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Dietrich Bonhoeffer


Sequela

 

Premessa all’edizione italiana

Il «prezzo elevato» della grazia e dell’obbedienza

Finalmente, anche per noi qui in Italia, si aprono le lucide e dense pagine di una delle più significative opere dì Dietrich Bonhoeffer. Sequela (Nachfolge) è opera essenziale per la comprensione di Bonhoeffer e per il necessario ridimensionamento tra quello che è stato il suo messaggio e le successive interpretazioni bonhoefferiane. Nell’ottica di un ridimensionamento che abbia la finalità di porre in luce l’esatta collocazione del messaggio di Bonhoeffer, e quindi di valorizzarlo rettamente, è forse necessario tenere presente che Bonhoeffer è stato in parte un grande ‘maestro’, e in parte un grande ‘suggeritore’. Al di là della interpretazione storiografica dell’opera bonhoefferiana, se sia essa un unico e globale svolgimento lineare oppure comporti improvvise fratture e balzi tematici, rimane il fatto che opere come Resistenza e resa (l’ultima di sua mano, le lettere e i pensieri dal carcere) e Sanctorum Communio (del 1930) hanno tra di loro non solo l’arco di tempo di tutta la maturazione della personalità dell’autore ma anche un evolversi di problemi, di interessi, di domande gravi e impegnative. Potremmo dire che soprattutto l’ultimo Bonhoeffer è il grande ‘suggeritore’, acuto e problematico quanto alla precisa interpretazione, mentre i primi due periodi sono quelli più direttamente collegati alla sua funzione di ‘maestro’. Ma anche qui è necessario precisarne il senso, affinché Sequela riceva la sua esatta collocazione. Notiamo che qui intendiamo soltanto sottolineare la collocazione dell’opera: troppo lungo, e affascinante, sarebbe volerne segnalare approfonditamente il vi” gore costruttivo, la dinamica lucida del pensiero, lo svolgersi scattante della lingua, l’originalità dell’esegesi, le risonanze per noi estremamente contemporanee e attuali; ci limitiamo dunque a collocare l’opera nell’assieme della vita e dell’opera di Bonhoeffer per iniziare ad una lettura più feconda possibile di essa.

Sequela è del 1937, e corrisponde al «secondo periodo» dell’opera e dell’impegno di Bonhoeffer; diciamo «secondo periodo» almeno per quanto riguarda il metodo, la struttura, lo stile, la tematica, la finalità dei suoi scritti, senza pregiudicare alcun intervento circa quanto abbiamo accennato della linearità o delle classi del suo pensiero. Avevano preceduto le grandi opere a livello accademico Sanctorum Communio (1930) e Atto ed essere (1931) e poi la piccola opera così esemplare per il livello di serietà scientifica e allo stesso tempo di traduzione vitale per la vita cristiana Creazione e caduta (1933). E nel frattempo si era già aperta la grande decisione e la grande lotta di Bonhoeffer: la scelta per la Chiesa confessante nell’opposizione al nazismo, all’anticristo; Bonhoeffer era già direttore (1935) del Seminario per pastori della Chiesa confessante a Finkenwalde. E fu la vita di Bonhoeffer, fu il senso profondo della sua decisione che determina la collocazione del «secondo periodo» che, dal punto di vista degli scritti, si apre con Sequela. Non si tratta più, di opere accademiche che trattano attraverso gli strumenti della filosofia e della sociologia, del senso essenziale della Chiesa, del suo essere proprio, della sua funzione rivelatrice; ora il grave problema è quello di annunciare fortemente alla Chiesa il senso concreto, immediato, dell’obbedienza della Chiesa nella confessione di fede nel momento in .cui ad essa viene proposto un altro Dio che è soltanto un idolo innanzi al quale essa rischia di cadere inconsapevolmente in adorazione. La radice profonda del discorso di Bonhoeffer è tutta teologica, è un risalire al messaggio vivente della Scrittura, ma il metodo e lo stile è quello della predicazione intesa nel suo senso più pregnante: un riproporre il kerygma nella sua costrittività e nella sua inalienabile immediatezza che esige l’immediatezza della obbedienza confessante. Ora è venuto il momento in cui non è in primo piano il conoscere il messaggio, ma è il viverlo. Non più la grazia «a poco prezzo», ma la «grazia a caro prezzo», quella che costa la decisione della vita, la ‘sequela’ immediata di Cristo nella realtà della vita, nell’obbedienza ‘ontologica’ alla realtà voluta e proposta da Dio, in una esigenza di «salto radicale» dell’individuo che compie la propria scelta personale al di là di tutte le formulazioni e persino di quelle ecclesiali. Sequela diventa in tal modo un attacco fortissimo ad una Chiesa di moltitudine, ad una cristianità visibile, ad una situazione disimpegnata: è un richiamo alla decisione suprema ed estrema che chiama il discepolo, cioè ogni credente, come dice Paolo, ad essere il ‘mimo’ di Cristo. E tuttavia, per noi cattolici, abituati al grande tema della Imitatio Christi è necessario tenere ben presente che la lettura e la meditazione di Sequela può lasciarci sfuggire la sua vera dimensione interiore. Per noi la «Imitatio Christi» ha piuttosto un significato di tipo ascetico, etico, una valenza di tipo simbolico; in Sequela il concetto di «sequela Christi» è come il retroterra ontologico, nella sua esigenza inalienabile di obbedienza e di grazia, della nostra «imitatio Christi». La fede non può essere una scusa religiosa per non obbedire immediatamente, ma è risposta effettiva, concreta, immediata, tradotta in scelte radicali e definitive nel tessuto stesso della realtà: il discorso profondamente teologico di Bonhoeffer conduce, anche se non è detto esplicitamente (ma è ben leggibile tra le righe) alla ,sua scelta ben conscia; il nostro angoscioso problema di una dimensione ‘politica’ della fede, di una scelta di fede che coinvolga decisamente la vita in strutture che per sé non sono di fede ma nelle quali è vissuta la fede, è già qui delineato nella sua fondazione del discorso sulla grazia-obbedienza: la grazia «a caro prezzo» e l’obbedienza «senza mediazioni». Anche il nostro angoscioso cercare che si muove tra Chiesa visibile, istituzionale, la Chiesa «di tutti», e la Chiesa delle decisioni radicali, il disequilibrio di fatto tra Chiesa «di tutti» e Chiesa «di discepoli» obbedienti è già presente, e non sempre risolto, tanto è vero che a Sequela seguirà poi nel 1938 La vita comune dove lo stesso Bonhoeffer correggerà in una visione più pacata il tono perfezionistico dell’opera precedente, pur senza rinnegarne il contenuto. E forse questi due ultimi rapidi richiami potranno servire al lettore per collocare Sequela non più nel tempo e nell’esperienza di Bonhoeffer, ma per ricollocarlo attivamente nel nostro tempo, perché sia opera viva di costruzione, di sollecitazione, persino di crisi, come lo fu allora nel 1937, quando credere poteva significare accettare di morire.

Fernando Vittorino Joannes

 

 

PREFAZIONE

In periodi di rinnovamento della Chiesa accade spontaneamente che la Sacra Scrittura acquisti maggiore importanza per noi. Dietro le necessarie «parole d’ordine e di sfida» delle discussioni ecclesiastiche si fa viva una ricerca più intensa di Colui che solo ha importanza: la ricerca di Gesù Cristo stesso. Che cosa ci ha voluto dire Gesù? Che cosa s’aspetta da noi, oggi? Come ci aiuta ad essere cristiani fedeli, oggi? Per noi, in ultima analisi, non conta ciò che richiede questo o quell’uomo di chiesa; vogliamo sapere che cosa vuole da noi Gesù. Vogliamo sentire la sua Parola quando andiamo a sentire un sermone. Questo ci sta a cuore non solo per noi stessi, ma anche per tutti coloro che, in gran numero, si sono straniati dalla Chiesa e dal suo messaggio. Certo, crediamo anche noi che tutt’altra gente ascolterebbe la Parola e ben altri si allontanerebbero da essa, se Gesù stesso, se nel sermone, Gesù solo fosse in mezzo a noi con la sua Parola. Non che la predicazione della nostra chiesa non sia più Parola di Dio; ma quale tono impuro, quante dure leggi umane, quante false speranze e consolazioni offuscano la chiarezza della Parola di Gesù e rendono difficile una scelta genuina! Non è certo solo colpa degli altri se la nostra predicazione, che senz’altro vuol essere solo annunzio di Cristo, appare loro dura e difficile, perché è farcita di formule e concetti a loro estranei. Non è certo vero che ogni parola che oggi vien detta contro la nostra predicazione è già un rifiuto di Cristo, un’opposizione al cristianesimo. Vogliamo veramente rinnegare la comunione con coloro che vengono ad ascoltare la nostra predicazione - e sono numerosi e che ciononostante sempre di nuovo devono ammettere, addolorati, che rendiamo loro troppo difficile l’accesso a Cristo? Sono convinti di non volersi sottrarre alla Parola di Gesù, ma che troppe sovrastrutture umane di istituzioni, di dottrina si frappongono tra loro e Gesù. Chi di noi non avrebbe subito pronte numerose risposte, con le quali ci possiamo facilmente sottrarre alla nostra responsabilità di fronte a loro? Ma non sarebbe pure una risposta il chiederci se non siamo spesso noi stessi a precludere la strada alla Parola di Gesù, restando forse troppo strettamente legati a determinate formule, ad un tipo di predicazione adatto a un determinato tempo e luogo e ad una determinata struttura sociale? essendo forse veramente troppo ‘dogmatici’ e troppo poco «aderenti alla vita»? ripetendo volentieri certi pensieri della Scrittura e trascurandone altri non meno importanti? annunziando sempre ancora troppo opinioni e convinzioni personali e troppo poco semplicemente Gesù Cristo? Nulla, certo, vi sarebbe di più contrario alla nostra vera intenzione ed allo stesso tesso tempo nulla di più pernicioso per il nostro annunzio che il caricare afflitti ed oppressi, che Gesù chiama a sé, di pesanti regole umane, allontanandoli così da lui. In questo modo scherniremmo l’amore di Gesù Cristo di fronte a cristiani e a pagani! Ma dato che interrogativi generali e autoaccuse non ci sono di nessun aiuto, vogliamo lasciarci ricondurre alla Sacra Scrittura, alla Parola ed al richiamo di Gesù Cristo stesso. In questa, chiusi come siamo nella povertà e angustia delle nostre proprie convinzioni e dei nostri problemi, cerchiamo l’ampiezza e ricchezza che ci vengono donate in Gesù.

Vogliamo parlare della nostra vocazione a seguire Gesù. E così imponiamo agli uomini un nuovo pesante giogo? A tutte le regole umane, che opprimono anima e corpo, verrebbero ad aggiungersi regole ancora più dure ed ineluttabili? Richiamando alla necessità di seguire Gesù intendiamo inculcare nelle coscienze già così preoccupate e ferite una spina ancora più acuta? Si vogliono imporre, per l’ennesima volta nella storia della Chiesa, pretese impossibili, tormentose, eccentriche, alle quali possono, si, dar seguito alcuni pochi, come a un pio lusso, che però l’uomo che lavora e che deve preoccuparsi del suo pane, della sua professione, della sua famiglia non può che rifiutare come la più empia tentazione di Dio? La Chiesa intende forse erigere una tirannia spirituale sugli uomini decidendo ed ordinando, autoritariamente e sotto minaccia di pene temporali ed eterne, quanto un uomo debba credere e fare per essere salvato? La parola della Chiesa dovrebbe imporre alle anime una nuova tirannia ed oppressione? Potrebbe anche darsi che qualcuno desideri un tale asservimento. Ma la Chiesa potrebbe mai dar seguito ad una simile richiesta?

La Sacra Scrittura, quando invita a seguire Cristo, annunzia la liberazione dell’uomo da ogni precetto fatto da uomini, da tutto ciò che pesa, che opprime, che preoccupa, da tutto ciò che tormenta la coscienza. Seguendo Cristo gli uomini si liberano dal pesante giogo delle loro proprie leggi e si pongono sotto il dolce giogo di Gesù Cristo. Forse che in questo modo la serietà dei comandamenti di Gesù è diminuita? Tutt’altro! Proprio dove viene mantenuto tutto il comandamento di Gesù, l’invito a seguirlo incondizionatamente, si rende possibile la totale liberazione dell’uomo e la sua piena comunione con Gesù. Chi obbedisce senza riserve al comandamento di Gesù, chi accetta il suo giogo senza alcuna opposizione, proverà quant’è dolce il peso che deve portare, riceverà nella leggera pressione di questo giogo, la forza di camminare per la via diritta senza stancarsi. Il comandamento di Gesù è duro, inumano per chi gli oppone resistenza. Il comandamento di Gesù è leggero e dolce per colui che lo accetta con prontezza. «l suoi comandamenti non sono gravosi» (1 Gv. 5,3). Il comandamento di Gesù non ha nulla a che vedere con energiche «cure dell’animo». Gesù non ci chiede nulla senza darci anche le forze per attuarlo. Il comandamento di Gesù non vuole mai distruggere la vita, ma sempre mantenerla, fortificarla, guarirla.

Ma resta ancora la domanda, che senso possa avere, oggi, l’invito a seguire Gesù per l’operaio, per l’uomo d’affari, per l’agricoltore, per il soldato; la domanda, se in questo modo nell’esistenza dell’uomo e del cristiano che lavora nel mondo non venga suscitato un insopportabile dissidio. Il cristianesimo di chi segue Gesù non sarebbe accettabile solo da una minima parte di uomini? Non si rischierebbe di respingere la massa del popolo? di disprezzare i deboli e poveri? Non si rinnegherebbe proprio così la grande misericordia di Gesù Cristo, che è venuto dai peccatori e pubblicani, dai poveri e deboli, da chi erra e dispera? Che dire? Sono pochi o sono molti coloro che appartengono a Cristo? Gesù è morto sulla croce, solo, abbandonato dai suoi discepoli. Accanto a lui erano crocefissi non due dei suoi fedeli, ma due malfattori. Ma sotto la croce c’erano tutti: nemici e credenti, dubbiosi e paurosi, schernitori e vinti, e Gesù pregò per tutti e per tutti implorò il perdono. L’amore misericordioso di Dio vive in mezzo ai suoi nemici. È lo stesso Gesù Cristo la cui grazia invita noi a seguirlo e la cui grazia salva il malfattore crocefisso nella sua ultima ora.

L’invito a seguirlo dove condurrà coloro che lo seguono? Quali scelte e quali divisioni porterà con sé? Questa domanda dobbiamo rivolgerla a Colui che solo sa darci una risposta. Gesù Cristo, che ci comanda di seguirlo, è il solo a sapere dove ci condurrà questa via. Ma noi sappiamo che sarà senz’altro una via indicibilmente misericordiosa. Seguire Gesù è letizia.

Oggi pare così difficile percorrere con decisione la stretta via della scelta della Chiesa ed allo stesso tempo rimanere nell’ampiezza e profondità dell’amore di Cristo per tutti gli uomini, della pazienza, della misericordia, della ‘filantropia’ di Dio (Tt.3,4) accanto ai deboli ed agli atei; eppure le due cose devono restare insieme, altrimenti percorriamo vie umane. Il Signore ci doni, in tutta la serietà con cui desideriamo seguirlo, la gioia; in tutto il nostro rifiuto del peccato l’accettazione del peccatore; in tutta la nostra lotta contro i nemici la Parola dell’Evangelo che sa vincere e conquistare.

« Venite a me, voi tutti che siete stanchi e affaticati, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete riposo alle vostre anime, perché il mio giogo è soave e il mio peso leggero (Mt. 11,28)».

 

 

PARTE PRIMA

La grazia a caro prezzo

La grazia a buon prezzo è il nemico mortale della nostra Chiesa. Noi oggi lottiamo per la grazia a caro prezzo.

Grazia a buon prezzo è grazia considerata materiale da scarto, perdono sprecato, consolazione sprecata, sacramento sprecato; grazia considerata magazzino inesauribile della Chiesa, da cui si dispensano i beni a piene mani, a cuor leggero, senza limiti; grazia senza prezzo, senza spese. L’essenza della grazia, così si dice, è appunto questo, che il conto è stato pagato in anticipo, per tutti i tempi. E così, se il conto è stato saldato, si può avere tutto gratis. Le spese sostenute sono infinitamente grandi, immensa è quindi anche la possibilità di uso e di spreco. Che senso avrebbe una grazia che non fosse grazia a buon prezzo?

Grazia a buon prezzo è grazia intesa come dottrina, come principio, come sistema; è perdono dei peccati inteso come verità generale, come concetto cristiano di Dio. Chi la accetta, ha già ottenuto il perdono dei peccati. La Chiesa che annunzia questa grazia, in base a questo suo insegnamento è già partecipe della grazia. In questa Chiesa il mondo vede cancellati, per poco prezzo, i peccati di cui non si pente e dai quali tanto meno desidera essere liberato. Grazia a buon prezzo, perciò, è rinnegamento della Parola vivente di Dio, rinnegamento dell’incarnazione della Parola di Dio.

Grazia a buon prezzo è giustificazione non del peccatore, ma del peccato. Visto che la grazia fa tutto da sé, tutto può andare avanti come prima. «È inutile che ci diamo da fare». Il mondo resta mondo e noi restiamo peccatori «anche nella migliore delle vite». Perciò anche il cristiano viva come vive il mondo, si adegui in ogni cosa al mondo e non si periti in nessun modo - a scanso di essere accusato dell’eresia di fanatismo - di condurre, sotto la grazia, una vita diversa da quella che conduceva sotto il peccato. Si guardi bene dall’infierire contro la grazia, dall’offendere la grande grazia data a buon prezzo, dall’erigere una nuova schiavitù dell’interpretazione letterale, tentando di condurre una vita in obbedienza ai comandamenti di Gesù Cristo! Il mondo è giustificato per grazia, e perciò - in nome della serietà di questa grazia! per non opporsi a questa insostituibile grazia! - il cristiano viva come vive il resto del mondo! Certo, il cristiano desidererebbe fare qualcosa di straordinario; è senza dubbio la rinuncia più difficile quella di non farlo, ma di dover vivere come il mondo! Ma il cristiano deve accettare questo sacrificio, essere pronto a rinunciare a se stesso e a non distinguersi, nel suo modo di vivere, dal mondo. Deve lasciare che la grazia sia veramente grazia, in modo da non distruggere la fede del mondo in questa grazia a buon prezzo. Il cristiano sia, nella sua vita secolare, in questo sacrificio inevitabile che deve compiere per il mondo - anzi, per la grazia! - tranquillo e sicuro nel possesso di questa grazia che fa tutto da sé. Il cristiano, dunque, non segua Cristo, ma si consoli della grazia! Questa grazia a buon prezzo, che è giustificazione del peccato, e non giustificazione del peccatore penitente che si libera dal suo peccato e torna indietro; non perdono del peccato che separa dal peccato. Grazia a buon prezzo è quella grazia che noi concediamo a noi stessi.

Grazia a buon prezzo è annunzio del perdono senza pentimento, è battesimo senza disciplina di comunità, è Santa Cena senza confessione dei peccati, è assoluzione senza confessione personale. Grazia a buon prezzo è grazia senza che si segua Cristo, grazia senza croce, grazia senza il Cristo vivente, incarnato.

Grazia a caro prezzo è il tesoro nascosto nel campo, per amore del quale l’uomo va e vende tutto ciò che ha, con gioia; la perla preziosa, per il cui acquisto il commerciante dà tutti i suoi beni; la Signoria di Cristo, per la quale l’uomo si cava l’occhio che lo scandalizza, la chiamata di Gesù Cristo che spinge il discepolo a lasciare le sue reti e a seguirlo.

Grazia a caro prezzo è “l’Evangelo che si deve sempre di nuovo cercare, il dono che si deve sempre di nuovo chiedere, la porta alla quale si deve sempre di nuovo picchiare.

È a caro prezzo perché ci chiama a seguire, è grazia, perché chiama a seguire Gesù Cristo; è a caro prezzo, perché l’uomo l’acquista al prezzo della propria vita, è grazia, perché proprio in questo modo gli dona la vita; è cara, perché condanna il peccato, è grazia, perché giustifica il peccatore. La grazia è a caro prezzo soprattutto perché è costata molto a Dio; a Dio è costata la vita del suo Figliolo - «siete stati comperati a caro prezzo» - e perché per noi non può valere poco ciò che a Dio è costato caro. È soprattutto grazia, perché Dio non ha ritenuto troppo caro il suo Figlio per riscattare la nostra vita, ma lo ha dato per noi. Grazia cara è l’incarnazione di Dio.

Grazia a caro prezzo è la grazia ritenuta cosa sacra a Dio, che deve essere protetta di fronte al mondo, che non deve essere gettata ai cani; è grazia perché Parola vivente, Parola di Dio, che lui stesso pronuncia come gli piace. Essa ci viene incontro come misericordioso invito a seguire Gesù, raggiunge lo spirito umiliato ed il cuore contrito come parola di perdono. La grazia è a caro prezzo perché aggioga l’uomo costringendolo a seguire Gesù Cristo, ma è grazia il fatto che Gesù ci dice: «Il mio giogo è soave e il mio peso leggero».

Due volte è stata rivolta a Pietro la chiamata: seguimi!

È stata la prima e l’ultima parola di Gesù al suo discepolo (Mc 1,17; Gv. 21,22). Tutta la vita di questo è posta tra queste due chiamate. La prima volta Pietro ha sentito l’invito di Gesù sul lago di Genezaret ed ha abbandonato le sue reti, la sua professione, e lo ha letteralmente seguito. L’ultima volta il Risorto lo trova di nuovo nella sua professione di prima, sul lago di Genezaret, ed ancora una volta gli dice: seguimi! Frammezzo c’è stata tutta una vita di discepolato al seguito di Cristo; al centro la sua professione di fede in Gesù come il Cristo (l’unto) di Dio. Tre volte a Pietro fu annunziata la stessa cosa: al principio e alla fine a Cesarea di Filippo, che, cioè, Cristo è il suo Dio e il suo Signore. È la stessa grazia di Dio che lo chiama: seguimi! e che si manifesta nella sua professione di fede nel Figlio di Dio.

Per tre volte la grazia si è fermata sulla via di Pietro: una grazia annunziata tre volte in maniera diversa; e così fu la grazia di Cristo stesso, e non certo una grazia che il discepolo si annunziava da se stesso. Fu la stessa grazia di Cristo che vinse il discepolo e lo indusse ad abbandonare tutto per seguirlo, la stessa che operò in lui la professione di fede, che a tutto il mondo doveva apparire una blasfemia, la stessa che richiamò l’infedele Pietro alla comunione del martirio e gli perdonò così tutti i peccati. Grazia e seguire Cristo, nella vita di Pietro, sono indissolubilmente legati. Egli aveva ricevuto la grazia a caro prezzo.

Con la diffusione del cristianesimo e la progressiva secolarizzazione della Chiesa, a poco a poco la conoscenza della grazia a caro prezzo andò perduta. Il mondo era cristianizzato; la grazia era divenuta un bene comune a tutto il mondo cristiano. La si poteva ottenere a poco prezzo. Ma la chiesa romana conservò un resto della sua conoscenza primitiva. Fu un fatto di importanza decisiva che il monachesimo non si separò dalla Chiesa e che la prudenza della chiesa sopportò il monachesimo. Qui, ai margini della Chiesa, era il luogo dove si manteneva ancora viva la conoscenza del prezzo della grazia, dove si sapeva che la grazia è a caro prezzo, che la grazia include la necessità di seguire Gesù. Ci furono uomini che per amore di Cristo abbandonavano tutto ciò che possedevano e cercavano di seguire, in quotidiano esercizio, i severi comandamenti di Gesù. E la vita monastica divenne una protesta vivente contro la secolarizzazione del cristianesimo, contro il rinvilimento della grazia. Ma la Chiesa, sopportando questa protesta e non permettendo che scoppiasse completamente, non solo la relativizzò, ma, anzi, ne trasse persino la giustificazione della sua propria vita secolarizzata; perché così la vita monastica divenne una particolare opera meritoria di singoli, alla quale il popolo non poteva essere impegnato in massa. La fatale limitazione dei comandamenti di Gesù, ritenuti validi solo per un determinato gruppo di persone particolarmente qualificate, portò alla distinzione in prestazione massima e prestazione minima dell’obbedienza cristiana.

E così ad ogni ulteriore attacco contro la secolarizzazione della Chiesa si poteva rispondere rimandando alla vita monastica entro la Chiesa, accanto alla quale l’altra possibilità di una via più facile era senz’altro giustificata. Così il rinvio al concetto di grazia a caro prezzo com’era inteso nella chiesa primitiva e come fu mantenuto nella chiesa di Roma mediante il monachesimo, servì paradossalmente a sua volta a dare l’ultima giustificazione alla secolarizzazione della Chiesa. In tutto ciò l’errore fondamentale del monachesimo non consisteva nel fatto che - con tutti i malintesi di contenuto di fronte alla volontà di Gesù - esso aveva scelto la via della grazia nella severa imitazione di Gesù; il monachesimo, piuttosto, si allontanava fondamentalmente dal cristianesimo per il fatto che permise che la sua via divenisse un’opera particolare di alcuni pochi e pretendeva che si vedesse in questa via un particolare merito. Quando il Signore risvegliò, mediante il suo servitore Martin Lutero, nella Riforma, l’Evangelo della grazia pura, a caro prezzo, egli fece passare Lutero per il monastero. Lutero fu monaco. Aveva abbandonato tutto e voleva seguire il Cristo in assoluta obbedienza. Rinunciò al mondo e si dedicò all’opera cristiana. Imparò a obbedire a Cristo e alla sua Chiesa, perché sapeva che solo chi obbedisce può credere. La vocazione ad entrare nel convento costò a Lutero l’impegno totale della sua vita. Lutero naufragò in questa sua via «andando a sbattere» contro Dio stesso. Dio, tramite la Sacra Scrittura, gli mostrò che seguire Cristo non è una particolare opera meritoria di alcuni singoli, ma comandamento divino rivolto a tutti i cristiani. L’umile atto di seguire Cristo era divenuto, nel monachesimo, opera meritoria dei santi. La rinuncia al proprio io di chi seguiva Cristo si svelò qui come estrema affermazione spirituale di se stessi da parte degli uomini pii. Con questo il mondo aveva fatto irruzione nel monachesimo stesso e agiva di nuovo nella maniera più pericolosa. L’evasione del mondo lontano dal mondo si era svelata come il più raffinato modo di amare il mondo. In questo naufragio dell’ultima possibilità di condurre una vita devota Lutero afferrò la grazia. Nel crollo del mondo monastico egli riconobbe la mano salvatrice di Dio tesa in Cristo. Egli l’afferrò convinto nella sua fede che «tutte le nostre opere sono inutili, anche nella migliore delle vite». Era una grazia a caro prezzo quella che gli si offriva, e spezzò tutta la sua esistenza. Egli dovette abbandonare un’altra volta le sue reti e seguire. La prima volta, quando entrò in convento, aveva lasciato dietro di sé tutto tranne se stesso, tranne il suo pio ‘io’; questa volta gli fu tolto anche questo. Seguì non per un suo qualche merito proprio, ma per la grazia di Dio. Non gli fu detto: «hai, sì, peccato, ma ora tutto è perdonato; resta pure dove eri prima e consolati con il perdono!». Lutero dovette abbandonare il convento e tornare nel mondo, non perché il mondo fosse buono e sacro in sé, ma perché anche il convento non era altro che mondo.

