la parola dei profeti consente di riconoscere la verità dell' opera presente di Dio. Gli scritti dell' Antico Testamento appaiono facilmente al cristiano, e all'uomo di oggi in genere, come primitivi e poco plausibili; parlano infatti di un Dio vendicativo e violento, che non ha più alcuna plausibilità, come spesso si ripete. In tal senso quegli scritti, lungi dall' apparire illuminanti per rapporto al vangelo di Gesù, assumono la consistenza di una pietra di scandalo. Così èpossibile pensare, soltanto perché i cosiddetti "valori" cristiani - misericordia, perdono, uguaglianza, fraternità, pace e simili - sono oggi pensati come valori per se stessi evidenti, scritti in cielo, tali da non richiedere in alcun modo la memoria delle prove della vita, e quindi della paura, del risentimento e addirittura dell' odio che esse comportano. È vero invece che le prove sono un ingrediente indubitabile della vita di tutti. La dimenticanza dell' Antico Testamento è parallela alla dimenticanza di quella nostra esperienza quotidiana, che in molti modi porta i tratti dell' Antico Testamento. Il cimento della fede cristiana con la memoria di Mosè e dei profeti appare strettamente legato alla accettazione dell'altro cimento, che s'impone alla fede, quello con la vita di ogni giorno.
Appunto la memoria dell' Antico Testamento consente di realizzare quella memoria dei gesti e dei fatti di Gesù, che sola porta alla luce il senso vero del conflitto aspro che lo ha opposto ai suoi censori. Durante la vita terrena di Gesù il conflitto era in tutti i modi rimosso; l'illusione di Pietro e degli altri era che si potesse trovare un' altra risoluzione della vicenda, diversa da quella cmenta che Gesù stesso prospettava. Attraverso la memoria dei salmi, dei canti del servo sofferente, delle parole aspre che tutti i profeti hanno usato contro questo popolo (30) che presume d'essere popolo di Dio e invece è uguale a tutti gli altri popoli della terra, Pietro e gli altri giungono a comprendere quel che prima non avevano compreso e che aveva determinato alla fine l'inesorabile abbandono del Maestro.
L'annuncio di Pietro si conclude con un imperativo: Pentitevi dunque e cambiate vita; soltanto a questa condizione potranno essere cancellati i vostri peccati e così potranno giungere i tempi della consolazione da parte del Signore; allora egli infatti manderà quello che vi aveva destinato come Messia, e cioè Gesù. La testimonianza resa all' opera di Dio esige la denuncia della menzogna di cui gli uomini si sono fatti responsabili. Proprio per questo la testimonianza esige grande forza. Per riferimento a tale forza occorre intendere l'uso ricorrente in Atti del termine parrhesìa per qualificare la parola degli apostoli. Il termine greco è tradotto con franchezza; nella versione della CEI; esso indica più precisamente la libertà di parola degli apostoli. Essi non si lasciano scoraggiare in alcun modo dalle intimidazioni: né da quelle del sinedrio, né in genere da quelle dei Giudei e dei capi tutti delle nazioni. La franchezza è il tratto qualificante della testimonianza.
In Atti ricorre più volte la menzione del tentativo del sinedrio di far tacere gli apostoli; a fronte di tale tentativo è rilevato lo stupore che suscita la loro franchezza:

Vedendo la franchezza di Pietro e di Giovanni e considerando che erano senza istruzione e popolani, rimanevano stupefatti riconoscendoli per coloro che erano stati con Gesù (4,13).

Pur non ignorando l'aspetto conflittuale che sta sullo sfondo della testimonianza apostolica, Luca preferisce sottolineare l'aspetto per il quale essa è resa con letizia. La letizia trova riscontro nella nuova fraternità che caratterizza la vita comune; essa si concretizza nella comunione dei beni, menzionata subito dopo la testimonianza nel secondo ritratto della comunità:

Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno (4,34-35).

L'accostamento suggerisce con efficacia come la testimonianza della risurrezione sia resa mediante le forme pratiche della vita.

La testimonianza di Stefano

Il lessico della testimonianza non interviene in Atti, stranamente, per dire del primo martire, di Stefano primo testimone del vangelo mediante l'effusione del sangue. La circostanza è da spiegare alla luce del fatto che la parola martyrion non ha ancora assunto nella lingua di Luca l'accezione tecnica, presente negli scritti del Nuovo Testamento soltanto attraverso l'Apocalisse:

Ma essi lo hanno vinto
per mezzo del sangue dell' Agnello
e grazie alla testimonianza del loro martirio;
poiché hanno disprezzato la vita
fino a morire.
(Ap 12,11; vedi anche 17,6).

E tuttavia, al di là del lessico usato, la morte di Stefano è narrata da Atti in termini tali da renderne evidente l'attitudine a valere quale documento della testimonianza cristiana, nel senso che abbiamo sopra tratteggiato. L'accusa portata contro Stefano è strettamente legata a quella già opposta a Gesù; ne ripete i tratti quasi alla lettera:

Presentarono quindi dei falsi testimoni, che dissero: «Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno distruggerà questo luogo e sovvertirà i costumi tramandatici da Mosè» (6,13-14).

L'accusa mossa a Stefano è dunque quella di aver ripudiato la fede dei padri, e dunque l'alleanza mosaica. Il discorso di Stefano, che viene di seguito riferito, propone ancora una volta una rilettura sintetica di tutta la storia di Israele, molto vicina a quella già propria della tradizione profetica. Tutti i profeti infatti denunciavano la distanza di questo popolo dal popolo che Dio cercava; tutti furono incompresi dalla generazione dei contemporanei; tutti furono testimoni dunque di una verità che, proprio perché non accolta dagli uditori presenti, dovette essere fissata nel libro a futura memoria. In tal senso essi già rimandavano al Messia, e più precisamente alla figura di un Messia rifiutato; non esprimevano tale rimando soltanto o soprattutto attraverso le affermazioni esplicite sul destino futuro del Messia, quanto piuttosto attraverso la testimonianza realizzata dalla figura pratica della loro vita. La vera tradizione mosaica in tal senso è quella rappresentata dai profeti e da un resto di Israele, non invece quella realizzata attraverso i costumi tramandatici da Mosè, a cui fanno riferimento i falsi testimoni contro Stefano. In tal senso si deve dire che la tradizione mosaica non è affatto dimenticata dalla predicazione cristiana, è invece portata al suo compimento escatologico.
Proprio per il fatto di riferirsi a una tradizione che appare nominalmente comune a lui e ai suoi censori il discorso di Stefano genera un conflitto, del tutto simile al conflitto che già aveva opposto Gesù agli scribi. Sullo sfondo di tale conflitto si comprende in che senso quel discorso realizzi la forma della testimonianza, dunque del martirio. Esso porta alla luce una verità della tradizione comune, che invece la lettura corrente di Mosè e dei profeti, nella sostanza quella farisaica, rimuove. Che il discorso di Stefano ricalchi le linee della predicazione dei profeti è espressamente detto:

O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la legge per mano degli angeli e non l'avete osservata» (At 7,51-53).

Il conflitto non è in alcun modo dissimulato da Stefano; e tuttavia esso non conclude alla scomunica e al desiderio di vendetta; Stefano muore invece, a imitazione di Gesù, pregando, per se stesso e per i suoi persecutori:

E così lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: «Signore Gesù, accogli il mio spirito». Poi piegò le ginocchia e gridò forte: «Signore, non imputar loro questo peccato». Detto questo, morì (At 7,59-60).

La qualità della sua morte appare come il sigillo della testimonianza da lui offerta; la parola da lui pronunciata davanti agli uomini fa riferimento all' opera di Dio, altra rispetto a quella degli uomini; a quell'opera egli stesso si appella mediante la sua preghiera. Non sorprende che il racconto di Luca divenga un modello per la successiva letteratura cristiana dedicata alla passione dei martiri.

8. Paolo: la testimonianza e la coscienza

Le lettere di Paolo in molti modi attestano come l'uso del termine martyrion (testimonianza) sia già allora entrato nel lessico cristiano della missione ai greci; non solo, esso ha assunto assai presto il valore di designazione sintetica della predicazione del vangelo. In tal senso l'uso non ha bisogno d'essere giustificato da Paolo. D'altra parte nei suoi scritti manca un interesse tematico preciso per la nozione di testimonianza; non è quindi possibile raccogliere un suo pensiero proporzionalmente organico su tale tema. L'uso che egli fa del lessico suggerisce tuttavia alcune indicazioni assai feconde in ordine a una teologia della testimonianza. Articoliamo la nostra breve esposizione in due momenti: nel primo consideriamo gli usi espliciti del lessico e ne traiamo alcune prime indicazioni sintetiche; nel secondo momento invece ci occupiamo dei testi di Paolo che istituiscono un nesso tra la testimonianza cristiana (sia essa espressamente designata con il termine martyrion oppure no) e l'esperienza umana universale della coscienza. Appunto questi testi offrono lo spunto per gli approfondimenti più significativi della nozione di testimonianza.
Il termine martyrion è già presente nella 2 Tessalonicesi; in quella lettera è usato per designare sinteticamente la predicazione di Paolo, in un contesto che chiaramente allude al profilo polemico che essa assume; più precisamente, il termine rimanda al conflitto tra coloro che credono a quella predicazione e coloro che la rifiutano:

Costoro saranno castigati con una rovina eterna, lontano dalla faccia del Signore e dalla gloria della sua potenza, quando egli verrà per esser glorificato nei suoi santi ed essere riconosciuto mirabile in tutti quelli che avranno creduto, perché è stata creduta la nostra testimonianza in mezzo a voi. Questo accadrà, in quel giorno (2 Ts 1,9-10).

Nella 1 Tessalonicesi non ricorre il preciso termine di martyrion, ma ricorrono i molti verbi composti corrispondenti; la prospettiva è quella di sottolineare la necessità radicale che a conferma della predicazione di Paolo intervenga Dio stesso.
Il profilo di testimonianza che essa assume è bene espresso in tal senso in un passo, nel quale Paolo sottolinea il rimando della sua predicazione a Dio stesso, che solo conosce i cuori; in quel contesto il sostantivo testimone (martys) è riferito a Dio, il quale depone in favore dell' apostolo:

... come Dio ci ha trovati degni di affidarci il vangelo così lo predichiamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete, né avuto pensieri di cupidigia: Dio ne è testimone (1 Ts 2,4-5) (31).

Nei versetti che subito seguono alla testimonianza di Dio è associata quella dei cristiani stessi di Tessalonica; appunto la loro testimonianza offre conferma della qualità testimoniale che assume la parola stessa dell' apostolo:

Voi siete testimoni, e Dio stesso è testimone, come è stato santo, giusto, irreprensibile il nostro comportamento verso di voi credenti; e sapete anche che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiurandovi (martyromenoi) a comportarvi in maniera degna di quel Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria. Proprio per questo anche noi ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l'avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete (1 Ts 2,10-13).

Merita che sia espressamente sottolineato questo fatto: assume la figura di testimonianza, dunque di rimando alla volontà di Dio stesso, il quale deve confermare in prima persona la verità della parola dell' apostolo e determinarne il senso, anche l'esortazione morale dell'apostolo; i pagani, che non conoscono Dio, neppure possono comprendere ciò che davvero chiede il rapporto con il fratello, tanto meno essi possono adempiere a tale esigenza:

Perché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dalla impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio; che nessuno offenda e inganni in questa materia il proprio fratello, perché il Signore è vindice di tutte queste cose, come già vi abbiamo detto e attestato (diemartyrametha). Dio non ci ha chiamati all'impurità, ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito (1 Ts 4,3-8).

Il termine martyrion assume valenza più obiettiva in due passi di 1 Corinzi, in cui designa la predicazione apostolica in genere, e non solo quella di Paolo; più precisamente, il termine designa in tal caso l'oggetto della predicazione, e non l'atto dell' annuncio:

La testimonianza di Cristo si è infatti stabilita tra voi così saldamente, che nessun dono di grazia più vi manca, mentre aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo (1 Cor 1,6-7).

Anch'io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza (1 Cor 2, 1).

Anche in questi due testi l'uso del termine testimonianza appare strettamente legato a uno sfondo polemico; la polemica non si rivolge contro i Giudei, ma contro la sapienza di questo mondo, e dunque con la tradizione tutta dei figli di Adamo; la sapienza di questo mondo non conosce Dio, e perciò usurpa il nome che porta. In 1 Corinzi Paolo prospetta in maniera particolarmente netta e provocatoria, addirittura paradossale, la contrapposizione netta tra predicazione cristiana e sapienza degli uomini. La predicazione cristiana appare come una follia ai greci, che cercano la sapienza; quanto ai Giudei, che cercano i miracoli, cioè documenti che attestino la potenza vincente di Dio, essa appare come uno scandalo (cfr. 1 Cor 1,17-25). Il carattere testimoniale, che di necessità assume l'annuncio cristiano, è da intendere per correlazione al fatto che esso rimanda a evidenze, che non possono essere raccomandate mediante le risorse della parola umana, mediante ragionamenti persuasivi; per attingere a tali evidenze occorre invece che chi ascolta rivolga la sua attenzione a una voce fuori campo, quella dello Spirito stesso di Dio; soltanto quella voce può dare conferma alla parola dell'apostolo, la quale per se stessa appare debole e addirittura stolta.

La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio (1 Cor 2,4).

Al lessico della testimonianza Paolo ricorre nella stessa lettera ai Corinzi per riferimento all' affermazione della risurrezione di Gesù; sono qui usati, più precisamente, il sostantivo martys e il verbo martyrein:

Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni (pseudomartyres) di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato (emartyresamen) che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono (1 Cor 15,14-15).

Trova ancora una volta conferma il tratto generale, che associa la figura della testimonianza a un contesto polemico. La negazione della risurrezione di Gesù da parte dei Corinzi è da mettere in relazione con la loro cultura greca, e quindi con il disprezzo del corpo. L'annuncio della risurrezione assume in tal senso la consistenza di una sfida radicale a quella "religione dell' anima" che è propria dei greci; essi associano" dio" o il divino con ciò che non ha figura e forma in questo mondo.
L'aspetto più interessante degli scritti di Paolo, per riferimento al tema della testimonianza, è tuttavia il raccordo che egli suggerisce tra tale categoria e la coscienza (syneidesis): espressamente egli parla di una testimonianza della coscienza. In tal modo la figura della testimonianza cristiana è chiarita da Paolo mediante il ricorso a una figura universale dell' esperienza umana. Veniamo in tal modo al secondo momento sopra annunciato di questa nostra breve esposizione su Paolo. L'idea di coscienza, intesa in quell'accezione precisamente morale che diverrà comune nella tradizione cristiana successiva, era già stata elaborata dal pensiero filosofico ed era di uso corrente nella filosofia popolare di età ellenistica. Paolo la introduce nel lessico cristiano e la declina in termini tali da risultare obiettivamente fecondi in ordine alla determinazione della stessa figura di testimonianza, che definisce la forma della predicazione cristiana.
Nella lettera ai Romani, manifesto del vangelo come predicato da Paolo e redatto per una comunità cristiana proveniente dal paganesimo, il termine coscienza è usato per dire della conoscenza della giustizia di Dio, che anche i pagani hanno, pur senza conoscere la legge (si intende, quella di Mosè). Il testo che propone questa tesi introduce la figura della testimonianza per dire della forma nella quale la coscienza parla ai pagani stessi:

Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza (symmartyrouses) della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono (Rm 2,14-15).

Certo la testimonianza della coscienza, di quella voce interiore che anche ai pagani parla (comunque essa debba essere più precisamente determinata), non è fungibile con la testimonianza realizzata dalla predicazione del vangelo; e tuttavia sono da rilevare obiettive corrispondenze tra i due generi di testimonianza. Nell'uno e nell' altro caso la verità (di Dio?) è notificata senza fare ricorso a parole esteriori, le quali come tali potrebbero essere raccomandate soltanto da tradizioni umane; anche la coscienza a suo modo parla, usa cioè parole e addirittura ragionamenti, e tuttavia la forza persuasiva di tali ragionamenti è riferita ad un' autorità più che umana.
Non è questo il solo testo nel quale Paolo introduce l'idea di una testimonianza della coscienza e afferma un nesso stretto tra figura della testimonianza ed esperienza della voce interiore. Al medesimo sintagma Paolo ricorre ogni volta che si appella alla propria coscienza come a istanza ultima, alla quale si affida per trovare conferma dei propri comportamenti. La coscienza non è certo pensata come una facoltà dell'uomo, nel caso dell'uomo Paolo, ma come il testimone di altri: in tal senso appunto si dice che la coscienza testimonia. Soltanto il riferimento a tale istanza trascendente consente a Paolo di non dipendere in alcun modo dall' approvazione degli interlocutori. Documenti in tal senso sono offerti soprattutto dalla 2 Corinzi, la lettera che ha sullo sfondo profonde e ostinate incomprensioni tra l'apostolo e quella Chiesa; proprio sullo sfondo di tali incomprensioni Paolo si appella alla testimonianza della coscienza:

Questo infatti è il nostro vanto: la testimonianza della coscienza di esserci comportati nel mondo, e particolarmente verso di voi, con la santità e sincerità che vengono da Dio, non con la sapienza della carne ma con la grazia di Dio (2 Cor 1,12).