Il ritorno di Lutero dal convento nel mondo era l’attacco più grave condotto contro il mondo dopo i primordi del cristianesimo. La rinuncia al mondo da parte del monaco era una cosa da niente di fronte alla rinuncia che il mondo ebbe a subire da parte di chi tornava nel mondo. Ora l’attacco era frontale. Si doveva seguire Gesù in mezzo al mondo, ora. Ciò che si compiva come opera meritoria nelle particolari situazioni e facilitazioni della vita monastica era ora divenuto necessità, comandamento rivolto ad ogni cristiano nel mondo. L’assoluta obbedienza al comandamento di Gesù doveva ora essere messa in atto nella vita quotidiana e nella professione. Così il conflitto tra la vita del cristiano e la vita del mondo si aggravò in maniera imprevedibile. Il cristiano incalzava il mondo. Ora era una lotta «corpo a corpo».

Non si può fraintendere in maniera peggiore l’atto di Lutero che credendo che egli, con la scoperta dell’Evangelo della pura grazia, abbia proclamato la dispensa dall’obbedienza al comandamento di Gesù nel mondo, che la scoperta della Riforma sia stata la canonizzazione, la giustificazione del mondo mediante la grazia che perdona tutto. La professione laica del cristiano per Lutero trova la sua giustificazione solo nel fatto che in essa la protesta contro il mondo viene espressa in tutto il suo rigore. Solo in quanto il cristiano esercita la sua professione seguendo Gesù, questa ha acquistato un nuovo diritto basato sull’Evangelo. Non la giustificazione del peccato, ma la giustificazione del peccatore fu la ragione del ritorno di Lutero dal convento nel mondo. A Lutero era stata donata una grazia a caro prezzo: grazia perché era acqua per il campo assetato, consolazione per la paura, liberazione dalla schiavitù della via scelta da lui stesso, perdono di tutti i peccati; ma questa grazia era a caro prezzo, perché non dispensava dall’agire, anzi, rendeva infinitamente più rigorosa l’invito a seguire Gesù. Proprio, però, lì dove era a caro prezzo, era la grazia, e dove era grazia lì era a caro prezzo. Ecco il segreto dell’Evangelo della Riforma, il segreto della giustificazione del peccatore.

Eppure non è la grazia, come era stata conosciuta da Lutero, a trionfare nella ,storia della Riforma, ma il vigile istinto religioso dell’uomo, sempre pronto a trovare il luogo dove si può ottenere la grazia a minor prezzo. Bastò un leggerissimo, appena percettibile spostamento di accento, perché si compisse l’opera più perniciosa e pericolosa. Lutero aveva insegnato che l’uomo non può giustificarsi davanti a Dio nemmeno con le sue vie e le sue opere migliori, perché, in fondo, egli cerca sempre se stesso. In questa sua situazione così misera egli aveva afferrato per fede la grazia del perdono libero e incondizionato di tutti i suoi peccati. E Lutero sapeva che questa grazia gli era costata, e gli costava ogni giorno, la vita, poiché la grazia non lo dispensava dal seguire Cristo, ma anzi ve lo spingeva ancor più. Quando Lutero parlava della grazia, intendeva sempre riferirsi anche alla vita che solo tramite la grazia era stata sottoposta pienamente all’obbedienza a Cristo. Non poteva parlare della grazia se non in questo modo. È la grazia sola ad agire, aveva detto Lutero, ed i suoi discepoli lo ripetevano alla lettera, con la sola differenza che ben presto lasciarono da parte, sia nel pensiero che nelle parole, ciò che era sempre stato pensiero ovvio per Lutero, cioè la necessità di seguire Gesù; Lutero non aveva bisogno di esprimere questo pensiero, perché parlava sempre come uno che dalla grazia era stato condotto per la via più difficile del discepolato. L’insegnamento dei suoi seguaci, quindi, proveniva senz’altro dall’insegnamento di Lutero, eppure questo insegnamento segnò la fine e la rovina della Riforma in quanto manifestazione della grazia a caro prezzo di Dio in terra. La giustificazione del peccatore nel mondo fu mutata in giustificazione del peccato e del mondo. La grazia a caro prezzo fu mutata in grazia a buon prezzo senza la necessità di seguire Cristo.

Se Lutero diceva che tutte le nostre opere sono vane anche nella migliore delle vite e che presso Dio non vale altro che «la sua grazia e la sua benevolenza pronte a perdonare i peccati», lo diceva come uno che fino a quel momento, e nello stesso momento di nuovo, si sapeva chiamato ad abbandonare tutto quello che aveva e a seguire Gesù. La conoscenza della grazia fu per lui l’ultimo netto e radicale taglio col peccato della sua vita e certo non la sua giustificazione. Affermare il perdono significava per lui ultima radicale rinuncia alla propria vita, alla propria volontà; e proprio in ciò la grazia era veramente un serio invito a seguire il Signore. Era sempre il ‘risultato’, certo un risultato divino, non uno umano. Ma questo risultato presso i suoi seguaci divenne il presupposto per principio di un calcolo. Ecco in che cosa consisteva il male. Se la grazia è il ‘risultato’ di una vita cristiana, donato da Cristo stesso, questa vita non è dispensata nemmeno un attimo dal seguirlo. Se la grazia è, invece, presupposto per principio della mia vita cristiana, allora i peccati che commetto durante la mia vita in terra sono giustificati in partenza. E allora in base a questa grazia posso peccare, dato che il mondo, per principio, è giustificato per grazia. lo, allora, continuo a vivere la mia vita secolare-borghese; nulla cambia nella mia esistenza, eppure sono sicuro di essere coperto dalla grazia divina. Tutto il mondo, sotto questa grazia, è divenuto ‘cristiano’, ma il cristianesimo, sotto questa grazia, è divenuto mondo come mai in precedenza. Il conflitto fra la vita professionale cristiana e quella secolare-borghese è superato. La vita cristiana consiste appunto nel fatto che io vivo nel mondo come il mondo, che non mi distinguo in nulla da esso, anzi, non devo nemmeno - per amore della grazia! - distinguermi da esso, ma che al momento opportuno dall’ambiente ‘mondo’ mi reco nell’ambiente ‘chiesa’ per ricevervi l’assicurazione del perdono dei peccati. Sono dispensato dalla necessità di seguire Cristo mediante la grazia a buon prezzo, che deve essere il nemico più accanito della volontà di seguirlo, che deve odiare e disprezzare l’impegno a seguirlo. veramente. La grazia come presupposto è una grazia di nessun valore; la grazia come risultato è una grazia a caro prezzo. È terribile riconoscere quanto è importante il modo con cui una verità evangelica viene espressa e messa in atto. È la stessa parola che esprime la giustificazione per sola grazia, eppure l’uso errato della stessa frase porta alla distruzione totale della sua essenza.

Se Faust, alla fine della sua vita spesa nello sforzo di conoscere, dice: «Riconosco che non possiamo sapere nulla», questo è un risultato ed ha un senso ben diverso che se uno studente di primo anno si arroga tale frase per giustificare con essa la sua pigrizia (Kierkegaard). Come risultato l’affermazione è vera, come presupposto è un autoinganno. Il che significa che non si può separare ciò che è stato riconosciuto dall’esistenza che ha portato a tale constatazione. Solo chi si trova al seguito di Gesù, dopo aver rinunciato a tutto ciò che aveva, può affermare di essere giustificato per sola grazia. Egli riconosce nell’invito stesso a seguire Gesù la grazia, e nella grazia questo invito. Chi, però, pensa di essere dispensato per via della grazia dal seguirlo inganna se stesso.

Ma Lutero non ha corso lui stesso questo grav1ssimo pericolo di fraintendere completamente il concetto di grazia? Che significano le sue parole: «pecca fortiter, sed fortius fide et gaude in Christo» - pecca coraggiosamente, ma credi tanto più coraggiosamente e gioisci in Cristo[1] -? Dunque, sei, sì, un peccatore e non riuscirai mai a liberarti dal peccato; che tu sia monaco o laico, che voglia essere pio o malvagio, non riesci a sfuggire alle catene del mondo, pecchi comunque. E allora pecca coraggiosamente - e questo proprio perché la grazia è un fatto! - Sarebbe la proclamazione manifesta della grazia a buon prezzo, la franchigia per il peccato, l’annullamento della necessità di seguire Gesù? Sarebbe il blasfemo invito a peccare temerariamente basandosi sulla grazia? Chi potrebbe mostrare un disprezzo della grazia più diabolico di colui che pecca richiamandosi alla grazia donata da Dio? Il catechismo cattolico non ha forse ragione se vede in questo il peccato contro lo Spirito Santo?

Per poter comprendere ciò è assolutamente necessario fare una netta distinzione tra risultato e presupposto. Se la frase di Lutero diviene presupposto di una teologia della grazia, si proclama la grazia a buon prezzo. Ma la frase di Lutero non può, appunto, essere intesa come principio, ma esclusivamente come fine, come risultato, come chiave di volta, come ultima parola. Inteso come presupposto, il «pecca fortiter» diventa un principio etico; ad un principio della grazia corrisponde necessariamente il principio del «pecca fortiter». Questo è giustificazione del peccato. E così la frase di Lutero viene mutata nel suo contrario. «Pecca coraggiosamente» per Lutero non poteva essere che proprio l’ultima parola, il conforto per chi, sul suo cammino al seguito di Gesù, riconosce che non può liberarsi dal peccato e, atterrito dal peccato, dispera della grazia di Dio. Per lui il «pecca coraggiosamente» non è una ratificazione di fatto della sua vita peccaminosa, ma è l’Evangelo della grazia divina, di fronte al quale siamo, sempre ed in qualunque situazione, peccatori, Evangelo che ci cerca e giustifica proprio in quanto peccatori. Confessa pure coraggiosamente di essere peccatore, ma «credi ancora più coraggiosamente». Tu sei un peccatore, quindi sii peccatore, non voler essere diverso da quello che sei; anzi, sii pure ogni giorno di nuovo peccatore e comportati coraggiosamente come tale. Ma a chi può essere rivolto questo invito se non a colui che, ogni giorno, ricusa il peccato, che, ogni giorno, ricusa tutto ciò che gli impedisce di seguire Gesù e che pure è sconsolato per la sua quotidiana infedeltà e per il suo peccato? Chi può ascoltare questa parola senza pericolo per la sua fede se non colui che, confortato da questo incoraggiamento, sa di essere nuovamente chiamato a seguire Cristo? Così la frase di Lutero, intesa come risultato, diviene la grazia a caro prezzo, la sola vera grazia.

Grazia come principio, «pecca fortiter» come principio, grazia a buon prezzo, in fondo, non è altro che una nuova legge che non aiuta e non libera [resistenza alla Grazia. Ndl]. Grazia come parola viva, «pecca fortiter» come conforto nella tentazione e chiamata a seguire Gesù, grazia a caro prezzo, è la sola grazia pura, che veramente perdona i peccati e libera il peccatore [resistenza al peccato. Ndl].

Ci siamo raccolti come corvi attorno al cadavere della grazia a buon prezzo, da essa abbiamo ricevuto il veleno che fece morire tra noi l’obbedienza a Gesù. La dottrina della grazia pura conobbe, sì, un’apoteosi senza pari, la dottrina pura della grazia divenne Dio stesso, la grazia stessa. Erano, in tutto, le parole di Lutero, eppure erano tramutate dalla verità in un autoinganno. Si diceva una volta che, se la nostra Chiesa ha la dottrina della giustificazione, è certo anche una Chiesa giustificata. La vera eredità di Lutero doveva, dunque, essere riconosciuta nel fatto che la grazia era resa accessibile ad un prezzo quanto mai minimo. Si considerava atteggiamento luterano lasciare che seguissero Gesù i legalisti, i riformati, i fanatici, - tutto per amore della grazia -, giustificare il mondo e dichiarare eretici i cristiani che seguivano Gesù. Un popolo era divenuto cristiano, luterano, ma sacrificando il desiderio di seguire Gesù; lo era divenuto a poco prezzo. La grazia a buon prezzo aveva vinto.

Ma lo sappiamo che questa grazia a buon prezzo è stata estremamente spietata verso di noi? Il prezzo che oggi dobbiamo pagare con la rovina delle chiese istituzionali non è forse la conseguenza necessaria della grazia acquistata troppo a buon prezzo? Predicazione e sacramenti venivano concessi ad un prezzo troppo basso; si battezzava, si cresimava, si dava l’assoluzione a tutto un popolo senza porre domande e senza mettere condizioni; per amore umano le cose sacre venivano dispensate a uomini sprezzanti e increduli; si distribuivano fiumi di grazia senza fine, mentre si udiva assai raramente l’invito a seguire Gesù con impegno. Dove restava ciò che aveva riconosciuto la Chiesa primitiva la quale, durante il catecumenato, vigilava tanto attentamente sulle frontiere tra Chiesa e mondo, sulla grazia cara? Dove restavano gli ammonimenti di Lutero di guardarsi dall’annunziare un Evangelo che tranquillizzasse gli uomini nella loro vita senza Dio? Quando mai il mondo fu cristianizzato in maniera più orrenda e funesta? Che cosa sono le tre migliaia di Sassoni uccisi da Carlo Magno fisicamente di fronte ai milioni di anime uccise oggi? Si è realizzato sopra di noi l’ammonimento che i peccati dei padri saranno puniti sopra i figli fino alla terza e quarta generazione. La grazia a buon prezzo si è mostrata alquanto spietata verso la nostra chiesa evangelica.

E spietata la grazia a buon prezzo lo è stata pure verso la maggior parte di noi personalmente. Non ci ha aperta la via verso Cristo, ma anzi l’ha bloccata. Non ci ha invitati a seguirlo, ma ci ha induriti nella disobbedienza. O non era forse spietato e duro se, dopo aver sentito l’invito a seguire Gesù come invito della grazia, dopo aver, forse, osato una volta fare i primi passi sulla via che ci portava a seguirlo nella disciplina dell’obbedienza al suo comandamento, fummo colti dalla parola della grazia a buon prezzo? Quale senso poteva avere per noi questa parola se non quello di un richiamo ad una sobrietà assai umana, inteso a fermare il nostro cammino, a soffocare in noi il piacere di seguire Gesù, con l’affermazione che questa era una via scelta solo da noi stessi, un impiego di forze, una fatica e una disciplina non solo inutili, ma addirittura dannosi? Infatti nella grazia tutto era già pronto e compiuto! Il lucignolo fumante fu spento in maniera spietata. Era spietato parlare in questo modo ad un uomo, perché egli, turbato da un’offerta così a buon prezzo, necessariamente lasciava la via alla quale era chiamato da Gesù, perché ora voleva afferrare la grazia a buon prezzo che gli precludeva per sempre la possibilità di riconoscere la grazia a caro prezzo. Non poteva essere diversamente; l’uomo debole, ingannato, possedendo la grazia a buon prezzo doveva sentirsi improvvisamente forte, mentre, in realtà, aveva perduto la forza di obbedire, di seguire Gesù. La parola della grazia a buon prezzo ha rovinato più uomini che non qualunque comandamento di buone opere.

Nelle pagine seguenti vogliamo parlare per coloro che sono tentati appunto, perché la parola della grazia è divenuta per loro terribilmente vuota. Per amore di sincerità si deve parlare per quelli tra noi che confessano che con la grazia a buon prezzo hanno perduto la vocazione di seguire Cristo, e seguendo Cristo, invece, la comprensione per la grazia a caro prezzo. E appunto perché non vogliamo negare che non seguiamo più Gesù come dovremmo, che siamo, sì, membri di una Chiesa che conserva la dottrina della grazia in maniera pura e ortodossa, ma non più altrettanto membri di una Chiesa che segue il suo Signore, dobbiamo tentare di comprendere di nuovo il senso della grazia e della vocazione a seguire Gesù nel loro giusto rapporto reciproco. Non possiamo più, oggi, eludere il problema. Diviene sempre più evidente che la difficoltà della nostra chiesa ,sta solo nel problema di come vivere, oggi, da veri cristiani.

Beati coloro che si trovano già alla fine del cammino che noi vogliamo percorrere, e che comprendono, pieni di meraviglia, quello che veramente non pare comprensibile, cioè che la grazia è a caro prezzo proprio perché è grazia pura, perché è grazia di Dio in Gesù Cristo. Beati coloro che, seguendo semplicemente Gesù Cristo, sono vinti da questa grazia, così che possono lodare con cuore umile la grazia di Cristo che sola agisce. Beati coloro che, avendo conosciuto questa grazia, possono vivere nel mondo senza perdersi in esso, che, seguendo Gesù Cristo, hanno acquistato una tale certezza della loro patria celeste, che sono veramente liberi per la vita in questo mondo. Beati coloro, per i quali seguire Gesù Cristo non ha altro significato che vivere della grazia, e per i quali grazia non ha altro significato che seguire Gesù Cristo. Beati coloro che sono divenuti cristiani in questo senso, coloro dei quali la grazia ha avuto misericordia.

 

 

La chiamata a seguire Gesù

E procedendo oltre vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto alla dogana e gli dice: «Seguimi».
Ed egli, alzatosi, lo seguì. (Mc. 2,14).

Cristo chiama e, senza ulteriore intervento, chi è chiamato obbedisce prontamente. Il discepolo non risponde confessando a parole la sua fede in Gesù, ma con un atto di obbedienza. Com’è possibile questo immediato riscontro dell’obbedienza con la chiamata? Questo fatto urta profondamente la ragione naturale; essa deve sforzarsi a separare questa successione così diretta; qualcosa deve esservi frapposto, qualcosa deve essere spiegato. Bisogna assolutamente trovare un intervento, psicologico, storico. Si chiede scioccamente se il pubblicano non abbia conosciuto Gesù già prima e per questo sia stato così pronto a obbedire alla sua chiamata. Ma il testo non dice nulla di simile, vuole appunto mettere in rilievo questa corrispondenza del tutto immediata tra azione e chiamata. Non intende dare spiegazioni psicologiche alle scelte religiose di un uomo. Perché no? Perché c’è una sola ragione valida per questa corrispondenza tra chiamata e azione: Gesù Cristo stesso. È lui che chiama. Perciò il pubblicano lo segue. Questo incontro attesta l’autorità di Gesù incondizionata, immediata e ingiustificabile. Nulla precede questo incontro e nulla segue se non l’obbedienza del chiamato. Il fatto che Gesù è il Cristo gli dà il pieno potere di chiamare e di pretendere obbedienza alla sua parola. Gesù invita a seguirlo, non come maestro e come esempio, ma perché è il Cristo, il Figlio di Dio. Così questo breve testo annunzia Gesù Cristo e il diritto che egli rivendica sull’uomo, null’altro. Nessuna lode per il discepolo, per il suo cristianesimo così deciso. L’attenzione non deve fermarsi su di lui, ma solo su colui che chiama, sulla sua autorità. Non intende nemmeno indicare una via per credere e per seguire; nessun’altra via porta alla fede al di fuori dell’obbedienza alla chiamata di Gesù.

E che cosa ci dice il testo del modo di seguire? Seguimi. Corri dietro a me. Ecco tutto. Camminare dietro a lui è, in fondo, qualcosa senza contenuto. Non è certo un programma di vita, la cui realizzazione possa sembrare ragionevole; non è una meta, un ideale a cui si possa tendere. Non è una cosa per cui, secondo l’opinione degli uomini, valga la pena impegnare qualcosa, e tanto meno se stessi. Ma che accade? Il chiamato abbandona tutto ciò che possiede, non per compiere un atto particolarmente valido, ma semplicemente a causa di questa chiamata, perché altrimenti non potrebbe seguire Gesù. A questo atto in sé non viene dato alcun valore. L’atto in sé resta qualcosa di assolutamente irrilevante, insignificante. Si fa un taglio netto e semplicemente ci si incammina. Si è chiamati fuori e bisogna «venir fuori» dall’esistenza condotta fino a questo giorno; si deve ‘esistere’ nel senso più rigoroso della parola. Il passato resta indietro, lo si lascia completamente. Il discepolo viene gettato dalla sicurezza relativa della vita nell’assoluta mancanza di sicurezza (ma, in realtà, nell’assoluta sicurezza e tranquillità della comunione con Gesù); da una situazione di cui ci si può rendere conto e che si può valutare (ma in realtà del tutto imprevedibile), in una esistenza imprevedibile, esposta al caso (ma in realtà l’unica determinata dalla necessità e valutabile); dall’ambito delle possibilità limitate (ma in realtà infinite) nell’ambito delle possibilità illimitate (ma di fatto nell’unica realtà veramente liberatrice). Questo, però, non è una legge generale, ma, anzi, proprio il contrario di ogni legalismo. E di nuovo non è null’altro che il vincolo che lega solo a Gesù Cristo, cioè appunto la completa rottura con ogni piano programmato, ogni aspirazione idealistica, ogni legalismo. Perciò non si può dare altro contenuto, perché Gesù Cristo è l’unico contenuto. Accanto a Gesù non possono esserci altri contenuti: Lui stesso è il contenuto.

La vocazione a seguire Gesù è quindi legame con la sola persona di Gesù, rottura con ogni legalismo, per opera della grazia di colui che chiama. È una chiamata della grazia, un comandamento della grazia. È al di là di ogni opposizione tra legge ed Evangelo. Cristo chiama, il discepolo segue. È grazia e comandamento insieme. «Cammino per una via spaziosa, perché cerco i tuoi comandamenti» (Sal. 119.45).

Seguire Cristo vuol dire legarsi a lui. Cristo esiste, ne deriva la necessità di seguirlo. Un’idea di Cristo, una dottrina, una generale conoscenza religiosa della grazia o del perdono dei peccati non richiede obbedienza, anzi, veramente la esclude, ne è nemica. Con un’idea si entra in un rapporto di conoscenza, di entusiasmo, forse anche di realizzazione, ma mai di un impegno personale di obbedienza. Un impegno senza Gesù vivente necessariamente rimane un cristianesimo senza impegno di obbedienza; e un cristianesimo senza impegno di obbedienza è sempre un cristianesimo senza Gesù Cristo; è un’idea, un mito. Un cristianesimo in cui c’è solo Dio Padre, ma non Cristo il Figlio vivente, annulla addirittura l’impegno a seguirlo. In esso ,si trova fiducia in Dio, ma non obbedienza. Solo perché il Figlio di Dio si è fatto uomo, perché è mediatore, il giusto rapporto con lui è l’obbedienza. L’obbedienza è legata al mediatore, e dove si parla correttamente dell’impegno a seguirlo, lì si parla del mediatore Gesù Cristo. Solo il mediatore, il Dio-uomo può invitare a seguire.

Obbedienza senza Gesù Cristo è scelta personale di una via forse ideale, forse una via di martire, ma è una via senza promessa; Gesù deve respingerla.

«Poi si avviarono verso un altro villaggio. Mentre erano in cammino, un tale gli disse: ‘Ti seguirò dovunque tu vada’. Ma Gesù gli rispose: ‘Le volpi hanno tane, gli uccelli del cielo nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove poter poggiare il capo’. Disse poi ad un altro: ‘Seguimi’. Ma quegli rispose: ‘Signore, permettimi che prima vada a seppellire mio padre’. Gli disse: ‘Lascia che i morti seppelliscano i loro morti, tu va’ ad annunziare il regno di Dio’. Gli disse ancora un altro: ‘Ti seguirò, Signore, ma prima permettimi di congedarmi con quei di casa’. Gli rispose Gesù: ‘Nessuno che pone mano all’aratro e guarda indietro è atto al regno di Dio’» (Lc. 9,56-62).

Il primo discepolo si offre lui stesso a seguire Gesù, non è chiamato; la risposta di Gesù avverte l’entusiasta che non sa quello che fa. Non può saperlo. Ecco il senso della risposta, nella quale viene mostrata al discepolo come si prospetta, in realtà, la vita con Gesù. Parla colui che va incontro alla croce, la cui intera vita, nel credo apostolico, viene espressa con la sola parola ‘patì’. Nessun uomo può scegliere volontariamente una simile vita. Nessuno può chiamarsi da se stesso, così dice Gesù, e la sua parola resta senza risposta. L’abisso fra l’offerta spontanea di seguirlo e la reale via al suo seguito resta aperto. Ma quando Gesù stesso chiama, egli supera anche questo abisso.

Il secondo vuole seppellire suo padre prima di seguire. La legge lo vincola. Egli sa ciò che vuole e ciò che deve fare. Prima deve adempiere alla legge, poi vuole seguire Gesù. Un chiaro comandamento della legge si frappone qui fra il chiamato e Gesù. La chiamata di Gesù si oppone rigorosamente a che in nessun caso si permetta che qualcosa si ponga fra Gesù e il chiamato, fosse anche la cosa più grande e sacra, fosse anche la legge. È assolutamente necessario, per amore di Gesù che proprio ora la legge che voleva frapporsi venga trasgredita: tra Gesù e il chiamato essa non ha più alcun diritto. Perciò Gesù si oppone alla legge e ordina di seguirlo. Così parla solo il Cristo. Egli ha l’ultima parola. L’altro non può resistere. Questa chiamata, questa grazia è irresistibile.

Il terzo intende l’impegno a seguire nello stesso modo del primo, cioè come un’offerta che parte da lui solo, come programma di vita proprio, scelto da lui stesso. Ma, a differenza del primo, si sente in diritto di porre, da parte sua, delle condizioni. E così si ingarbuglia in completa contraddizione. Si vuole mettere dalla parte di Gesù, ma allo stesso tempo pone qualcosa fra sé e Gesù: «permettimi prima». Vuole seguire, ma vuole lui stesso creare le condizioni del suo impegno. Seguire costituisce per lui una possibilità, la cui realizzazione dipende dall’adempiersi di determinate condizioni e di determinati presupposti. Così l’atto di seguire diviene un atto umanamente comprensibile e avveduto. Prima si fa una cosa, poi l’altra. Tutto a tempo debito. Il discepolo stesso si mette a disposizione, ma acquista così anche il diritto di porre delle condizioni. È evidente che da questo momento l’impegno a seguire non è più veramente tale. Diviene un programma umano, che io seguo secondo il mio giudizio, che io posso giustificare in maniera razionale e morale. Questo terzo, dunque, vuole seguire, ma nell’attimo stesso in cui lo dice, non vuole più farlo. Nella sua stessa offerta annulla già l’impegno di seguire; infatti la volontà di seguire non ammette condizioni che si frappongano fra Gesù e l’obbedienza. Questo terzo, dunque, è in contraddizione non solo con Gesù, ma anche con se stesso. Non vuole ciò che vuole Gesù, ma non vuole nemmeno ciò che vuole lui stesso. Egli giudica se stesso, è in contrasto con se stesso, e solo perché dice: «permettimi prima». La risposta di Gesù conferma con una similitudine la sua contraddizione con se stesso che gli impedisce di seguire: «Nessuno che pone mano all’aratro e guarda indietro è atto al regno di Dio».

Seguire significa compiere determinati passi. Già il primo passo fatto dopo la chiamata separa colui che segue Gesù dalla sua vita passata. Così la chiamata a seguire crea subito una nuova situazione. Restare nella situazione di prima e seguire sono due posizioni che si escludono a vicenda. Questo, in un primo periodo, era chiaramente visibile. Per poter seguire Gesù il pubblicano doveva abbandonare il suo impiego, Pietro le sue reti. Secondo il nostro modo di vedere anche allora le cose si sarebbero potute svolgere diversamente. Gesù avrebbe potuto trasmettere al pubblicano una nuova conoscenza di Dio e lasciarlo nella sua situazione precedente. Se Gesù non fosse il Figlio di Dio divenuto uomo, la cosa sarebbe possibile. Ma dato che Gesù è il Cristo, era necessario che si riconoscesse subito chiaramente che la sua parola non è una dottrina, ma una ri-creazione dell’esistenza. Si trattava di incamminarsi realmente con Gesù. Con il fatto stesso di chiamare uno al suo seguito Gesù gli diceva che per lui non c’era altra possibilità di credere tranne quella di abbandonare tutto e di mettersi in cammino con il Figlio di Dio divenuto uomo. Con il primo passo, chi segue è messo in condizione di poter credere. Se non segue, se resta indietro,’ non impara a credere. Chi è chiamato deve trasferirsi dalla situazione in cui non può credere nella situazione nella quale solo si può credere. Questo passo non ha nessun valore programmatico in sé, è giustificato solo dal fatto che con esso si entra in comunione con Gesù. Finché Levi resta seduto alla dogana o Pietro presso le sue reti, essi possono esercitare onestamente e fedelmente la loro professione, possono avere concezioni vecchie o nuove di Dio, ma se vogliono imparare a credere in Dio essi devono seguire il Figlio di Dio divenuto uomo, devono camminare con lui.

Prima era diverso. Potevano vivere e lavorare nel loro paese, silenziosi e ignorati; obbedivano alla legge e attendevano il Messia. Ma ora questo era venuto, ora li chiamava. Ora credere non era più vivere in silenzio e attendere, ma incamminarsi al suo seguito. Ora il suo invito a seguirlo scioglieva tutti i vincoli precedenti per legare unicamente a Gesù Cristo. Ora tutti i ponti dovevano essere spezzati, bisognava compiere il passo nell’infinita incertezza per riconoscere ciò che Gesù chiede e ciò che dona. Levi, restando alla gabella, avrebbe senz’altro potuto trovare in Gesù un aiuto in ogni difficoltà, ma non lo avrebbe riconosciuto come quell’unico Signore al quale offrire tutta la sua vita, non avrebbe imparato a credere. Deve essere creata la situazione nella quale si può credere in Gesù, il Dio divenuto uomo, la situazione impossibile, in cui si punta su una sola cosa, cioè sulla Parola di Gesù. Pietro deve uscire dalla sua barca e camminare sulle acque ondeggianti, per sperimentare la propria impotenza e l’onnipotenza del suo Signore. Se non fosse uscito, non avrebbe imparato a credere. Perché si possa credere, deve essere messa in evidenza quella situazione così impossibile, dal punto di vista etico semplicemente irresponsabile, sul mare ondeggiante.

La via che conduce alla fede passa attraverso l’obbedienza alla chiamata di Cristo. Quel passo è necessario, altrimenti la chiamata di Gesù va a vuoto, ed ogni pretesa di seguirlo senza compiere questo passo a cui Gesù invita diviene una falsa esaltazione.

Il pericolo di voler distinguere tra una situazione in cui si può credere e una in cui non si può credere è gravissimo. Bisogna essere ben convinti che, in primo luogo, non dipende mai dalla situazione come tale, ne è possibile riconoscere di che specie essa sia. È la chiamata di Gesù che la qualifica come situazione in cui si può credere. In secondo luogo, non è l’uomo a poter mettere in evidenza la situazione in cui si può credere. L’obbedienza non è un’offerta dell’uomo. Solo la chiamata crea la situazione. In terzo luogo, questa situazione non ha mai un valore in sé. È giustificata solo dalla chiamata. Ed infine, e soprattutto, la situazione stessa nella quale si può credere è resa possibile solo nella fede.

Il concetto di situazione in cui si può credere è solo la perifrasi per le circostanze di fatto nelle quali valgono le seguenti due proposizioni, che sono ambedue ugualmente vere: solo chi crede obbedisce, e solo chi obbedisce crede.

Va a grave scapito della fedeltà biblica se lasciamo la prima senza la seconda. Che solo chi crede obbedisce, crediamo di comprenderlo. Infatti - diciamo - l’obbedienza è conseguenza della fede come un buon frutto proviene da un buon albero. Prima viene la fede, poi l’obbedienza. Se con questa affermazione vogliamo semplicemente attestare che solo la fede giustifica e non l’atto dell’obbedienza, essa, certo, è il presupposto necessario e incontestabile per tutto il resto. Se, però, con essa si intende dare una determinazione di tempo, che, cioè, prima si deve credere e che l’obbedienza segue in un secondo tempo, allora fede e obbedienza vengono separate e resta aperta la questione assai pratica: quando deve incominciare l’obbedienza? L’obbedienza rimane separata dalla fede. Per la giustificazione è necessario separare fede e obbedienza, ma questa separazione non deve mai annullare la loro unità, che consiste nel fatto che la fede esiste solo nell’obbedienza; non può esserci fede senza obbedienza, la fede è fede solo nell’atto dell’obbedienza.

Dato che l’affermazione che l’obbedienza è conseguenza della fede è impropria, e per attestare l’unità inscindibile tra fede e obbedienza, alla proposizione «solo chi crede obbedisce» si deve opporre quest’altra: «solo chi obbedisce crede». Se nella prima la fede è presupposto dell’obbedienza, nella seconda l’obbedienza è presupposto della fede. Se l’obbedienza è detta conseguenza della fede, essa deve essere detta altrettanto presupposto della fede.

Solo chi obbedisce crede. Bisogna obbedire ad un ordine concreto per poter credere. Bisogna fare un primo passo nell’obbedienza perché la fede non diventi un pio autoinganno, grazia a buon prezzo. Tutto dipende dal primo passo. Questo si distingue qualitativamente da ogni altro passo. Il primo passo deve allontanare Pietro dalle sue reti, farlo uscire dalla sua barca, deve allontanare il giovane ricco dalle sue ricchezze. Solo in questa nuova esistenza creata dalla fede si può credere.

Ora questo primo passo deve essere dapprima considerato come l’opera esteriore, che consiste nello scambiare un modo di vita con un altro. Ognuno può compiere questo passo. L’uomo è libero di farlo. È un atto all’interno della iustitia civilis nella quale l’uomo è libero. Pietro non può convertirsi, ma può abbandonare le sue reti. Secondo i Vangeli in questo primo passo è già implicita la richiesta di un atto che riguarda tutta l’esistenza. La chiesa romana pretendeva un tale passo solo nella possibilità straordinaria offerta dal monachesimo, mentre per gli altri credenti bastava la disposizione a sottomettersi incondizionatamente alla chiesa ed ai suoi precetti. Anche negli scritti teologici di Lutero è messa in rilievo l’importanza del primo passo: Dopoché il pericolo del malinteso sinergistico è, una volta per sempre, rimosso, si può e si deve lasciare spazio a quel primo atto esteriore necessario per la fede: si tratta qui di entrare in chiesa, dove è annunziata la Parola della salvezza. Questo passo può essere fatto in piena libertà. Vieni in chiesa; puoi farlo grazie alla tua libertà di uomo. Tu puoi, la domenica, lasciare la tua casa e andare ad ascoltare la predicazione. Se non lo fai, ti escludi volontariamente dal luogo dove si può credere. Con questo invito gli scritti di Lutero attestano di conoscere una situazione in cui si può credere ed una in cui la fede non è possibile. Certo, questa coscienza resta alquanto nascosta, quasi ci si vergognasse; ma è presente proprio nella coscienza che il primo passo quale atto esteriore è di fondamentale importanza.

Se si è veramente riconosciuto quanto sopra, bisogna aggiungere che questo primo passo, se compiuto solo come atto esteriore, è e rimane un’opera della legge, senza vita, che da sé non può condurre mai a Cristo. Come atto esteriore l’esistenza nuova resta esattamente quella vecchia; nel migliore dei casi si ottiene un nuovo regolamento, un nuovo stile di vita, che non ha, però, nulla a che vedere con la vita nuova con Cristo. Il beone che non beve più, il ricco che regala le sue ricchezze sono certo liberati dall’alcol e dal denaro, ma non da se stessi. Restano interamente se stessi, forse, anzi, più di prima; sottomessi alla richiesta di operare, restano sempre nella situazione mortale di prima. Certo, l’opera deve essere compiuta, ma non libera da sé dalla morte, dalla disobbedienza, dalla lontananza da Dio. Qualora noi stessi vedessimo nel nostro primo passo il presupposto per la grazia, per la fede, saremmo già condannati a causa di quest’opera e completamente tagliati fuori dalla grazia. Eppure quest’opera esteriore comprende tutto ciò che siamo soliti chiamare sentimento, buoni propositi, tutto ciò che la chiesa romana chiama «lacere quod in se est». Se facciamo il primo passo con l’intenzione di porci nella situazione che rende possibile la fede, allora anche questa capacità di credere non è altro che opera, solo una nuova possibilità di vita entro la nostra vecchia vita, e con ciò intesa in maniera del tutto errata; restiamo ancora nella nostra incredulità.

Eppure quest’opera esteriore è necessaria, dobbiamo metterci nella situazione di poter credere. Dobbiamo compiere questo passo. Che vuol dire? Significa che questo passo è fatto bene solo se lo compiamo non in vista della nostra opera da compiere, ma solo in vista della Parola di Gesù Cristo, che ci invita a compierla. Pietro sa di non poter uscire dalla barca di propria volontà; già il primo passo sarebbe la sua rovina, perciò grida: «Comanda che io venga da te sulle acque» e Cristo risponde: «Vieni». Dunque Cristo deve aver chiamato; solo in obbedienza alla sua Parola, possiamo fare il primo passo. Questa chiamata è la sua grazia, che chiama dalla morte alla nuova vita dell’obbedienza. Ora, però, che Cristo ha chiamato, Pietro deve uscire. dalla barca per venire da Gesù. Così, in realtà, il primo passo dell’obbedienza è già un atto di fede nella Parola di Cristo. Ma si fraintenderebbe completamente il vero senso della fede, se si volesse, da questo fatto, dedurre che il primo passo non è più necessario, dato che c’è già la fede. Di fronte a questo pensiero si deve proprio osare di affermare che si deve compiere il passo dell’obbedienza prima di poter credere. Chi disobbedisce non può credere.

Ti lamenti di non poter credere? Nessuno deve meravigliarsi di non essere capace di credere, finché disobbedisce o si oppone coscientemente in un qualche punto al comandamento di Gesù. Non vuoi sottomettere al comandamento di Gesù una tua qualche passione peccaminosa, un’inimicizia, una speranza, i piani che ti sei fatto per la tua vita, la tua ragione? Non meravigliarti di non ricevere lo Spirito Santo, di non saper pregare, di non veder esaudita la tua preghiera di poter aver fede. Va piuttosto a riconciliarti con il tuo fratello, abbandona il peccato che ti tiene prigioniero e sarai di nuovo capace di pregare. Se rifiuti la Parola di Dio che ti dà un ordine, non puoi neppure ricevere la Parola di grazia. Come potresti trovare la comunione con Colui al quale ti sottrai coscientemente in qualche punto? Chi disobbedisce non può credere, credere può solo chi obbedisce.

In questo punto la benevola chiamata di Gesù Cristo a seguirlo diviene dura legge: fa questo, non fare quello. Esci dalla barca e vieni da Gesù. A chi cerca di giustificare la sua reale disobbedienza alla chiamata di Gesù con la fede o con l’incredulità Gesù dice: «Prima obbedisci, fa l’opera esteriore, abbandona ciò che ti lega, lascia ciò che ti separa dalla volontà di Dio. Non dire: non ho la fede necessaria. Non ce l’hai finché disobbedisci, finché non vuoi fare il primo passo. Non dire: ma io ho fede, non occorre più che faccia il primo passo. Tu non ce l’hai finché e perché non vuoi fare il primo passo, ma ti indurisci sotto le apparenze di umile fede. È una cattiva scusa rimandare dalla propria mancata obbedienza alla mancanza di fede, e dalla fede mancante alla mancanza di obbedienza. La disobbedienza dei ‘credenti’ consiste appunto nel confessare la propria incredulità, quando viene chiesta obbedienza, e giocare con questa confessione (Mc. 9,24). Se credi fa il primo passo. Esso conduce à Gesù Cristo. Se non credi, fallo lo stesso, così ti è comandato. Non è tuo compito preoccupar ti della tua fede o della tua mancanza di fede; ti si ordina di obbedire immediatamente. Nell’atto dell’obbedienza si crea la situazione in cui la fede è resa possibile ed esiste realmente».

Dunque non è una situazione, ma Egli crea una situazione, nella quale sei in grado di credere. Si tratta di mettersi in quella situazione perché la fede sia vera e non un autoinganno. Proprio perché si tratta di vera fede in Gesù Cristo, perché la fede è e resta unica meta («da fede a fede» Rom. 1,17), questa situazione è indispensabile. Chi protesta troppo in fretta e in maniera troppo protestante deve lasciare che gli si chieda se non sta difendendo la grazia a buon prezzo. Infatti, se le due proposizioni restano lì, l’una accanto all’altra, non possono essere causa di scandalo per la vera fede, mentre ognuna di esse, presa a sé, è necessariamente di grave scandalo. Solo il credente obbedisce - ecco quel che vien detto al credente a proposito dell’obbedienza; solo l’obbediente crede - ecco quel che vien detto all’obbediente a proposito della fede. Se la prima proposizione resta sola, colui che crede è lasciato in balìa della grazia a buon prezzo, cioè della dannazione; se la seconda frase resta sola, allora chi crede è lasciato in balìa delle opere, cioè della dannazione.

In base a ciò possiamo gettare uno sguardo nella cura d’anime cristiane. È molto importante che un pastore (cioè chiunque si occupi di cura delle anime N.d. T.) parli conoscendo bene ambedue le proposizioni. Egli deve sapere che il lamento di mancanza di fede proviene sempre di nuovo da cosciente o non più cosciente mancanza di obbedienza e che a questo lamento corrisponde troppo facilmente il conforto della grazia a buon prezzo. E allora la disobbedienza resta e la parola della grazia si muta in quel conforto che il disobbediente si dà da sé, in quel perdono dei peccati che egli si concede da se stesso. Però così l’annunzio si svuota di senso per lui, egli non lo sente più. E anche se si perdona da sé i peccati mille volte, non è in grado di credervi, appunto perché in realtà il perdono non gli è stato concesso. L’incredulità si alimenta della grazia a buon prezzo, perché vuole persistere nella disobbedienza. Questa è una situazione che, oggi, si incontra spesso nella cura d’anime cristiana. In seguito al perdono dei peccati concesso a se stesso l’uomo giunge necessariamente ad un indurimento nella propria disobbedienza; egli asserisce di non saper distinguere il bene ed il comandamento di Dio; questo sarebbe ambiguo e permetterebbe varie interpretazioni. La coscienza della propria disobbedienza, che in principio ci vedeva ancora chiara, si offusca sempre più e si giunge ad un indurimento del cuore. Il disobbediente si è tanto ingarbugliato e preso nel proprio laccio che non può più sentir la Parola, non è realmente più in grado di credere. Tra colui che è indurito ed il pastore nascerà pressappoco il seguente dialogo: «Non posso più credere» - «Ascolta la Parola che ti viene annunziata». - «La sento, ma non mi dice più nulla, mi passa accanto». - «Tu non vuoi ascoltare». - «Eppure, sì». - A questo punto di solito la conversazione pastorale cessa, perché il pastore non sa più che pensare. Egli conosce solo la proposizione: chi crede obbedisce. Con questa affermazione non può più aiutare l’indurito di cuore, che appunto non crede e non può credere. Il pastore perciò pensa di trovarsi già a questo punto di fronte all’ultimo mistero, che cioè Dio dona la fede a uno e la nega all’altro. Con questa frase si cedono le armi. L’impenitente resta solo, e, rassegnato, continua a lamentarsi per le sue difficoltà. Ma proprio qui sta la svolta del dialogo. E la svolta è totale. Non si discute più e le domande e difficoltà dell’altro veramente non sono più prese sul serio; tanto più sul serio si deve prendere l’uomo stesso che cerca di nascondersi dietro i suoi problemi.

A questo punto si irrompe nella fortezza, che egli ha costruito attorno a sé, con le parole: «solo chi obbedisce crede». Si interrompe il dialogo e il pastore dice: «Tu sei disobbediente, tu rifiuti di obbedire a Cristo, vuoi mantenere il dominio su una parte di te stesso. Non puoi ascoltare Cristo, perché sei disobbediente; non puoi credere alla grazia, perché non vuoi obbedire. Tu indurisci parte del tuo cuore di fronte alla chiamata di Cristo. La difficoltà sta nel tuo peccato». E con ciò Cristo stesso è di nuovo sulla scena; egli attacca il diavolo nell’uomo che si è nascosto sinora dietro la grazia a buon prezzo. Ora tutto dipende dal fatto che il pastore abbia pronte le due proposizioni: «solo chi obbedisce crede», e, «solo chi crede obbedisce». Nel nome di Gesù egli deve incitare all’obbedienza, all’azione, al primo passo. «Abbandona ciò che ti tiene legato e segui Gesù». In questo momento tutto dipende da questo passo. La posizione occupata dall’impenitente deve essere abbattuta; in essa infatti Cristo non poteva più essere sentito. Il fuggitivo deve uscire dal nascondiglio che si è costruito. Solo dopo esserne uscito è di nuovo libero di vedere, udire, credere. Di fronte a Cristo non si è, veramente, guadagnato nulla con questa opera, che come tale resta un’opera senza vita; eppure Pietro deve uscire sul mare mosso per poter credere.

Dunque, il fatto in breve è questo: l’uomo, affermando che solo chi crede obbedisce, si è avvelenato con la grazia a buon prezzo. Egli rimane nella sua disobbedienza e si consola con il perdono che egli stesso si aggiudica, e così si chiude di fronte alla Parola di Dio. Non si riesce a irrompere nella fortezza, finché gli si ripete sempre solo la proposizione dietro la quale egli si nasconde. Bisogna che avvenga la svolta; bisogna che lo si inciti ad obbedire: solo chi obbedisce crede.

Ma così lo si induce a seguire la via della giustificazione per opere? No, gli si fa solo comprendere che la sua fede non è fede; egli viene liberato dall’irretimento in se stesso. Deve uscire all’aria aperta, alla libertà data dalla decisione. Così egli può sentire di nuovo l’invito di Gesù a credere e a seguirlo.

E con ciò ci troviamo già al punto centrale dell’episodio del giovane ricco.

«Ed ecco che un uomo gli si accostò e gli disse: ‘Buon Maestro, cosa debbo fare di buono per avere la vita eterna?’ Gli rispose: ‘Perché m’interroghi attorno al buono? Uno solo è il buono. Se poi vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti’. Gli domandò: ‘Quali?’. E Gesù rispose: ‘Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, onora il padre e la madre, ama il tuo prossimo come te stesso’. Il giovane rispose: ‘Tutte queste cose io le ho osservate: che cosa ancora mi manca?’. Gesù gli replicò: ‘Se vuoi essere perfetto, va, vendi i tuoi beni, dalli ai poveri e avrai un tesoro in cielo, poi vieni e seguimi’. Il giovane, però, avendo udito una tal parola, se ne andò afflitto, perché aveva molti beni» (Mt.19,16-22).

La domanda del giovane in cerca della vita eterna concerne la sua salvezza; è l’unica vera e valida ricerca. Ma non è facile porre la domanda nella forma giusta. Lo si vede dal fatto che il giovane, che evidentemente intende porre questa domanda, in fondo ne pone una ben diversa; in realtà schiva questa domanda. Infatti egli si rivolge con la sua domanda al «buon maestro»; vuole sentire l’opinione, il consiglio, il giudizio del buon signore, del grande maestro. Con ciò mostra due cose: in primo luogo la domanda riveste una grande importanza per lui; Gesù deve avere qualcosa di molto significativo da rispondere. In secondo luogo egli attende certo dal buon maestro, dal grande maestro un’osservazione di essenziale importanza, tuttavia non s’aspetta una direttiva divina veramente impegnativa. Il problema della vita eterna per il giovane è senz’altro una questione sulla quale desidera parlare e discutere con un «buon maestro». Ma già qui gli si oppone subito l’osservazione di Gesù: «Perché mi interroghi attorno al buono? (In Mc. 10,19 è detto: perché mi chiami buono? N.d.T.). Uno solo è il buono». La sua domanda ha tradito la sua intenzione. Voleva parlare della vita eterna con un buon maestro; invece deve sentirsi dire che con questa domanda egli non si trova di fronte ad un buon maestro, ma a Dio stesso. Perciò il Figlio di Dio non gli darà altra risposta se non un chiaro rinvio al comandamento del Dio unico. Dal «buon maestro» egli non riceverà una risposta che alla manifesta volontà di Dio aggiunga un’opinione personale. Gesù allontana lo sguardo da sé e lo indirizza al solo Dio buono, e appunto in questo atto si dimostra Figlio perfetto e obbediente di Dio. Ora, se l’interrogante è posto al cospetto stesso di Dio, egli è scoperto anche Come uno che cercava di sfuggire al comandamento manifesto di Dio, che egli pur conosce bene. Il giovane conosce i comandamenti; ma egli si trova appunto in una situazione tale che non si accontenta di essi, che vuole andare oltre. La sua domanda viene svelata come domanda posta da chi segue una pietà inventata e scelta da lui stesso. Perché il giovane non si accontenta del comandamento conosciuto? Perché finge di non trovare una risposta alla sua domanda, pur conoscendola da tempo? Perché vuole accusare Dio di averlo tenuto all’oscuro proprio a proposito di questo problema vitale e decisivo? Così il giovane è già preso prigioniero e condotto in giudizio. Dalla domanda non impegnativa a proposito della salvezza viene richiamato alla semplice e schietta obbedienza ai comandamenti conosciuti.

Segue un secondo tentativo di evasione. Il giovane risponde con un’altra domanda: «Quali?». Dietro questa domanda si nasconde Satana stesso. In essa infatti stava l’unica scappatoia possibile per lui che si accorgeva di essere imprigionato. Naturalmente il giovane conosce i comandamenti; ma chi può sapere quale dei comandamenti, così numerosi, vale proprio ora e proprio per lui? La rivelazione del comandamento è ambigua, poco chiara, dice il giovane. Egli non vede i comandamenti, ma di nuovo solo se stesso, i suoi problemi, i suoi conflitti. Dal chiaro comandamento di Dio egli ripiega sull’interessante posizione indiscutibilmente umana del «conflitto etico». L’errore non sta nel fatto che egli è consapevole di questo conflitto, ma che questo conflitto viene contrapposto ai comandamenti di Dio. I comandamenti sono stati dati appunto per porre fine al conflitto. Il conflitto etico, che è il fenomeno etico primordiale dell’uomo dopo il peccato originale, è esso stesso l’opposizione dell’uomo contro Dio. Il serpente, nel paradiso, pose questo conflitto nel cuore dell’uomo: «Davvero Dio ha detto?». L’uomo viene strappato dal comandamento chiaro e preciso e dalla semplice e schietta obbedienza fìliale mediante il dubbio etico, mediante l’accenno che il comandamento ha senz’altro ancora bisogno di essere interpretato e spiegato. «Davvero Dio ha detto?». L’uomo stesso decida con la forza della sua conoscenza del bene e del male, con la forza della sua coscienza di che cosa è il bene. Il comandamento è ambiguo, Dio vuole che l’uomo lo interpreti e spieghi e decida in piena libertà. Ma in questo modo si è già rifiutato di obbedire al comandamento. Alla semplice azione è subentrato il duplice ragionamento. L’uomo dalla coscienza libera vanta la sua superiorità sul figlio obbediente. Chi si richiama al conflitto etico rinuncia all’obbedienza. È la ritirata dalla realtà di Dio sulle posizioni delle possibilità dell’uomo, dalla fede al dubbio. E così accade una cosa imprevista: la stessa domanda con la quale il giovane tenta di coprire la sua disobbedienza svela quale egli è veramente, cioè un uomo soggiogato dal peccato. È la risposta di Gesù a svelarlo. Vengono citati i comandamenti manifesti di Dio. Gesù, citandoli, li conferma quali comandamenti di Dio. Il giovane è nuovamente messo alle strette; sperava di potersi ancora una volta rifugiare in una conversazione poco impegnativa su questioni di vita eterna. Sperava che Gesù gli offrisse una soluzione del conflitto etico. Invece Gesù non affronta la questione, ma lui stesso. L’unica risposta alle difficoltà del conflitto etico è lo stesso comandamento di Dio e con esso la sollecitazione a smettere di discutere e a obbedire finalmente. Solo il diavolo ha da offrire una soluzione del conflitto etico, e cioè: fermati alla domanda e sarai dispensato dall’obbedienza. Gesù non mira al problema del giovane, ma al giovane stesso. Egli non prende per nulla sul serio il conflitto etico preso tanto sul serio dal giovane. Per Gesù una sola cosa è importante, che il giovane finalmente ascolti il comandamento e obbedisca. Proprio li dove il conflitto etico vuol essere preso tanto sul serio, dove tormenta e assoggetta l’uomo non permettendogli di pervenire all’atto liberatore dell’obbedienza, proprio lì si svela tutta la sua irreligiosità, lì si manifesta come disobbedienza definitiva, in quanto è privo di serietà e lontano da Dio. Serio è solo l’atto dell’obbedienza, che pone fine al conflitto e lo spezza, atto che libera e permette di essere figli di Dio. Ecco la diagnosi divina fatta al giovane. Due volte ora il giovane è stato posto di fronte alla verità della Parola di Dio; non può più schivare il comandamento di Dio. Sì, il comandamento è chiaro e bisogna obbedire. Ma - non basta! «Tutte queste cose io le ho osservate: che cosa mi manca ancora?». Il giovane, rispondendo in questo modo, era certo altrettanto convinto della sincerità del suo problema quanto lo è stato in tutto ciò che ha fatto prima. Ma appunto qui sta la sua caparbietà di fronte a Gesù: conosce il comandamento, lo ha osservato, ma pensa che la volontà di Dio non possa accontentarsi di quanto ha fatto, che si debba aggiungere ancora qualcosa di straordinario, di eccezionale. Egli è pronto a farlo. Il comandamento manifesto di Dio è imperfetto, così dice il giovane nel suo ultimo tentativo di sfuggire al reale comandamento, nel suo ultimo tentativo di non rinunciare a se stesso, di poter decidere lui del bene e del male. Egli accetta il comandamento, ma allo stesso tempo lo attacca frontalmente: «Tutte queste cose io le ho osservate: che cosa mi manca ancora?». Il Vangelo secondo Marco aggiunge a questo punto: «Allora Gesù fissando il suo sguardo sopra di lui lo amò» (Mc. 10,21). Gesù riconosce che il giovane si è chiuso di fronte alla Parola vivente di Dio, che infuria con tutta la sua serietà, con tutto il suo essere contro il comandamento vivente, contro la semplice e schietta obbedienza. Gesù vuole aiutare il giovane, lo ama. Perciò gli dà l’ultima risposta: «Se vuoi essere perfetto va, vendi i tuoi beni, dalli ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi». In queste parole rivolte al giovane tre sono le cose a cui si deve badare:

Primo: Ora è Gesù stesso che comanda. Gesù, che un momento prima aveva voluto che il giovane volgesse lo sguardo non al buon maestro, ma al buon Dio, ora si avvale della sua autorità per dire l’ultima parola, l’ultimo comandamento. Il giovane deve rendersi conto che di fronte a lui sta il Figlio di Dio stesso. Il giovane non aveva ancora riconosciuto in Gesù il Figlio di Dio, perciò Gesù aveva attirato la sua attenzione sul Padre, identificandosi completamente con questo. E a causa della stessa unità col Padre Gesù ora esprime lui stesso il comandamento del Padre. Il giovane deve riconoscerlo senza alcun dubbio, quando sente l’invito di Gesù a seguirlo. Ecco la somma di tutti i comandamenti: il giovane venga a vivere nella comunione col Cristo; Cristo è la meta dei comandamenti. Questo Cristo ora sta di fronte a lui e lo chiama. Non esiste più alcuna scappatoia nella finzione del conflitto etico. Il comandamento è chiaro: seguimi!