Poco oltre Paolo si appella, in senso che appare sostanzialmente equivalente, alla testimonianza di Dio stesso:

Io chiamo Dio a testimone sulla mia vita, che solo per risparmiarvi non sono più venuto a Corinto (2 Cor 1,23).

Dunque, la testimonianza della coscienza è da intendere come testimonianza che Dio stesso offre in favore dell' apostolo del vangelo? La voce della coscienza - così si esprimerà la lingua cristiana in epoca moderna sarebbe la voce di Dio stesso dentro di noi? Essa non è soltanto dentro di noi, e anche tra noi, arbitra nel contenzioso che spesso ci oppone gli uni agli altri. In tal senso, l'appello alla coscienza non può essere certo usato come strategia di immunizzazione nei confronti degli altri e delle ragioni che essi oppongano a noi; la coscienza ci impegna invece a rimandare questi stessi altri alla testimonianza della (loro) coscienza.
In epoca moderna, un certo cristianesimo "tragico" inclina a pensare che l'appello alla testimonianza della propria coscienza consenta al singolo di sottrarsi del tutto al confronto con altri, dall' esito sempre incerto. Questo modo di pensare appare precipitoso, e anzi francamente sbagliato. Certo Paolo non ignora i modi di pensare, di dire e di sentire degli interlocutori; non dipende dall'approvazione degli uomini, certo, e tuttavia vuole raggiungere tutti nella loro coscienza, in quel luogo interiore nel quale ciascuno è istruito dalla testimonianza stessa di Dio. Questa è una legge fondamentale della predicazione cristiana: soltanto a condizione di istituire il rimando di ciascuno alla propria coscienza essa realizza la precisa figura della testimonianza.
In tal senso Paolo si esprime in particolare nei capitoli 8-10 della 1 Corinzi, nei quali discute la questione degli idolotiti, e più precisamente della legittimità o meno per il cristiano di mangiare carne sacrificata agli idoli. Il parere di Paolo - e con lui di tutti i cristiani "illuminati" - è che se ne possa mangiare; e tuttavia egli insieme raccomanda l'attenzione alla coscienza degli interlocutori. Enuncia a tale proposito un teorema molto chiaro: l'interesse per la coscienza debole dei fratelli deve prevalere sull'interesse ad affermare la propria scienza:

Badate che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te, che hai la scienza, stare a convito in un tempio di idoli, la coscienza di quest'uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni immolate agli idoli? Ed ecco, per la tua scienza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello (1 Cor 8,9-12).

Se qualcuno non credente vi invita e volete andare, mangiate tutto quello che vi viene posto davanti, senza fare questioni per motivo di coscienza. Ma se qualcuno vi dicesse: «È carne immolata in sacrificio», astenetevi dal mangiarne, per riguardo a colui che vi ha avvertito e per motivo di coscienza; della coscienza, dico, non tua, ma dell'altro. Per qual motivo, infatti, questa mia libertà dovrebbe esser sottoposta al giudizio della coscienza altrui? (1 Cor 10,27-29).

Il rispetto che Paolo raccomanda per la coscienza dei deboli non può essere inteso quasi costituisse una forma di rispetto umano, di anteposizione dunque delle attese degli uomini alle attese di Dio. Il rispetto raccomandato si riferisce infatti alla coscienza, e non alla volontà degli uomini; e nella coscienza di chiunque parla sempre Dio, anche se in forma debole; e d'altra parte la convinzione che si possano mangiare quelle carni è qualificata da Paolo - non a caso - come espressione di scienza e non di coscienza.
In altro contesto, e precisamente in Romani, Paolo enuncia in forma di teorema generale il principio che in 2 Corinzi è affermato a margine della questione degli idolotiti; e lo fa riferendosi non solo alle forme della predicazione, ma alle forme complessive del comportamento dei credenti:

Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l'infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. Ciascuno di noi cerchi di compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo (Rm 15,1).

L'obiettivo di edificare è da intendere come quello di promuovere il riconoscimento da parte del prossimo di ciò che è bene, di promuovere la sua stessa coscienza, quello che essa vuol dire, ma non ha parole per dire. La testimonianza del cristiano deve in tal senso dare parola alla coscienza del prossimo. Il comandamento di amare il prossimo non può essere certo inteso quasi prescrivesse di fare per lui un bene suscettibile di essere realizzato anche senza di lui, senza la sua coscienza, appunto.
Il principio dell'attenzione alla coscienza dell'altro, che ha maggiore necessità di essere enunciato nel caso dei deboli, non interessa per altro soltanto il loro caso, ma interessa ogni forma della testimonianza cristiana. Nel contesto della discussione del problema degli idolotiti Paolo, riferendosi al suo stesso comportamento quale apostolo, proclama una precisa legge generale della testimonianza cristiana:

Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro (1 Cor 9,19-23).

Farsi tutto a tutti non significa certo diventare compiacenti nei confronti di tutti; ciò che sappiamo del comportamento di Paolo ampiamente esclude tale eventualità. Sul tema della legge, in particolare, il comportamento di Paolo appare tutt'altro che compiacente; a prima vista appare assai difforme dal principio qui proposto. Ma le sue affermazioni perentorie a proposito della sterilità della legge in ordine alla giustificazione, come pure la dichiarazione sbrigativa che in Cristo non c'è più giudeo né greco, non c'è più schiavo né libero, non c'è più uomo né donna (GaI 3, 28), non possono essere certo intese quasi autorizzassero a ignorare le differenze nominate; intendono invece indicare come la verità di Cristo stia oltre queste differenze; a quella verità tutti possono e debbono essere condotti, e possono essere condotti unicamente a condizione che la testimonianza cristiana accetti di prendersi cura della coscienza di ciascuno.
Il tema della testimonianza conosce uno sviluppo significativo nelle lettere pastorali; esse riflettono uno sviluppo tardo della tradizione paolina, corrispondente al momento del passaggio dai tempi di Paolo e della prima generazione apostolica in genere alla generazione successiva; tale passaggio accentua il nesso della testimonianza con il profilo polemico che di necessità assume la predicazione del vangelo in questo mondo. Lo sviluppo non sorprende, quando si consideri come in tali scritti sia insistentemente presente la denuncia di un rischio a cui la verità cristiana è esposta, quello di una corruzione ad opera di coloro che cercano a tutti i costi una composizione tra fede e modi comuni di pensare; la composizione non può assumere altro che la forma del compromesso. Su tale sfondo appunto ricorre la caratterizzazione della testimonianza cristiana attraverso il seguito di sofferenze e incomprensioni che di necessità l'accompagna. Il testo più esplicito è nella 2 Timoteo:

Non vergognarti dunque della testimonianza (martyrion) da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio (2 Tim 1,8).

A tale tratto agonistico della fede corrisponde il ricorso all'immaginario militare per descrivere la figura della vita cristiana:

Insieme con me prendi anche tu la tua parte di sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù. Nessuno però, quando presta servizio militare, s'intralcia nelle faccende della vita comune, se vuoI piacere a colui che l'ha arruolato. [...] Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! (2 Tim 2,3-4. 8-9).

La vita cristiana tutta è descritta come fuga mundi, come resistenza agonistica a un mondo ostile; assume in tal senso la fisionomia del martirio inteso secondo l'accezione tecnica che il termine prenderà alla fine della stagione apostolica. Sigilla questa figura della vita cristiana il suo accostamento al modello offerto dalla passione stessa del Signore, che la 1 Timoteo è espressamente qualificata quale testimonianza:

Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose; tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. Al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose e di Gesù Cristo che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo (1 Tim 6,11-14).

L'apprezzamento della sofferenza come una grazia, più precisamente quale esperienza privilegiata mediante la quale si realizza il riferimento immediato della vita a Dio, è caratteristica anche della 1 Pietro, e costituisce lo sfondo di quel passo dal quale abbiamo preso le mosse all'inizio di questo saggio. Tale apprezzamento della sofferenza è espressamente dichiarato, ed è argomentato e rispettivamente interpretato mediante l'accostamento al modello offerto dalla passione di Cristo:

È una grazia per chi conosce Dio subire afflizioni, soffrendo ingiustamente; che gloria sarebbe infatti sopportare il castigo se avete mancato? Ma se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme (1 Pt 2,19-21).

La stessa proclamazione del carattere beato della sofferenza è sullo sfondo della raccomandazione che la lettera rivolge ai suoi lettori ad essere sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi (1 Pt 3,15b); è detto infatti immediatamente prima: se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! (1 Pt 3,14). Non solo è proclamata la beatitudine della sofferenza, ma è precisato come proprio essa realizzi la confutazione di quanti malignano sulla buona condotta del cristiano, realizza in tal senso la testimonianza:

Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo (1 Pt 3,15c-16).

La testimonianza cristiana assume dunque nelle lettere pastorali e nella 1 Pietro tratti molto simili a quelli che saranno propri del martirio; l'attestazione della verità del vangelo di Gesù Cristo non si può realizzare in altro modo che mediante la pazienza, e dunque mediante la costanza della speranza nel momento della passione. Tale costanza rimanda immediatamente al giudizio escatologico di Dio; e tuttavia essa non mira a quel giudizio, quanto piuttosto alla conversione di tutti; Dio infatti vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità (1 Tim 2,4).

9. Giovanni: il vangelo della testimonianza

Un'elaborazione più precisa della figura della testimonianza, addirittura sofisticata, si incontra nel vangelo di Giovanni, e in genere nei suoi scritti (32). Indice di tale attenzione a questa figura è offerto dalla ricorrenza statistica del lessico della testimonianza, incomparabilmente maggiore rispetto a tutti gli altri scritti del Nuovo Testamento: su 77 ricorrenze complessive di martys 47 sono in Giovanni; e su 37 ricorrenze di matyrìa 30 sono in Giovanni. Al di là del criterio meramente statistico è possibile rilevare come l'uso del lessico corrisponda a una concezione assai articolata dell'idea corrispondente; essa assume nel quarto vangelo un rilievo strategico in ordine alla più complessiva articolazione della verità di Gesù, parola di Dio fatta carne. È facile prevedere come la categoria di testimonianza serva appunto a declinare la dialettica tra caducità della carne e gloria di Dio; la gloria di Dio risplende non attraverso l'immunità di Gesù nei confronti della debolezza della carne e delsuo destino mortale, ma attraverso il dono della carne. Precisamente al servizio di questo obiettivo è posta l'idea di testimonianza: portare a parola la rivelazione della gloria di Dio mediante la carne.
In primissima approssimazione, possiamo sinteticamente raccogliere i testi rilevanti in tre gruppi distinti, certo reciprocamente legati: quelli che si riferiscono alla testimonianza di Giovanni Battista, quelli che si riferiscono alla testimonianza di Gesù stesso e finalmente quelli che si riferiscono alla testimonianza dei discepoli. Prevedibilmente, la figura di Gesù quale testimone sta al fondamento della stessa testimonianza del Battista e rispettivamente dei discepoli. Consideriamo brevemente i testi nell' ordine suggerito dalla loro successiva comparsa nel vangelo.

La testimonianza di Giovanni Battista

Già nel Prologo il ministero di Giovanni precursore è descritto, con poche formule assai concise, ma anche per questo assai solenni, come quello di rendere testimonianza alla luce che splende nelle tenebre, dunque di rendere testimonianza al successivo ministero di Gesù:

Venne un uomo mandato da Dio
e il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per rendere testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce,
ma doveva render testimonianza alla luce
(Gv 1,6-8).

Opinione largamente condivisa dagli esegeti è che questi versetti siano stati inseriti nel Prologo soltanto in un secondo momento. Più precisamente, essi costituirebbero - secondo una probabile ipotesi - addirittura l'inizio del vangelo nella sua prima redazione; allora mancava ancora il prologo, inserito in un secondo momento; appunto tale inserimento avrebbe determinato il problema di raccordare il primo inizio del vangelo con il secondo, costituito da quel prologo solenne. Il testo del prologo è probabilmente nato separatamente dal vangelo. La soluzione escogitata sarebbe dunque quella dell'iscrizione di questi versetti entro la trama stessa del prologo; in tal modo si realizza l'intreccio tra il prologo e la narrazione successiva, che inizierà poco oltre (al v. 19), immediatamente al termine del prologo. Quei versetti costituiscono una sorta di anticipo sulla narrazione.
In ogni caso, i versetti citati anticipano in maniera sintetica il senso della testimonianza del Battista, che sarà descritta in termini narrativi nei successivi vv. 1924. Nella narrazione successiva la testimonianza di Giovanni è espressa, non a caso, anzitutto in termini negativi; prima di rendere positiva testimonianza a Gesù, Giovanni nega ogni congettura formulata a suo riguardo dai commissari inviati da Gerusalemme per inquisire sulla sua opera.

E questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Chi sei tu?». Egli confessò e non negò, e confessò: «lo non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Che cosa dunque? Sei Elia?». Rispose: «Non lo sono». «Sei tu il profeta?». Rispose: «No» (Gv 1,19-21).

La negazione ostinata opposta da Giovanni ad ogni ipotesi formulata dai Giudei circa la sua identità dispone lo spazio vuoto - in tal senso, il deserto - entro il quale soltanto egli potrà rendere testimonianza a colui che deve venire. I termini ostinatamente negativi della prima testimonianza di Giovanni già annunciano la prospettiva decisamente polemica che la testimonianza assumerà in tutto lo svolgimento del quarto vangelo. Non solo in questo vangelo, d'altra parte, ma in tutta la letteratura neotestamentaria - come si è visto -la testimonianza assume una connotazione giudiziale, e dunque polemica. E tuttavia è da riconoscere come il profilo giudiziale della testimonianza assuma tratti singolarmente accentuati nella recensione che il quarto vangelo propone della predicazione di Gesù, come subito si vedrà.
Alla triplice negazione segue poi, finalmente, un' affermazione positiva a proposito di se stesso ma estremamente esile: Giovanni dice di sé d'essere soltanto una voce, che nel deserto prepara la via al Signore che deve venire:

Gli dissero dunque: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «lo sono voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, come disse il profeta Isaia (1,22-23).

Giovanni dunque rende testimonianza alla luce che viene in questo mondo realizzando anzitutto la missione del profeta; ogni profeta infatti prepara la via del Signore; è personaggio che rimanda ad altri, rimanda all' Altro che deve venire; già in questo modo è definita la figura della testimonianza. La testimonianza di Giovanni può tuttavia assumere forma più positiva del mero rimando ad altro, che ancora deve avvenire; egli può annunciare un presente, può annunciare colui che è presente. Può annunciare appunto, ma non ancora indicare; colui che pur presente rimane sconosciuto: in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete (Gv 1,26). Come già sopra suggerivamo (33), la caratterizzazione qui proposta di Gesù come colui che non è conosciuto non può essere intesa in senso riduttivo quasi si riferisse al momento presente della predicazione di Giovanni, a un momento dunque nel quale egli non ha ancora incontrato Gesù; ai Giudei egli rimarrà sconosciuto anche dopo, quando la sua presenza si renderà in molti modi visibile, addirittura ingombrante. La dichiarazione del Battista anticipa in tal senso il destino ultimo di Gesù; egli venne, infatti, fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto (Gv 1,11).
Gesù è indicato con il dito soltanto nella successiva testimonianza di Giovanni: Ecco l'Agnello di Dio (Gv 1,29); in quel caso però interlocutori del profeta non sono più gli inviati dai Giudei, ma i suoi stessi discepoli:

Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!» (Gv 1,35-36).

Segue immediatamente la notizia del primo cammino di due discepoli di Giovanni al seguito di Gesù. La testimonianza di Giovanni assolve in tal modo al compito di portare a compimento il ministero di tutta la predicazione profetica; essa apriva la strada all' Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo; nel momento in cui viene l'Agnello, i discepoli del profeta diventano discepoli del Maestro e presso di lui cercano casa: Rabbì, dove abiti? (Gv 1,38).
La qualità soltanto profetica (ma non è poco) del ministero di Giovanni è sottolineata dalla successiva qualifica che egli dà di se stesso, amico dello sposo (Gv 3,29); essa interviene in risposta ai discepoli che si lamentano del declino della figura del loro maestro a fronte di colui al quale egli ha reso testimonianza; tutti ormai accorrono a lui (Gv 3,26); è da sottolineare che la recriminazione è occasionata da una discussione tra i discepoli di Giovanni e un Giudeo riguardo alla purificazione (3,25); l'indicazione, assai ellittica, suggerisce un nesso tra la recriminazione dei discepoli di Giovanni e un modo ancora troppo giudaico di intendere il battesimo di Giovanni (una purificazione, appunto). A quella recriminazione in ogni caso Giovanni risponde:

Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui. Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l'amico dello sposo, che è presente e l'ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire (Gv 3,28-30).

Nel medesimo contesto è posta sulla bocca di Giovanni anche una professione di fede in colui che viene dall'alto; essa, come già accadeva nel Prologo, anticipa in termini assai impegnativi le linee sintetiche della cristologia giovannea:

Chi viene dall' alto è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti. Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza; chi però ne accetta la testimonianza, certifica che Dio è veritiero. Infatti colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio e dà lo Spirito senza misura (Gv 3,31-34).

Già in questo testo interviene il rimando alla testimonianza suprema, quella resa appunto da colui che viene dall' alto ed è al di sopra di tutti, anche dei testimoni antichi, che sono i profeti. Egli solo ha visto e udito la verità di Dio; soltanto accedendo alla sua testimonianza è possibile attingere insieme allo Spirito senza misura (34).

Un vangelo "polemico"

Prima di considerare la figura che in Giovanni assume la testimonianza di Gesù dedichiamo una breve considerazione a un aspetto abbastanza noto del quarto vangelo, che tuttavia sempre da capo sorprende. Mi riferisco all' attenzione decisamente scarsa dedicata da questo vangelo alla prima predicazione di Gesù, quella dunque che articola l'annuncio del regno alle folle. Decisamente marginale è anche l'attenzione e l'apprezzamento dedicati alle testimonianze di fede offerte da coloro che sono guariti da Gesù, dai peccatori che si convertono e sono perdonati, dai poveri che ascoltano con interesse la sua parola e credono in essa.
Il quarto vangelo riferisce certo alcuni segni compiuti da Gesù sotto gli occhi di tutti; e tuttavia questi segni sono pochi, e soprattutto di essi non è messo in evidenza il valore kerygmatico, mentre è notata subito e solo la sostanziale incomprensione da parte dei Giudei. Tale incomprensione trova espressione attraverso le lunghe dispute tra Gesù e i Giudei, che di regola seguono la notizia dei singoli segni. La dinamica complessiva, che caratterizza in particolare i capitoli 5-12 di Giovanni, appare bene interpretata in tal senso dalla sentenza con la quale Gesù sfida la fede del funzionario del re, che gli chiede la guarigione del figlio: Se non vedete segni e prodigi, voi non credete (Gv 4,48); quell'uomo mostrerà di non dipendere dalla visione per credere, e otterrà quello che chiede. Le folle invece, e in particolare i Giudei che interpretano il punto di vista della folla, mostrano d'essere incapaci della fede che stacca dalla necessità di dipendere dagli occhi. Questa incapacità è denunciata con formula icastica dalla sentenza con la quale Gesù accoglie le folle che lo cercano nella sinagoga di Cafamao il giorno dopo la moltiplicazione dei pani:

In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati (Gv 6,26).

Il riferimento ai segni compiuti da Gesù ha rilievo strategico nei capitoli 5-12: non a caso gli studiosi hanno proposto per essi tutta la denominazione di "libro dei segni". I segni compiuti da Gesù mirano a suscitare la fede; la fede, d'altra parte, si riferisce ad altro che sta oltre i segni e che gli occhi non possono vedere; questo altro può essere soltanto creduto. A conclusione del vangelo Gesù dice a Tommaso: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! (20,29): tale formula sintetica introduce il primo epilogo del vangelo (il cap. 21 è aggiunto da un redattore successivo), che ribadisce in maniera esplicita la funzione solo propedeutica dei segni rispetto alla fede:

Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome (Gv 20,30-31).

Attraverso la distinzione dialettica tra segni e significato, rispettivamente tra vedere e credere, è articolato il senso della testimonianza, anche quando questo preciso lessico non è usato. La narrazione che Giovanni propone del ministero pubblico di Gesù prima della Pasqua sottolinea con costanza puntigliosa, quasi esasperante, come i segni compiuti da Gesù non suscitino affatto la fede. Meglio, suscitano una figura spuria di fede che Gesù corregge. La figura scadente della fede che si appoggia unicamente ai segni visti è rilevata nel vangelo fin dal primo incontro di Gesù con Gerusalemme:

Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa molti, vedendo i segni che faceva, credettero nel suo nome. Gesù però non si confidava con loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza su un altro, egli infatti sapeva quello che c'è in ogni uomo (Gv 2,23-25).

Anche nel caso del funzionario regi035, esempio di fede effettiva che smentisce la legge generale - e non a caso si tratta di un pagano -, Gesù in prima battuta oppone alla domanda di guarigione per il figlio un rifiuto, motivato dalla legge generale: Se non vedete segni e prodigi, voi non credete (Gv 4,48). In quel caso il rifiuto è solo interlocutorio; quell'uomo infatti credette alla parola che gli aveva detto Gesù e si mise in cammino (4,50); credette dunque pur senza aver ancora visto; in tal senso la sua fede è il modello della fede vera che Gesù cerca.
Figura assai simile ha lo stesso rifiuto opposto da Gesù alla madre a Cana: Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora (Gv 2,4); anche in questo caso il rifiuto appare solo interlocutorio; Gesù compirà il segno richiesto dalla Madre. Ma davvero la Madre chiedeva un segno, soltanto un segno? Il rifiuto iniziale di Gesù assolve appunto a questo compito, di precisare da subito che quello che egli di seguito compirà èsoltanto un segno, che rimanda a un altro tempo, all'ora di Gesù, perché se ne possa conoscere la verità. A conclusione del racconto è precisato che quello compiuto a Cana fu il primo segno; esso fu fatto da Gesùnon per gli sposi, ancora meno per gli invitati, ma solo per i discepoli, e cioè per i veri credenti: Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui. (Gv 2,11).
Già attraverso questa rappresentazione della prima attività di Gesù - una serie di segni che soltanto i suoi discepoli possono intendere - è suggerita la struttura testimoniale di tutto il suo ministero: esso rimanda a una verità che non può essere accertata mediante gli occhi, ma può essere conosciuta unicamente a condizione di credere. Appunto a procedere dalla fede, che sarà perfetta soltanto grazie al gesto supremo compiuto da Gesù nella sua ora, i discepoli potranno rendere testimonianza di quella verità.
La separazione tra credenti e non credenti, dunque tra discepoli e Giudei, nel quarto vangelo appare assai rigida. Non sono registrati casi di conversione, né di proclamazione del perdono di Dio da parte di Gesù; nulla si dice della festa che egli fece con i peccatori pentiti; neppure è registrata la figura di quella fede vera e tuttavia imperfetta, che Gesù ripetutamente loda secondo i sinottici, alla quale tuttavia proibisce la testimonianza. In tal senso il vangelo, dunque la buona notizia della prossimità benevola di Dio ad ogni uomo, non trova articolazione esplicita nella predicazione pubblica di Gesù, pure essendo esso il senso obiettivo dei segni da lui compiuti; il vangelo è rivelato soltanto ai discepoli nella stanza della cena.
Appunto i cinque capitoli (13-17), che Giovanni dedica ai discorsi di addio, costituiscono il nocciolo del vangelo, della buona e consolante notizia annunciata da Gesù; soltanto in quei discorsi Gesù proclama il comandamento nuovo, quello di un amore simile al suo. La struttura" dualistica" - come spesso si dice del quarto vangelo corrisponde allo spasimo escatologico che caratterizza questo vangelo; in tal senso esso può essere accostato alla letteratura apocalittica, dunque a un genere di letteratura caratteristico dei tempi di martirio, nei quali la testimonianza assume immediatamente i tratti dell'alternativa tra fede e incredulità. Manca ormai quella distensione temporale, nella quale soltanto per altro, dal punto di vista obiettivo, maturano le condizioni che rendono possibile e necessaria la scelta alternativa tra fede e incredulità. La stessa vicenda terrena di Gesù pare perdere la sua distensione temporale, per giungere subito alla fine. Appunto tale spasimo escatologico aiuta a comprendere la centralità che la categoria di testimonianza assume nel quarto vangelo.

La testimonianza di Gesù

La figura fondamentale della testimonianza è quella realizzata da Gesù stesso. Il senso e la necessità della testimonianza di Gesù appaiono nel quarto vangelo strettamente legati alla sua identità radicale; egli è il Verbo fatto carne, è il Figlio disceso dal cielo. Soltanto colui che è disceso dal cielo (cfr. Gv 3,12-13) può dire delle cose del cielo, appunto perché lui soltanto ha visto e udito le cose del cielo (cfr. Gv 3,31-32); lui soltanto, il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, è in grado di rivelare il Dio che nessuno ha mai visto (cfr. Gv 1,18). Il rilievo cruciale della testimonianza nella prospettiva del quarto vangelo è ricondotto in tal modo al rilievo decisivo che assume in esso lo schema dell'incarnazione, spesso descritto come schema di una cristologia discendente. Figlio disceso dal cielo è destinato ad essere da capo innalzato fino al cielo; la testimonianza è appunto la forma necessaria di tale innalzamento, di tale ritorno al cielo.
La testimonianza che il Figlio dà è, in ultima istanza, testimonianza in favore del Padre. E tuttavia il quarto vangelo si esprime anche in termini tali da configurare la testimonianza di Gesù quale testimonianza che egli dà a se stesso. La figura dell' auto-testimonianza pare contraddire il principio ovvio, affermato in maniera esplicita dalla legge antica: nessuno può rendere testimonianza a se stesso (36). Il vangelo di Giovanni registra espressamente l'obiezione che i farisei muovono a Gesù in tal senso: 

Gli dissero allora i farisei: «Tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera». Gesù rispose: «Anche se io rendo testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove vengo e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado» (Gv 8,13-14).

Questa formula, Gesù rende testimonianza a se stesso, interpreta un preciso aspetto della predicazione di Gesù, che trova chiara attestazione nei racconti sinottici: la formula deve essere compresa appunto sullo sfondo di quell'aspetto. Ci riferiamo all' autorità con la quale Gesù parla; essa sorprende tutti, e in senso positivo: tutti erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi (Mc 1,22). Lo stupore qui segnalato ha chiaramente i tratti di sorpresa lieta, la quale appare in tal senso segno del vangelo, del carattere di buona notizia che assume la predicazione di Gesù. Agli occhi dei responsabili del tempio e della religione nazionale, tuttavia, l'autorità di Gesù appare invece come abuso arbitrario. Così risulta in particolare nella disputa che segue alla cacciata dei mercanti dal tempio: i sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani e gli dissero: «Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l'autorità di farlo? (Mc 11,27-28); l'obiezione è assai simile a quella che, nel vangelo di Giovanni, esprimono in termini più astratti i farisei, quando gli obiettano: Tu dai testimonianza di te stesso. All' obiezione Gesù risponde dichiarando espressamente l'eccezione al principio generale, che prevede la testimonianza soltanto in favore di altri; Gesù può rendere testimonianza a se stesso perché sa da dove viene e dove va.
Il fatto che Gesù renda testimonianza a se stesso non esclude, per altro, che egli anche rimandi ad altri testimoni in suo favore. Altro testimone è, per eccellenza, il Padre stesso che lo ha mandato:

Nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera: orbene, sono io che do testimonianza di me stesso, ma anche il Padre, che mi ha mandato, mi dà testimonianza (Gv 8,17-18).

Proprio la presenza di questo testimone è invocata, in un altro passo del quarto vangelo, che sembra smentire l'affermazione di 8,14, ed escludere formalmente che Gesù possa rendere testimonianza a se stesso:

Se fossi io a render testimonianza a me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera; ma c'è un altro che mi rende testimonianza, e so che la testimonianza che egli mi rende è verace (Gv 5,31-32).

Questo altro è ovviamente il Padre. Nei versetti che subito seguono, prima ancora di Dio sono indicati due altri testimoni, Giovanni e le opere che Gesù compie:

Voi avete inviato messaggeri da Giovanni ed egli ha reso testimonianza alla verità. lo non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché possiate salvarvi. Egli era una lampada che arde e risplende, e voi avete voluto solo per un momento rallegrarvi alla sua luce. lo però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. E anche il Padre, che mi ha mandato, ha reso testimonianza di me (5,33-37a).

La menzione finale della testimonianza del Padre consente a Gesù di portare alla luce questo fatto: ciò che impedisce ai Giudei di accordare fede alla sua parola non è certo il difetto di testimoni, ma è il loro rifiuto di ascoltare la testimonianza interiore, che viene appunto da Dio stesso; a quella testimonianza è possibile accedere unicamente nella forma della fede. Il rifiuto della fede in Dio spiega in tal senso il rifiuto di credere alla testimonianza di Gesù:

Ma voi non avete mai udito la sua voce, né avete visto il suo volto, e non avete la sua parola che dimora in voi, perché non credete a colui che egli ha mandato (5, 37b-38).

Il fatto che voi non crediate a colui che egli ha mandato mostra che voi non avete la sua parola dentro di voi, che voi cioè non siete disposti ad accogliere quella sua parola interiore, la quale sola potrebbe disporvi alla comprensione e alla fede della mia stessa parola.
Alla testimonianza di Giovanni, a quella delle opere e finalmente a quella di Dio stesso si aggiunge infine, al quarto posto, la testimonianza delle Scritture; come accade per le prime due, anche questa testimonianza non può affermarsi presso l'uditore altro che a questa condizione, che sia accolta la testimonianza interiore di Dio:

Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza. Ma voi non volete venire a me per avere la vita (5,39-40).

La testimonianza che Gesù rende a se stesso trova la sua realizzazione suprema nella recensione che Giovanni propone del processo davanti a Pilato (37). Alla domanda di Pilato, se egli sia davvero re, Gesù in prima battuta non risponde affatto; la domanda infatti è proposta da Pilato non in prima persona, ma soltanto in qualità di funzionario imperiale; a quel punto egli riferisce soltanto quanto altri hanno detto di Gesù; si atteggia in tal senso come chi deve giudicare a proposito di una causa che non lo riguarda; è un mero burocrate, non coinvolto personalmente nella causa di Gesù. Soltanto quando Pilato esce dalla clandestinità, sollecitato dalla domanda di Gesù (Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio conto?, Gv 18,34), e interroga finalmente mosso da desiderio personale di capire, Gesù gli risponde:

Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce (Gv 18,37).