Secondo: Anche questa chiamata a seguire Gesù ha bisogno di essere chiarita per divenire comprensibile. Bisogna che per il giovane sia impossibile fraintendere l’impegno di seguire Gesù, ritenendolo un’avventura etica, una via, uno stile di vita strano e interessante, ma, se necessario, revocabile. Sarebbe pure frainteso qualora il giovane lo potesse considerare una conclusione finale delle sue azioni e dei problemi di cui si è occupato fino a quel momento, un’addizione a quanto precede, un’integrazione, un completamento e perfezionamento di ciò che ha fatto sinora. Perché, dunque, sia ben chiaro e inequivocabile, è necessario creare una situazione che non permetta un ritorno alle posizioni precedenti, una situazione irrevocabile, che allo stesso tempo metta in evidenza che non si tratta affatto solo di integrazione di quanto si è fatto sinora. Gesù crea questa situazione necessaria con l’invito alla povertà volontaria. Essa forma il lato esistenziale, spirituale; vuole aiutare il giovane a comprendere finalmente e ad obbedire come si deve; nasce dall’amore di Gesù per il giovane. È solo l’anello di congiunzione tra la vita seguita finora dal giovane e quella al seguito di Gesù. Ma - attenzione! - non è essa stessa la via al seguito di Gesù, non ne è nemmeno il primo passo; è l’obbedienza che sola rende possibile il seguire Gesù. Prima il giovane vada a vendere tutto quello che ha e a darlo ai poveri, poi potrà venire da Gesù e seguirlo. La meta è di poter seguire Gesù, la via per raggiungerla è, in questo caso, la povertà volontaria.

Terzo: Gesù riprende la domanda del giovane che vuol sapere che cosa gli manchi. «Se vuoi essere perfetto...». Questa premessa suscita l’impressione che qui si parli realmente di un’aggiunta a quanto è stato fatto precedentemente. Difatti è anche un’aggiunta, nel cui contenuto, però, è insito l’annullamento di tutto il passato.  Il giovane finora appunto non è perfetto; infatti ha compreso e osservato il comandamento in modo sbagliato. Ora lo può comprendere e può agire bene solo seguendo Gesù, ma anche così solo perché Gesù Cristo lo chiama. Riprendendo la domanda del giovane, Gesù gliela toglie. Il giovane cercava la sua via per conquistare la vita eterna, Gesù gli dice: «lo ti chiamo, ecco tutto».

Il giovane cercava una risposta alla sua domanda. La risposta è: Gesù Cristo. Il giovane voleva sentire la parola del buon maestro, ora riconosce che questa parola è... l’uomo stesso a cui ha rivolto la sua domanda. Il giovane si trova di fronte al Figlio di Dio: un incontro pieno. Ora non esiste altro che un sì o un no, obbedienza o disobbedienza. Il giovane risponde di no. Il giovane si allontana afflitto; si è visto deluso, ingannato nella sua speranza; eppure non può separarsi dal suo passato. Aveva molti beni. La chiamata al seguito di Gesù anche qui non ha altro contenuto all’infuori di Gesù stesso, il legame con lui, la comunione con lui. L’esistenza di chi vuole seguire Gesù non consiste in venerazione esaltata di un buon maestro, ma nell’obbedienza al Figlio di Dio.

Questo racconto del giovane ricco trova esatta corrispondenza in quello che fa da cornice alla parabola del buon Samaritano. «Ed ecco un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova, dicendo: ‘Maestro, che debbo fare per ottenere la vita eterna?’ Gli rispose: ‘Nella legge che cosa è stato scritto? come leggi?’ Quegli rispondendo disse: ‘Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso’. Gli disse: ‘Hai risposto bene, fa’ questo e vivrai’. Ma quegli volendo giustificarsi disse a Gesù: ‘E chi è il mio prossimo?’» (Le. 10,25-29).

Il dottore della legge pone la stessa domanda del giovane ricco. Solo che qui è constatato in partenza che si tratta di una domanda per mettere alla prova Gesù. Il tentatore ha già la sua risposta, che va a finire nell’aporia del conflitto etico. La risposta di Gesù è identica a quella data al giovane ricco. L’interrogante, in fondo, conosce la risposta alla sua domanda, ma ponendo la domanda, anche se conosce già la risposta, si vuole sottrarre all’obbedienza al comandamento divino. A lui non vien data altra risposta che: «fa ciò che sai e vivrai».

E così è stato snidato dalla sua prima posizione. Esattamente come il giovane ricco, anche lo scriba si rifugia nel conflitto etico: «chi è il mio prossimo?». Infinite volte dopo di allora questa domanda del tendenzioso scriba è stata ripetuta in buona fede; infatti viene considerata una domanda seria e ragionevole di un uomo in cerca della verità. Ma non si è letto bene il contesto. Tutto il racconto del buon Samaritano è semplicemente il rifiuto da parte di Gesù, la distruzione di questa domanda in quanto diabolica. È una domanda senza fine, senza risposta. Essa nasce «dai pensieri scossi e turbati di coloro che sono stati privati della verità, che hanno la malattia delle dispute oziose e delle questioni di parole, donde provengono l’invidia, le discordie, le ingiurie, i cattivi sospetti, gli alterchi» (1 Tim. 6,4 e 5).

È la domanda dei gonfi «che’, sempre intenti a istruirsi, non riescono mai a giungere alla conoscenza della verità» (2 Tim. 3,7), che «aventi apparenze di pietà, sono privi di quanto ne forma l’essenza» (2 Tim. 5,5). Sono incapaci di credere, pongono questa domanda, perché «bollati a fuoco nella loro coscienza» (1 Tim. 4,2), perché non vogliono ubbidire alla Parola di Dio. Chi è il mio prossimo? Possiamo dire se è il nostro fratello carnale, il nostro connazionale, il fratello nella comunità o il nostro nemico? Non possiamo affermare e negare, con lo stesso diritto sia l’una che l’altra cosa? Questa domanda non ci porta al dissidio e alla disubbidienza? Proprio così, questa domanda è la ribellione contro lo stesso comandamento di Dio. Sì, voglio ubbidire, ma Dio non mi dice come posso farlo. Il comandamento di Dio è ambiguo, mi lascia in eterno conflitto. La domanda «che cosa devo fare?» era il primo inganno. La risposta era: «metti in atto il comandamento che conosci. Non domandare, agisci». La domanda «chi è il mio prossimo?» è l’estrema domanda della disperazione o della sicurezza di sé, nella quale la disubbidienza cerca di giustificarsi. La risposta è: «tu stesso sei il prossimo. Va e ubbidisci con l’azione dell’amore». Essere il prossimo non è una qualificazione dell’altro, ma è il diritto che l’altro fa valere, su di me, null’altro. In ogni attimo, in ogni situazione io sono quello a cui si chiede di agire, di ubbidire. Non c’è letteralmente il tempo per chiedere qualificazioni dell’altro. lo devo agire, devo ubbidire, devo essere il prossimo dell’altro. E se chiedi ancora spaventato: «non devo, prima, sapere e riflettere come agire?» non c’è altra risposta che: «non si può sapere né riflettere in altro modo che mettendosi ad agire, sapendo sempre che io stesso sono chiamato in causa. Solo ubbidendo, e non col porre delle domande, posso imparare cos’è l’ubbidienza. Solo ubbidendo conosco la verità». La chiamata di Gesù a cieca ubbidienza ci libera dal dissidio della coscienza e del peccato. Il giovane ricco fu chiamato da Gesù alla grazia dell’ubbidienza, lo scriba tendenzioso, invece, fu rimandato alla legge.

 

La semplice ubbidienza

Quando Gesù chiese al giovane ricco una povertà volontaria, questi comprese che non c’era via di mezzo: si trattava di ubbidire o di disubbidire. Quando Levi fu chiamato via dalla dogana e Pietro dalle sue reti non c’era dubbio sulla serietà della chiamata di Gesù: lasciassero tutto e lo seguissero! Quando Pietro fu chiamato ad uscire sul mare mosso, dovette alzarsi e osare il primo passo. Una sola cosa veniva loro chiesta: di fidarsi della Parola di Gesù; di ritenere questa Parola una base più solida di ogni sicurezza di questo mondo. Le forze che cercavano di frapporsi fra la Parola di Gesù e l’ubbidienza non erano, allora, meno potenti di oggi. Vi si opponevano il buon senso, la coscienza, il senso di responsabilità, la pietà; persino la legge ed il principio della Sacra Scrittura cercavano di impedire questa ‘esaltazione’ priva di ogni legge. Ma la chiamata di Gesù annientava tutto e si faceva ubbidire. Era la Parola stessa di Dio. Si chiedeva semplice ubbidienza.

Se Gesù, oggi, parlasse ad uno di noi in questa maniera tramite la Sacra Scrittura, noi ragioneremmo come segue: Gesù comanda una cosa ben precisa, è vero. Ma se Gesù comanda, io devo sapere che egli non pretende mai un’ubbidienza legalistica; egli vuole una sola cosa, che io creda. La mia fede, però, non dipende da povertà o ricchezza o alcunché di simile; purché io abbia fede, posso essere povero o ricco. Non importa che io abbia ricchezze o meno, basta che io possegga i beni come se non li possedessi, e che nel mio intimo sia libero da questi, che non resti attaccato in cuor mio alle ricchezze. Gesù, dunque, potrebbe dire: «vendi i tuoi beni», ma egli intende: «veramente non importa che tu li venda materialmente; puoi senz’altro tenere i tuoi beni, ma tienili come se non li avessi. Non attaccare il tuo cuore a questi beni». La nostra obbedienza alla Parola di Gesù consisterebbe, dunque, nel rifiutare, perché legalistica la cieca obbedienza per essere ubbidienti «nella fede». Qui noi ci distinguiamo dal giovane ricco. Egli, afflitto com’era, non riusciva a consolarsi dicendo a se stesso: «Voglio, nonostante la Parola di Gesù, restare ricco, ma voglio divenire interiormente libero e consolarmi in tutta la mia debolezza con il perdono dei peccati, e voglio essere in comunione con Gesù per fede; egli invece si allontanò afflitto e, non obbedendo, perse anche la fede. Il giovane era assolutamente sincero. Egli si separò da Gesù; e certo questa sua sincerità era accompagnata da una promessa ben maggiore che non la comunione apparente con Gesù basata sulla disubbidienza. Evidentemente Gesù pensava che il giovane non poteva liberarsi interamente dalla ricchezza. Probabilmente il giovane, serio e zelante com’era, lo aveva già tentato mille volte. Che non ci era riuscito lo dimostra il fatto che, al momento decisivo, non era in grado di ubbidire alla Parola di Gesù. In questo il giovane era sincero. Ma noi con i nostri ragionamenti ci distinguiamo fondamentalmente da ogni uditore della Parola di Gesù nella Bibbia. Quando Gesù dice a uno: «Lascia tutto e seguimi, abbandona la tua professione, la tua famiglia, il tuo popolo, la tua casa paterna» questo sapeva che alla chiamata di Gesù si può rispondere solo con una cieca ubbidienza, appunto perché questa ubbidienza è accompagnata dalla promessa della comunione con Gesù. Noi, invece, diremmo: la chiamata di Gesù deve certo «essere presa assolutamente sul serio», ma la vera ubbidienza a lui consiste nel restare nel1a mia professione e nella mia famiglia, e nel servizio al mio posto in una piena libertà interiore. Gesù dunque chiamerebbe: fuori! - ma noi comprendiamo che egli realmente intende: resta dentro! naturalmente come uno che nel suo intimo è venuto fuori. Oppure Gesù direbbe: non preoccupatevi! - ma noi comprenderemmo: naturalmente dobbiamo preoccuparci e lavorare per la nostra famiglia e per noi; altrimenti ci comporteremmo da persone irresponsabili. Ma nel nostro intimo naturalmente dobbiamo essere liberi da ogni preoccupazione. Gesù direbbe: se uno ti colpisce sulla guancia destra, offrigli anche l’altra - e noi comprenderemmo: proprio nella lotta, proprio nel restituire il colpo il vero amore per il fratello diventerà grande. Gesù direbbe: cercate prima di tutto il Regno di Dio - e noi comprendiamo: naturalmente dobbiamo prima occuparci di tante altre cose. Come potremmo vivere altrimenti? Gesù intende naturalmente la piena disponibilità interiore a impegnare tutto per il Regno. Si tratta sempre dello stesso atteggiamento, cioè del cosciente annullamento della obbedienza semplice, letterale.

Com’è possibile un simile rovesciamento? Che è accaduto, che ci si possa prendere gioco in questo modo della Parola di Gesù? che essa possa essere esposta allo scherno del mondo? Dovunque nel mondo si danno degli ordini, la situazione è chiara. Un padre dice al figlio: va a letto! e il figlio sa benissimo che cosa deve fare. Un bambino ammaestrato in forma pseudoteologica dovrebbe, invece, ragionare così: il padre dice, va a letto; intende: sei stanco; non vuole che io sia stanco. lo posso vincere la mia stanchezza andando a giocare. Dunque il padre dice: va a letto; ma veramente vuol dire: va a giocare. Con questo ragionamento il figlio andrebbe incontro a un linguaggio del padre chiaramente comprensibile (e lo stesso succederebbe al cittadino da parte del1e autorità!), cioè a una punizione. Solo per i comandamenti di Gesù le cose dovrebbero andare diversamente. Qui la semplice obbedienza dovrebbe essere sbagliata? si dovrebbe, anzi, proprio disobbedire? Com’è possibile?

È possibile, perché a base di questo ragionamento c’è realmente qualcosa di giusto. Il comandamento rivolto da Gesù al giovane ricco, cioè la chiamata a mettersi in quella situazione in cui è possibile credere, ha realmente solo lo scopo di chiamare l’uomo alla fede in Gesù, cioè alla comunione con lui. In fondo non importa questa o quell’azione dell’uomo, ma tutto dipende dalla fede in Gesù, Figlio di Dio e mediatore. In fondo non dipende affatto da povertà o ricchezza, matrimonio o celibato, professione o non-professione; tutto dipende dalla fede. Fin qui il nostro ragionamento fila; è possibile, pur essendo ricchi e possedendo beni terreni, credere in Cristo in modo da possedere questi beni come se non li si possedessero. Ma questa possibilità è un’ultima possibilità di esistenza cristiana in genere, una possibilità nella seria attesa del ritorno imminente di Cristo, e appunto non la prima e più semplice possibilità. La interpretazione paradossale del comandamento ha una ragione cristiana, ma non deve mai indurre ad annullare la semplice interpretazione letterale dei comandamenti. Essa ha piuttosto il suo diritto e la sua possibilità solo per chi, in uno dei momenti della sua vita, ha già preso sul serio l’interpretazione semplice e letterale; per chi è già in cammino con Gesù e lo segue nell’attesa della fine. È la possibilità infinitamente più difficile, anzi, umanamente parlando, impossibile, di comprendere in modo paradossale la chiamata di Gesù; e proprio come tale rischia sempre di rovesciarsi e di divenire una comoda scappatoia, una fuga davanti all’obbedienza concreta. Chi non sa che è infinitamente più facile interpretare il comandamento di Gesù nel modo più semplice e obbedire alla lettera, per es. dar via realmente, per ordine di Gesù, i propri beni invece di tenerli per sé, non ha nessun diritto a far sua questa interpretazione paradossale della Parola di Gesù. Necessariamente nell’interpretazione paradossale del comandamento di Gesù è sempre insita quella letterale.

La chiamata concreta di Gesù alla cieca obbedienza ha un senso irrevocabile. Gesù chiama l’uomo a mettersi nella situazione concreta nella quale è possibile credere; perciò egli chiama concretamente e così vuol essere ascoltato, perché sa che solo nell’obbedienza concreta l’uomo diviene libero per credere.

Dove viene eliminata per principio la cieca obbedienza, la grazia a caro prezzo della chiamata di Gesù si è mutata di nuovo nella grazia a buon prezzo dell’autogiustificazione; ma ne nasce anche una legge errata che indurisce l’orecchio contro la chiamata concreta di Cristo. Questa legge errata è la legge del mondo, alla quale si oppone e corrisponde la legge della grazia. Il mondo qui non è il mondo vinto in Cristo, che nella comunione con Cristo, deve essere vinto ogni giorno di nuovo; è divenuto una rigida, infrangibile legge di principio. Allora nemmeno la grazia è più il dono del Dio vivente che ci strappa dal mondo e ci pone sotto l’obbedienza di Cristo; è una legge divina generale, un principio divino, e si tratta solo più di applicarla al caso specifico. La lotta condotta per principio contro il ‘legalismo’ della semplice obbedienza erige essa stessa la legge più pericolosa, la legge del mondo e la legge della grazia. La lotta condotta per principio contro il legalismo è essa stessa l’azione più legalistica. Il legalismo può essere superato solo dalla reale obbedienza alla benevola chiamata di Gesù al suo seguito, perché qui la legge è adempiuta da Gesù stesso e così è annullata.

Dove l’obbedienza cieca viene eliminata per principio, lì viene introdotta un’interpretazione della Scrittura non evangelica; presupposto della comprensione della Scrittura è allora il possesso di una chiave atta a interpretarla. In questo caso, però, la chiave non è il Cristo vivente col suo giudizio e con la sua grazia; e l’uso di questa chiave non dipende più solo dalla volontà dello Spirito santo vivente; la chiave delle Scritture allora è una dottrina generale della grazia, e noi stessi decidiamo come usarla. Il problema di come seguire Gesù qui si dimostra anche problema ermeneutico. Un’ermeneutica evangelica deve sapere chiaramente che non possiamo certo identificarci senz’altro con coloro che sono stati chiamati da Gesù; quelli di cui la Scrittura dice che furono chiamati, fanno parte della Parola di Dio e perciò dell’annunzio della Parola. Nella predicazione non sentiamo solo la risposta di Gesù alla domanda di uno dei discepoli - che sarebbe anche la nostra -; domanda e risposta insieme sono parola della Scrittura e con ciò argomento della predicazione. L’obbedienza cieca sarebbe fraintesa in senso ermeneutico, se volessimo agire e seguire proprio contemporaneamente con colui che è stato chiamato. Ma il Cristo che ci viene annunziato nella Scrittura è, in tutta la sua Parola, colui che dona la fede solo a chi obbedisce e solo a chi obbedisce dona fede. Non possiamo né dobbiamo voler andare al di là del testo ed esaminare i fatti reali, ma veniamo invitati a seguire Gesù sottoponendoci a tutta la Scrittura, appunto perché non vogliamo usare violenza e trasformare la Scrittura in legge imponendole un principio, fosse anche semplicemente la dottrina della grazia.

Resta dunque inteso che la interpretazione paradossale del comandamento di Gesù include anche l’interpretazione semplice e letterale, proprio perché non vogliamo erigere una legge, ma annunziare Cristo. E allora è quasi superflua una parola contro il sospetto che con questa obbedienza cieca si voglia parlare di un merito dell’uomo, di un (lacere quod in se est’ di una condizione preliminare della fede da compiere. Obbedire alla chiamata di Gesù non è mai un atto compiuto dall’uomo di propria volontà. Perciò non si può dire che già il dar via i propri beni sia un’atto di obbedienza comunque pretesa; potrebbe benissimo darsi che con questo passo non si obbedisca per nulla a Gesù, ma si scelga un proprio stile di vita, un’ideale cristiano, un ideale francescano della povertà. Proprio dando via i suoi beni l’uomo potrebbe affermare se stesso e un ideale, non il comandamento di Gesù, non liberarsi da sé, ma irretirsi sempre più in se stesso. Il passo verso una determinata situazione non è un’offerta che l’uomo possa fare a Gesù, ma sempre l’offerta della grazia di Gesù all’uomo. Solo lì dove esso è compiuto in questo senso esso è legittimo, ma certo non è più una libera scelta dell’uomo.

«Allora Gesù disse ai suoi discepoli: ‘In verità vi dico che un ricco difficilmente entrerà nel regno dei cieli. Anzi vi dico pure: è più facile che un cammello entri per la cruna di un ago che un ricco nel regno di Dio’. I discepoli, udito ciò, ne furono grandemente stupiti e dicevano: ‘Chi dunque può salvarsi?’. Ma Gesù, guardatili disse loro: ‘Agli uomini ciò è impossibile, ma a Dio tutto è possibile’».

Lo spavento dei discepoli all’udire questa parola di Gesù e la loro domanda, chi allora si sarebbe potuto salvare, dimostra come essi non consideravano il caso del giovane ricco un caso particolare, ma semplicemente il caso valido per tutti. Infatti non chiedono: quale ricco?, ma in generale: ‘chi’ può salvarsi? appunto perché tutti, anche i discepoli stessi, fanno parte di questi ricchi per i quali è tanto difficile entrare nel regno dei cieli. La risposta di Gesù conferma questa interpretazione delle sue Parole da parte dei discepoli. Salvarsi seguendo Gesù non è cosa possibile presso gli uomini, ma presso Dio ogni cosa è possibile.

 

 

Sequela e croce

E cominciò a insegnare loro: «È necessario che il Figlio dell’uomo patisca molte cose, che sia respinto dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, che venga ucciso e che dopo tre giorni risusciti». E diceva questo apertamente. Allora Pietro, presolo in disparte, cominciò a rimproverarlo. Ma egli, giratosi e vedendo i suoi discepoli, rimproverò Pietro e dice: «Allontanati da me, Satana.. perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». E dopo aver convocato la folla insieme ai suoi discepoli, dice loro: «Se qualcuno vuoI venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita la perderà, ma chi perderà la sua vita per me e per il vangelo la salverà. Che giova infatti all’uomo guadagnare tutto il mondo se perde la sua vita? Perché, qual cosa darà l’uomo in cambio della sua vita? Infatti chi si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi» (Mc. 8,31-38).

L’invito a seguire Gesù è congiunto, in questo passo, con l’annunzio della passione di Gesù. Gesù Cristo deve patire ed essere respinto. È la necessità della promessa di Dio, affinché le Scritture si adempiano. Patire ed essere respinti non è lo stesso. Gesù - anche nella passione poteva ancora essere il Cristo festeggiato. La passione poteva essere ancora causa di profonda compassione e ammirazione da parte del mondo. La passione nella sua tragicità potrebbe ancora avere un valore intrinseco, una gloria e dignità intrinseche. Ma Gesù è il Cristo respinto nella passione. Il fatto di essere respinto toglie alla passione ogni dignità e gloria. Deve essere una passione infame. Patire ed essere respinto è l’espressione che riassume la croce di Gesù. Morire sulla croce significa patire e morire essendo respinto, espulso. Gesù deve patire ed essere respinto per necessità divina. Ogni tentativo di impedire ciò che deve accadere è diabolico, anche e proprio se proviene dalla cerchia dei discepoli, perché non vuole permettere che Cristo sia il Cristo. Il fatto che proprio Pietro, la roccia della Chiesa, qui si renda colpevole immediatamente dopo la confessione di fede in Gesù Cristo e dopo la sua consacrazione da parte di questo, indica che la Chiesa stessa, fin dall’inizio, si è scandalizzata del Cristo sofferente. Non vuole un Signore simile, e come Chiesa di Cristo non vuole lasciarsi imporre la legge della passione. La protesta di Pietro deriva dal suo rifiuto di accettare il dolore. E così Satana è penetrato nella Chiesa; vuole strapparla dalla croce del suo Signore.

Perciò Gesù deve ora riferire la necessità della passione chiaramente e inequivocabilmente anche ai suoi discepoli. Come Cristo è il Cristo solo se patisce ed è respinto, così il discepolo è discepolo solo se patisce ed è respinto, se viene crocifisso con il suo Signore. Seguire Gesù, cioè essere legato alla persona di Gesù Cristo, vuol dire, per chi lo segue, essere posto sotto la legge di Cristo, cioè sotto la croce.

L’annuncio, ai discepoli, di questa verità inalienabile incomincia stranamente con la concessione della piena libertà. Gesù dice: «Se uno vuol venire dietro di me»... Non è cosa ovvia nemmeno per i discepoli. Nessuno può essere costretto; anzi, veramente non lo si può nemmeno aspettare da qualcuno; «Se uno», malgrado tutte le altre offerte che gli vengono fatte, vuole seguire Gesù... Ancora una volta tutto dipende dalla decisione; mentre i discepoli si trovano già al seguito di Gesù, ancora una volta tutto è interrotto, tutto resta aperto, non ci si attende nulla, non si impone nulla; tanto radicale è ciò che ora sarà detto. Dunque, ancora una volta, prima che venga annunziata la legge dell’obbedienza, i discepoli devono riavere la loro piena libertà.

«Se uno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso». Come Pietro, quando rinnegò Cristo, disse: «lo non conosco quest’uomo», così, chi vuol seguire Cristo, deve parlare a se stesso. Il rinnegamento di se stessi non può mai esprimersi in una quantità, per quanto grande, di singoli atti di martirio autoimposto o di esercizi ascetici; non si tratta di suicidio, perché anche in questo potrebbe prevalere ancora l’egocentrismo dell’uomo. Rinnegare se stesso vuol dire conoscere solo Cristo, non più se stessi, vedere solo lui che precede, e non più la via che è troppo difficile per noi. Rinnegare se stessi significa: egli precede, tienti stretto a lui.

«...e prenda la sua croce su di sé». Gesù, per grazia, ha preparato i suoi discepoli a questa parola mediante le parole del rinnegamento di se stessi. Solo se ci siamo realmente e completamente dimenticati di noi, se non conosciamo più noi stessi, possiamo essere pronti a portare la sua croce per amore di lui. Se conosciamo solo lui, allora non conosciamo più le sofferenze della nostra croce, perché non vediamo che lui. Se Gesù non ci avesse così benevolmente preparati a questa parola, noi non potremmo sopportarla. Così invece ci ha messi in grado di sentire anche questa dura parola come grazia. Ci raggiunge mentre lo seguiamo con gioia e ci conferma in questo cammino.

La croce non è disagio e duro destino, ma il dolore che ci colpisce solo a causa del nostro attaccamento a Gesù Cristo. La croce non è un dolore casuale, ma è necessario. La croce non è il dolore insito nella nostra normale esistenza, ma dolore che dipende dal fatto di essere cristiani. La croce in genere non è solo essenzialmente dolore, ma soffrire ed essere respinti; e anche qui nel vero senso di essere respinti per Gesù Cristo, non per un qualche altro comportamento o un’altra fede. Una cristianità che non prendeva più sul serio l’impegno di seguire Gesù, che aveva fatto dell’Evangelo solo una consolazione a buon prezzo, e per la quale, del resto, la vita naturale e quella cristiana coincidevano senza alcuna differenza, doveva vedere nella croce il disagio quotidiano, la difficoltà e l’angoscia della nostra vita naturale. Si era dimenticato che la croce significa sempre allo stesso tempo essere respinti, che l’onta del dolore è parte della croce. Una cristianità che non sa distinguere vita civile da vita cristiana, non può più comprendere il segno essenziale del dolore della croce, cioè l’essere nel dolore espulsi, abbandonati dagli uomini, come il salmista lamenta senza fine.

Croce significa soffrire con Cristo, passione di Cristo. Solo chi è legato a Cristo, come accade per chi lo segue, si trova sul serio sotto la croce.