Queste parole portano alla luce in maniera molto chiara il senso della regalità di Gesù; essa ha la forma di testimonianza in favore della verità; la sua regalità può essere riconosciuta soltanto da colui che è dalla verità, che riconosce dunque d'essere da sempre destinato a una verità che gli sfugge, e dunque la cerca. Pilato non riconosce questo suo destino; a proposito della verità esprime invece un dubbio pregiudiziale: Che cos'è la verità? (18,38). Gesù dunque a quel punto non ha più nulla da dirgli; davanti al suo interrogatorio rimarrà muto.
Il silenzio di Gesù fa parte essenziale della sua testimonianza alla verità. Lo suggerisce con bella formula icastica sant'1gnazio di Antiochia, vescovo e martire: «Chi possiede veramente la parola di Gesù può avvertire anche il suo silenzio per essere perfetto, per compiere le cose di cui parla o di essere conosciuto per le cose che tace» (Lettera agli Efesini 15,1-2). Il contesto entro il quale egli propone questa affermazione è la segnalazione del rischio a cui la fede è esposta a motivo delle parole: «È meglio essere - s'intende, credenti senza dire, che dire senza essere», afferma infatti subito prima. Tale affermazione deve essere precisata: soltanto a condizione di essere si può anche dire con verità. E però la parola che confessa la fede non può essere intesa se non da chi ascolta credendo; in tal senso, quando chi ascolta appaia pregiudizialmente non disposto a credere, non disposto cioè a lasciarsi interpellare dalla parola che attesta la verità, occorre rinunciare a dire. L'appello alla verità sarà tenuto fermo nei suoi confronti appunto mediante il silenzio; soltanto il silenzio sarà forma eloquente di attestazione della verità nei suoi confronti.
L'appartenenza necessaria del silenzio alle forme mediante le quali soltanto la verità può essere testimoniata è da intendere sullo sfondo del principio generale: la parola di Dio può assumere figura di parola umana soltanto a condizione che chi ascolta accetti il proprio coinvolgimento nell' accadimento della parola. Il principio è uno dei riflessi necessari dell'incarnazione. Il Verbo che si fa carne esce dal silenzio di Dio; la sua manifestazione agli uomini è tenuta come in sospeso fino a che non si trovi chi crede in essa. Gesù partecipa sotto tale profilo del destino comune dei profeti che lo hanno preceduto; meglio, i profeti partecipano al destino futuro di Gesù. «I santi profeti vissero secondo Gesù Cristo», dice ancora 19nazio nella Lettera ai cristiani di Magnesia (8, 2), «Per questo furono perseguitati, poiché erano ispirati dalla sua grazia a rendere convinti gli increduli che c'è un solo Dio che si è manifestato per mezzo di Gesù Cristo suo Figlio, che è il suo verbo uscito dal silenzio e che in ogni cosa è stato di compiacimento a Lui che lo ha mandato». Il silenzio di Gesù davanti a Pilato, nella configurazione che Giovanni dà al processo, appare come la ripresa dei molti silenzi che Gesù conosce già durante il suo precedente cammino sulla terra; insieme, il silenzio nel processo porta a rivelazione compiuta della verità di quei silenzi precedenti.
Pensiamo in particolare al silenzio di Gesù di fronte alla domanda dei capi del sinedrio circa l'autorità con la quale caccia i mercanti dal tempio; egli rifiuta di rispondere, perché i capi stessi rifiutano di rispondere alla sua domanda sul battesimo di Giovanni; quel loro rifiuto manifesta la loro indisponibilità a prendere posizione di fronte alla verità. Pensiamo ancora a un silenzio di Gesù, di cui dice soltanto il quarto vangelo, quello davanti agli accusatori della donna colta in flagrante adulterio: Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra (Gv 8,6); premuto dalla loro insistenza su quell'interrogativo, Gesù alla fine risponde con la famosa formula: Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei (Gv 8,7), e torna poi in fretta al suo silenzio. Nel silenzio si rifugiano anche i suoi interlocutori, cominciando dai più anziani fino agli ultimi (Gv 8,9). Soltanto allora Gesù può pronunciare una parola; essa è rivolta alla donna rimasta sola ed è parola di perdono, è dunque la parola che sintetizza il suo vangelo: Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più (Gv 8,11).
La parola di Dio può essere pronunciata sulla terra unicamente di fronte a chi mostri disposizione ad ascoltare, e dunque a credere. La parola del testimone Gesù può essere pronunciata soltanto a condizione di trovare ascoltatori disposti a divenire essi stessi testimoni. Merita di rilevare espressamente la duplicità di senso della parola testimone: egli è colui che dà testimonianza, ma è insieme - in altro senso - colui che accoglie la testimonianza. Quanti ascoltano Gesù potranno divenire a loro volta attori della testimonianza soltanto grazie al fatto di avere accolto la sua testimonianza. Se difetta l'accoglienza, la parola di Gesù èdestinata a rimanere come sospesa, in duplice senso: nel senso che egli non può proprio dire e nel senso che anche quello che egli dice è destinato a rimanere oscuro come il silenzio. Il quarto vangelo offre una rappresentazione assai esplicita ed efficace di tale legge generale del ministero di Gesù:

Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d'inverno. Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone. Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Gesù rispose loro: «Ve l'ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; ma voi non credete, perché non siete mie pecore (Gv 10,22-26).

Ai Giudei appaiono oscure le parole tutte che Gesù dice; la loro impossibilità a comprendere non può essere rimediata attraverso altre parole che Gesù stesso aggiunga; essa dipende dal loro modo d'essere; essi non sono sue pecore. Nei precedenti versetti del capitolo 10 Gesù ha lungamente svolto l'allegoria delle pecore e del  pastore; un aspetto assolutamente qualificante di quell'allegoria è il fatto che l'intesa delle pecore col pastore vero e buono si produce a monte rispetto alle parole, attraverso il suono della voce; mancando tale sensibilità previa per quel suono è impossibile intendere le sue parole. Esprime in maniera più esplicita lo stesso messaggio l'altra affermazione di Gesù, nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato (Gv 6,44); appunto l'ascolto della voce senza parole del Padre è condizione per comprendere le parole che Gesù dice, secondo quanto sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio (Gv 6,45). Questo tema del necessario ammaestramento interiore ad opera del Padre è svolto nel quarto vangelo in molti modi. Il testo più eloquente e radicale è la disputa con quei Giudei che avevano creduto in lui, intorno al senso della discendenza da Abramo (Gv 8,31-59). 
L'impossibilità dei Giudei di dare ascolto alle parole di Gesù è messo lì in stretta relazione con la qualità delle loro opere, e più precisamente con il principio da cui precedono le loro opere, con il padre da cui esse procedono. Le loro opere fissano insieme la loro identità; essi non sono figli di Abramo, come pretendono; neppure sono figli di Dio, ma del diavolo, dunque di colui che mente ed è omicida. Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio (8,47). La disputa è innescata, non a caso, dall' obiezione tacita che Gesù muove alla loro fede; essi infatti avevano creduto in lui (8,31), dice il vangelo; avevano, dobbiamo precisare, creduto alle sue parole. Gesù propone loro condizioni diverse, perché possano essere davvero suoi discepoli: Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi (8,31-32). Rimanere fedeli vuol dire praticare la parola; appunto tale pratica è la condizione indispensabile per conoscere la verità delle parole che Gesù dice e conoscere così la verità stessa di Dio; soltanto a condizione di conoscere tale verità è possibile trovare anche il principio della propria libertà. I Giudei negano però di aver bisogno d'essere liberati; essi sono già liberi, dicono; pressappoco come in altra circostanza dicono di vederci benissimo. Proprio a motivo della mancata confessione della loro schiavitù e rispettivamente della loro cecità, essi rimangono schiavi e ciechi. Non sono sue pecore.

La testimonianza dei discepoli

Veniamo dunque alla terza figura della testimonianza, quella di cui sono investiti i discepoli. Accogliendo la testimonianza di Gesù, essi stessi dovranno rendere testimonianza in favore del Maestro, e in favore di Dio. Alla figura che assume la testimonianza dei discepoli Gesù lungamente dice nel quarto vangelo nel quadro dei discorsi della cena.
Il compito di essere testimoni, in ogni caso grave, diverrà possibile per i discepoli soltanto grazie alla parallela testimonianza che lo Spirito stesso darà a Gesù; egli, procedendo dal Padre dei cieli, sarà testimone di tutto ciò che Gesù ha detto e fatto:

Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio (Gv 15,26-27).

La testimonianza dei discepoli è dunque resa possibile a procedere da una duplice origine. Per un primo lato, essa è possibile grazie alla vicenda da essi vissuta in precedenza in compagnia del Maestro; di quella vicenda essi non sono stati soltanto spettatori, ma partecipi, in certo modo addirittura protagonisti. Ora in quella vicenda era iscritta fin dall'inizio una verità, che sfuggiva alla loro consapevolezza nel momento stesso in cui la vivevano. Per un secondo lato, la testimonianza sarà loro possibile appunto grazie allo Spirito mandato dal Padre, e insieme dal Risorto; appunto lo Spirito li condurrà alla verità della vicenda precedente, che prima ad essi sfuggiva.
Il contesto entro il quale la testimonianza deve essere resa è, ancora una volta, il processo del mondo nei confronti di Gesù. Subito prima della promessa del Consolatore era detto infatti:

Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato. (Gv 15,18-21).

La testimonianza dei discepoli riprende e porta a compimento il processo a questo mondo, che Gesù stesso ha iniziato. La vita tutta dei discepoli ripete i tratti della vita di Gesù, e in tal modo porta alla luce le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo (cfr. Mt 13,35); realizza dunque la testimonianza della verità di Dio.
La testimonianza dei discepoli risulta dunque dalla memoria di Gesù (Ricordatevi della parola che vi ho detto, Gv 15,20) e insieme dalla luce loro concessa dallo Spirito. La memoria si riferisce non soltanto a Gesù, ma a Mosè stesso e a tutti i profeti; quella memoria più remota torna ad essere recente e attuale soltanto quando essa è rivisitata nel quadro della memoria di Gesù. Egli infatti interpreta la Scrittura e la porta a compimento; e tuttavia occorre insieme riconoscere che la Scrittura interpreta la vicenda di Gesù, e in particolare il compimento di quella vicenda. Un passo del racconto della morte di Gesù evidenzia con grande chiarezza questo rapporto; mi riferisco al colpo di lancia, attestato con grande solennità dall' evangelista:

Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera e egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto (19,35-37).

La verità della testimonianza di Giovanni è dunque raccomandata per un primo lato dal fatto che egli ha visto; e tuttavia molti hanno visto, senza che la visione del trafitto schiudesse alcuna verità. La verità della testimonianza è raccomandata per altro lato dal fatto che attraverso la visione l'evangelista ha compreso come le scritture giungessero a compimento; l'allusione all' agnello pasquale, a cui non sarà spezzato alcun osso (Es 12,46), consente di identificare Gesù come adempimento dell' opera di Mosè; la citazione di Zaccaria (12,10) consente di riconoscere nella croce di Gesù il compimento del messaggio di tutti i profeti.
Un tale intreccio tra la vicenda di Gesù e la tradizione di Mosè e dei profeti, l'intreccio dunque che solo consente di riconoscere nelle cose viste il compimento della parola di Dio e la verità da credere, diviene percepibile agli occhi del discepolo unicamente grazie allo Spirito, che conduce alla verità tutta intera. Non a caso, il quarto vangelo associa strettamente la morte di Gesù al dono dello Spirito: dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». E, chinato il capo, spirò (Gv 19,30). Spirò, o nella traduzione latina più fedele alla lettera greca, tradidit spiritum, consegnò lo Spirito. L'espressione non può essere intesa, come invece suona quella usata nel testo parallelo di Marco e Luca, nel senso che esalò l'ultimo respiro; egli invece consegnò il suo spirito, lo Spirito Santo, a coloro che credono in lui. Il crocifisso realizza la promessa fatta ai discepoli durante la cena, nel momento in cui essi, afflitti dall' annuncio della morte imminente, desistevano da ogni interrogativo sul suo futuro, parevano quasi rassegnati al fatto che la morte togliesse ogni spazio a un possibile futuro:

Ora però vado da colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Anzi, perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. E quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio (Gv 16,5-8).

Appunto l'opera dell' altro Consolatore consentirà ai discepoli di parlare del futuro di Gesù crocifisso e di realizzare attraverso tale parola il giudizio universale.
La loro testimonianza porterà, con parole, fino ai confini del mondo la testimonianza che Gesù, al culmine della sua vita, offrì mediante il suo silenzio.
La qualità testimoniale caratterizza l'opera tutta dell'evangelista, come è espressamente indicato nei versetti conclusivi, appartenenti a quel capitolo 21 che è aggiunto da un discepolo redattore del vangelo:

Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere (Gv 21,24-25).

10. La testimonianza, "inattuale"?

La considerazione dei testi del Nuovo Testamento ci ha imposto di seguire il tema della testimonianza nella sua articolazione più analitica, riferita ai diversi tempi e alle diverse figure che esso assume nella vicenda di Gesù distesa nel tempo, rispettivamente alle diverse prospettive che esso conosce nell' elaborazione teologica dei singoli autori. L'attenzione ai testi ha imposto in tal senso di attenuare - anche se non di sospendere del tutto - il confronto con l'esperienza umana universale e con l'esperienza umana che sta sullo sfondo del ritorno della categoria di testimonianza nel cattolicesimo recente. Tale confronto è indispensabile per chiarire i modi nei quali la figura cristiana della testimonianza produce un' ermeneutica di quell'esperienza, e insieme una sua critica. A conclusione della nostra riflessione torniamo espressamente al confronto di cui si dice. Esso costituisce, come fin all'inizio dichiarato, un obiettivo qualificante del presente saggio.
Il ritorno della testimonianza nella lingua recente del cattolicesimo minaccia di realizzarsi in forme tali da estenuare la valenza critica che la categoria obiettivamente assume per rapporto alle tradizioni di senso che stanno alla base della vita comune degli uomini, e quindi anche della vita di ciascuno. Come abbiamo ampiamente mostrato, infatti, la categoria di testimonianza è legata in maniera stretta al profilo critico del rapporto che la predicazione cristiana ha con la sapienza di questo mondo. Nei testi fondatori del cristianesimo, la prima determinazione dell'idea di testimonianza, la più indubitabile, è proprio quella che risulta dalla stretta associazione della testimonianza con il processo. I cristiani sono testimoni nel processo che fin dall'inizio il mondo istruisce contro Gesù, e che Gesù istruisce contro il mondo. Tale lite non può in alcun modo essere ignorata dal credente; né egli può assumere per rapporto ad essa l'atteggiamento di semplice spettatore; egli è invece chiamato a deporre in giudizio. La lite di cui si dice è di sempre; e tuttavia assume caratteristiche diverse in ogni tempo. Appunto il riferimento al nostro tempo precisa la prospettiva nella quale intendiamo condurre la comparazione tra testimonianza cristiana e forme dell' esperienza umana.

La rimozione del conflitto

Il tratto dominante del nostro tempo, in rapporto al tema della testimonianza, pare essere la rimozione del conflitto. Le rappresentazioni prevalenti del rapporto tra cristianesimo e contesto civile sono oggi decisamente ireniche. Si dovrà certo riconoscere che tali rappresentazioni hanno per molti versi carattere soltanto ottativo; esse non impediscono che quel rapporto appaia in molte occasioni concrete decisamente conflittuale. E tuttavia non può essere negato che, a livello di dichiarazioni di principio, il modello dominante sia appunto quello irenico. Precisamente tale modello minaccia di produrre la rimozione del conflitto.
Alla rimozione concorrono, con motivazioni diverse e quindi anche in forme diverse, sia i cristiani che il "mondo", o - detto in lingua più sobria - la cultura pubblica del nostro tempo. Ci riferiamo ovviamente alla cultura pubblica dell'Occidente secolare e postmoderno. Essa rimuove il conflitto tra il vangelo e la sapienza umana a procedere dai suoi dogmi, che si riferiscono non subito e solo al cristianesimo, ma alla religione in genere. Tentiamo una sia pur succinta rassegna di tali dogmi. È utile raccoglierli sotto due grandi titoli: l'aspetto moderno di tale cultura e rispettiva mente quello postmoderno. La compatibilità reciproca tra i dogmi posti sotto i due distinti titoli è problematica; e tuttavia essi operano di fatto fino ad oggi in maniera congiunta. 
Un primo teorema moderno è quello della laicità civile: la convivenza civile può, e anzi deve, prodursi come se Dio non ci fosse, secondo la fortunata formula di Ugo Grozio. Il teorema non comporta certo la negazione della religione, ma la sua marginalità rispetto alla vita civile. I margini entro i quali la religione è confinata sono  più precisamente quelli imposti alla coscienza del singolo. Insieme alla religione, infatti, la cultura emargina dalla vita civile anche tale coscienza.
Un secondo teorema è quello che afferma l'assoluto rispetto che merita sempre e comunque tale coscienza. La figura del rispetto (38) è strettamente legata a quella della secolarità civile: proprio perché la società non ha bisogno di riferimento a Dio, o al sacro, pare escluso a priori che possano nascere conflitti tra le forme della civiltà e le forme della religione. Queste seconde infatti interessano esclusivamente la coscienza del singolo; essa ha talvolta (o sempre, forse occorre riconoscere) necessità di riferirsi al sacro per realizzare se stessa. La separazione tra coscienza e civiltà porta alle estreme conseguenze quella precedente tra religione e società, che litigi tanto numerosi e aspri ha provocato nella storia europea. I litigi non sono assenti neppure oggi, certo; paiono tuttavia nominalmente negati nelle forme della comunicazione pubblica; essa infatti, appellandosi perentoriamente alla propria laicità come a teorema scontato, proclama insieme l'ovvio rispetto di ogni religione. Perché possa vigere il principio del rispetto è precisata tuttavia una condizione: ogni religione deve rispettare i diritti elementari di ogni uomo. Quella dei diritti umani pare infatti la "religione" laica della società civile; suo presupposto è che i diritti possano e debbano essere affermati senza alcuna necessità di dire "dio" .
Questa sistemazione concettuale della pacifica convivenza tra religioni e società secolare alimenta per sua natura - merita di rilevarlo subito - un sospetto nei confronti dell' eventuale pretesa del credente di dare testimonianza della propria fede. La testimonianza è infatti per sua natura pubblica; in quanto tale, pare configurarsi di necessità come una usurpazione del carattere insindacabile di ogni singola coscienza. Alla luce dei canoni generali della società liberale, le religioni non debbono fare proselitismo. Al principio si può certo consentire, e anzi il cristianesimo per motivi suoi propri consente. Ma come distinguere tra testimonianza e proselitismo? Più in radice, è possibile una tale distinzione? Nella prospettiva della cultura laica essa appare difficile da pensare.
Veniamo al secondo gruppo di teoremi, quelli posti sotto il titolo del postmoderno. Essi hanno definizione assai meno precisa e univoca rispetto ai precedenti, se non altro a motivo della loro più recente insorgenza. Al di là di questo motivo, la loro vaghezza è da riferire alla qualità di questi nuovi teoremi; essi paiono obiettivamente destinati a mettere in crisi la sistemazione moderna dei rapporti tra religione e società; a mettere in crisi addirittura il dogma della laicità civile, che pare il più indiscusso della cultura liberale moderna. Tale dogma molto resiste a ogni pretesa contestazione o revisione; reagisce dunque a chi lo metta in dubbio in maniera violenta, addirittura terroristica; appunto per questo motivo i teoremi postmoderni hanno di solito formulazione cauta e reticente. E tuttavia anch' essi concorrono ad alimentare l'atteggiamento irenico della cultura pubblica del nostro tempo nei confronti della religione, e soprattutto del cristianesimo.
Il primo teorema postmoderno è quello che riconosce francamente la necessità di qualche cosa come una religione per la coscienza individuale. Il tramonto delle ideologie ottocentesche, e in generale degli ideali forti dell'illuminismo, lascia infatti la coscienza individuale senza riferimenti di valore che propizino la sua identificazione; l'attesa prevedibile è che tali riferimenti possano essere offerti dalla religione; sono quindi cercati in quella regione. Una religione ridotta a mera regione della provincia umana assume d'altra parte di necessità tratti esoterici e perde ogni preciso rapporto con i significati elementari della vita, iscritti alla radice delle forme comuni del vivere. La religione esoterica è apprezzata subito e solo in base alla sua attitudine a propiziare l'immaginazione di sé da parte del singolo, non in base alla sua capacità di valere come principio di discernimento pratico, di un discernimento dunque che abbia come proprio oggetto le forme dei rapporti umani nella pratica quotidiana. La religione postmoderna ha la tendenziale fisionomia di religione immaginaria, fatta di pensieri, e soprattutto di sentimenti, assai più che di azioni; mira all' obiettivo di propiziare la pace del soggetto con se stesso, assai più che la pace con gli altri; serve a sentirsi bene assai più che a diventare buoni. Una religione così diviene oggetto di facile e diffuso apprezzamento; essa, d'altra parte, dispone ad intendere la testimonianza nella forma modesta della mera comunicazione di esperienze personali; in tale prospettiva la testimonianza è certo anche apprezzata; non è compresa invece, né tanto meno apprezzata, la testimonianza che assuma la fisionomia di un appello alla decisione.
Nella stagione postmoderna la religione pare tuttavia affacciarsi, con crescente frequenza, anche sulla scena della vita pubblica. Governanti e uomini investiti di responsabilità pubbliche in genere invocano la religione qual presidio dell' etica, dunque delle forme buone della vita comune. Il ritorno della religione a livello di vita pubblica trova spiegazione nel crollo dell'utopia, tipica della cultura moderna, di una civiltà fondata sulle evidenze universali della ragione. Ha acquisito ormai una certa notorietà in tempi recenti il cosiddetto "teorema di Böckenförde"; frequentemente invocato nei dibattiti pubblici, esso è stato reso ancor più popolare dal confronto tra il cardinal Joseph Ratzinger e Jürgen Habermas a Monaco di Baviera nel 2004 (39). I due illustri personaggi hanno allora citato entrambi, con deciso consenso, il teorema in questione. Esso afferma che «10 Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che esso si è assunto per amore della libertà». Il teorema genera un appariscente paradosso dello Stato moderno:

Da una parte esso può esistere come Stato liberale solo se la libertà, che esso garantisce ai suoi cittadini, si regola dall'interno, vale a dire a partire dalla sostanza morale del singolo e dall' omogeneità della società. D'altra parte, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade - su un piano secolarizzato - in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali (40).

Lo Stato liberale intende garantire la libertà dei cittadini; tale libertà suppone però precise condizioni, che si riferiscono alle forme della coscienza individuale; suppone, più precisamente, che quelle forme siano in grado di provvedere il soggetto di una regola "interna" della sua libertà. Detto in termini più convenzionali, la libertà è possibile soltanto a condizione che il singolo disponga di una coscienza morale; appunto essa è la regola "interna" di cui si dice. Una coscienza morale, d'altra parte, è possibile unicamente sulla base di una "sostanza morale", ovvero di un ethos, che soltanto il consenso sociale può garantire. In tal senso Böckenförde parla di una "omogeneità della società" necessaria alla coscienza. Il costume, d'altra parte, non può essere realizzato certo ricorrendo agli strumenti della coercizione giuridica, e in generale alle risorse del potere legittimo; tale ricorso sarebbe una smentita dei teoremi liberali. In tal senso appunto lo Stato moderno vive di presupposti che non è in grado di garantire. Anche in tal modo si configura la crisi del moderno.
A rimedio di tale crisi accade che in Occidente sia chiesto l'aiuto della tradizione cristiana; essa dovrebbe provvedere a quelle tradizioni di senso, delle quali la democrazia liberale ha bisogno, alle quali l'istituzione politica però non può provvedere. Quest'attesa nei confronti delle chiese, e di quella cattolica in particolare, esercita una pressione consistente sulle forme della predicazione ecclesiastica; più precisamente, essa opera nel senso di sollecitare una declinazione della verità cristiana in termini di tradizione culturale. Il fenomeno dei "laici devoti", tanto declamato in Italia, si intende appunto su questo sfondo. Rappresentanti della cultura laica si appellano al cristianesimo, considerato nella sua qualità di tradizione culturale, per avere un presidio della cultura liberale e umanista. Nelle religioni, e non già nella ragione, dovrebbe cercare alimento il tanto apprezzato umanesimo dell'Occidente liberale. Una tale figura del cristianesimo rimuove - ovviamente -l'aspetto conflittuale dei rapporti tra fede e cultura; l'attenzione a quell'aspetto è invece indispensabile per intendere la figura della testimonianza.
A un disegno irenico dei rapporti tra chiesa e società appare assai sensibile la stessa coscienza cristiana, in specie quella cattolica, per ragioni sue proprie. Essa porta infatti ancora i segni visibili della prolungata polemica con lo stato liberale; essa è durata infatti troppo a lungo e appare d'altra parte viziata da presupposti troppo dubbi. La polemica era attraversata da una nostalgia di "restaurazione", perseguiva cioè l'obiettivo del ritorno a un modello civile insostenibile, quello di una civiltà cristiana. La fretta di mostrare il superamento di quella nostalgia induce chierici e laici cristiani a proporre una visione decisamente irenica dei rapporti tra cattolicesimo e stato liberale. La distanza tra cristianesimo e civiltà non può essere in alcun modo cancellata. Essa è oggi spesso intesa però quasi corrispondesse a una divisione di competenze, piuttosto che ad un conflitto: la civiltà si occupa del bene comune terreno; la fede del bene escatologico dei singoli, o delle anime.
Occorre subito obiettare che la distanza fra verità escatologica del vangelo e forme della civiltà non può essere in alcun modo interpretata nei termini irenici di una mera divisione di competenze. Della salvezza escatologica infatti non si può dire altro che a procedere dalle figure che di essa offre la vita presente, e dunque la città presente che è figura e profezia della salvezza eterna. Quando si acceda al riconoscimento di tale rapporto è inevitabile prevedere che la speranza escatologica imponga una ripresa critica delle figure della vita comune proposte dalla tradizione civile. Alla verità profetica del presente la coscienza cristiana accede unicamente a condizione di riconoscere i segni del tempo; s'intende, i segni mediante i quali nel tempo si annuncia la verità dello Spirito.
Un tale discernimento appare arduo; esso è di fatto rimosso dalle folle. A fronte di tale rimozione Gesù esprime la propria sorpresa, e addirittura la propria impazienza:

Diceva ancora alle folle: Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? (Lc 12,54-57).

La distanza tra cristianesimo e civiltà è irriducibile, dunque; essa ha però i tratti di una distanza critica, non quelli di una pacifica divisione delle competenze. Il cattolicesimo postconciliare preferisce pensare in termini di divisione di competenze. In tal senso la figura di testimonianza, che esso propone come compito necessario ai singoli e alle comunità, assume i tratti dell' offerta di un "supplemento di anima", o di un "supplemento di speranza" - come spesso ci si esprime. Ma l'anima, o rispettivamente la speranza, possono davvero essere soltanto un "supplemento"? Non impongono invece una radicale conversione della prospettiva tutta della vita?
La distanza della fede dalla cultura - da quella presente come da ogni cultura immaginabile - deve essere riconosciuta anzitutto dal singolo, certo, e deve essere da lui stesso praticamente realizzata. E tuttavia quando la fede sia quella nel vangelo di Gesù, il singolo è chiamato a divenire profeta, e cioè fautore di una lettura della storia di tutti altra rispetto a quella delle folle. Appunto a tale profilo profetico si riferisce il compito della testimonianza. Esso è anzitutto compito del singolo; il destino del profeta è infatti sempre quello d'essere quel singolo, chiamato per nome dal suo Signore; a lui è affidato un messaggio "inattuale". Davvero inattuale? Attualissimo, nel senso che il messaggio si riferisce precisamente a questo tempo, come si esprime Gesù nel passo poco sopra citato, dunque al tempo presente. E tuttavia il messaggio è inattuale, nel senso che propone una verità del presente alternativa rispetto a quella raccomandata dalla complicità ammiccante dei figli di Adamo, da ciò che tutti dicono e fanno.
L'inattualità della testimonianza appare anche da questa circostanza: essa è un compito che non può essere sempre realizzato mediante le parole. Viene il tempo nel quale le parole appaiono come spuntate e la testimonianza non può essere resa altrimenti che mediante il silenzio e la passione. Questo è il destino del cristiano, come già quello dei profeti antichi, e soprattutto quello di Gesù. C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! (Lc 12,50), dice Gesù, e si riferisce ovviamente alla sua passione. Quel che Gesù dice di sé vale anche per il discepolo. Gesù è addirittura angosciato in attesa che venga il momento del suo battesimo; vede infatti come soltanto in quel momento il suo messaggio acquisterà compiuta univocità. Già nel suo caso, anzi soprattutto nel suo caso, si realizza il teorema generale: la testimonianza del vangelo è possibile soltanto nella forma del martirio. Il teorema porta a chiara espressione il tratto inattuale della testimonianza. Sempre essa è inattuale, ma - per i motivi sopra accennati -lo è in maniera particolare oggi.
Questo dunque, tratteggiato in forma molto sommaria, è lo sfondo entro il quale si produce il ritorno della categoria di testimonianza nel cattolicesimo recente; lo sfondo minaccia di conferire al ritorno tratti assai dubbi. Essi debbono essere corretti a procedere dal rinnovato ascolto dei testi fondatori.

La testimonianza, mandato del Risorto

La figura cristiana della testimonianza trova la sua definizione più concisa e insieme più precisa nel mandato conferito da Gesù ai discepoli dopo la Pasqua. Proprio perché di mandato si tratta, essi sono qualificati apostoli, che significa appunto mandati. L'imperativo di andare in tutto il mondo è interpretato nei vangeli attraverso parole assai esplicite, poste sulla bocca del Risorto nel quadro dei racconti di apparizione. Quando si guardi alla lettera, quelle parole appaiono abbastanza difformi nei singoli vangeli; esse tuttavia convergono nel senso, e cioè nell'indicazione sintetica del compito di essere testimoni.
La qualifica esplicita dei discepoli quali testimoni appare soltanto in Luca. Oggetto della testimonianza è il vangelo; e tuttavia questo preciso termine non è usato; l'oggetto della testimonianza è indicato invece mediante una brevissima formula di fede, che richiama espressamente la passione e la risurrezione del Cristo, come pure la corrispondenza di tale destino alla testimonianza delle Scritture. L'annuncio del vangelo comporta un imperativo e insieme una promessa; l'imperativo è la conversione, la promessa è il perdono dei peccati. Destinatari della predica sono tutte le genti, ma a cominciare da Gerusalemme:

Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto (Lc 24,46-49).

La raccomandazione di rimanere in città fino al giorno in cui saranno rivestiti di potenza dall' alto - potenza (dynamis) è un altro nome dello Spirito Santo - suggerisce il significato del fatto che la predica debba cominciare proprio da Gerusalemme; appunto in quella città è custodita la memoria dalla quale deve procedere l'annuncio; e tuttavia la memoria, la referenza dunque alla passione di Gesù, può dispiegare il senso cosmico dell' evento pasquale soltanto grazie alla potenza dello Spirito.
Nel vangelo di Marco il mandato è espresso in termini decisamente concisi; per designare l'oggetto della predicazione si ricorre alla categoria pregnante di vangelo; i destinatari non sono indicati ricorrendo allo schema che distingue Israele dalle genti, si parla invece genericamente di ogni creatura; della predicazione è suggerito l'effetto alternativo, fede e salvezza di contro a incredulità e condanna:

Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato (Mc 16,15-16).

Neppure nel vangelo di Matteo è usato il lessico della testimonianza. Di più, l'oggetto della predicazione è descritto in termini tali da farlo apparire come una dottrina piuttosto che come un annuncio, e un annuncio lieto. L'oggetto della predicazione è descritto, piùprecisamente, come una "legge", come istruzione dunque a proposito della via della vita (secondo l'accezione della tradizione mosaica), non invece come annuncio del destino di Gesù. E tuttavia la dottrina che i discepoli debbono insegnare è quella di Gesù, e la missione fa chiaro riferimento alla signoria del Risorto, sovrano del Cielo e della terra e presente ai suoi fino alla fine del mondo:

Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,18b-20).

Nella recensione che Matteo offre del mandato del Risorto rimane molto implicito il rapporto tra predicazione e memoria; proporzionalmente implicita rimane anche la forma della testimonianza che tale predicazione deve assumere.
Nel vangelo di Giovanni finalmente il riferimento della missione alla precedente vicenda vissuta dai discepoli in compagnia di Gesù appare assai esplicito; il Risorto infatti mostrò loro le mani e il costato e i discepoli gioirono al vedere il Signore (20,20), quasi a significare che quella visione aprì i loro occhi a una verità delle piaghe del Signore diversa rispetto a quella che essi avevano visto in precedenza, diversa dalla verità che li aveva indotti a chiudere gli occhi. La nuova visione è condizione essenziale perché Gesù possa mandarli; la loro missione è accostata in maniera esplicita a quella che Gesù ha ricevuto dal Padre; è accompagnata dal dono dello Spirito Santo, che - attraverso l'immagine del soffio, replica del soffio del Creatore sull' Adamo di terra (cfr. Gen 2,7) - è rappresentato chiaramente come una nuova creazione. L'opera alla quale lo Spirito abilita è quella del perdono; attraverso il loro stesso perdono tutti dovranno conoscere il perdono di Dio:

Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi». Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,21-23).