«...prenda la sua croce»... essa è già pronta, sin dall’inizio, basta prenderla. Perché nessuno pensi di doversi cercare da sé una croce, Gesù dice che per ognuno è pronta la sua croce, quella a lui destinata e commisurata da Dio. Ognuno porti la misura di dolore e di abiezione a lui destinata. La misura è diversa per ognuno. Dio stima uno degno di grandi dolori, gli dona la grazia del martirio; mentre non permette che un altro venga tentato al di là delle sue forze. Ma è sempre quell’unica croce. Viene imposta ad ogni cristiano. Il primo dolore per amore di Cristo che ognuno deve sperimentare è la chiamata che ci invita ad uscire dai legami di questo mondo. È la morte del vecchio Adamo nell’incontro con Gesù Cristo. Chi si incammina con Cristo si dà alla morte di Gesù, pone la sua vita nella morte; è così sin dall’inizio; la croce non è la terribile fine di una felice vita religiosa, ma sta all’inizio della comunione con Gesù Cristo. Ogni chiamata di Cristo conduce alla morte. Sia che, per seguirlo, dobbiamo lasciare, come i primi discepoli, casa e professione, sia che dobbiamo, come Lutero, uscire dal convento e dedicarci ad una professione laica, in ambedue i casi ci attende una morte, la morte per Gesù Cristo, la morte del nostro vecchio Adamo a causa della chiamata di Gesù. Dato che la chiamata di Gesù rivolta al giovane ricco gli porta la morte, perché egli può seguire Gesù solo se la sua propria volontà è spezzata, dato che ogni comandamento di Gesù ci fa morire con tutti i nostri desideri e le nostre passioni, e dato che non possiamo volere la nostra morte, perciò Gesù Cristo dev’essere nella sua Parola la nostra morte e la nostra vita.

La chiamata a seguire Gesù, il battesimo nel nome di Gesù, è morte e vita. La chiamata di Cristo, il battesimo, pone il cristiano nella lotta quotidiana contro il peccato e il diavolo. Perciò ogni giorno, con la tentazione a cui il discepolo è esposto per via della carne e del mondo, reca al discepolo nuovi dolori in Gesù Cristo. Le ferite che vengono inferte, e le cicatrici che restano al cristiano dopo questo combattimento sono segni viventi della partecipazione alla croce di Gesù. Ma c’è un altro dolore, un’altra onta che nessun cristiano può evitare. La sola passione di Cristo stesso è passione per la riconciliazione; tuttavia, poiché Cristo ha sofferto per il peccato del mondo, poiché tutto il peso del peccato si è riversato su di lui, e poiché Gesù Cristo aggiudica il frutto della sua passione a chi lo segue, la tentazione e il peccato ricade anche sul discepolo, lo copre di vergogna e lo caccia come capro espiatorio fuori dalle porte della città. E così il cristiano porta peccati e colpe di altri uomini. Crollerebbe sotto il peso, se non fosse egli stesso sostenuto da colui che portò tutti i peccati; così, invece, egli, sostenuto dalla forza della passione di Cristo, può, perdonando, vincere i peccati che cadono su di lui. Il cristiano diviene portatore di pesi... «Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal. 6,2). Come Cristo portò il nostro peso, così noi dobbiamo portare il peso dei fratelli; la legge di Cristo che dev’ essere adempiuta, è il portare la croce. Il peso del fratello che io devo portare non è solo il suo destino esteriore, il suo atteggiamento e il suo carattere, ma è nel vero senso della parola il suo peccato. Non posso portarlo altrimenti che perdonandogli, sostenuto dalla forza della croce di Cristo di cui sono partecipe. Così la chiamata di Gesù a portare la croce pone quelli che lo seguono nella comunione del perdono dei peccati. Perdonare i peccati è soffrire per Cristo, com’è comandato al discepolo. È imposto a tutti i cristiani.

Ma come può il cristiano sapere qual è la sua croce? Gli sarà dato quando si incamminerà dietro al Signore nella sua passione; nella comunione con Gesù riconoscerà la sua croce.

Così il dolore diviene segno di riconoscimento di chi segue Gesù. Il discepolo non è maggiore del Maestro. Seguire Gesù è «passio passiva», dover patire. Lutero così ha potuto indicare tra i segni di riconoscimento della vera Chiesa il dolore. Uno dei suoi collaboratori che prepararono la «Confessio augustana» ha definito la Chiesa come comunità di coloro «che sono perseguitati e martoriati a causa dell’Evangelo». Chi non vuole prendere su di sé la sua croce, chi non vuol dare la sua vita perché soffra e sia respinta dagli uomini, perde la comunione con Cristo, non è suo seguace. Chi invece, al seguito di Cristo portando la croce perde la sua vita, la ritroverà proprio seguendo Cristo e nella comunione della sua croce. Il contrario del seguire Gesù è il vergognarsi di Gesù, vergognarsi della croce, scandalizzarsi della croce.

Seguire vuol dire legarsi al Cristo nella sua passione. Perciò il dolore dei cristiani non è nulla di sorprendente; è, anzi, grazia e letizia perfetta. Gli atti dei primi martiri della Chiesa attestano che Cristo trasfigura nei suoi seguaci il momento del massimo dolore, dando loro l’incredibile certezza della sua vicinanza e comunione. Così, in mezzo alle più terribili torture che sopportavano per amore del loro Signore, essi ebbero la grandissima gioia e beatitudine della comunione con lui. Il portare la croce si mostrò loro come l’unico mezzo per vincere il dolore. Ma questo è vero per tutti coloro che seguono Cristo, perché era vero per Cristo stesso.

«E, avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra, pregando e dicendo: ‘Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. Però non come voglio io, ma come vuoi tu’... Di nuovo per la seconda volta se ne andò e pregò dicendo: ‘Padre mio, se questo calice non può passare senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà’» (Mt.26,39 e 42).

Gesù prega il Padre perché il calice passi da lui, e il Padre esaudisce la preghiera del Figlio. Il calice della passione passerà da Gesù, ma proprio essendo bevuto. Quando Gesù nel Getsemani si inginocchia per la seconda volta, egli sa che il dolore passerà se egli lo sopporterà. Solo portandolo egli supererà e vincerà il dolore. La sua croce è la sua stessa vittoria.

Soffrire è lontananza da Dio. Perciò chi ‘è in comunione con Dio non può soffrire. Gesù ha accettato questa affermazione dell’Antico Testamento. Appunto perciò egli prende su di sé il dolore di tutto il mondo e così lo vince. Egli porta tutta la lontananza da Dio. E appunto perché egli beve il calice, esso passa. Gesù vuole vincere il dolore di tutto il mondo, perciò deve gustarlo fino in fondo. Perciò il dolore resta lontananza da Dio; tuttavia nella comunione con la passione di Gesù Cristo il dolore è stato vinto nella stessa disponibilità a subirlo, e proprio nel soffrire viene donata la comunione con Dio.

Si deve portare il dolore perché passi. O lo deve portare il mondo e crollare sotto il suo peso, o ricade su Cristo e viene vinto in lui. Cristo così soffre al posto del mondo. Ma la sua passione è passione redentrice. Anche la comunità ora sa che il dolore del mondo cerca chi lo porti. Perciò il dolore ricade su di essa quando essa segue Cristo; ed essa lo porta essendo essa stessa portata dal Cristo. La comunità di Gesù Cristo, seguendo Gesù nella croce, sta davanti a Dio al posto del mondo.

Dio è un dio del ‘portare’. Il Figlio di Dio portò la nostra carne, portò, perciò, la croce, portò tutti i nostri peccati e, portandoli, effettuò la riconciliazione. Perciò anche chi lo segue è chiamato a portare. L’essere cristiani consiste nel portare. Come Cristo mantenne la comunione con il Padre portando i pesi del mondo, così, portando i pesi, chi segue Gesù è in comunione con lui. L’uomo può scrollarsi di dosso il peso impostogli. Ma non si libera, in questo modo, del peso in genere, anzi, porta ora un peso molto maggiore, più insopportabile, per sua propria volontà porta il peso, scelto da lui, della sua persona. Gesù ha chiamato tutti coloro che sono caricati di vari dolori e pesi, perché buttino i loro pesi e prendano su di sé il giogo di Gesù, che è mite, il suo peso che è leggero. Il suo giogo, il suo peso è la croce. Camminare sotto questa croce non è miseria e disperazione, ma ristoro e pace per l’anima, è massima gioia. Non camminiamo più sotto i pesi e le leggi fatte da uomini, ma sotto il giogo di colui che ci conosce e che cammina lui stesso sotto la croce assieme a noi. Sotto il suo giogo noi siamo certi della sua vicinanza e della sua comunione. Chi lo segue trova Gesù stesso, se prende su di sé la sua croce.

«Le cose non devono andare secondo la tua ragione, ma al di là della tua ragione; sprofondati nella mancanza di senno ed io ti darò il mio senno. Mancanza di senno è il vero senno; non sapere dove vai, è sapere bene dove vai. Il mio senno toglie il senno a te. Abramo uscì dalla sua patria senza sapere dove andava. Egli si abbandonò alla mia sapienza e lasciò la propria sapienza, e giunse per la via buona ad un buon fine. Ecco, questa è la via della croce, che tu non puoi trovare da te; devo guidarti io come un cieco; perciò non puoi insegnare tu la via che devi percorrere, e non lo può nessun altro uomo né altra creatura; io; io stesso voglio indicarti il cammino con il mio Spirito e la mia Parola. Non seguire l’opera che scegli tu, ma ciò che ti accade contro ogni tua scelta, contro il tuo pensiero, contro i tuoi desideri. lo ti chiamo, impara; è tempo; il tuo maestro è venuto per questa via» (Lutero).

 

 

L’impegno di seguire Gesù e il singolo uomo

«Se uno viene a me e non odia il padre e la madre, la moglie e i figli, i fratelli e le sorelle, anzi la sua stessa vita, non può essere il mio discepolo» (Lc. 14,26).

La chiamata di Gesù a seguirlo fa del discepolo un uomo isolato. Volere o non volere, deve decidersi, e da solo. Non si tratta di una scelta personale di voler essere un uomo isolato; è Cristo a isolare colui che egli chiama. Ognuno è chiamato come singolo; deve seguire come singolo. Sgomentato da questo isolamento l’uomo cerca protezione presso gli uomini e le cose attorno a lui. Scopre improvvisamente tutte le sue responsabilità e si aggrappa ad esse. Vuole decidere protetto da queste; non vuole trovarsi solo di fronte a Gesù, prendere le sue decisioni guardando solo a lui. Ma né padre né madre, né coniuge né figlio, né nazione né storia proteggono in questo frangente colui che è chiamato. Cristo vuole che l’uomo sia isolato, non deve vedere nessuno tranne colui che lo ha chiamato.

Nella chiamata di Gesù è già compiuta la rottura con l’ambiente naturale nel quale l’uomo vive. Non è l’uomo che segue Gesù a compiere tale rottura, ma Cristo stesso l’ha già compiuta quando chiama. Cristo ha sciolto l’uomo dai suoi rapporti immediati con il mondo e lo ha trasferito in un rapporto immediato con sé. Nessuno può seguire Cristo senza riconoscere e accettare questa rottura già compiuta. Non è l’arbitrio di una vita secondo la propria volontà, ma Cristo stesso a condurre il suo discepolo a questa rottura.

Ma perché dev’essere così? Perché non è possibile un processo di adattamento senza rottura, un lento progresso santificante, che sciolga l’uomo dagli ordinamenti naturali e lo conduca alla comunione con Cristo? Quale molesta potenza si pone fra l’uomo e gli ordinamenti della sua vita naturale dati da Dio? Questa rottura non è forse una metodicità legalistica? Non è forse quel torvo disprezzo dei buoni doni di Dio, che non ha nulla a che vedere con la libertà del cristiano? È vero, realmente qualcosa si frappone fra chi è chiamato da Cristo e il suo normale modo di vivere. Ma non si tratta di un torvo disprezzo della vita, di una legge della pietà; è la vita e l’Evangelo stesso; è Cristo stesso. Con la sua incarnazione Gesù si è posto tra me e la realtà di questo mondo. Non posso tornare indietro. Egli sta in mezzo. Egli ha sottratto a colui che egli chiama ogni rapporto immediato con questa realtà. Egli vuole essere il mediatore, tutto deve accadere solo per suo tramite. Egli non sta solo tra me e Dio, ma appunto anche tra me e il mondo, tra me e gli altri uomini e le altre cose. Egli è il mediatore, non soltanto tra Dio e gli uomini, ma anche tra uomo e uomo, tra uomo e realtà. Dato che tutto il mondo è creato per mezzo di lui e per lui (Gv. I,3) e da lui provengono tutte le cose e anche noi siamo per lui (1 Cor. 8,6; Ebr. 1,2), perciò egli è l’unico mediatore nel mondo. Dopo Cristo non c’è più nessun rapporto immediato dell’uomo né con Dio né col mondo; Cristo vuole essere il mediatore. È vero, si offrono abbastanza divinità che concedono all’uomo un accesso immediato, e il mondo cerca con ogni mezzo di essere in rapporto immediato con l’uomo, ma appunto in ciò è nemico di Cristo, il mediatore. Divinità e mondo vogliono strappare a Cristo ciò che egli ha loro sottratto, cioè di essere lui l’unico e solo ad avere un rapporto immediato con l’uomo.

La rottura con i rapporti immediati del mondo non è altro che la conoscenza di Cristo come Figlio di Dio, il mediatore. Non è mai un atto arbitrario con cui un uomo si scioglie dai legami del mondo per seguire un qualche ideale, sostituendo così un ideale minore con uno maggiore. Questo sarebbe esaltazione, arbitrio, anzi, si rientrerebbe di nuovo in un rapporto immediato con il mondo. Solo l’accettazione di un fatto compiuto, cioè che Cristo è il mediatore, separa il discepolo di Gesù dal mondo, dagli uomini e dalle cose. La chiamata di Gesù, se non viene considerata come ideale, ma come parola del mediatore, compie in me questa rottura col mondo. Se si trattasse di soppesare gli ideali, si dovrebbe in ogni modo cercare un compenso, che poi potrebbe andare forse a favore di un ideale cristiano, ma non dovrebbe mai essere unilaterale. Dal punto di vista dell’idealità e delle ‘responsabilità’ della vita una radicale valorizzazione dell’ordine naturale di fronte a un ideale di vita cristiana non sarebbe giustificabile. Anzi, molte cose parlerebbero in favore di una valorizzazione inversa - beninteso, proprio anche dal punto di vista di un’idealità cristiana, di un’etica delle responsabilità e della coscienza cristiana. Ma appunto perché non si tratta di ideali, di valutazione della responsabilità, ma di dati di fatto e della loro accettazione, cioè della persona del mediatore stesso che si è posto fra noi e il mondo, non c’è altro che la rottura con i rapporti immediati della vita, e chi è chiamato deve trovarsi come uomo singolo di fronte al mediatore.

Chi è chiamato da Gesù apprende, dunque, che è vissuto, nei suoi rapporti con il mondo, in un’illusione. Questa illusione si chiama immediatezza. Essa gli ha impedito di credere e di obbedire. Ora egli sa che persino nei legami più stretti della sua vita, nei vincoli di sangue con padre e madre, con i figli, con fratelli e sorelle, nell’amore coniugale, nelle responsabilità storiche non può avere alcun rapporto immediato. Da Gesù in poi i suoi discepoli non possono più avere rapporti immediati né naturali, né storici, né sperimentali. Tra padre e figlio, tra marito e moglie, tra uomini singoli e il popolo sta Cristo, il mediatore, lo riconosciamo o no. Per noi non esiste contatto con il prossimo se non tramite Cristo, tramite la sua Parola e il nostro cammino dietro a lui. Il rapporto immediato è un’illusione.

Ma poiché si deve odiare l’illusione che ci nasconde la verità, i rapporti immediati con le realtà della vita devono pure essere odiati per amore del mediatore Gesù Cristo. Dovunque una comunità ci impedisce di essere uomini singoli di fronte a Cristo, dovunque una comunità pretende di creare un rapporto immediato, essa deve essere odiata per amore di Cristo; infatti ogni rapporto immediato è, coscientemente o incoscientemente, odio verso Cristo il mediatore, anche proprio quando vuole essere considerata cristiana.

È un grave errore della teologia servirsi della mediazione di Gesù tra Dio e uomo per giustificare con essa rapporti immediati della vita. Se Cristo è il mediatore - così si afferma - egli ha preso su di sé il peccato di ogni nostro rapporto immediato con il mondo e ci ha così giustificati. Gesù è il mediatore tra noi e Dio, affinché noi possiamo mantenere, con buona coscienza, rapporti immediati con il mondo, con quel mondo che lo ha crocifisso. E così l’amore per Dio è ridotto allo stesso denominatore dell’amore per il mondo. La rottura con la realtà del mondo ora diviene fraintendimento ‘legalizzato’ dalla grazia di Dio, la quale appunto desiderava evitarci tale rottura. Le parole di Gesù sulla necessità dell’odio per i rapporti immediati si mutano ora in naturale e lieta accettazione delle «realtà date da Dio» in questo mondo. La giustificazione del peccatore si muta di nuovo in giustificazione del peccato.

Per i seguaci di Cristo si possono avere «realtà date da Dio» solo tramite Gesù Cristo. Ciò che non mi viene dato da Cristo, fatto uomo, non mi è dato da Dio. Ciò che non mi è dato per amore di Cristo non viene da Dio. La gratitudine per i doni della creazione viene espressa tramite Gesù Cristo, e la richiesta di una benevola conservazione della vita viene espressa per amore di Cristo. Non devo ringraziare per nessuna cosa per la quale non possa farlo per amore di Gesù Cristo; sarebbe per me un peccato. Anche la via verso «realtà date da Dio» dell’altro uomo, con il quale vivo, passa per Cristo, altrimenti è una via errata. Tutti i tentativi di superare l’abisso, la distanza, la diversità, l’estraneità dell’altro mediante legami naturali o spirituali devono fallire. Non esiste via propria da uomo a uomo. L’immedesimazione più amorevole, la psicologia più approfondita, la sincerità più naturale non raggiungono l’altro; non esistono contatti spirituali immediati: Cristo sta in mezzo. Possiamo raggiungere il prossimo solo passando per Cristo. Perciò l’intercessione è la via migliore per raggiungere l’altro, e la preghiera comune nel nome di Cristo è la comunione più vera.

Non è possibile riconoscere i doni di Dio senza conoscere il mediatore, per amore del quale essi ci vengono dati. Non si può ringraziare sinceramente per la propria nazione, la propria famiglia, la storia, la natura senza un profondo pentimento, che dà a Cristo solo l’onore per tutti questi doni. Non esiste legame con le realtà del mondo creato, non esiste vero senso di responsabilità nel mondo senza riconoscere la rottura che oramai ci separa da esso. Non esiste vero amore per il mondo tranne l’amore con cui Dio ha amato il mondo in Gesù Cristo: «Non amate il mondo» (1 Gv. 2,15), ma «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna» (Gv. 3,16).

La rottura con i rapporti immediati è inevitabile. Che sia una rottura esteriore con la propria famiglia e il proprio popolo, che uno sia chiamato a portare in terra visibilmente il disonore di Cristo, ad accettare il rimprovero di odio del genere umano (odium generis humani) o che questa rottura debba rimanere nascosta, nota solo a lui stesso, mentre, però, resta pronto a compierla, in qualunque momento, anche in forma visibile, non fa, in fondo, differenza. Abramo divenne esempio per ambedue i casi. Dovette abbandonare amici e patria, Cristo si pose fra lui ed i suoi. La rottura dovette essere visibile. Abramo divenne straniero per amore della terra promessa. E questa fu la sua prima chiamata.

In seguito Abramo fu chiamato da Dio a sacrificare il figlio Isacco. Cristo si pone fra il padre della fede ed il figlio della promessa. Qui viene spezzata non solo una relazione immediata naturale, ma anche una relazione spirituale. Abramo deve imparare che la promessa non è legata nemmeno ad Isacco, ma appunto solo a Dio. Nessun essere umano viene a sapere di questa chiamata di Dio, neppure i servi tori che accompagnano Abramo fino al luogo del sacrificio. Abramo resta completamente solo. È di nuovo completamente uomo singolo, come quando emigrò dalla sua patria. Egli accetta la chiamata così come gli è stata rivolta, non cerca interpretazioni sofisticate, non la spiritualizza; egli prende Dio alla lettera ed è pronto a obbedire. Egli obbedisce alla parola contro ogni rapporto naturale immediato, contro ogni rapporto religioso immediato. Egli sacrifica il figlio. È pronto a compiere la rottura in maniera visibile, per amore del mediatore. E in quello stesso momento gli viene donato di nuovo tutto ciò che aveva sacrificato. Il figlio viene restituito ad Abramo. Dio gli mostra una vittima migliore, che deve sostituire Isacco. È una svolta di 360 gradi; Abramo possiede di nuovo Isacco, ma in maniera diversa da prima. Lo ha avuto dal mediatore e per amore del mediatore. Poiché era pronto ad ascoltare e osservare alla lettera il comandamento di Dio, egli ora può tenere Isacco come se non lo possedesse, può averlo tramite Gesù Cristo. Nessun altro lo sa. Abramo ritorna dal monte con Isacco come vi era salito, ma tutto era cambiato. Cristo si è posto tra padre e figlio. Abramo aveva abbandonato tutto e aveva seguito Cristo, e proprio mentre si trova al suo seguito ora può vivere di nuovo nel mondo, nel quale era vissuto prima. Esteriormente nulla è cambiato. Ma le cose vecchie sono passate, ecco tutto è divenuto nuovo. Tutto ha dovuto passare per Cristo.

Questa è l’altra possibilità di essere isolato in mezzo alla comunità, in mezzo al proprio popolo, nella casa paterna, in mezzo ai propri beni e alle proprie ricchezze; essere seguace di Cristo. Ma è appunto Abramo a essere chiamato a questa vita, Abramo, il quale prima dovette subire la rottura visibile, Abramo, la cui fede divenne esemplare per il Nuovo Testamento. Troppo facilmente vorremmo generalizzare questa possibilità di Abramo, intenderla in maniera legalistica, cioè riferita senza altro a noi stessi. Questa, così diciamo, è appunto anche la nostra esistenza cristiana, seguire Cristo conservando il possesso dei beni terreni, ed essere così degli isolati. Ma non c’è dubbio che la via più facile per il cristiano è di essere portati alla rottura esterna piuttosto che portare, per fede, la rottura in segreto. Chi non lo sa, cioè chi non lo ha appreso dalle Scritture e dall’esperienza, certamente seguendo l’altra via imbroglia se stesso. Ricadrà nei rapporti immediati e perderà Cristo. Non dipende dalla nostra volontà scegliere questa o quella possibilità. Veniamo chiamati secondo la volontà di Gesù, in una maniera o nell’altra, a uscire dai rapporti immediati, e dobbiamo divenire degli isolati, visibilmente o in segreto.

Ma lo stesso mediatore che fa di noi degli isolati, in questo modo è anche causa di una comunione assolutamente nuova. Egli sta al centro, tra l’altro uomo e me. Egli separa, ma unisce pure. Ogni via immediata per raggiungere il prossimo è sbagliata; ma ora a chi segue Cristo viene indicata una via del tutto nuova e l’unica reale, che raggiunge l’altro passando per il mediatore.

«Pietro prese a dirgli: ‘Ecco noi abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito’. Rispondendo Gesù disse: ‘In verità, vi dico, non c’è nessuno che abbia abbandonato casa, fratelli, sorelle, madre, padre, figli e campi per amar mio e il vangelo e non riceva il centuplo ora in questo tempo, in case, fratelli, sorelle, madri, figli e campi insieme a persecuzione e nel tempo a venire la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi primi» (Mc. 10,28-31).

Gesù qui si rivolge a quelli che sono divenuti degli isolati per amor suo, che hanno lasciato tutto quando egli li chiamò, che possono dire di sé: «Ecco, abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito». A costoro viene promessa una nuova comunione. Secondo la Parola di Gesù già in terra riavranno il centuplo di ciò che hanno abbandonato. Gesù qui parla della sua comunità che si ritrova in lui. Chi ha abbandonato il padre per amore di Gesù trova sicuramente un altro padre, trova fratelli e sorelle; e per lui sono pronti persino campi e case. Ognuno entra come singolo al seguito di Gesù, ma nessuno resta isolato seguendo Gesù. A colui che, obbedendo alla sua Parola, osa divenire un isolato viene donata la comunione della comunità. Egli si ritrova in una confraternita visibile, che gli ridà centuplicato ciò che ha perduto. Centuplicato? Appunto perché ora possiede tutto solo tramite Gesù, lo possiede tramite il mediatore; ciò, però, vuol dire «insieme a persecuzione». ‘Centuplicato’ - «insieme a persecuzione»; ecco la grazia della comunità che segue il suo Signore sotto la croce. Questa è la promessa per chi lo segue: divenire membro della comunità sotto la croce, essere popolo del mediatore, popolo sotto la croce.

«Erano dunque sulla strada che saliva verso Gerusalemme e Gesù andava davanti a loro; essi erano turbati e quelli che seguivano avevano paura. Allora, presi di nuovo in disparte i dodici, cominciò a dire loro ciò che stava per accadergli» (Mc. 10,32).

Quasi a conferma della serietà della sua chiamata a seguirlo, ed allo stesso tempo dell’impossibilità di seguirlo con le loro forze umane, e della promessa che chi lo segue apparterrà a lui nella persecuzione, Gesù precede sulla via verso Gerusalemme, verso la croce; e turbamento e meraviglia per questa via, sulla quale egli li chiama, afferra quelli che lo seguono.

 

 

Matteo 5: Il sermone sul monte.

Lo ‘straordinario’ della vita cristiana

Le beatitudini

Gesù sulle pendici di un monte, il popolo, i discepoli. Il popolo vede: Gesù con i discepoli che si sono avvicinati a lui. I discepoli - essi stessi - sino a poco tempo prima facevano completamente parte della massa del popolo. Erano come tutti gli altri. Poi li raggiunse la chiamata di Gesù; abbandonarono tutto e lo seguirono. Da allora appartengono completamente a Gesù. Ora vanno con lui, vivono con lui, lo seguono dovunque egli li conduce. A loro è accaduto qualcosa che non è accaduta agli altri. È un fatto estremamente inquietante, scandaloso quello che il popolo vede qui con i suoi occhi. I discepoli vedono: il popolo dal quale provengono, le pecore perdute della casa di Israele. È la comunità chiamata da Dio.  È la chiesa di popolo. Quando essi furono, dalla chiamata di Gesù, scelti in mezzo a questo popolo, essi fecero quello che era naturale e necessario per le pecore perdute della casa di Israele: seguirono la voce del buon pastore, perché conoscevano la sua voce. Essi, proprio seguendo questa via, appartengono a questo popolo, vivranno in mezzo a questo popolo, entreranno in mezzo a questo popolo e gli annunzieranno la chiamata di Gesù e la gloria del cammino al suo seguito. Ma quale sarà la fine? Gesù vede: i suoi discepoli. Sono venuti apertamente dal popolo a lui. Egli li ha chiamati a uno a uno. Alla sua chiamata essi hanno rinunciato a tutto. Ora vivono soffrendo indigenza e privazioni; sono i più poveri tra i poveri, i più tentati tra gli esposti alla tentazione, i più affamati tra gli affamati. Hanno solo lui. E, con lui, nel mondo non hanno nulla, proprio nulla. Ma presso Dio hanno tutto. Egli ha trovato una piccola comunità, e ne cerca una grande quando guarda il popolo. Discepoli e popolo formano un tutt’uno; i discepoli saranno i suoi messaggeri, essi troveranno pure, qua e là, degli uditori e dei credenti. Eppure, tra loro e il popolo regnerà inimicizia fino alla fine. Tutta l’ira contro Dio e la sua Parola ricadrà sui suoi discepoli ed essi saranno respinti assieme a lui. La croce è in vista. Cristo, i discepoli, il popolo: ecco tutto il quadro della passione di Gesù e della sua comunità[2].