In diversa forma dunque tutti e quattro i vangeli registrano come la vicenda di Gesù, crocifisso e risorto, debba conoscere un futuro presso tutti gli uomini attraverso la predicazione dei discepoli, divenuti in tal modo apostoli, autorizzati dunque a testimoniare come invece in precedenza non lo erano; di più, investiti di quel compito.
La forma nella quale è espresso il mandato del Risorto è in ogni caso assai contratta. Giunti al culmine della vicenda, il mandato non ha più bisogno di essere spiegato, di essere dunque proposto nella forma dell'istruzione; il senso del mandato è fondamentalmente già istituito attraverso tutto quello che Gesù ha detto e fatto in precedenza, e soprattutto da quello che ha patito. Il mandato potrebbe essere così parafrasato: questa è l'ora nella quale diventa attuale il compito per il quale fin dall'inizio vi ho scelti e lungo tutto il cammino vi ho preparati. Esprime efficacemente questo nesso tra la precedente consuetudine di vita con Gesù e missione presente la breve formula usata da Marco per dare notizia dell' elezione dei Dodici: e ne costituì Dodici, perché stessero con lui e anche per mandarli a predicare (Mc 3,1415). Il Risorto porta a parola quell'imperativo di testimonianza che era fin dall'inizio l'obiettivo del cammino precedente. L'imperativo non poteva essere subito espresso mediante le parole; soprattutto, non poteva essere espresso mediante parole che prescrivessero la testimonianza; era espresso invece dalla configurazione complessiva che il loro cammino e la loro stessa persona avevano ricevuto ad opera di Gesù.
Merita di notare questa circostanza singolare: già nei discorsi di missione anteriori alla Pasqua, quelli che istruivano i discepoli per la loro missione in Galilea, nulla era detto del contenuto dell' annuncio; erano precisate soltanto le condizioni pratiche da osservare perché l'annuncio fosse rapido e subito mirato al nocciolo centrale. Quel nocciolo non era detto, se non mediante la formula stereotipa predicate che il regno dei cieli è vicino (Mt 10,7), presente per altro soltanto in Matteo. Il contenuto dell' annuncio non è consegnato ai Dodici mediante un insegnamento apposito; è invece proposto attraverso tutto ciò che Gesù dice e fa davanti a tutti; quello appunto i discepoli debbono testimoniare. Non semplicemente raccontare, ma testimoniare: i fatti di cui tutti sanno, o dei quali potrebbero in ogni caso sapere informandosi, sono gravidi di una verità, alla quale soltanto i discepoli sono stati iniziati.
È da rilevare come la qualifica di discepoli sia riconosciuta, nella tradizione cristiana successiva, e giànel libro degli Atti, a tutti i credenti; prima della Pasqua invece essa era riservata soltanto ai seguaci. Il destino semantico del termine discepolo porta alla luce un destino reale: i discepoli sono chiamati da Gesù al suo seguito con questo preciso obiettivo, diventare i testimoni del suo vangelo. Diventano tali di fatto fin dalla prima ora, molto prima di saperlo e di volerlo in maniera consapevole, molto prima di ricevere un mandato esplicito in tal senso da parte del Risorto. Il cammino da essi percorso al seguito di Gesù, in risposta alla sua chiamata, ha la consistenza obiettiva di una testimonianza del vangelo. Definiamo come obiettiva tale consistenza per suggerire che essa si realizza a monte della loro consapevolezza soggettiva. Ma ad un certo punto il significato di quel cammino precedente deve assumere la forma di testimonianza deliberata. Attraverso il rinnovato atto di fede successivo alla Pasqua, essi dovranno riprendere la verità di un destino già realizzato, ma solo in maniera passiva, grazie dunque alla "predestinazione" intesa e realizzata da Gesù; ora quel cammino dovrà essere voluto in maniera attiva.  
Appare assai eloquente, in tal senso, una formula usata da Giovanni nel racconto della cena, per esprimere il comandamento nuovo. Dopo aver lavato loro i piedi, vincendo la resistenza di Simone, Gesù dice: 

Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi (Gv 13,12c-15).

In queste parole non trova ancora espressione il mandato di annunciare il vangelo; trova invece espressione il comandamento nuovo, quello di amare; più precisamente, il comandamento prescrive una figura nuova dell' amore, il servizio reciproco a imitazione del servizio del Maestro. Il compito di annunciare il vangelo non può tuttavia essere separato dalla testimonianza realizzata mediante il rapporto fraterno.
La formula usata in Giovanni per dire la missione che il Risorto affida ai suoi - Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi (Gv 20,21) - è espressa mediante la formula sorprendente che abbiamo ricordato: Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi (Gv 20,22b23). La missione resa possibile dal dono dello Spirito è dunque addirittura quella di perdonare, non semplicemente di annunciare il perdono di Dio; attraverso tutta la loro stessa vita i discepoli dovranno attestare il vangelo. Condizione per poter realizzare tale attestazione è la memoria di tutto ciò che Gesù ha fatto per loro, e ha fatto di loro. La memoria suppone il riferimento a ciò che essi hanno visto e udito; suppone però anche l'accesso alla verità spirituale di tutto ciò che essi già hanno visto e udito, ma che rimaneva prima nascosto ai loro occhi. Soltanto lo Spirito Santo dischiude tale verità. In tal senso la promessa di Gesù per il futuro deve essere espressa mediante formule paradossali:

Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto (Gv 14,25-26).

La verità di ciò che Gesù ha detto diventa accessibile soltanto mediante la nuova forma del ricordo resa possibile dallo Spirito Santo.

La testimonianza ignara

Per intendere la figura della testimonianza cristiana è indispensabile riferirsi ai due tempi nei quali è articolato il cammino dei discepoli seguaci: il primo tempo è quello di una sequela per così dire soltanto "infantile", il secondo tempo è invece quello della sequela consapevole e spirituale. La scansione in due tempi della vita dei discepoli porta a rivelazione una legge universale della vita di sempre e di ogni uomo. Ogni nato da donna realizza il primo cammino della propria vita in maniera per così dire "magica", assistito cioè da una "fede" spontanea; meglio la si definirebbe fiducia; esattamente attraverso quel primo cammino ogni nato da donna è iniziato al mistero della vita. Al culmine di tale iniziazione sta la scelta libera, alla quale soltanto è giusto riservare il nome di fede; essa inaugura quel secondo cammino, che solo può essere definito" adulto" nel senso spirituale dell' aggettivo. La scelta della fede è possibile unicamente nella forma della ripresa del primo cammino; più precisamente, esso assume la forma del consenso alla promessa che il primo cammino annunciava. Il consenso in questione, d'altra parte, suppone che alla promessa sia data parola, che quindi il soggetto stesso dia la propria parola, e cioè prometta.
Sullo sfondo di tale scansione in due tempi del cammino della vita, è possibile distinguere due diversi significati della testimonianza. Essi sono reciprocamente connessi, ma soltanto il secondo adegua l'idea cristiana di testimonianza.
Secondo il primo significato ha figura virtuale di testimonianza ogni esperienza umana. Ogni esperienza infatti è gravida di una verità capace di raccomandarsi ad ogni coscienza. In particolare, ha valore di testimonianza ogni comportamento umano; esso è infatti attraversato da una densità simbolica, che si realizza pur senza passare attraverso la consapevolezza del soggetto. Tutto quello che facciamo parla di noi, e di noi dice molto prima e molto più rispetto a quanto sappiamo dire da noi stessi. Questo significato obiettivo dei nostri comportamenti è percepito da altri, che ci sono prossimi, prima ancora che da noi stessi; appunto le loro attese nei nostri confronti, autorizzate dai nostri comportamenti, o quanto meno dalla comprensione che essi hanno di tali comportamenti, sollecitano noi stessi a realizzare la consapevolezza riflessa del senso obiettivo di quei comportamenti.
L'apporto delle attese di altri alla coscienza che ciascuno ha di se stesso non è soltanto eventuale; è una necessità. Appunto questo debito radicale che la coscienza di ciascuno deve riconoscere nei confronti di altri è al fondamento della forma morale della vita. La norma morale non è certo eteronoma; non può essere definita infatti se non a procedere dalla considerazione delle forme che assume la nostra coscienza, la nostra presenza dunque a noi stessi. E tuttavia l'autonomia morale del soggetto non può essere in alcun modo pensata quasi fosse autarchia, quasi che il soggetto possa accedere alla coscienza di sé e della norma a monte rispetto alle evidenze dischiuse dal rapporto di prossimità con altri. La legge morale ha sempre la figura di legge dell' alleanza, non solo per i figli di Israele, ma per tutti i popoli della terra; la legge è imposta da quella prossimità sorprendente ad altri, mediante la quale soltanto è fin dall'inizio possibile che ciascuno acceda alla coscienza di sé.
Il rapporto di prossimità d'altra parte rimanda a una verità più grande rispetto a quella nota a coloro che sono reciprocamente prossimi. Come già si accennava all'inizio di questo saggio (41), per la donna a lui sorprendentemente vicina l'uomo è testimone di una promessa, che egli lì per lì non conosce; la stessa cosa si deve dire della donna nei confronti dell'uomo. In maniera ancor più evidente, i genitori sono per il figlio testimoni di una promessa, che essi in prima battuta non conoscono; l'apprendono solo poi, appunto attraverso il rapporto pratico col figlio. Testimone inconsapevole di un massaggio grandioso è anche e soprattutto il figlio, fin dalla sua prima infanzia, fin dal tempo nel quale non può articolare parola. Proprio l'infante illustra nella maniera più chiara una legge generale della vita: il singolo accede alla consapevolezza di sé, quindi alla speranza che autorizza la sua libertà e consente la disposizione incondizionata di sé, unicamente grazie ad attese che altri hanno nei suoi confronti. Non pensiamo soltanto alle attese dei genitori nei suoi confronti, ma anche all' attesa sua nei loro confronti; queste seconde attese non sono espresse mediante parola, e tuttavia sono intese dai genitori e proprio attraverso di esse i genitori giungono alla consapevolezza matura di sé; giungono in generale a consapevolezza del fatto che la loro vita può divenire preziosa unicamente a condizione di essere donata. Il privilegio della figura del bambino, per rapporto all' articolazione del senso o della speranza della vita, trova riscontro in precise affermazioni di Gesù; se non altro a tale titolo merita un rapido approfondimento.
Che il figlio sia testimone di quella promessa che sola può illuminare la vita di ogni uomo e sottrarla alla vertigine della morte inesorabile è illustrato in molti modi dalla tradizione culturale di tutti i popoli, e soprattutto dalla tradizione della fede biblica. La prima forma che assume la promessa di Dio al suo popolo è infatti la promessa di un figlio, fatta ad Abramo. Anche nella predicazione dei profeti la forma sintetica della promessa di Dio è quella di un figlio per Davide. Gesù stesso, per articolare il senso della promessa articolata dal suo vangelo, ricorre alla testimonianza del bambino, di cui riconosce il valore privilegiato; in tal senso può dire: Chi  non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso (Mc 10,15). Quando Gesù deve insegnare ai discepoli che il primo tra di loro dovrà essere come l'ultimo e il servo di tutti (cfr. Mc 9,35), ricorre ancora una volta alla testimonianza del bambino: 

Preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,36-37).

Il bambino dunque è riconosciuto come testimone della verità; addirittura, come il testimone privilegiato. È tuttavia testimone inconsapevole. La sua testimonianza involontaria diventa vera unicamente nel momento in cui è compresa, e in tal modo ripresa, ad opera di coloro che - in forza della loro lunga frequentazione della scuola dei figli di Adamo - sembravano avere imparato ormai a lottare tenacemente per i primi posti. Gli stessi compagni di Gesù appartengono al numero di costoro.
La figura del bambino quale testimone (ignaro) suggerisce il senso pertinente, e tuttavia insufficiente, del teorema secondo il quale avrebbe valore di testimonianza ogni esperienza umana. Un teorema così è ripetuto spesso ed è facilmente sottoscritto da tutti, in nome di un generico umanesimo; esso accorda ragione di valore a tutto ciò che è umano, senza riconoscere che l'uomo stesso è anzitutto una magna quaestio che attende risposta. Questa icastica definizione del caso umano - «Io sono divenuto per me una grande questione» - è proposta da Agostino a fronte di un' esperienza di dolore, la morte di un amico; egli stesso ne precisa il senso, appunto per riferimento alla lacerazione che la perdita di una presenza tanto preziosa ha prodotto nella sua vita:

Chiedevo alla mia anima perché fosse triste e perché mi conturbasse tanto, ma non sapeva darmi alcuna risposta; e se le dicevo: "Spera in Dio", a ragione non mi ubbidiva, poiché l'uomo carissimo che aveva perduto era più reale e buono del fantasma in cui era sollecitata a sperare. Soltanto le lacrime mi erano dolci e tra i possibili conforti del mio spirito presero il posto del mio amico (42).

Nell'enunciato umanistico corrente - bene illustrato dalla famosa sentenza di Terenzio, homo sum humani nihil a me alienum puto (43) -la dichiarazione di prossimità ad ogni esperienza umana assegna preventivamente a tale esperienza il valore di conferma tautologica di ciò che sarebbe già ben noto; che sarebbe noto, magari, alla ragione. L'idea di testimonianza che risulta da tale interpretazione è decisamente banale; riflette la rimozione dell'idea di libertà, dunque di questa evidenza innegabile, che pure appare come innegabile: soltanto mediante la decisione a proposito di sé è possibile che l'uomo giunga alla propria identità.

La testimonianza consapevole e confessante

li passaggio dalla prima accezione minore di testimonianza all' accezione seconda e maggiore, dalla forma ignara della promessa alla forma consapevole e libera, si può produrre unicamente mediate la parola che confessa. Questo infatti è il compito radicale della parola, confessare quella verità della vita che in prima battuta sorprendentemente accade. li compito radicale della parola non è certo quello di semplicemente indicare le cose, ma quello di significare, dunque di portare alla luce il senso di tutte le cose. Ma come precisare la figura del significare? I significati non possono certo essere inventati, come invece troppo spesso suppone il pensiero postmodemo; debbono essere invece confessati. Quella verità, che nella vita umana in prima battuta accade e si realizza in forma muta, ha da essere confessata; e tale confessione comporta una disposizione libera del soggetto. La verità della parola umana è legata al riconoscimento della promessa che precede la vita; in tal senso, la parola vera non è quella semplicemente detta, ma quella data; è la parola mediante la quale il soggetto promette. Consentendo alla promessa che lo precede, l'uomo diventa a sua volta capace di promettere; di più, riconoscere d'essere in debito di una propria promessa. 
La parola umana attinge la sua radicale attitudine a significare appunto dall'accadere muto della grazia della vita. E come dire grazia, se non facendo il nome di Dio? La verità della parola umana è verità originariamente religiosa. E tuttavia la parola umana è insieme debitrice nei confronti della lingua; unicamente grazie a una tradizione storica dei significati elementari della vita, che appunto nella lingua trovano la loro espressione più puntuale, è possibile promettere. La lingua, a sua volta, si nutre di un costume, o - come oggi più comunemente ci si esprime - di una cultura; essa porta in ogni caso il segno dell' eredità di Adamo. In ogni momento della vita, nel quale si produce in forma più evidente il rinnovato accadere della grazia di Dio, dunque la rinnovata esperienza della sua prossimità arcana alla nostra vita, addirittura l'esperienza della sua  sovranità o del suo regno, noi avvertiamo con sorpresa, e addirittura con spavento, la nostra abituale distanza da Lui, e dunque dalla verità. A tale esperienza dà espressione assai efficace Isaia, nel giorno della sua vocazione, quando vide il Signore seduto su un trono alto ed elevato (Is 6,1); fu allora preso da grande spavento ed esclamò:

Ohimé! lo sono perduto,
perché un uomo dalle labbra impure io sono
e in mezzo a un popolo
dalle labbra impure io abito;
eppure i miei occhi hanno visto
il re, il Signore degli eserciti
(Is 6,5).

Uomo dalle labbra impure è colui che mente. Ma come avrebbe potuto non mentire Isaia? Viveva in mezzo a un popolo che era tutto dalle labbra impure, aveva imparato a parlare mediante una lingua che da se stessa mentiva. Questa pare una formula pertinente ed efficace per dire il senso del peccato del mondo: apprendiamo la parola grazie a una lingua ereditata, ed essa è lingua che mente.

Appunto sullo sfondo di tale peccato è da intendere il destino dell' Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo; egli porta il peso di quel peccato e insieme in tal modo lo toglie. Tutto ciò che Gesù ha detto e fatto nella sua vicenda terrena è apparso fin dagli inizi oggetto di interpretazioni dubbie e controverse. Questo apprezzamento è di Gesù stesso, il quale sempre da capo strappa - per così dire - dalla bocca dei fans ogni parola pronunciata a suo riguardo; se anche deve essere riconosciuta a quella parola qualche ragione di verità, essa è nota non a coloro che la pronunciano, ma a lui solo. A quelli che pure credono in lui, e che a motivo di questa loro fede sono addirittura lodati da Gesù, egli proibisce di parlare di lui e dei suoi segni. In tal senso, egli tiene in sospeso la loro testimonianza, fino al compimento della Pasqua. Appunto in forza di tale sospensione Gesù delude le folle, e delude gli stessi discepoli.
E tuttavia occorre ovviamente distinguere tra la fede infantile delle folle e degli stessi discepoli e il rifiuto esplicito della fede ad opera dei capi, dei personaggi cioè che a vario titolo appaiono come interpreti autorevoli nel mondo religioso giudaico del tempo (scribi, sacerdoti, membri del sinedrio tutti). Ai loro occhi la pretesa di Gesù d'essere unico interprete vero della propria persona, e soprattutto le molteplici forme nelle quali egli rivendica per se stesso un' autorità che appare più che umana, appaiono addirittura blasfeme. Appunto in forza di tale giudizio perseguono l'obiettivo di farlo tacere per sempre. Il risvolto di tale loro proposito è la necessità nella quale vengono a trovarsi di nascondere se stessi. Sotto questo duplice aspetto essi appaiono gli interpreti non della tradizione di Mosè e dei profeti, ma della tradizione di questo popolo dalle labbra impure; addirittura come interpreti del mondo che non crede.
Ciò che di se stessi deve essere tenuto nascosto è, più precisamente, il cuore. La metafora del cuore, assolutamente centrale nella predicazione profetica, ha certo un significato abbastanza lontano da quello divenuto prevalente nella cultura moderna e romantica. Il cuore non è la sede dei sentimenti, ma della volontà; più precisamente, e di quella volontà radicale, che ha per oggetto non questa o quell'altra azione, questo o quell'altro obiettivo, ma addirittura la propria vita nella sua totalità. Volere infatti è possibile unicamente a condizione di disporre di se stessi in maniera incondizionata. Volere è in tal senso possibile unicamente a condizione di credere, di concedere dunque credito a un "dio": o si tratta dell'unico Dio vero, oppure si tratta di molti idoli. Gli idoli infatti sono di necessità molti: attraverso la molteplicità rimediano alla loro incapacità obiettiva di sostenere un credito così grande, come quello di necessità concesso dalla fede. La volontà idolatra, d'altra parte, di necessità mente, può sussistere unicamente a prezzo di menzogna.
La menzogna ha questa determinazione di fondo: è parola o azione dietro la quale il soggetto si nasconde. Anche i capi del giudaismo si nascondono. Il loro nascondimento trova espressione molteplice nei racconti evangelici. Anzitutto nella forma che assume l'interrogazione da essi rivolta a Gesù: essa si configura come un interrogatorio in senso giudiziale; lo interrogano infatti sempre da capo per metterlo alla prova; mettere alla prova significa appunto sottoporre altri a un'interrogazione che non prevede alcuna possibilità che sia interrogato l'interrogante stesso. Chi interroga presume d'essere soltanto giudice. Le dispute di Gesù con gli scribi si concludono sempre nei racconti evangelici con il silenzio degli inquisitori. Talvolta è espressamente rilevato il carattere imbarazzato del loro silenzio; per esempio, all'obiezione che i dottori della legge e i farisei sollevano nei confronti di una guarigione da Gesù operata in giorno di sabato egli risponde con un interrogativo: Chi di voi, se un asino o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà subito fuori in giorno di sabato? Luca rileva espressamente che essi non potevano rispondere nulla a queste parole (Lc 14,5-6). Talvolta il seguito delle dispute è costituito da una deliberazione segreta degli interroganti; già al termine delle prime cinque dispute Marco registra appunto una tale conclusione: E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire (Mc 3,6); la notizia anticipa fin dall'inizio la conclusione del confronto polemico tra Gesù e i capi.
La non disponibilità degli inquisitori a rispondere è messa in chiara evidenza da Gesù in occasione della disputa sull' autorità con la quale egli caccia i mercanti dal tempio (44); alla loro domanda Gesù risponde con una sua contro domanda: se mi risponderete, vi dirò con quale potere lo faccio; essi dicono: Non sappiamo; Gesù conclude: Neanch'io vi dico con quale autorità faccio queste cose (cfr. Mc 11,27-33). È qui messo in chiara forma il teorema: proprio perché i capi non sono disposti a venire alla luce, neppure Gesù può venire alla luce ai loro occhi. Il vangelo di Giovanni trascrive tale teorema in termini generalizzanti; il Figlio dell'uomo, che pure non è venuto per giudicare ma per salvare, determina di fatto il giudizio di questo mondo, il quale smaschera la menzogna di questo popolo dalle labbra impure.

E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio (Gv 3,19-21).

Il peccato dei capi e il peccato del mondo

Il proposito del sinedrio ha potuto essere realizzato unicamente con la complicità del potere imperiale, e dunque dei rappresentanti del massimo potere del mondo. Proprio il coinvolgimento del potere imperiale dispone le condizioni propizie perché venga alla luce come la vicenda di Gesù assuma la consistenza di un giudizio universale. Giovanni, nella sua recensione del processo a Gesù davanti a Pilato, in molti modi mette in luce come la volontà ostile che presiede a quel processo non sia quella di Pilato, ma quella del sinedrio. Particolarmente esplicita è la risposta di Gesù a Pilato, quando questi gli intima di rispondere e non tacere appellandosi al proprio potere di vita e di morte su di lui; Gesù dunque risponde:

Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall' alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande (Gv 19,11).

Da dove viene dunque questo potere che è dato a Pilato dall' alto? La risposta più ovvia è anche quella più imbarazzante: quel potere viene da Dio stesso.
Effettivamente questa è l'interpretazione più convincente; non deve essere però intesa in questo contesto per riferimento al teorema affermato da Paolo, quando raccomanda che ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio (Rm 13,1); Gesù non è affatto soggetto alla autorità di Pilato. Il potere (e non l'autorità) di Pilato viene da Dio nel senso suggerito piuttosto dalla preghiera della comunità di Gerusalemme, a fronte della persecuzione del sinedrio:

... davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo santo servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e i popoli d'Israele, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse (At 4,27-28).

Il potere di Pilato su Gesù viene dall' alto in quanto alla sua origine sta l'amore di Dio; Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (Gv 3,16). Il dono di Dio certo però non annulla il peccato dell'uomo; per questo appunto chi ha consegnato Gesù nelle mani di Pilato ha una colpa più grande. Pilato è una specie di fantoccio nelle mani di coloro che stanno nell'ombra.
Appunto il potere di coloro che operano nell' ombra Dio ha esorcizzato e ridotto all'impotenza, quando ha risuscitato Gesù dai morti; in tal modo egli ha infatti avvallato con la propria autorità le incredibili pretese elevate dal Figlio. Il compito della testimonianza, affidato ai discepoli, ha appunto questo obiettivo, far valere l'autorità di Dio di contro a ogni potere di questo mondo. La loro predicazione dovrà dare parola e figura in questo mondo alla potenza dello Spirito, che ha risuscitato Gesù dai morti. Dovrà in tal senso proclamare il giudizio di Dio su questo mondo.
Per realizzare tale obiettivo, per attestare dunque la verità della vicenda di Gesù nascosta ai potenti di questo mondo, la predicazione apostolica deve cimentarsi con il compito di confutare l'interpretazione che di quella vicenda propongono i rappresentanti della tradizione umana, civile e religiosa. La verità di Gesù appare infatti fino ad oggi in mille modi rimossa dai figli di Adamo, che in tal modo difendono la menzogna che è alla radice della loro vita. Il profilo giudiziale della testimonianza non può essere in alcun modo cancellato.

Il compito maggiore della testimonianza oggi

Il profilo giudiziale della testimonianza non deve tuttavia cancellare l'altro profilo, più antico: il vangelo di Gesù porta alla luce le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo (Mt 13,35). Tale profilo appare nel tempo che noi viviamo in certo senso (si dovrà precisare in che senso) addirittura più necessario dell' altro. Questo diciamo alla luce delle considerazioni proposte nelle pagine precedenti (45), là dove abbiamo proposto una lettura sintetica della nostra epoca. Notavamo come essa sia caratterizzata dalla rimozione della coscienza individuale, confinata entro il cerchio stretto della sua solitudine, e solo retoricamente sublimata in termini di interiorità; la condizione di marginalità rispetto alle forme della vita comune, e rispetto agli stessi rapporti personali affettivamente più intensi, rende per essa assai arduo il compito di trovare le parole che sarebbero indispensabili per dare forma alla promessa della quale soltanto essa può vivere. La coscienza del singolo conosce in tal senso una sorta di regressione emotiva: il criterio del sentire, e soprattutto quello del sentirsi, si sostituisce a criteri più obiettivi, suscettibili di confronto reciproco e insieme capaci di dare figura all' alleanza fraterna.
Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo (Mt 13,35): con questa citazione di ciò che era stato detto dal profeta (in realtà, si tratta della citazione di un salmo) Matteo interpreta il fatto che Gesù parlasse alla folla in parabole. Esattamente la forma del discorso in parabole illustra in maniera suggestiva l'articolazione reciproca tra profilo giudiziale e profilo edificante della predicazione di Gesù. I due profili infatti non possono essere messi in opposizione reciproca. Gesù con il suo ministero porta a compimento una verità che trova molteplici formulazioni nella tradizione sapienziale; per esempio questa:

Con l'uomo buono tu sei buono
con l'uomo integro tu sei integro,
con l'uomo puro tu sei puro,
con il perverso tu sei astuto.
Perché tu salvi il popolo degli umili,
ma abbassi gli occhi dei superbi
(Sal 18,26-28) (46).

Gli umili sono coloro che, consapevoli della loro radicale insufficienza, attendono Dio; per essi appunto l'effettivo accadere di Dio sarà evento edificante, e addirittura principio di salvezza; per i superbi invece quell'accadere assumerà la figura di un giudizio che avvilisce la loro superbia.
Le parabole non sono soltanto una tra le molte forme alle quali Gesù ricorre per dire il suo vangelo (47); esse definiscono invece la figura sintetica di tutto il suo insegnamento e addirittura di tutta la sua vita. Gesù stesso infatti è come una parabola, mediante la quale sono portate alla luce le cose nascoste, e tuttavia da sempre presenti e operanti nella condizione umana universale. Ricorrendo alla forma del discorso in parabole Gesù mira a raggiungere chi non vuole ascoltare. Certo le parabole sono dette anche per i discepoli; alcune di esse sono dette anzi espressamente per loro, e certo mirano a edificarli e non a confonderli; e tuttavia anche i discepoli, senza neppure rendersene conto, non vogliono ascoltare; resistono cioè a quel passaggio all' altra riva, verso la quale Gesù li conduce. Appunto per sollecitare la loro traversata del mare, dalla lettera allo spirito, Gesù parla loro in parabole. Ogni parabola pare in prima battuta dire di cose estranee, che non riguardano la persona di Gesù né quella dei suoi uditori; in seconda battuta però la verità, che la parabola esprime in maniera tanto persuasiva, appare come verità che giudica l'ascoltatore e lo invita a una diversa lettura della sua condizione. Lo invita a passare il mare.
Per dire del regno di Dio vicino, le parabole attingono all' eloquenza di esperienze umane, che appartengono alla competenza di tutti; suggeriscono in tal modo un aspetto assolutamente essenziale della testimonianza cristiana: essa non ha subito e solo la figura di un giudizio; ha prima di tutto la figura di parola che porta alla luce verità nascoste nell' esperienza umana universale. Appunto per riferimento a tale compito è indispensabile che la parola cristiana attinga alle evidenze dischiuse dal comune mestiere di vivere e mostri come quelle evidenze rimandino a ciò che non è affatto comune. Rimandano infatti a Colui che è fin dal principio, ma che nessuno ha mai visto; solo lui, il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato (Gv 1,18).
Come una parabola è l'amore tra l'uomo e la donna, grato, facile, addirittura entusiasmante, promettente, e tuttavia insieme fatalmente - così pare - esposto al destino di perdere la sua originaria capacità di conferire alla vita umana il volto di una festa. Come una parabola è la nascita di un figlio: essa illumina come nessun' altra esperienza sa fare l'eccedenza di ciò che scaturisce dai nostri comportamenti rispetto a tutto ciòche noi sappiamo immaginare; e come una parabola èquindi il legame che dalla generazione scaturisce: stretto, assai caro, irrinunciabile, e tuttavia insieme anche assai arduo, al punto di apparire a tratti quasi impossibile. Come una parabola è il fatto che noi per una cosa sola perduta e ritrovata sappiamo gioire come non sappiamo gioire per mille cose mai perdute. Come una parabola è il fatto che servire non ci appaia affatto un'umiliazione, quando colui al quale il servizio è reso è persona amata. Come una parabola è il fatto che spesso, senza alcuna nostra virtù, il gesto di donare appaia più grato di quello di ricevere. Come una parabola è il fatto che la stessa cosa - per esempio un pezzo di pane - acquisti all'improvviso un valore insospettato, quando ci sia offerta l'opportunità di darlo a chi ha fame. Come una parabola è il fatto che la salute, quando sia persa, appaia ai nostri occhi come cosa assi più preziosa e magica rispetto a quanto non avremmo saputo immaginare fino a che di essa ci era stato possibile pacificamente fruire. E l'elenco potrebbe essere molto allungato.
Compito non secondario, anzi in certo senso primario, della testimonianza cristiana nel nostro tempo è appunto quello di riportare alla luce la verità nascosta in quelle esperienze elementari della vita, che l'abitudine e l'ottusità dello spirito pare inesorabilmente rimuovere. Certo è da prevedere che, quando a questa verità sia data parola, ad essa molti resistano. Molti infatti appaiono stranamente affezionati al carattere piatto e prevedibile di tutte le cose e odiano tutto ciò che suscita meraviglia.
Davvero molti sentono così? Un giorno un tale chiese a Gesù se fossero pochi quelli che si salvano; la sua speranza era, presumibilmente, che Gesù dicesse che no, essi sono molti; Dio infatti è buono e preferisce la misericordia al giudizio; se d'altra parte sono molti quelli che si salvano - così proseguiva il pensiero segreto di quel tale - certo c'è una ragionevole speranza anche per me. Pressappoco così ragionano fino ad oggi quei  cristiani "moderni", i quali rimuovono con indignazione lo stile minatorio della predicazione convenzionale, delle missioni popolari in specie; esse - come molti ancora ricordano - molto puntavano sul timore della morte e dell'inferno per indurre a penitenza. Gesù non rispose che sono molti quelli che si salvano, raccomandò invece a quel tale, e a tutti: Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno (Le 13,23-24). Stretta è quella porta, nel senso che ci si può passare soltanto uno per volta; non si può approfittare della folla. Addirittura si deve dire che quella porta è stretta, perché è fatta proprio per te soltanto. Ognuno entra nella casa del Padre attraverso una porta a lui riservata.
Dunque sono molti o pochi coloro che sono affezionati al carattere piatto e prevedibile della vita? Dio solo lo sa, che conosce i segreti dei cuori. Ma certo se si guarda non a quel segreto, ma ai gusti espressi pubblicamente, occorre dire che quanti sono affezionati al carattere piatto e prevedibile della vita sono folla.
Appunto a far uscire ciascuno dalla folla mira la testimonianza cristiana. Per questo essa appare inattuale. L'attualità infatti è quella decretata dalla folla.

 

 

 

 

NOTE

[1] CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Il Pedagogo, I, 1, 12.
[2] La formula è suggerita dal titolo di un saggio risalente agli anni del Concilio, W. H. VAN DE POL, La fine del cristianesimo convenzionale, Queriniana, Brescia 1969, che si occupa appunto del collasso della figura assunta dal cattolicesimo nel quadro del conflitto con la modernità.
[3] Essa è contenuta nei Versi aurei, vv. 11s; questo scritto raccoglie l'essenza dell'insegnamento pitagorico; non può essere attribuito a Pitagora stesso, e tuttavia costituisce una sorta di summa del suo pensiero morale in specie; è disponibile un' edizione italiana, PITAGORA, Versi aurei, con testo greco a fronte, a cura di V. Guarracino, Medusa Edizioni, San Giorgio a Cremano (Na) 2000.
[4] L'espressione «parole originarie» (Urworte) è stata insistentemente usata, in tempi ormai remoti, da K. Rahner, per distinguere appunto le parole ordinarie mutuate da un dizionario da quelle che stanno addirittura all' origine della lingua; egli assegna tali parole originarie alla competenza dei poeti; auspica in tal senso che il sacerdote, il teologo stesso e ogni cristiano, diventino essi stessi poeti per dire la parola di Dio; ricordiamo alcuni dei suoi contributi rilevanti a tale riguardo: Sacerdote e poeta, in K. RAHNER, La fede in mezzo al mondo, Paoline, Alba 1963, pp. 170s; La parola della poesia e il cristiano (1960), verso it. di L. Marinconz, in K. RAHNER, Saggi di spiritualità, Roma, Ediz. Paoline, 1965, pp. 231-251; La missione del letterato e l'esistenza cristiana, in K. RAHNER, Nuovi Saggi II, Roma, Paoline, 1968, pp. 489-507; di tale contributo della riflessione di Rahner si è diffusamente occupato recentemente A. SPADARO, La grazia della Parola. Karl Rahner e la poesia, Jaca Book, Milano 2006; l'assegnazione della competenza in fatto di «parole originarie» ai poeti riflette - a nostro giudizio -la piega dubbia estetizzante, che diffusamente assumono i timidi tentativi recenti di correggere il concettualismo della tradizione filosofica.
[5] Cfr. sotto, pp. 179-188.
[6] La felice formula è usata nella traduzione italiana di un saggio francese, apparso circa quarant' anni fa, che intendeva proporre una figura nuova e meno "aggressiva" dell'apostolato: J. LOEW, Testimoni dell'invisibile: significato e prospettive dell'apostolato moderno (1964), Boria, Roma 1989; il titolo francese suona: Comme s'il voyait l'invisible: un portrait de l'apotre d'aujourd'hui.