Perciò: beati! Gesù parla ai suoi discepoli (cfr. Lc. 6,20 ss.). Parla a coloro che già si sono posti sotto la potenza della sua chiamata. Questa chiamata li ha resi poveri, tentati, affamati. Egli li dichiara beati, non per le loro privazioni o la loro rinuncia. Né povertà né rinuncia sono per se stesse in qualche modo motivo della proclamazione di beatitudine. Solo la chiamata e la promessa, per cui i suoi seguaci vivono in mezzo a privazioni e a rinunce, è motivo sufficiente. L’osservazione,che in qualcheduna delle beatitudini si parla di privazione, in altre di cosciente rinuncia, cioè di particolari virtù dei discepoli, non ha importanza. Privazione obiettiva e rinuncia personale hanno la loro ragione comune nella chiamata e nella promessa di Cristo. Nessuna delle due ha, per se stessa, valore o diritto[3].

Gesù chiama beati i suoi discepoli. Il popolo l’ode ed esterrefatto è testimone di ciò che accade. Ciò che, secondo la promessa di Dio, appartiene a tutto il popolo di Israele qui tocca alla piccola comunità di discepoli scelti da Gesù. «Di loro è il regno dei cieli». Ma i discepoli e il popolo sono una cosa sola per il fatto che sono tutti comunità chiamata da Dio. Le beatitudini di Gesù dovranno portare tutti alla decisione e alla salvezza. Tutti sono chiamati a essere ciò che in realtà sono. I discepoli vengono proclamati beati a causa della chiamata di Gesù, alla quale hanno risposto. Tutto il popolo di Dio viene chiamato beato per la promessa a lui diretta. Ma il popolo di Dio afferrerà la promessa credendo a Gesù Cristo e alla sua Parola o si separerà, non credendo, da Cristo e dalla sua comunità? Ecco la domanda che resta aperta.

«Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli». I discepoli subiscono privazioni in tutti i campi. Sono semplicemente dei ‘poveri’ (Lc. 6,20). Non hanno sicurezza, non beni da chiamare propri, non un pezzo di terra da chiamare patria, nessuna comunità terrena a cui appartenere completamente. Ma non hanno neppure una propria forza spirituale, una propria esperienza, una propria sapienza alla quale richiamarsi, con la quale consolarsi. Hanno perso tutto questo per amore di Gesù. Quando si incamminarono dietro a lui, persero pure se stessi e così anche tutto ciò che avrebbe potuto ancora arricchirli. Ora sono poveri, così inesperti, così stolti da non avere più nulla in cui sperare tranne colui che li ha chiamati. Gesù conosce anche quegli altri, i rappresentanti e i predicatori della religione di popolo, questi potenti, rispettati, che stanno ben fondati in terra, radicati nel carattere nazionale, nello spirito del tempo, nella religiosità popolare. Non sono, però, questi, ma solo i suoi discepoli che Gesù chiama «beati, perché di loro è il regno dei cieli». Il regno dei cieli viene per quelli che, per amore di Gesù, vivono semplicemente «in privazioni e rinunce». In mezzo alla loro povertà essi sono gli eredi del regno celeste. Essi hanno il loro tesoro profondamente nascosto, lo hanno sulla croce. Il regno dei cieli è loro promesso in gloria visibile, ed è già donato a loro nella perfetta povertà della croce.

Qui le beatitudini di Gesù si distinguono radicalmente dalla loro caricatura in forma di programmazione politico-sociale. Anche l’anticristo chiama beati i poveri, ma non lo fa per amore della croce, nella quale è insita e beata ogni povertà, ma lo fa appunto per allontanare dalla croce mediante ideologie politico-sociali. Egli può chiamare cristiana questa ideologia, eppure proprio perciò diviene nemico di Cristo.

«Beati gli afflitti, perché saranno consolati». Con ogni ulteriore beatitudine la frattura fra discepoli e popolo diviene maggiore. La schiera dei discepoli viene chiamata fuori in forma sempre più visibile. Gli afflitti sono appunto quelli che sono pronti a vivere rinunciando a ciò che il mondo chiama felicità e pace, quelli che non possono essere accordati allo stesso tono del mondo, che non possono adeguarsi al mondo. Sono afflitti a causa del mondo, della sua colpa, del suo destino e della sua felicità. Il mondo festeggia e loro se ne stanno in disparte; il mondo grida: «godete la vita», e loro sono afflitti. Vedono che la nave, sulla quale domina questa gioiosa festa, ha già una falla. Il mondo segue il progresso, la forza, il futuro; i discepoli sanno che la fine è vicina, che verrà il giudizio, che sta arrivando il regno dei cieli, per il quale il mondo è così poco adatto. Perciò i discepoli sono stranieri nel mondo, ospiti fastidiosi, disturbatori della tranquillità, e vengono respinti. Perché la comunità di Gesù deve restare esclusa da tante feste del popolo in mezzo al quale vive? Non capisce più gli altri uomini? Si è fatta prendere dall’odio e dal disprezzo per gli uomini? Nessuno comprende i suoi simili meglio della comunità di Gesù. Nessuno ama i suoi simili più dei discepoli di Gesù, appunto perciò sono esclusi. appunto perciò sono afflitti. È sintomatico e anche bello che Lutero traduca il vocabolo greco con: portare dolore. Infatti l’importanza sta nel ‘portare’. La comunità dei discepoli non si scuote di dosso il dolore come se non la toccasse per nulla, ma lo porta. E su questo si fonda la sua comunione con gli altri uomini. Contemporaneamente questo vocabolo dice che la comunità non cerca arbitrariamente il dolore, che non si ritira per un arbitrario disprezzo dal mondo, ma porta ciò che le viene imposto, ciò che le tocca per amore di Gesù Cristo, mentre lo segue. Ed infine, i discepoli non vengono piegati, logorati, amareggiati dal dolore, in modo da esserne spezzati. Anzi, portano il dolore loro imposto solo per la forza di colui che sulla croce porta tutto il dolore. Come «portatori di dolore» si trovano in comunione col Signore crocifisso. Vivono come stranieri sostenuti dalla forza di colui che era tanto straniero in terra che fu crocifisso. Questo fatto, o meglio quest’uomo è la loro consolazione, il loro consolatore (Lc. 2,15). La comunità degli stranieri trova consolazione nella croce, trova consolazione nel fatto che viene respinta al luogo dove il consolatore di Israele la attende. Essa trova la sua vera patria presso il Signore crocifisso, qui e in eterno.

«Beati i miti, perché possederanno la terra». Nessun diritto proprio protegge questa comunità di stranieri nel mondo. Non lo pretende nemmeno, perché i miti di cuore sono coloro che vivono rinunciando ad ogni proprio diritto per amore di Gesù Cristo. Se li si rimprovera tacciono, se si usa loro violenza la sopportano, se li si caccia cedono. Non fanno processi per difendere il proprio diritto, non fanno chiasso se subiscono ingiustizia. Non cercano il proprio diritto. Vogliono lasciare ogni diritto a Dio; non cupidi vindictae, diceva la chiesa antica. Ciò che piace al loro Signore deve piacere anche a loro. Solo questo. Ogni loro parola, ogni gesto manifesta che non appartengono a questa terra. «Lasciate loro il cielo», così dice pieno di compassione il mondo; «lì è il loro posto»[4]. Ma Gesù dice: «possederanno la terra». La terra appartiene a questi uomini senza diritti, impotenti. Quelli che ora la occupano con violenza e ingiustizia la perderanno; e quelli che qui hanno completamente rinunziato, che erano miti fino alla croce domineranno sulla nuova terra. Non si tratta qui di pensare ad una giustizia punitiva di Dio in terra (Calvino), ma quando il regno dei cieli sarà istaurato, la forma della terra sarà rinnovata e sarà la terra della comunità di Cristo. Dio non abbandona la terra. Egli l’ha creata. Ha mandato suo Figlio in terra. Ha edificato la sua comunità in terra. Così il regno incomincia già in questo tempo. Un segno è stato dato. Già qui agli impotenti è data una parte di terra, hanno la chiesa, la comunità, i loro beni, fratelli e sorelle - in mezzo alla persecuzione fino alla croce. Anche Golgota è un pezzo di terra. Da Golgota, dove il più mite morì, parte il rinnovamento della terra. Se viene il regno dei cieli, i miti possederanno la terra.

«Beati gli affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati». Chi segue Cristo non vive rinunciando solo al proprio diritto, ma persino rinunciando alla propria giustizia. Con le proprie azioni e con i propri sacrifici non si acquista nessuna gloria propria. Non si può ottenere giustizia se non essendone affamato e assetato; né giustizia propria né giustizia di Dio in terra; lo sguardo del seguace è sempre rivolto alla futura giustizia di Dio, ma non può crearla lui stesso. Chi segue Gesù sarà affamato e assetato durante il cammino. Desidera perdono dei peccati e totale rinnovamento della terra e perfetta giustizia di Dio. Ancora la maledizione copre la terra, ancora il peccato del mondo cade su di lui. Colui che egli segue deve morire maledetto sulla croce. Un disperato desiderio di giustizia è il suo ultimo grido: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Ma il discepolo non è al di sopra dei suo Maestro. Segue lui; è beato in questo cammino perché gli è stato promesso che sarà saziato. Otterrà giustizia, non solo a parole; sarà fisicamente saziato di giustizia. Mangerà il pane della vera vita nella futura Cena con il suo Signore. È beato per questo futuro pane; perché lo ha già qui presente. Colui che è il pane della vita è in mezzo ai suoi discepoli, in tutta la loro fame. Ecco la beatitudine dei peccatori.

«Beati i misericordiosi, perché a loro sarà fatta misericordia». Questi nulla tenenti, questi stranieri, questi impotenti, questi peccatori, questi seguaci di Cristo vivono con lui ora rinunciando anche alla propria dignità, poiché sono misericordiosi. Non si accontentano delle proprie difficoltà, delle proprie privazioni, ma partecipano pure alle difficoltà altrui, alla bassezza altrui, al peccato altrui. Hanno un amore irresistibile per i piccoli, gli ammalati, i miserabili, gli umiliati e oltraggiati, per quelli che subiscono ingiustizie, per gli esclusi, per tutti quelli che si tormentano e si preoccupano; cercano quelli che sono caduti nel peccato e nella colpa. Non c’è difficoltà troppo grave, peccato troppo terribile, perché la misericordia non li cerchi. Il misericordioso dona il proprio onore a chi si è macchiato di vergogna e prende su di sé la sua vergogna. Egli si fa trovare presso i pubblicani e i peccatori e subisce volontariamente il disonore della loro compagnia. Cede il massimo bene che un uomo possa avere, la propria dignità ed il proprio onore, ed è misericordioso. Conosce solo una dignità e un onore: la misericordia del Signore, della quale sola egli vive. Gesù non si vergognò dei suoi discepoli, divenne fratello degli uomini, portò la loro vergogna fino alla morte sulla croce. Questa è la misericordia di Gesù, della quale sola vogliono vivere quelli che sono legati a lui. La misericordia del Cristo crocifisso fa loro dimenticare ogni proprio onore e dignità e cercare solo la compagnia dei peccatori. E se anche sono coperti di vergogna sono pure beati. Perché sarà fatta loro misericordia. Dio si chinerà profondamente su di loro e prenderà su di sé i loro peccati e la loro vergogna. Dio darà loro il suo onore e lui stesso toglierà loro il loro disonore. Sarà l’onore di Dio a portare l’infamia dei peccatori e a rivestirli del suo onore. Beati i misericordiosi, perché hanno per Signore il Misericordioso.

«Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio». Chi è puro di cuore? Solo chi ha dato totalmente il suo cuore a Gesù, perché lui solo vi regni; chi non macchia il proprio cuore del proprio male, ma neppure del proprio bene. Il cuore puro è il cuore semplice del bambino, che non sa che cosa è bene e che cosa male, il cuore di Adamo prima della caduta, il cuore nel quale non domina la coscienza, ma solo la volontà di Gesù. Chi rinuncia alle proprie azioni buone e malvagie, al proprio cuore, chi vive così nel pentimento e resta unito solo a Gesù avrà un cuore puro per opera della Parola di Gesù. La purezza del cuore è qui il contrario di ogni purezza esteriore, di cui fa parte anche la purezza dei buoni sentimenti. Il cuore puro è puro dal bene e dal male, appartiene indiviso a Cristo, guarda solo a lui che precede. Vedrà Dio solo chi, in questa vita, ha guardato unicamente a Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Il suo cuore è libero da immagini che possano macchiarlo, non è trascinato or qui or lì dalla molteplicità dei propri desideri e delle proprie intenzioni. È tutto intento a guardare Dio. Vedrà Dio colui il cui cuore è divenuto specchio dell’immagine di Gesù Cristo.

«Beati quelli che s’adoprano alla pace, perché essi saranno chiamati figlioli di Dio». I seguaci di Cristo sono chiamati alla pace. Quando Gesù li chiamò essi trovarono la loro pace. Gesù è la loro pace. Ora non devono accontentarsi della loro pace, devono anche farla[5]. Questo vuol dire rinunciare a violenza e ribellione. Queste infatti non servono mai alla causa di Cristo. Il regno di Cristo è un regno di pace, e la comunità di Cristo si scambia il saluto di pace. I discepoli di Gesù mantengono la pace soffrendo loro stessi il male piuttosto di fame ad altri; conservano la comunione dove un altro la rompe, rinunciando all’auto affermazione e subiscono in silenzio odio e ingiustizia. Così vincono il male con il bene. Essi diffondono la pace divina in mezzo ad un mondo che si nutre di odio e di guerra. Ma la loro pace non sarà da nessuna parte maggiore che lì dove vanno incontro al malvagio offrendogli pace e sono pronti a subire del male da parte sua. I pacifici porteranno la croce con il loro Signore: infatti sulla croce fu conclusa la pace. Essendo così attirati nell’opera di pace di Cristo, chiamati a partecipare all’opera del Figlio di Dio, essi stessi saranno chiamati figli di Dio.

«Beati i perseguitati per cagione di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli». Non si parla qui della giustizia di Dio, ma della sofferenza per una causa giusta[6], per il giudizio e l’azione giusta dei discepoli di Gesù. Coloro che seguono Gesù rinunziando a beni terreni, a felicità, al diritto, alla giustizia, all’onore, alla violenza si distingueranno dal mondo nel giudizio e nell’azione, saranno di scandalo al mondo. Perciò i discepoli saranno perseguitati per cagione di giustizia. Il premio delle loro parole ed azioni non sarà riconoscenza, ma riprovazione da parte del mondo. È importante che Gesù chiami beati i suoi discepoli anche lì dove non soffrono direttamente per la testimonianza del suo nome, ma per una causa giusta. È loro rivolta la stessa promessa che ai poveri. Come perseguitati, infatti, sono uguali a questi.

Qui alla fine delle beatitudini sorge la domanda, quale luogo in terra resti ancora a una simile comunità. È chiaro che a loro resta solo un posto, cioè quello dove si trova il più povero, il più esposto alla tentazione, il più mite, la croce sul Golgota. La comunità delle beatitudini è la comunità del Cristo crocifisso. Con lui ha perso tutto e con lui ha trovato proprio tutto. Partendo dalla croce ora si dice: «beati, beati». Ma ora Gesù parla esclusivamente a quelli che possono comprenderlo, ai discepoli, perciò usa la seconda persona: «Beati voi, quando v’oltraggeranno e vi perseguiteranno e mentendo diranno male di voi per causa mia. Gioite ed esultate, perché molta è la vostra ricompensa nei cieli; così infatti perseguitarono i profeti prima di voi». «Per causa mia...» i discepoli vengono ripudiati, ma è Gesù stesso a essere colpito; tutto ricade su di lui, perché essi sono oltraggiati per cagione sua. Egli porta la colpa. L’oltraggio, la persecuzione fino alla morte, la maldicenza sigillano la beatitudine dei discepoli nella loro comunione con Gesù. Non può essere altrimenti, se non che il mondo si sfoghi con parole, violenza, calunnia contro lo straniero mite. Troppo minacciosa, troppo forte è la voce di questi poveri e miti, troppo paziente e silenziosa la loro sofferenza; troppo potentemente la schiera dei discepoli testimonia, mediante povertà e dolore, dell’ingiustizia del mondo. Questo deve essere punito con la morte. Mentre Gesù grida: «Beati, beati! », il mondo grida: «via! via!». Sì, via, ma dove? Nel regno dei cieli. Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande nei cieli. Ecco i poveri nella sala addobbata a festa. Dio stesso asciuga le lacrime versate dagli afflitti in esilio, sazia gli affamati con la sua Cena. I corpi feriti e martoriati ora sono trasfigurati, e al posto delle vesti del peccato e della penitenza portano le vesti bianche dell’eterna giustizia. Da questa eterna letizia già ora una voce giunge alla comunità dei seguaci sotto la croce, la voce di Gesù: «Beati, beati».

 

 

 

La comunità visibile

«Voi siete il sale della terra; ma se il sale diventa insipido, con che lo si salerà? Non serve più ad altro che ad essere buttato via e ad essere calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo. Non si può nascondere una città posta sul monte, né accendono una lucerna e la pongono sotto il maggio, ma sul candelabro, affinché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così splenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Mt. 5,13-16).

La parola è rivolta a coloro che, nelle beatitudini, sono invitati alla grazia di seguire il Cristo crocifisso. Mentre quelli che venivano chiamati beati fino a qui dovevano apparire, sì, degni del regno dei cieli, ma evidentemente del tutto superflui e inadatti alla vita in questa terra, ora vengono caratterizzati con il simbolo del bene più indispensabile sulla terra. Essi sono il sale della terra. Sono il bene più nobile, il massimo valore che la terra possiede. Senza di loro la terra non può sussistere. La terra viene mantenuta per mezzo del sale; essa vive proprio per questi poveri, ignobili, deboli, che il mondo ripudia. La terra distrugge la sua propria vita espellendo i discepoli e - o meraviglia! - la terra può continuare a vivere proprio a causa di questi reietti. Questo «sale divino» (Omero) dà prova della sua efficacia, compenetra tutta la terra. È la sua sostanza. Così i discepoli non sono indirizzati solo verso il regno dei cieli, ma viene loro ricordata la loro missione terrena. Essendo legati unicamente a Gesù, la loro attenzione viene rivolta verso la terra, di cui essi sono il sale. Gesù, non chiamando sale della terra se stesso, ma i suoi discepoli, trasmette a loro la sua opera sulla terra. Egli li rende partecipi della sua attività. La sua azione resta limitata al popolo di Israele, ma ai discepoli egli affida tutta la terra. Solo se il sale resta sale, se conserva la forza del sale che purifica e dà sapore alla terra, la terra potrà essere conservata per opera del sale. Per amore di se stesso e per amore della terra il sale deve restare sale, la comunità dei discepoli deve restare ciò che è in seguito alla chiamata di Gesù Cristo; in questo consisterà la sua vera efficacia in terra, la sua forza conservatrice. Il sale deve essere incorruttibile e così conservare una costante forza purificatrice. Per questo nell’Antico Testamento ci si serve del sale per compiere i sacrifici; per questo nel rito battesimale cattolico si mette del sale nella bocca del bambino (Es. 30,35; Ez. 16,4). Nella incorruttibilità del sale sta la garanzia della durevolezza della comunità.

«Voi siete il sale...», non: siate il sale. Non dipende dalla volontà dei discepoli, se vogliono essere il sale o no. E non è nemmeno loro rivolto un appello di divenire sale della terra. Essi lo sono, lo vogliano o no, grazie alla chiamata che li ha raggiunti. Siete il sale, e non: avete il sale. Sarebbe una riduzione, se si volesse identificare - come fecero i riformatori - il messaggio dei discepoli con il sale. È chiamata in causa la loro esistenza, in quanto con la chiamata di Cristo a seguirlo ha avuto un nuovo fondamento, l’esistenza della quale parlano le beatitudini. Chi, raggiunto dalla chiamata di Gesù, si è messo al suo seguito è, a causa di questa chiamata, sale della terra in tutta la sua esistenza.

C’è un’altra possibilità, però, che il sale perda il suo sapore, cessi di essere sale: allora cessa la sua efficacia, e il sale realmente non serve più a nulla se non a essere gettato via. Questo è il pregio del sale: ogni cosa deve essere salata; ma il sale che perde il suo sapore non può essere mai più salato. Tutto, anche la materia più corrotta, può essere salvato dal sale; solo il sale che ha perso il suo sapore è definitivamente deteriorato. Questo è il rovescio della medaglia. È il giudizio che minaccia la comunità dei discepoli. La terra deve essere salvata dalla comunità, solo la comunità stessa che cessa di essere ciò che è, è irrimediabilmente perduta. La chiamata di Gesù Cristo significa essere sale della terra o essere distrutti, seguire o...; la chiamata stessa annienta il chiamato. Non c’è un’altra possibilità di salvezza. Non può esserci.

Con la chiamata di Gesù ai discepoli non è solo assicurata l’invisibile efficacia del sale, ma anche il visibile splendore della luce. «Voi siete la luce...», e di nuovo: siete la luce. Non può essere altrimenti; essi sono una luce che è visibile; se non fosse così, la chiamata evidentemente non li avrebbe raggiunti. Quale mèta impossibile, insensata sarebbe per i discepoli di Gesù per questi discepoli, voler diventare la luce del mondo! Lo sono già divenuti per mezzo della chiamata, essendo in cammino dietro a Gesù. E di nuovo, non è detto: avete la luce, ma: voi siete la luce. La luce non è qualcosa che vi è stato dato, non è, per es., la vostra predicazione; voi stessi siete la luce. Quello stesso che dice di sé espressamente: «la sono la luce del mondo», dice espressamente ai suoi discepoli: «Voi siete la luce in tutta la vostra vita, in quanto restate fedeli alla chiamata. E dato che lo siete, non potete più rimanere nascosti, anche se lo voleste. Una luce risplende, e la città sul monte non può rimanere nascosta. Non lo può. È visibile da lontano, sia che si tratti di una città fortificata a di un castello ben munito, sia che si tratti solo di qualche rovina». Questa città sul monte - quale Israelita non penserebbe a Gerusalemme, la città «sull’alta montagna?» - è la comunità dei discepoli. I seguaci in tutto ciò non sono più posti di fronte ad una scelta; l’unica scelta per loro possibile è già stata fatta. Ora essi devono essere ciò che sono, o non sono seguaci di Gesù. Quelli che lo seguono sono la comunità visibile, il loro seguire è una azione visibile, che li distingue dal mondo... o non è proprio un seguire Gesù. Seguire Gesù è un’azione altrettanto visibile quanto la luce nella notte e quanto un monte che si eleva in una pianura.

La fuga nell’invisibilità è rinnegamento della chiamata. Una comunità di Gesù che vuol restare comunità invisibile non è più una comunità che segue Gesù. «Non si accende una lampada per metterla sotto il maggio; anzi, la si mette sul candeliere». È di nuovo l’altra possibilità, che la luce sia coperta, che si spenga sotto un maggio, che la chiamata venga rinnegata. Il moggio sotto cui la comunità visibile nasconde la sua luce può essere altrettanto paura degli uomini quanto un cosciente conformismo col mondo per conseguire determinati scopi - siano essi di carattere missionario, siano essi dovuti a un malinteso amore per gli uomini -. Ma potrebbe anche essere - e questo è ancora più pericoloso - una cosiddetta teologia riformata che osa persino chiamarsi theologia crucis e che è caratterizzata dal fatto che alla ‘farisaica’ visibilità preferisce una ‘umile’ invisibilità sotto forma di totale incorporazione nel mondo. In questo caso segno di riconoscimento’ della comunità non è una eccezionale visibilità, ma una sua conferma nella iustitia civilis. Qui il criterio di cristianità è che la luce non splenda. Ma Gesù dice: «La vostra luce risplenda nel cospetto degli uomini». E in ogni caso la luce della chiamata di Gesù splende. Ma che specie di luce è, dunque, quella in cui questi seguaci di Gesù, questi discepoli delle beatitudini devono splendere? Che luce deve venire da quel luogo al quale hanno diritto solo i discepoli? Che cosa ha in comune l’invisibilità e segretezza della croce di Gesù, sotto la quale si trovano i suoi discepoli, con la luce che deve risplendere? Non si dovrebbe dedurre da quella segretezza che anche i discepoli dovrebbero rimanere nascosti e appunto non essere in luce? È un diabolico sofisma quello che dalla croce di Gesù vuole dedurre la conformità della Chiesa col mondo. Il semplice uditore non riconosce forse chiaramente che proprio lì sulla croce è divenuto visibile qualcosa di eccezionale? Oppure tutto ciò sarebbe iustitia civilis, la croce sarebbe conformità con il mondo? La croce non è forse qualcosa che, con sommo turbamento degli altri, proprio in tutta la sua oscurità è divenuta incredibilmente visibile? Non è forse abbastanza visibile che Cristo è respinto e deve patire, che la sua vita finisce fuori delle porte della città sul colle dell’ignominia? Tutto questo sarebbe invisibilità?

In questa luce devono essere viste le buone opere dei discepoli. Non voi, ma le vostre buone opere, ecco ciò che si deve vedere, dice Gesù. Che cosa sono queste buone opere che possono essere viste in questa luce? Non possono essere altro che le opere che Gesù stesso suscitò in loro quando li chiamò, quando li fece luce del mondo sotto la sua croce: essere poveri, stranieri, miti, apportatori di pace, ed infine, essere perseguitati e respinti, ed in tutto ciò una sola cosa: portare la croce di Gesù. La croce è la strana luce che risplende, e in questa sola tutte quelle buone opere dei discepoli possono essere viste. In tutto ciò non è detto che Dio divenga visibile, ma che si vedono le «buone opere» e che, per queste opere, la gente loda Dio. Visibile diventa la croce e visibili diventano le opere della croce, visibili diventano le privazioni e la rinunzia di quelli che sono chiamati beati. Ma nella luce della croce e di questa comunità non si può più lodare l’uomo, ma Dio solo. Se le buone opere fossero varie virtù di uomini, allora per esse non si loderebbe più il Padre, ma il discepolo. Ma così non resta nulla di degno di lode nel discepolo che porta la croce, nella comunità la cui luce risplende ed è visibile sul monte: per le loro «buone opere» solo il Padre celeste può essere lodato. Così vedono la croce e la comunità sotto la croce e credono in Dio. Ma questa è la luce della risurrezione.

La giustizia di Cristo

«Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti; non sono venuto ad abolire, ma a completare. In verità vi dico che fino a quando non passeranno il cielo e la terra, uno iota solo o un solo apice non passerà dalla legge fino a che non sia tutto adempiuto. Chi dunque avrà abolito anche uno solo di questi minimi comandamenti e così avrà insegnato agli uomini, sarà chiamato il più piccolo nel regno dei cieli, ma chi li osserverà ed insegnerà, sarà chiamato grande nel regno dei cieli, poiché vi dico che, se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli scribi e farisei, non entrerete nel regno dei cieli». (Mt.5,17-20).