[7] Il nesso tra testimonianza e la figura del terzo è suggerito anche dalla (probabile) etimologia del termine latino testis, da cui vengono gli italiani testimonianza e testimone; testis verrebbe infatti da tristis, la cui radice è terstis, che significa "colui che sta come terzo"; vedi A. ERNOUT - A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine, histoire des mots, Klincksieck, Paris 19854, p. 689; il significato di testis nella lingua latina sarebbe in tal senso strettamente legato alla situazione processuale, nella quale il testimone è terzo nella lite tra due; tale figura terza assume in ogni caso la verità in rapporto all'arduo dialogo personale.
[8] L'apologia dell'amore romantico e della sua attitudine a divenire metafora della religione nella stagione moderna è stata proposta in un famoso saggio di C. S. LEWIS, L'allegoria dell'amore. Saggio sulla tradizione medievale (1936), trad. it. di G. Stefancich, introduzione di S. Perosa, Einaudi, Torino, 1969; di pochi anni dopo (1939) è un altro importante saggio, D. DE ROUGEMONT, L'amore e l'occidente: Eros morte abbandono nella letteratura europea, introd. di A. Guiducci, Rizzoli, Milano 1998, che denuncia invece la figura dell' amore romantico moderno come eresia cristiana, e più precisamente eresia catara o manichea; in anni successivi (1960) lo stesso C. S. LEWIS, (I quattro amori: Affetto, Amicizia, Eros, Carità, Jaca Book, Milano 1982) recepisce la denuncia di De Rougemont e descrive l'eros romantico come una perversione dell' agape cristiana.
[9] È stato espressamente rilevato il difetto di attenzione al tema della testimonianza nella tradizione del pensiero filosofico; vedi ad esempio D. SILVESTRI, La testimonianza, in «Dialegesthai», Rivista telematica di filosofia, anno 5 (2003) [inserito il 30 ottobre 2003], disponibile all'URL: http:/ /mondodomani.org / dialegesthai/ ; possiamo indicare tra le poche eccezioni al generale silenzio della filosofia sulla figura della testimonianza i contributi raccolti da E. CASTELLI, La testimonianza, Archivio di Filosofia 1972, 1/2, CEDAM, Padova 1972, che pubblica gli atti di uno dei convegni di filosofia della religione organizzati dallo stesso Castelli; vi compare in particolare il notevole contributo di P. RICOEUR, L'herméneutique du témoignage, pp. 35-61 (tradotto in italiano in P. RICOEUR, Testimonianza, parola e rivelazione, a cura di F. Franco, Dehoniane, Roma 1997, pp. 73-108), che costituisce probabilmente il più importante saggio di una filosofia della testimonianza; il tema è affrontato per altro da Ricoeur riferendosi subito alla figura della parola profetica della testimonianza e rispettivamente a quella kerygmatica, senza svolgere le (almeno eventuali) ricadute di quella figura in ordine alla interpretazione delle forme universali dell' esperienza umana, della parola come dell'azione. Il saggio di Ricoeur dichiara il proprio debito nei confronti della precedente riflessione di J. NABERT, Le désir de Dieu (Aubier Montaigne, Paris 1966), che dedica il suo libro III al tema «Metafisica della testimonianza ed ermeneutica dell'assoluto»; sul tema della testimonianza in Nabert è stato tenuto un convegno a Macerata, i cui atti sono pubblicati in C. CANULLO (ed.), Male ingiustificabile e metafisica della testimonianza. Saggi su Jean Nabert con un testo inedito del 1934, Morlacchi, Perugia 2002. Ricoeur è poi tornato sul tema della testimonianza in breve saggio, L'attestazione. Tra fenomenologia e antologia, Ed. Biblioteca dell'Immagine, Pordenone 1993. Neppure il pensiero teologico, per altro, ha conferito alla testimonianza rilievo di categoria tecnica per articolare la teoria della fede; la produzione in materia è solo molto recente; si possono trovare le indicazioni essenziali nella raccolta di contributi curata da P. CIARDELLA - M. GRONCHI, Testimonianza e verità - un approccio interdisciplinare, Città Nuova, Roma, 2000; come anche nella monografia espressamente dedicata alla testimonianza di p. MARTINELLI, La testimonianza: Verità di Dio e libertà dell'uomo, Edizioni Paoline, Roma 2002, la quale appare assai debitrice nei confronti del pensiero di Balthasar; al pensiero di Balthasar sulla testimonianza dedica più precisa attenzione sistematica M. NERI, La testimonianza in H. U. von Balthasar. Evento originario di Dio e mediazione storica della fede, EDB, Bologna 2001.

[10] Il vocabolo greco martys, che si traduce "testimone", ha acquisito il senso divenuto poi corrente, per il quale esso designa il testimone della fede mediante il dono della vita, già in Ap 2,13; 6,9; vedi la voce corrispondente in un qualsiasi dizionario biblico.
[11] Ci riferiamo a H. U. VON BALTHASAR, Cordula, ovverosia il caso serio (1966), trad. it. G. Viola e G. Moretto, Queriniana, Brescia 1993.
[12] La figura del" cristiano anonimo" è stata introdotta nel lessico cristiano da Karl Rahner, contro di lui in particolare si rivolgono gli strali di von Balthasar; l'introduzione di tale figura, nelle intenzioni di Rahner, risponde a un obiettivo la cui pertinenza appare in prima approssimazione innegabile: le forme della confessione non costituiscono un criterio univoco della presenza o meno della fede; è possibile che la fede sussista senza la confessione corrispondente (in tal senso appunto come fede anonima); è possibile, per converso, che la fede manchi là dove pure essa è confessata attraverso le parole e! o attraverso le forme della pratica cultuale. Questa evidenza impone di chiarire dal punto di vista concettuale i rapporti tra fede e confessione, o addirittura tra fede che Dio solo conosce e fede che anche si attesta; all' argomento dedica diffusa attenzione P. SEQUERI, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996, che espressamente distingue tra due forme della fede, la «fede che salva»e la «fede testimoniale», trattate rispettivamente nella Parte terza e quarta del saggio; meno precisa ci pare invece la distinzione, per certi aspetti simile, che H. U. VON BALTHASAR, Gli stati di vita del cristiano (1974), Jaca Book, Milano 1985 propone tra «fede del popolo» e «stato di elezione».
[13] A titolo solo indicativo, ricordiamo le Confessioni di J.J. Rousseau, quelle di L. Tostoj, ma già prima la cornice complessiva di Saggi di Montagne, o magari già il De secreto conflictu curarum mearum di Francesco Petrarca, nel quale il riferimento ad Agostino è esplicito; il tema della metamorfosi del genere letterario della confessione nella vicenda moderna è oggetto di abbondante letteratura; ricordiamo solo M. ZAMBRANO, La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano 1997.
[14] Vedi sopra, pp. 33ss.
[15] «L'assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che fino ad oggi è dilagata su tutta l'umanità», dichiara con pregevole chiarezza Nietzsche, e aggiunge: «l'ideale ascetico offrì ad essa un senso», F. NIETZSCHE, Genealogia della morale, in G. COLLI - M. MONTINARI, Opere di F. Nietzsche, VI**, Adelphi, Milano 1968, p. 366; questo franco riconoscimento del merito storico del cristianesimo pare smentito da molti discorsi che pure presumono d'essere cristiani.
[16] Il significato di torah è appunto quello di istruzione, volta però non al conoscere, ma all' agire: è quello di istruzione pratica; così pare suggerire l'etimologia, e così suggeriscono in ogni caso gli usi effettivi del termine: «Il senso del termine torah non può essere ricavato con sicurezza dall' etimologia, anche nel caso questa fosse certa [la derivazione corrente da jhr, 'gettare', 'gettare le sorti di un oracolo', è stata recentemente messa in dubbio da J. BEGRICH, Die pristerliche Torah, 1936]. Resta solo la possibilità di individuare il contenuto di torah partendo dalle fonti letterariamente più antiche e collegando la ricerca nei due sensi», così si esprime la voce del Kittel dedicata al termine nomos vedi il contributo di, W. GUTBROD, B. La legge nell'Antico Testamento, GLNT Vil, 1273-1401, 1296.

[17] Vedi il cap. 2, pp. 48-50.
[18] Vedi p. 25.
[19] Registrano tale nesso sia Platone che Aristotele: «Infatti, èproprio tipico del filosofo quello che tu provi, l'essere pieno di meraviglia: il principio della filosofia non è altro che questo, e chi ha detto che Iride è figlia di Taumante sembra che non abbia tracciato una cattiva genealogia» (PLATONE, Teeteto, 1550, trad. it. di G. Reale, in PLATONE, Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991); «Che poi essa [la scienza] non tenda a realizzare qualche cosa, risulta chiaramente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato la filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia [...]. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in un certo qual modo, filosofo; il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia» (ARISTOTELE, Metafisica, A 2, 982 b 12ss, trad. it. di G. Reale in ARISTOTELE, Metafisica, Rusconi, Milano 19942); la citazione di questi due testi apre un saggio di S. PETROSINO, Platone e Aristotele: passione della vista (in Idem, Lo stupore, Interlinea Edizioni, Novara 1997, pp. 9-19), dedicato al primato del vedere in ordine alla genealogia della conoscenza.
[20] Cfr. quanto già detto sopra, pp. 63-64.
[21] Così nel caso delle Confessioni di J.J. ROUSSEAU, pubblicate postume nel 1781 (J.J.ROUSSEAU, Le confessioni, trad. il. di F. Filippini, con introduzione di R. Guiducci, Rizzoli, Milano 2001): esse diedero luogo, fin dalle prime letture fatte da lui vivente agli amici e fino ad oggi, a interpretazioni disparate e contraddittorie. Ripercorrendo le tappe della sua formazione morale e spirituale, Rousseau racconta" con natura e verità" la propria vita, senza nascondeme gli aspetti negativi e i lati oscuri: l'infanzia trascorsa con il padre tra letture romantiche e appassionate, l'incontro con la signora Warens, amante e insieme dolce figura materna, la conversione al cattolicesimo, gli amori e il difficile rapporto con le donne, i viaggi a Venezia e a Parigi, gli scontri con gli enciclopedisti e le polemiche con Voltaire, la fuga disperata in Inghilterra e il ritorno a Parigi e, infine, la bruciante delusione della lettura delle Confessioni ad un gruppo di intimi. Testimonianza di una vita romanzesca e contraddittoria, Le confessioni riassumono i temi fondamentali dell'ideologia di un autore destinato a esercitare un grande influsso sul pensiero e la sensibilità dei moderni.

[22] In un corso residenziale del Centro Studi di Spiritualità della nostra Facoltà, dedicato al tema dell' ascesi, ho cercato di mostrare come questo modello ascetico attraversi tutta la tradizione della dottrina teologica sulla morale, e ho cercato di produrre una critica di tale modello; vedi G. ANGELINI, Gli "ideali ascetici". Pertinenza e limiti della lettura ascetica del cristianesimo, in Ascesi e figura cristiana dell'agire, Glassa, Milano 2005, pp. 53-95.
[23] Per precisare questo rilievo rimando ad un mio saggio recente, G. ANGELINI, Eros e agape. Oltre l'alternativa, Glassa, Milano 2006, in specie alle pp. 32-41.

[24] Il miracolo annuncia il vangelo; in tal senso esso è un segno che rimanda ad altro, che deve ancora venire; non è invece beneficio per se stesso consistente; la terminologia della tradizione sinottica mette a suo modo in rilievo tale aspetto; non si usa il termine semeion, se non per indicare i miracoli attesi dai giudei (cfr. Mc 8,1l-13p; Mt 12,38-39) o da Erode (Lc 23,8); neppure si usa il termine teras, che vuol dire prodigio, se non per indicare semeia kai térata compiuti dai falsi profeti (Mc 13,22p); i miracoli di Gesù sono invece designati come dynameis, come opere potenti dunque, che attestano la presenza efficace di Dio nella storia degli uomini; significativo è anche il fatto che manchino nel caso di Gesù a differenza di quanto accade nelle tradizioni più simili, quelle di Elia ed Eliseo - miracoli di carattere punitivo; l'opera di Dio annunciata mediante i segni che Gesù compie è infatti l'opera di salvezza, e non quella di giudizio.
[25] Vedi a tale riguardo soprattutto i sommari, Mc 3,7-12; 6,53-56.
[26] Cfr. Mc 1,27; 4,41; 6,2b. 14-16; 8,14-21. 27-29.
[27] Non manca però qualche eccezione; pensiamo alla guarigione dei dieci lebbrosi, uno soltanto dei quali torna a rendere grazie, cfr. Lc 17,11-19.
[28] Merita rilevare come la radice greca per l'idea di testimonianza sia diversa da quella latina; martyr (nella forma antica, attestata da Omero, martys) infatti viene da una radice indogermanica, smer, che significa insieme "ricordare" e "pensare" (a conferma del legame stretto tra conoscenza e memoria), ma poi anche "indugiare" o "rimanere"; dalla stessa radice deriva il latino memor, e dunque il nostro lessico della memoria; il termine martyr suggerisce dunque come la testimonianza assuma la forma di conferma di una verità che ci ha preceduto e che deve rimanere quale fondamento sicuro del presente.

[29] I discorsi di annuncio in Atti sono molti; ricordiamo i principali anzitutto quelli di Pietro: a Pentecoste (2,14-36), nel tempio a seguito del miracolo dello storpio (3,11-26), nella casa di Cornelio, primo esempio di annuncio ai pagani (10,3443); occorre aggiungere quelli di Paolo, nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (13,16-41), e ad Atene all' Areopago rivolto ai "filosofi epicurei e stoici" (17,22-31).
[30] P. PAOLINI, Il profeta come testimone nell'Antico Testamento, in p. CIARDELLA - M. GRONCHI (a cura di), Testimonianza e verità - un approccio interdisciplinare, Città Nuova, Roma 2000, pp. 83-99.

[31] Il tema della testimonianza di Dio in favore dell' apostolo (cfr. anche Rm 1,9) equivale a quello successivamente articolato da Paolo nei termini della testimonianza a lui resa dalla sua coscienza; ce ne occuperemo poi.

[32] Ci occuperemo qui però soltanto del vangelo; per un bilancio sintetico del pensiero giovanneo sulla testimonianza in tutti i suoi scritti si può vedere M. BIANCHI, La testimonianza nella tradizione giovannea. Vangelo e lettere, in P. CIARDELLA - M. GRONCHI (a cura di), Testimonianza e verità, cit., pp. 110-137.
[33] Vedi p. 35-36.
[34] Al confronto tra la figura diversa - e tuttavia correlata che la testimonianza assume nel caso di Giovanni Battista e rispettivamente nel caso di Gesù è espressamente dedicato il saggio di I. DE LA POTTERIE, Giovanni Battista e Gesù testimoni della verità, in IDEM, Gesù verità. Scritti di cristologia giovannea, Marietti, Torino 19922, pp. 167-178.
[35] Di questo caso, come pure del caso analogo della richiesta di Maria a Cana di Galilea, già si è detto sopra, alle pp. 75-78.
[36] In realtà la legge mosaica non afferma espressamente questa impossibilità, prescrive però la necessità di più testimoni perché il singolo possa essere condannato, contro la sua protesta di innocenza (cfr. Dt 19,15; 17,6; Nm 35,30); l'esclusione dell' auto-testimonianza è esplicita nella Mishnah, appunto con la formula: «Nessuno può dare testimonianza per se stesso», Kethuboth 2,9.
[37] Ne abbiamo già parlato sopra, pp. 79-80.

[38] Rimandiamo alle considerazioni già proposte sopra a proposito di tale figura e dei suoi difetti, vedi pp. 6-7.
[39] I testi del confronto sono tradotti anche in italiano: J. HABERMAS - J. RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, Venezia 2005.
[40] Citiamo dal saggio E.-W. BOCKENFORDE, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation, 1967, in IDEM, Recht, Staat, Freiheit, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1991, pp. 92ss; l'autore è professore emerito di diritto canonico dell'Università di Francoforte; si è lungamente occupato di storia del diritto, in particolare di storia del diritto costituzionale europeo; alcune sue opere sono tradotte in italiano: Stato, Costituzione, Democrazia, Giuffré, Milano 2006; La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2006; Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all'Europa unita, Laterza, Roma-Bari, 2007; si può vedere su di lui il saggio sintetico di M. NICOLETTI, Per amore della libertà. Lo stato moderno e la coscienza in Böckenförde, «il Regno-attualità» n. 20, 2006, p. 689.
[41] Vedi sopra, pp. 44-47.
[42] AGOSTINO, Confessioni, IV, 4,9.
[43] TERENZIO, Heautontimorumenos, I, 77.
[44] Cfr. quanto già detto sopra, pp. 181 e 185.
[45] Vedi sopra, alle pp. 193-203.
[46] Vedi anche Pr 3,34; Gb 22,29; Sir 3,18-20; lo stesso cantico del Magnificat (ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, Lc 1,5253), e molti altri passi.
[47] Cfr. quanto già osservato sopra, circa la collocazione delle parabole nella "parabola" della vita di Gesù, alle pp. 115-116.

 

 

 

 

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