Non ci si deve certo meravigliare se i discepoli, sentendo dal loro Signore queste promesse, nelle quali era svalutato tutto ciò che agli occhi del popolo aveva valore, ritenevano arrivata la fine della legge. Infatti la Parola era rivolta a loro e li contraddistingueva come uomini a cui era dato semplicemente tutto per libera grazia di Dio, come uomini che ora possedevano tutto, come eredi certi del regno dei cieli. Essi erano in piena comunione personale con il Cristo che rinnovava tutto. Erano il sale, la luce, la città sul monte. E allora tutte le cose vecchie erano passate, erano cambiate. Era, dunque, fin troppo logico che Gesù avrebbe provveduto a fare una netta separazione tra sé e il passato, che avrebbe dichiarata nulla la legge dell’antico patto e, nella sua libertà di Figlio, avrebbe rotto con questa legge e l’avrebbe abolita per la sua comunità. Da quanto precedeva i discepoli potevano pensare come Marcione, che, rimproverando al testo una falsificazione giudaistica, lo cambiò come segue: ‘Credete voi che io sia venuto per compiere la legge o i profeti? Sono venuto per abolirla, non per completarla’. È infinito il numero di coloro che, dopo Marcione, hanno letto e spiegato la parola di Gesù in questo modo. Ma Gesù dice: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti...» Gesù avvalora la legge dell’Antico Testamento.

Come possiamo spiegare questo fatto? Sappiamo che Gesù si rivolge ai suoi seguaci, a quelli che sono vincolati a Gesù Cristo solo. Nessuna legge aveva potuto impedire la comunione di Gesù con i suoi discepoli; questo risultò evidente nell’interpretazione di Lc. 9,57 ss. Seguire Gesù vuoI dire unirsi a lui solo e immediatamente. Eppure qui, del tutto inaspettatamente, Gesù vincola i suoi discepoli alla legge dell’Antico Testamento. Con questo intende dire ai suoi discepoli due cose: che obbedire alla legge non significa ancora seguire Gesù, ma che anche una unione con la persona di Gesù Cristo senza obbedienza alla legge non può essere considerato un seguire Gesù. Egli rimanda quelli, a cui ha rivolto le sue promesse e donato la piena comunione con lui, proprio alla legge stessa. Poiché lui, dietro il quale i discepoli si sono incamminati, osserva la legge, la legge vale pure per loro. Allora sorge la domanda: «Che cosa vale: Gesù o la legge? A che cosa sono vincolato? A lui solo, oppure, nonostante tutto, alla legge? Cristo ha detto che nessuna legge può frapporsi fra lui e i suoi discepoli. Ora dice che un’abolizione della legge significherebbe separazione da lui. Che significa? ».

Si tratta della legge dell’antico patto, non di una legge nuova; ma dell’unica antica legge, alla quale fu rinviato il giovane ricco e il capzioso scriba; poiché essa esprime la manifesta volontà di Dio. Questo comandamento diviene un comandamento solo per il fatto che Cristo vincola i suoi seguaci a questa legge. Non si tratta, dunque, di creare una «legge migliore» di quella dei farisei; è la stessa legge, è la legge che deve restare intatta in ogni sua lettera, deve essere osservata fino alla fine del mondo, deve essere adempiuta fino al più piccolo iota. Ma si tratta certo di una «giustizia maggiore». Chi non ha questa giustizia maggiore non potrà entrare nel regno dei cieli, appunto perché in questo caso si sarebbe allontanato dal cammino al seguito di Gesù, che lo rimanda appunto alla legge. Ma nessuno è in grado di avere questa giustizia maggiore, se non colui a cui è rivolta la Parola, che viene chiamato da Cristo. La condizione per ottenere questa giustizia maggiore è la chiamata di Cristo, è Cristo stesso.

Così si comprende, perché Cristo a questo punto del discorso sulla montagna per la prima volta parla di se stesso. Tra la giustizia maggiore e i discepoli, dai quali Gesù la pretende, si trova lui stesso. Egli è venuto per compiere la legge dell’antico patto. È la premessa per tutto il resto. Gesù fa vedere la sua completa unità con la volontà di Dio espressa nell’Antico Testamento, nella legge e nei profeti. Egli, in realtà, non ha nulla da aggiungere ai comandamenti di Dio; egli li osserva... è l’unica cosa che aggiunge. Egli osserva la legge, ecco ciò che dice di se stesso. Perciò è vero. Egli la compie fino all’ultimo iota. Ma dato che egli la adempie, «tutto è compiuto» ciò che deve accadere per il suo completamento. Gesù farà ciò che la legge richiede, perciò dovrà subire la morte; perché lui solo vede nella legge la legge di Dio, cioè: né la legge stessa è Dio, né Dio stesso è la legge, in modo che la legge sarebbe messa al posto di Dio. Israele aveva frainteso così la legge. La colpa di Israele consisteva nell’aver divinizzato la legge e aver trasformato Dio in legge. Il colpevole malinteso dei discepoli sarebbe, invece, il voler privare la legge della sua origine divina e il separare Dio dalla sua legge. In ambedue i casi Dio e legge erano separati l’uno dall’altra, oppure identificati, il che, in fondo, è lo stesso. Se gli ebrei identificavano Dio e la legge, lo facevano per impadronirsi, con la legge, di Dio stesso. Dio era assorbito dalla legge e non era più il padrone della legge. Se i discepoli pensavano di poter separare Dio dalla sua legge, lo facevano per potersi impadronire di Dio, essendo sicuri della loro salvezza. In ambedue i casi donatore e dono venivano scambiati, si rinnegava Dio con l’aiuto della legge o della promessa della salvezza.

Di fronte ad ambedue questi malintesi Gesù rimette in vigore la legge come legge divina. Dio è donatore e signore della legge, e solo nella comunione personale con Dio la legge viene adempiuta. Non esiste obbedienza completa alla legge senza comunione con Dio, ma nemmeno comunione con Dio senza obbedienza alla legge. La prima osservazione vale per gli Ebrei, la seconda vale per i discepoli che rischiavano di fraintendere il senso della legge.

Gesù Figlio di Dio, che, unico, è pienamente in comunione con Dio, per amore suo rimette in pieno vigore la legge, venendo per compiere la legge dell’antico patto. Essendo l’unico che la osserva pienamente, lui solo poteva insegnare rettamente la legge e il suo compimento. I discepoli dovevano saperlo e comprenderlo, quando gliene parlò, perché sapevano chi egli era. Gli ebrei non potevano capirlo, finché non gli credevano. Perciò dovevano rifiutare il suo insegnamento sulla legge come bestemmia contro Dio, cioè contro la legge. Perciò Gesù, per amore della vera legge di Dio, dovette subire la condanna da parte dei difensori della falsa legge. Gesù muore sulla croce come blasfemo o come trasgressore della legge, perché ha messo in vigore la vera legge, contro la legge fraintesa e falsa.

La legge, dunque, non può essere adempiuta altrimenti, così dice Gesù, che con la crocifissione di Gesù come peccatore. Lui stesso, crocifisso, è il perfetto completamento della legge.

Con ciò è detto che Gesù Cristo, e solo lui, adempie la legge, perché lui solo è in completa comunione con Dio. Egli stesso si pone tra i suoi discepoli e la legge, ma la legge non può porsi fra lui e i suoi discepoli. La via dei discepoli verso l’adempimento della legge passa per la croce di Cristo. Così Gesù vincola di nuovo i suoi discepoli, rimandandoli alla legge, che lui solo adempie. Egli deve rifiutare la comunione senza la legge, perché sarebbe solo esaltazione, e quindi non un vero vincolo; anzi, sarebbe un completo svincolamento. La preoccupazione dei discepoli, che un loro vincolo con la legge possa separarli da Dio, viene dissipata. Essa potrebbe solo nascere dal fraintendimento della legge, la quale realmente separava gli ebrei da Dio. Invece qui diviene evidente che una vera unione con Gesù può essere data in dono solo a chi si vincola alla legge.

Se ora Gesù sta tra i suoi discepoli e la legge, non è certo per dispensarli di nuovo dall’osservanza della legge, ma per sottolineare la sua pretesa di adempimento della legge. Proprio perché legati a Gesù, i discepoli sono sottoposti alla stessa obbedienza. E altrettanto, con l’adempimento del minimo iota della legge, questo iota non è affatto liquidato per i discepoli. È compiuto, ecco tutto. Ma proprio perciò ora è in pieno vigore, così che un giorno sarà detto grande nel regno dei cieli chi mette in pratica e insegna la legge, «mette in pratica e insegna»...; si potrebbe anche pensare ad un insegnamento della legge che dispensi dall’azione, volendo solo che la legge serva, perché ci si renda conto che è impossibile osservarla. Ma tale dottrina non proviene da Gesù. La legge deve essere osservata, come lui l’ha osservata. Chi vuole seguire lui, che ha osservato la legge, seguendolo osserva e insegna la legge. Solo chi osserva la legge può restare in comunione con lui.

Non è la legge a distinguere i discepoli dall’ebreo, ma la «giustizia maggiore». La giustizia dei discepoli ‘eccelle’ su quella degli scribi. La supera, è qualcosa di straordinario, di singolare. Qui viene per la prima volta fatto cenno al concetto di  [perisséuein], che nel versetto 47 acquisterà grandissima importanza. Dobbiamo chiedere: in che cosa consisteva la giustizia dei farisei? In che consiste la giustizia dei discepoli? Il fariseo certo non era mai caduto nell’errore di credere che, contrariamente alla scrittura, bastasse insegnare la legge senza osservarla. Il fariseo voleva osservare la legge. La sua giustizia consisteva nell’adempimento immediato e letterale di ciò che la legge ordina. La sua giustizia era data dall’azione. La sua meta era la totale conformità della sua azione con quanto la legge ordina. Ciononostante doveva sempre restare una parte che aveva bisogno del perdono. La sua giustizia resta incompleta, anche la giustizia dei discepoli poteva consistere solo nell’adempimento della legge. Nessuno, che non osservasse la legge, poteva essere chiamato giusto. Ma l’azione del discepolo supera quella dei farisei per il fatto che è realmente giustizia perfetta di fronte a quella imperfetta dei farisei. Come? La superiorità della giustizia del discepolo consiste nel fatto che tra lui e la legge sta colui che ha completamente adempiuto la legge, e che il discepolo vive in comunione con lui. Egli si è trovato non di fronte ad una legge incompiuta, ma di fronte ad una legge compiuta. Prima che egli incominci ad obbedire alla legge, la legge è già compiuta, è già stato soddisfatto alla legge in pieno. La giustizia richiesta dalla legge c’è già; è la giustizia di Gesù, che si lascia crocifiggere per amore della legge. Ma poiché questa giustizia non è solo un bene che deve essere messo in atto, ma è proprio la vera comunione personale con Dio, perciò Gesù non ha solo la giustizia, ma è lui stesso la giustizia. Egli è la giustizia dei discepoli. Per mezzo della sua chiamata Gesù ha reso i suoi discepoli partecipi di se stesso, ha loro donato la comunione con lui, li ha resi partecipi della sua giustizia, ha loro donato la sua giustizia. La giustizia dei discepoli è la giustizia di Cristo.

Solo per dire questo Gesù inizia le sue parole sulla «giustizia maggiore» con un richiamo all’adempimento della legge da parte sua. Ma la giustizia di Dio è veramente anche la giustizia dei discepoli. Certo, nel senso stretto della parola, resta giustizia donata, donata mediante la chiamata a seguirlo. È la giustizia che consiste appunto nel camminare dietro a lui, e già nelle beatitudini a questo viene promesso il regno dei cieli. La giustizia dei discepoli è giustizia sotto la croce. È la giustizia dei poveri, dei tentati, degli affamati, dei miti, degli apportatori di pace, dei perseguitati... per la chiamata di Gesù, la giustizia visibile di coloro che appunto in ciò sono la luce del mondo e la città sulla montagna... per la chiamata di Gesù. In questo la giustizia dei discepoli è ‘maggiore’ di quella dei farisei, perché si basa solo sull’invito a entrare in comunione con colui che, solo, ha compiuto la legge; in questo la giustizia dei discepoli è vera giustizia, che essi stessi ora fanno la volontà di Dio, osservano la legge. Anche la giustizia di Cristo non deve essere solo insegnata, ma messa in atto. Altrimenti non è maggiore della legge solo insegnata, ma non osservata. Tutto quanto segue si riferisce a questa messa in atto della giustizia di Cristo da parte dei discepoli. Detto in una parola: al cammino dietro a Gesù. È l’azione reale, semplice, compiuta nella fede nella giustizia di Cristo. La giustizia di Cristo è la nuova legge, la legge di Cristo.

 

Il fratello

«Avete sentito che fu detto agli antichi: Non uccidere e chiunque avrà ucciso sarà condannato dal tribunale, ma io vi dico che, chiunque si adiri contro il suo fratello, sarà condannato dal tribunale, e chi dice al suo fratello: stolto, sarà punibile nella Geenna del fuoco. Se dunque stai offrendo il tuo dono sull’altare e lì ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’ altare, vai prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna e offri il tuo dono. Mettiti subito d’accordo con il tuo avversario, finché sei con lui in cammino, affinché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice al ministro e tu sia messo in carcere. In verità, ti dico, non ne uscirai fino a quando non avrai pagato l’ultimo spicciolo» (Mt. 5,21-26).

«Ma io vi dico...». Gesù riassume tutto ciò che ha detto della legge. Da quanto precede è evidente che non si possono attribuire a Gesù pensieri rivoluzionari o un confronto di opinioni come si usava tra i rabbini. Gesù, a seguito di quanto detto, esprime la sua unanimità con la legge del patto mosaico, ma, proprio nella vera unanimità con la legge di Dio, fa vedere che egli, il Figlio di Dio, è Signore e dato re della legge. Solo chi sente nella legge la parola di Cristo, la può osservare. Il fraintendimento peccaminoso dei farisei non doveva più sussistere. Solo riconoscendo in Cristo il signore e adempitore della legge, si può veramente conoscere la legge. Cristo ha messo la sua mano sulla legge, egli la rivendica a sé. E con ciò fa quello che la legge veramente richiede. Ma con questa sua unanimità con la legge egli si inimica la falsa interpretazione della legge. Onorando la legge egli si dà in mano ai falsi zelanti della legge.

La legge sulla quale Gesù richiama in primo luogo l’attenzione dei suoi seguaci, vieta loro l’omicidio e affida loro il fratello. La vita del fratello è data da Dio ed è nella mano di Dio; solo Dio ha potere su vita e morte. L’omicida non può rimanere nella comunità di Dio. Egli incorre nel giudizio, che lui stesso esercita. Che il fratello, posto così sotto la protezione del comandamento divino, non è solo il fratello nella comunità, lo si deduce senza alcun dubbio dal fatto che il seguace di Gesù non può lasciare che la sua azione venga determinata dalla qualità dell’altro, ma solo da colui che egli segue in piena obbedienza. Al seguace di Cristo è vietato uccidere, pena il giudizio divino. La vita del fratello è, per chi segue Gesù, il limite oltre il quale non può andare. Ma questo limite viene già infranto dall’ira, tanto più da una cattiva parola che ci scappa (racha = stolto), ed infine dal cosciente oltraggio dell’altro. Ogni espressione d’ira attenta alla vita dell’altro, non gli concede la vita, cerca di distruggerlo. Non si può nemmeno fare una distinzione tra cosiddetta ira giusta e ira ingiusta[7]. Il discepolo non deve neppure conoscere l’ira, perché in essa egli si rende colpevole verso Dio e verso il fratello. La parola che ci sfugge così facilmente di bocca e che prendiamo tanto alla leggera, dimostra che non rispettiamo il prossimo, che ci sentiamo superiori e stimiamo la nostra vita più della sua. Questa parola è un colpo inferto al fratello; un tiro al suo cuore. Vogliamo che essa colpisca, ferisca, distrugga. Il cosciente oltraggio toglie al fratello il suo onore anche in pubblico, lo vuole rendere spregevole anche agli occhi degli altri, mira, nel suo odio, a distruggere la sua esistenza esteriore e interiore. lo eseguo la sua sentenza. Questo è omicidio. L’omicida incorre nel giudizio.

Chi si adira con il fratello, chi gli dice una cattiva parola, chi lo oltraggia, o calunnia in pubblico, come omicida non può rimanere al cospetto di Dio. Separandosi dal fratello si è separato da Dio. Egli non ha più accesso a Dio. Il suo sacrificio, il suo culto, la sua preghiera non potrà più piacere a Dio. Per il seguace di Cristo il culto reso a Dio non potrà mai più essere separato dal servizio al fratello, come invece era il caso per il rabbino. Il disprezzo del fratello rende falso il culto a Dio e gli toglie ogni promessa divina. Sia il singolo che la comunità che vogliono presentarsi a Dio con il cuore pieno di disprezzo o non riconciliato, si prendono gioco di Dio come di un idolo. Finché si rifiuta al fratello il servizio e l’amore, finché il fratello resta esposto al disprezzo, finché egli può avere qualcosa da rimproverare a me o alla comunità, il sacrificio non può essere accettato. Non solo la mia ira, ma semplicemente il fatto che c’è un fratello che «ha qualcosa contro di me», si pone fra me e Dio. E perciò la comunità dei discepoli di Gesù esamini se stessa, se non deve sentirsi, in qualche punto, in colpa verso il fratello, se non ha partecipato, per compiacere al mondo, all’odio, al disprezzo, all’oltraggio e si è resa colpevole di omicidio del fratello. Perciò la comunità di Gesù si esamini oggi, se, nel momento in cui si presenta a Dio in preghiera e culto, non si alzano numerose voci di accusa e si pongono fra lei e Dio e impediscono la sua preghiera. Perciò la comunità di Gesù si esamini se ha dato a quelli che sono stati disonorati e disprezzati dal mondo un segno dell’amore di Gesù, che vuole conservare, sostenere, proteggere la vita. Altrimenti non le servirebbe il culto più corretto, la preghiera più pia, la confessione più coraggiosa; tutto questo testimonierebbe contro di lei, perché essa ha cessato di seguire Gesù. Dio non vuole lasciarsi separare dal nostro fratello. Non vuole essere onorato se un fratello è disonorato. Egli è il padre, sì il Padre di Gesù Cristo, che divenne fratello di noi tutti. Qui è da ricercare la vera ragione per la quale Dio non si vuol lasciar separare dal fratello. Il suo figlio corporale fu disonorato, disprezzato per l’onore del Padre. Ma il Padre non si lascia separare da suo Figlio, perciò non vuol nemmeno essere separato da quelli con i quali suo Figlio si è identificato, per i quali suo Figlio è stato oltraggiato. A causa dell’incarnazione del Figlio di Dio non è più possibile separare il culto reso a Dio dal servizio del fratello. Chi afferma di amare Dio e ciononostante odia il fratello, mente.

Perciò chi vuol celebrare un culto sincero, stando al seguito di Gesù, ha una via sola, la via della riconciliazione con il fratello. Chi si presenta ad ascoltare la Parola e a celebrare la Santa Cena con cuore non riconciliato si espone al giudizio. Egli al cospetto di Dio è un omicida. Perciò «va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna e offri il tuo dono». La via che Gesù pretende da chi lo vuole seguire, è difficile. Richiede la accettazione di essere molto umiliati e oltraggiati. Ma è la via che porta a lui, al fratello crocifisso, e perciò una via piena di grazia. In Gesù il servizio del minimo dei fratelli e il culto reso a Dio sono tutt’uno. Egli andò e si riconciliò con il fratello e poi offrì al Padre l’unico vero sacrificio, se stesso.

Ancora siamo in tempo di grazia, perché abbiamo ancora un fratello, siamo ancora «in cammino con lui». Davanti a noi è in attesa il giudizio e ancora possiamo metterci d’accordo con il fratello, ancora possiamo pagare i debiti ai nostri creditori. Viene l’ora in cui cadiamo in mano al giudice. Allora è troppo tardi, allora diritto e castigo saranno fatti valere fino all’ultimo centesimo. Comprendiamo che ai discepoli di Gesù il fratello non è dato perché divenga per loro una legge, ma per grazia? È grazia poter accondiscendere al fratello, dargli quello che gli spetta; è grazia poterci riconciliare con il fratello. Il fratello è la nostra grazia di fronte al giudizio.

Così può parlarci solo colui che, essendo nostro fratello, è divenuto la nostra grazia, la nostra riconciliazione, la nostra salvezza di fronte al giudizio. Nell’umanità del Figlio di Dio ci viene donata la grazia di avere un fratello. O se i discepoli di Gesù riflettessero molto su questo fatto!

Il servizio reso al fratello, che si mette d’accordo con lui e gli lascia quel che gli spetta, rispetta la sua vita, è la via della rinunzia a se stessi, la via verso la croce. Nessuno ha amore più grande che quello di dare la sua vita per i suoi amici. Questo è l’amore del Cristo crocifisso. Così questa legge viene adempiuta solo nella croce di Gesù.

 

La donna

«Avete sentito che fu detto: Non commettere adulterio, ma io vi dico che, chiunque guarda un donna per bramarla, ha già commesso adulterio con essa, nel suo cuore. Ora, se il tuo occhio destro ti scandalizza, cavalo e gettalo via da te, perché è meglio per te che uno dei tuoi membri perisca, piuttosto che tutto il tuo corpo sia gettato nella Geenna. E se la tua mano destra ti scandalizza, tagliala e gettala via da te, perché è meglio per te che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che !’intero corpo vada nella Geenna. È stato pure detto: Chi rimanda la propria moglie, le dia l’atto di ripudio, ma io vi dico che, chiunque rimanda sua moglie, eccetto in caso di fornicazione, la espone all’adulterio, e chi sposerà una ripudiata, commette adulterio» (Mt. 5,27-32).

La comunione con Gesù Cristo non consente nessuna brama che non sia accompagnata da amore; la nega a chi segue Gesù. Dato che seguire Gesù è rinnegamento di se stessi e totale unione con Gesù, il discepolo non può dare, in nessun punto, libero corso alla propria volontà dominata dalla brama. Una tale brama, e si trattasse anche solo di un fuggevole sguardo, allontana dalla via al seguito di Gesù e conduce alla Geenna tutto il corpo. Con essa l’uomo vende la sua celeste primogenitura per un piatto di lenticchie di voluttà. Egli non crede a colui che al posto del godimento negato può dare un piacere centuplo. Egli non si fida di ciò che non vede, ma afferra il frutto visibile del godimento. Così precipita dal cammino dietro a Gesù e viene separato da lui. L’impurità della brama è segno di incredulità. Solo per questo è riprovevole. Nessun sacrificio che il seguace compirà per essere liberato da questo desiderio che separa da Cristo, è troppo grande. L’occhio vale meno di Cristo, e la mano vale meno di Cristo. Se occhio e mano sono schiavi del piacere e impediscono a tutto il corpo di seguire Gesù con purezza, bisogna sacrificare queste parti del corpo piuttosto che Gesù Cristo. Il guadagno ricavato dal piacere è minimo di fronte al danno. Guadagni il piacere della mano e dell’occhio per un attimo, e rovini il tuo corpo per sempre. Il tuo occhio, servendo l’impura brama, non può guardare Dio.

Ma a questo punto la domanda, se Gesù intende che il suo comandamento venga preso alla lettera o in senso traslato, non è forse veramente decisiva? Tutta la nostra vita non dipende forse da una chiara risposta a questa domanda? Di fronte all’atteggiamento dei discepoli non è già data pure la risposta? In questa scelta, apparentemente così decisiva, la nostra volontà ci consiglia di evitare la decisione. Ma la domanda stessa è sbagliata e cattiva. Non può trovare risposta. Se infatti si dicesse: «naturalmente non lo si deve prendere alla lettera», saremmo già sfuggiti alla rigorosità del comandamento. Se invece si dicesse: «naturalmente bisogna prenderlo alla lettera», non sarebbe manifesta solo la fondamentale assurdità dell’esistenza cristiana, e così il comandamento sarebbe abolito. Proprio perché questa domanda di principio non trova risposta, siamo afferrati completamente dal comandamento di Gesù. Non c’è via d’uscita. Veniamo bloccati e dobbiamo ubbidire. Gesù non costringe i suoi discepoli a una lotta inumana, egli non proibisce di guardare, ma dirige lo sguardo del discepolo su di sé e sa che qui lo sguardo resta puro, anche se poi si posa sulla donna. Egli non impone ai suoi discepoli il giogo insopportabile della legge, ma nella sua misericordia li aiuta per mezzo dell’Evangelo.

Gesù non spinge i suoi seguaci al matrimonio. Ma egli santifica il matrimonio secondo la legge, dichiarandolo indissolubile; e se uno dei coniugi si separa dall’altro per adulterio, Gesù nega all’altro un secondo matrimonio. Mediante questo comandamento Gesù libera il matrimonio dalla voluttà malvagia ed egoista; egli vuole che sia vissuto come servizio d’amore, com’è possibile solo a chi segue Gesù. Gesù non biasima il corpo ed i suoi desideri naturali, ma respinge l’incredulità che vi è nascosta. Egli non scioglie il matrimonio, ma lo rafforza e santifica mediante la fede. Perciò il suo seguace deve conservare, nella disciplina e nel rinnegamento di sé, anche nel suo matrimonio il vincolo che lo lega unicamente a Gesù. Cristo è il signore anche del suo matrimonio. Che così il matrimonio del discepolo è diverso dal matrimonio civile non è segno di disprezzo del matrimonio, ma proprio la sua santificazione.

Pare che Gesù, pretendendo l’indissolubilità del matrimonio, sia in contrasto con la legge dell’Antico Testamento. Ma egli spesso fa vedere (Mt. 19,8) la sua concordanza con il comandamento mosaico. «Per la durezza del cuore...» agli Israeliti era permesso divorziare, cioè solo per salvare il loro cuore da una dissolutezza ancora più grave. L’intenzione della legge dell’ Antico Testamento corrisponde a quella di Gesù, nel senso che anche lui vuole la purezza del matrimonio, vuole il matrimonio vissuto nella fede in Dio. Ma questa purezza, cioè castità, è conservata nella comunità di Gesù da chi lo segue.

Dato che a Gesù importa solo la perfetta purezza, cioè la castità dei suoi discepoli, egli deve dire che è lodevole anche la completa rinunzia al matrimonio per amore di Dio. Gesù non fa del matrimonio o celibato un «programma di vita», ma egli libera i suoi discepoli dalla porneia, dalla prostituzione nel matrimonio e fuori del matrimonio, la quale non è colpa solo di fronte al proprio corpo, ma anche di fronte al corpo di Cristo stesso (1 Cor. 6,13-15). Anche il corpo del discepolo appartiene a Gesù Cristo e al compito di seguirlo; i nostri corpi sono membra del suo corpo. Poiché Gesù, il Figlio di Dio, ebbe un corpo umano e poiché noi siamo in comunione con il suo corpo, la prostituzione è peccato verso lo stesso corpo di Cristo.

Il corpo di Cristo fu crocifisso. L’apostolo dice che quelli che appartengono a Cristo crocifiggono il corpo con le sue passioni (Col. 5,24). Perciò anche questa legge dell’Antico Testamento può trovare il suo compimento solo nel corpo crocifisso e martoriato di Gesù Cristo. La vista di questo corpo dato per loro e la comunione con esso è la forza dei discepoli per mantenersi casti come Gesù ordina.

 

La veracità

«Avete ancora udito che fu detto agli antichi: Non spergiurare, ma mantieni i tuoi giuramenti al Signore; ma io vi dico di non giurare affatto, né per il cielo né per il trono di Dio, né per la terra perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme perché è la città del gran re, né giurerai per il tuo capo perché non potrai far bianco o nero un sol capello. Sia invece il vostro parlare: sì sì, no no; quello che c’è di più vien dal maligno» (Mt.5,33-37).

L’esegesi di questi versetti, nelle chiese cristiane, fino ad oggi è assai incerta. Sin dalla chiesa antica c’è un immenso divario tra chi rigorosamente rifiuta ogni giuramento come peccato e chi, più mite, rifiuta solo il giuramento troppo superficiale e lo spergiuro. Nella chiesa antica la maggioranza aderiva all’opinione che il giuramento è vietato ai cristiani ‘perfetti’, ma che per i più deboli è ammissibile entro certi limiti. Tra gli altri anche S. Agostino era di questa opinione. Nel giudizio sul giuramento egli era d’accordo con filosofi pagani come Platone, i Pitagorici, Epitteto, Marco Aurelio. Questi consideravano il giuramento come un atto indegno di un animo nobile. Le chiese della Riforma nelle loro confessioni hanno ritenuto che la Parola di Gesù naturalmente non riguarda il giuramento preteso dalle autorità civili. Gli argomenti principali addotti sin dall’inizio erano che l’Antico Testamento ordina di giurare e che Gesù stesso ha giurato davanti al tribunale, che l’apostolo Paolo si serve più volte di formule simili a un giuramento. Per i riformatori, accanto alla dimostrazione tratta direttamente dalle Scritture, ha avuto importanza decisiva la distinzione tra regno spirituale e regno terreno.

Che cos’è il giuramento? È l’invocazione pubblica di Dio a testimone di un’affermazione fatta su cose passate, presenti o future. Dio l’onnisciente punisca la menzogna. Com’è possibile che Gesù chiami questo giuramento peccato, anzi «dal maligno», (ek tou ponerou), ‘satanico’? Perché a Gesù importa l’assoluta veracità. Il giuramento è la dimostrazione della menzogna nel mondo. Se l’uomo non potesse mentire, non ci sarebbe bisogno di giuramento. Così il giuramento è, sì, un argine alla menzogna, ma la promuove pure; infatti lì dove il giuramento pretende di essere l’unico ad attestare la piena verità, si fa pure posto alla menzogna, alla quale viene concesso un certo diritto di esistenza. La legge dell’Antico Testamento rifiuta la menzogna, mediante il giuramento; Gesù invece rifiuta la menzogna proibendo il giuramento. Qui come lì è in gioco tutto, la distruzione della menzogna nella vita del credente. La menzogna si è impadronita del giuramento, che l’Antico Testamento opponeva alla menzogna, e se ne serve ora per i propri scopi. Essa è riuscita ad assicurarsi un posto e dei diritti persino per mezzo del giuramento. Perciò Gesù deve raggiungere la menzogna lì dov’essa si rifugia, nel giuramento. Il giuramento deve essere abolito, perché divenuto rifugio della menzogna.

L’attentato della menzogna al giuramento poteva essere perpetrato in due modi: o affermandosi dietro il giuramento (spergiuro) o penetrando di soppiatto nella formula stessa del giuramento. In questo caso la menzogna nel giuramento si serve non solo dell’invocazione del Dio vivente, ma invoca una qualche potenza terrena o divina. Se la menzogna è penetrata tanto profondamente nel giuramento, la piena verità può essere garantita solo dal divieto di giurare.

Sia il vostro parlare: sì sì, no no. Con ciò la parola del discepolo non viene certo sottratta alla responsabilità di fronte a Dio onnisciente. Anzi, proprio perché non viene invocato espressamente il nome di Dio, ogni parola del discepolo si trova a essere pronunciata al cospetto di Dio. Dato che non c’è parola che non venga pronunciata davanti a Dio, il discepolo di Gesù non deve giurare.’ Ogni sua parola non sia altro che verità, così che non ci sia bisogno della conferma mediante un giuramento. Il giuramento, infatti, getta l’ombra del dubbio su ogni altra sua parola. Perciò esso viene «dal maligno». Ma il discepolo in tutte le sue parole dev’essere luce.

Per quanto così il giuramento sia respinto, si capisce tuttavia chiaramente che l’unica mèta che importa è la verità. È ovvio che il comandamento di Gesù non ammette eccezione, non importa davanti a quale assemblea ci si trovi. Ma si deve pure dire che il rifiuto del giuramento stesso non deve servire, a sua volta, a coprire la verità. Dove accade questo, cioè dove proprio per amore di verità è necessario il giuramento, non si può decidere una volta per tutte, ma ognuno dovrà decidere per sé. Le chiese della Riforma ritengono che questo sia il caso di ogni giuramento richiesto dalle autorità terrene. Resta aperto, se veramente è possibile prendere una decisione così in generale.

Ma non c’è dubbio che, lì dove si crede che sia il caso di giurare, lo si può fare solo, in primo luogo se è ben chiaro ed evidente che cosa è veramente incluso nel giuramento; in secondo luogo bisogna distinguere tra giuramenti che riguardano dati di fatto passati o presenti a noi noti e quelli che hanno carattere di voto. Poiché il cristiano non può mai escludere un errore nella conoscenza delle cose passate, l’invocazione del Dio onnisciente non avrà più per lui valore di conferma delle sue affermazioni, soggette a errore, ma dell’onestà delle sue cognizioni e della sua coscienza. Dato che, però, il cristiano non dispone mai del suo futuro, una promessa fatta con giuramento, per es. un giuramento di fedeltà, sarà in partenza minacciato da gravi pericoli. Infatti il cristiano non solo non ha in mano il suo proprio futuro, ma tanto meno il futuro di colui che lo lega con un giuramento di fedeltà. Dunque per amor della verità e dell’impegno di seguire Cristo non è assolutamente possibile fare un simile giuramento senza sottoporlo alla riserva della sapienza di Dio. Per il cristiano non esiste alcun legame terreno assoluto. Un giuramento di fedeltà che intende legare per sempre il cristiano è per questo una menzogna, proviene «dal maligno». L’invocazione del nome di Dio in un giuramento simile non potrà mai essere conferma della promessa, ma semplicemente la testimonianza del fatto che, seguendo Gesù, dipendiamo esclusivamente dalla volontà di Dio e che per ogni altro legame per amore di Gesù vale questa riserva. Se questa riserva, in casi di dubbio, non viene espressa o non viene riconosciuta, non si deve giurare, perché appunto con questo giuramento inganno colui al quale lo faccio. Sia il vostro parlare: sì sì, no no.

Il comandamento dell’assoluta veridicità è solo una nuova espressione della totalità dell’impegno a seguire Gesù. Solo chi è impegnato a seguirlo è pienamente verace. Non ha nulla da nascondere al suo Signore. Vive completamente allo scoperto davanti a lui. È riconosciuto da Cristo e posto nella verità. È manifesto a Cristo, come peccatore. Non è stato lui a manifestarsi a Cristo, ma quando Gesù gli si manifestò nella sua chiamata, egli sapeva di essere completamente allo scoperto davanti a Cristo nel suo peccato. Veracità assoluta è possibile solo in seguito alla manifestazione del peccato, che è perdonato da Gesù. Solo chi, confessando il suo peccato, sta davanti a Cristo nella verità, non si vergogna della verità, dovunque debba essere confessata. La veracità che Gesù pretende dai suoi discepoli, consiste nel rinnegamento di sé, che non cerca di nascondere il peccato. Tutto è manifesto e chiaro. Poiché la veracità in ultimo e in primo luogo richiede che l’uomo sia nudo in tutto il suo essere, nella sua malvagità, davanti a Dio, la veracità suscita l’opposizione dei peccatori, perciò viene perseguitata e crocifissa. La veracità del discepolo trova la sua unica ragione nel fatto che egli segue Gesù che ci manifesta sulla croce il nostro peccato. Solo la croce, che è la verità di Dio su di noi, ci rende veritieri. Chi conosce la croce non teme più alcun’altra verità. Chi vive sotto la croce non si occupa più del giuramento come legge per ristabilire la verità; infatti egli è nella perfetta verità di Dio. Non c’è verità al cospetto di Gesù senza verità davanti agli uomini. La menzogna distrugge la comunità. La verità, invece, divide le false comunità e crea una vera fraternità. Non si può seguire Gesù senza vivere nella verità scoperta davanti a Dio e agli uomini.

 

La retribuzione

«Avete sentito che fu detto: ,occhio per occhio e dente per dente, ma io vi dico di non resistere al maligno. Anzi a chi ti schiaffeggia nella guancia destra, porgi anche l’altra, e a chi vuol contendere con te e prendere la tua tunica, lascia anche il mantello, e chiunque ti costringe a seguirlo per un miglio, fanne con lui due. A chi ti chiede dà e non voltare le spalle a chi vuol prendere in prestito da te». (Mt. 5,38-42).

Gesù coordina qui le parole «Occhio per occhio, dente per dente» con i comandamenti dell’Antico Testamento sopra citati, per es. anche con il divieto di uccidere, preso dal decalogo. Egli vi riconosce dunque un indubbio comandamento di Dio, pari all’altro. Come quello non può essere abolito, ma deve essere compiuto fino in fondo. La nostra degradazione dei comandamenti dell’Antico Testamento a favore del decalogo è ignota a Gesù Cristo. Per lui il comandamento dell’Antico Testamento è uno solo, e perciò invita i suoi discepoli ad osservarlo.

I seguaci di Gesù vivono per amor suo rinunciando ad ogni proprio diritto. Egli li proclama beati perché miti. Se essi volessero, dopo aver rinunciato a tutto per amore della comunione con lui, ritenere per sé questo bene, essi avrebbero cessato di seguirlo. Così, invece, qui non accade null’altro che una estensione delle beatitudini.

La legge dell’Antico Testamento pone il diritto sotto la protezione divina della retribuzione. Non deve esserci alcun male senza essere ripagato. Infatti si tratta di creare una vera comunità, di vincere il male e di dimostrarlo, di eliminarlo dalla comunità del popolo di Dio. Questo è lo scopo del diritto che si afferma mediante la vendetta.

Gesù fa sua questa volontà di Dio e accetta il potere della vendetta, atta a provare il male e a vincerlo, e ad assicurare così la comunità dei discepoli, il vero Israele. La giusta vendetta serve a rimuovere l’ingiustizia, conferma il discepolo nel suo cammino dietro a Gesù. Tale giusta vendetta consiste, secondo la Parola di Gesù, solo nel non resistere al male.

Con questa Parola Gesù scioglie la sua comunità dall’ordinamento politico-legale, dalla struttura nazionale del popolo d’Israele e la rende quella che è veramente, cioè la comunità dei credenti indipendente da legami politico-nazionali. Se per volontà divina nel popolo di Israele eletto da Dio, che allo stesso tempo aveva anche una struttura politica, la vendetta consisteva nel rispondere ad una percossa con una percossa, per la comunità dei discepoli che non possono più avanzare alcuna pretesa politico-legale, essa consiste nel subire pazientemente le percosse, perché al male non si aggiunga altro male. Solo così viene fondata e mantenuta la comunità.

Qui si vede chiaramente come il seguace di Gesù, che ha subìto un’ingiustizia, non tiene al proprio diritto più che a un qualunque possesso da difendere in ogni caso; egli, completamente libero da ogni possesso, è legato unicamente a Gesù Cristo, e appunto testimoniando del suo legame con Gesù, crea l’unico fondamento possibile per la comunità e lascia in mano a Gesù il peccatore.

Si può vincere l’altro, solo lasciando che la sua malvagità si sfinisca in sé, non trovando ciò che cerca, cioè l’opposizione e con questa dell’altro male, al quale infiammarsi sempre più. Il male diviene impotente se non trova alcun oggetto, alcuna opposizione, ma viene subìto e sofferto pazientemente. Qui il male si incontra con un avversario più forte di lui; certo, però, solo lì dove è annullato anche l’ultimo resto di opposizione, dove la rinuncia a rendere male per male è totale. Il male qui non può raggiungere il suo scopo di generare altro male; resta solo.

La sofferenza passa, se viene accettata. Il male cessa se noi lo sopportiamo senza difenderci. Disonore e diffamazione dimostrano la loro peccaminosità, se il seguace di Cristo non ricambia con la stessa moneta, ma sopporta senza difendersi. La violenza trova il suo giudizio nel fatto che non si oppone alcuna violenza. L’ingiustizia della pretesa di prendere la mia tunica è messa a nudo lì dove aggiungo anche il mantello; lo sfruttamento del servizio da me reso è messo in luce come tale lì dove io non gli pongo limiti. La disponibilità a cedere tutto a chi ce lo chiede, è la disponibilità ad accontentarsi di Cristo solo e a seguire lui solo. La incondizionata unione del discepolo con il suo Signore, la libertà, la liberazione dal proprio io si afferma e conferma nella volontaria rinunzia a difendersi. Ed appunto solo nell’esclusività di questa unione il male può essere vinto.

Ma non si tratta solo del male, si tratta del malvagio. Gesù chiama malvagio il malvagio. Il mio atteggiamento non deve essere di discolpa e giustificazione del violento, dell’oppressore; non devo agire come se volessi, col subire passivamente il male, esprimere la mia comprensione per il diritto del malvagio. Gesù non ha nulla a che vedere con queste considerazioni sentimentali. La percossa offensiva, la violenza, lo sfruttamento restano un male. Il discepolo deve saperlo e testimoniarlo, come Gesù lo testimonia, appunto perché il malvagio altrimenti non viene colpito e vinto. Ma proprio perché è il male ingiustificabile a opporsi al discepolo, il discepolo non deve resistergli, ma subendolo porre fine al male e vincere in questo modo il malvagio. La sofferenza accettata di buon grado è più forte del male, è la morte del male.

Non si può, dunque, nemmeno immaginare un’azione nella quale il male sia tanto grande e forte da rendere, un bel momento, necessario un atteggiamento del cristiano diverso. Quanto più terribile è il male, tanto più pronto a soffrire sia il discepolo. Il malvagio deve cadere nelle mani di Gesù. Non io devo trattare con lui, ma Gesù.

L’interpretazione della Riforma ha introdotto a questo punto un pensiero nuovo e decisivo, che cioè bisogna distinguere tra il male che viene inferto a me personalmente e quello che mi tocca nella mia carica, cioè nella responsabilità affidatami da Dio. Se nel primo caso devo agire come mi ordina Gesù, nel secondo invece ne sono dispensato, anzi, il vero amore mi impone di agire proprio nel senso contrario, cioè di opporre violenza a violenza per resistere all’irruzione del male. Da qui si giustifica la presa di posizione della Riforma di fronte alla guerra e di fronte ad ogni impiego dei mezzi pubblici legali per rimuovere il male. Ma Gesù non fa questa distinzione tra persona privata e pubblico funzionario, in base alla quale decidere il proprio atteggiamento. Non ne fa motto. Egli si rivolge ai suoi seguaci come a persone che hanno abbandonato tutto per seguirlo. «Sfera privata» e «sfera ufficiale» dovrebbero essere completamente sottoposte al comandamento di Gesù. La Parola di Gesù si era rivolta a loro nella loro totalità; egli pretende un’obbedienza senza discriminazione. Infatti la suddetta distinzione si trova di fronte ad una difficoltà insolubile. Dove, nella realtà della vita, si è solo persona privata e dove solo pubblico funzionario? Non sono forse, dovunque mi si attacchi, sempre allo stesso tempo padre dei miei figli, predicatore della mia comunità, uomo di stato del mia popolo? Non sono, perciò, in obbligo di respingere ogni attacco, appunto per la responsabilità di fronte all’ufficio che ricopro? Ma non sono d’altro canto anche nel mio ufficio sempre io stesso, io che mi trovo di fronte a Gesù come singolo? Fare la suddetta distinzione non è forse segno che ci si è dimenticati che il seguace di Gesù è sempre completamente solo, l’uomo isolato che, in ultima analisi, non può che agire e decidere sempre solo per se stesso? e che proprio in questa azione sta la più grave responsabilità per quelli che mi sono affidati?

Ma come si può giustificare l’affermazione di Gesù di fronte all’esperienza che il male si infiamma proprio al più debole e si sfoga più liberamente proprio contro chi è indifeso? Questa proposizione non resta semplicemente una ideologia che non fa i conti can la realtà, cioè con il peccato del mondo? Essa potrebbe forse valere all’interno della comunità. Di fronte al mondo appare come un esaltato desiderio di ignorare il peccato. Poiché viviamo nel mondo e il mondo è perverso, questa proposizione non può avere valore.

Ma Gesù dice: Proprio perché vivete nel mondo e perché il mondo è perverso, questa proposizione vale: non resistere al male. Difficilmente si può accusare Gesù di non aver conosciuto la forza del male, lui che fin dal primo giorno della sua vita si è trovato a lottare con il diavolo. Gesù chiama il male male, e proprio perciò parla così ai suoi seguaci. Com’è passibile? Tutto ciò che Gesù dice ai suoi seguaci sarebbe veramente pura esaltazione, se dovessimo considerare queste parole come un programma etico valido per tutti e sempre, se si dovesse intendere l’affermazione che il male viene vinto solo dal bene come generale saggezza del mondo e della vita. In realtà si tratterebbe di un’irresponsabile utopia che immagina leggi che il mondo non osserverà mai. Un atteggiamento di ‘non-difesa’ posto a principio della vita nel mondo è empia distruzione dell’ordinamento del mondo, benevolmente mantenuto da Dio. Ma qui non parla un uomo che vuol imporre dei programmi, qui parla del modo di vincere il male subendolo il medesimo che fu vinto dal male sulla croce e che da questa sconfitta uscì vincitore del male. Non può esserci altra giustificazione per questo comandamento di Gesù che la sua stessa croce. Solo chi in questa croce di Gesù trova la fede nella vittoria sul male, può obbedire a questo comandamento, e solo questa obbedienza gode della promessa. Quale promessa? La promessa della compartecipazione alla croce di Gesù e della partecipazione alla sua vittoria.

La passione di Gesù come superamento del male mediante l’amore divino è l’unico sostegno valido dell’obbedienza del discepolo. Gesù con il suo comandamento chiama chi lo segue ancora una volta alla compartecipazione alla sua passione. Come potrebbe essere visibile e credibile per il mondo l’annunzio della passione di Gesù Cristo, se i discepoli di Gesù cercano’ di evitare questa passione, se la rifiutano nel loro proprio corpo? Gesù stesso compie sulla croce la legge che egli dà, ed allo stesso tempo mantiene benevolmente i suoi seguaci nella comunione della sua croce[8]. Solo nella croce è vero e reale che l’amore che soffre è la vendetta e il superamento del male. Ma la comunione della croce viene donata ai discepoli nella chiamata di Gesù. In questa comunione visibile essi sono proclamati beati.

 

Il nemico - Lo ‘straordinario’

«Avete udito che fu detto: ‘Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico’, ma io vi dico: ‘Amate i vostri nemici, benedite quelli che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, perché egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, quale premio meritate? Non fanno forse lo stesso anche i pubblicani? E se salutate solo i vostri fratelli, che cosa fate di più? Non fanno forse lo stesso anche i pagani? Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste’». (Mt. 5,43-48).

Qui per la prima volta nel sermone sul monte viene pronunciata la parola che sintetizza tutto quanto precede: amore, e subito nell’inequivocabile precisazione di amore per il nemico. Amare il fratello sarebbe un ordine che si può facilmente fraintendere; amare il nemico esprime con chiarezza inequivocabile ciò che vuole Gesù.

Il nemico, per i discepoli, non era un concetto senza senso preciso. Lo conoscevano bene, lo incontravano ogni giorno. C’erano uomini che li maledicevano come distruttori della fede e trasgressori della legge; c’erano quelli che li odiavano, perché, per amore di Gesù, avevano abbandonato tutto, disdegnavano tutto per amore della comunione con Cristo; c’erano quelli dai quali venivano oltraggiati e scherniti a causa della loro debolezza e umiltà; c’erano i persecutori che sospettavano nelle schiere dei discepoli dei rivoluzionari e cercavano di annientarli. Il vero nemico era dunque dalla parte dei rappresentanti della religiosità popolare, che non poteva sopportare la pretesa di Gesù che rivendicava ogni diritto solo per sé. Egli godeva di potere e di considerazione. L’altro nemico, al quale pensava ogni ebreo, era il nemico politico, era Roma. Anche questo era fortemente sentito come oppressore. Accanto a questi due gruppi di nemici c’erano i nemici personali, che si oppongono a quelli che non camminano per la strada della maggioranza, cioè la quotidiana calunnia, il disprezzo, le minacce.

Nell’Antico Testamento non c’è veramente nessun passo che comandi di odiare il nemico; anzi è comandato l’amore per il nemico (Es. 23,4 s.; Pv. 25,21 s.; Gen. 45,1 ss.; 1 Sam. 24,7; 2 Re 6,22 e passim). Ma Gesù qui non parla di inimicizie naturali, bensì dell’inimicizia del popolo di Dio per il mondo. Le guerre di Israele erano le uniche guerre ‘sante’ esistenti al mondo. Erano le guerre di Dio contro il mondo degli idoli. Gesù non condanna questa inimicizia, se no dovrebbe condannare tutta la storia di Dio con il suo popolo. Anzi, Gesù conferma l’Antico Patto. Anche a lui importa solo la vittoria sui nemici, la supremazia della comunità di Dio. Ma con il suo comandamento egli toglie di nuovo la schiera dei suoi discepoli dalla struttura politica del popolo di Israele. Non esistono più guerre di religione, Dio ha affidato la promessa della vittoria sul nemico all’amore per il nemico.

L’amore per il nemico è uno scandalo insopportabile non solo per l’uomo naturale. È superiore alle sue forze, urta contro il suo concetto di bene e male. Più importante è che l’amore per il nemico pare anche all’uomo che vive sotto la legge di Dio un peccato contro la legge di Dio: la legge pretende la separazione dal nemico e la sua condanna. Ma Gesù prende nelle sue mani la legge di Dio per interpretarla. Vincere il nemico mediante l’amore per il nemico, questa è la volontà di Dio nella sua legge.

Nel Nuovo Testamento il nemico è sempre colui che nutre inimicizia per me. Gesù non ammette nemmeno la possibilità che ci sia qualcuno verso il quale il discepolo possa nutrire inimicizia. Ma al nemico spetta ciò che spetta al fratello, l’amore del seguace di Gesù. L’atteggiamento del discepolo non deve essere determinato dall’atteggiamento degli uomini, ma da ciò che Gesù ha fatto per lui; perciò esso deriva solo da una sorgente, dalla volontà di Gesù.

Qui si parla del nemico, dunque di colui che rimane nemico anche di fronte al mio amore; che non mi perdona nulla, anche quando io gli perdono tutto; che mi odia quando io lo amo; che mi oltraggia tanto più quanto più io lo servo. «Mi hanno mosso accuse in cambio del mio amore, mentre io non faccio che pregare» (Sal. 109,4). Ma l’amore non deve chiedere se viene corrisposto; anzi, cerca colui che ha bisogno di amore. Ma chi ha più bisogno di amore di colui che vive lui stesso privo di amore, nell’odio? E chi dunque è più degno del mio amore se non il mio nemico? Dove l’amore viene lodato maggiormente che in mezzo ai suoi nemici?

L’amore non fa nessuna distinzione di qualità fra i vari nemici, se non che, quanto più il nemico mi è nemico, tanto più c’è bisogno del mio amore. Sia che si tratti del nemico politico sia di quello religioso, non ha da aspettarsi altro dal discepolo di Gesù che amore indiviso. Questo amore anche in me stesso non conosce dissidio tra me come persona privata e me come pubblico funzionario. lo non posso che essere uno, in ambedue le situazioni, cioè seguace di Gesù Cristo, o non lo sono affatto. Mi si chiede come agisce questo amore? Gesù lo dice: benedice, fa del bene, prega, senza condizioni, senza riguardo per la persona.

«Amate i vostri nemici». Mentre nei comandamenti precedenti si parla solo di subire il male senza difendersi, qui Gesù va molto oltre. Non dobbiamo solo sopportare il male e il malvagio, non solo non ricambiare la percossa con una percossa, ma dobbiamo nutrire sentimenti di sincero amore per il nostro nemico. Dobbiamo servire il nemico con sentimenti puri e senza ipocrisia ed aiutarlo in ogni cosa. Nessun sacrificio che un amante farebbe per l’essere amato può essere troppo grave e troppo prezioso per il nostro nemico. Se per amore verso il fratello dobbiamo essere pronti a sacrificare i nostri beni, il nostro onore, la nostra vita, siamo altrettanto debitori di tutte queste cose al nostro nemico. Ma non ci rendiamo, in questo modo, partecipi della sua malvagità? No, come potrebbe l’amore che non è nato da debolezza, ma da forza, che non proviene da paura, ma dalla verità, rendersi colpevole dell’odio dell’altro? E a chi si dovrebbe rivolgere questo amore se non a colui il cui cuore soffoca nell’odio?

«Benedite quelli che vi maledicono». Se ci colpisce la maledizione del nemico perché egli non può sopportare la nostra presenza, noi dobbiamo alzare le mani per benedire: voi, nostri nemici, voi i benedetti del Signore, la vostra maledizione non ci ferisce; possa la vostra povertà essere colmata con la ricchezza di Dio, con la benedizione di colui contro il quale voi vi ostinate inutilmente. Vogliamo senz’ altro portare la vostra maledizione, purché voi riceviate la benedizione.

«Fate del bene a quelli che vi odiano». Non dobbiamo fermarci alle belle parole e a pensieri. Si fa del bene in tutte le cose della vita quotidiana. «Se il tuo nemico ha fame dagli da mangiare, se ha sete dagli da bere» (Rom. 12,20). Come un fratello assiste il fratello nelle sue necessità, gli fascia le ferite, gli lenisce i dolori, così il nostro amore agisca verso il nemico. Dove si trova nel mondo miseria più profonda, ferite e dolori più gravi che presso il nemico? Dove è più necessario e più bello fare del bene che al nemico? «Il donare rende più felici che il ricevere».

«Pregate per quelli che vi perseguitano». Ecco l’estrema pretesa. Nella preghiera ci poniamo accanto al nemico, al suo fianco, siamo con lui, presso di lui, per lui davanti a Dio. Gesù non ci promette che il nemico, che amiamo e benediciamo, non ci offenderà e perseguiterà. Lo farà senz’altro. Ma anche in questo non ci può nuocere né vincere, se noi facciamo l’ultimo passo verso di lui nella preghiera di intercessione. Così prendiamo su di noi la sua povertà e miseria, la sua colpa e perdizione, e intercediamo per lui presso Dio. Facciamo in sua vece per lui quello che lui non può fare. Ogni offesa del nemico ci stringerà solo maggiormente a Dio e al nostro nemico. Ogni persecuzione può solo servire ad avvicinare il nemico maggiormente alla riconciliazione con Dio, a rendere più invincibile l’amore. Come diviene invincibile l’amore? Perché non chiede mai quale male fa il nemico, ma solo che cosa ha fatto Gesù. L’amore per il nemico conduce il discepolo sulla via della croce e nella comunione con Cristo crocifisso. Ma quanto più il discepolo viene spinto su questa via, tanto più invitto resta il suo amore, tanto più sicuramente vince l’odio del nemico; infatti non è il suo proprio amore, ma solo e del tutto l’amore di Gesù Cristo che salì sulla croce per i suoi nemici e sulla croce pregò per loro. Ma di fronte alla via della croce di Gesù Cristo anche i discepoli riconoscono che loro stessi facevano parte dei nemici di Gesù, che sono stati vinti dal suo amore. Questo amore apre gli occhi al discepolo, così che nel nemico riconosce il fratello, tanto che agisce verso di lui come verso suo fratello. Perché? Perché lui stesso vive solo dell’amore di colui che ha agito verso di lui come verso un fratello, che lo ha accettato quand’era nemico e lo ha attirato nella sua comunità come il suo prossimo. L’amore apre gli occhi al seguace, così che vede che anche il nemico è incluso nell’amore di Dio, vede il nemico sotto la croce di Gesù Cristo. Dio nei miei riguardi non badò a bene o male, perché anche il mio bene davanti a lui era empio. L’amore di Dio cercò il nemico che ne ha bisogno, che egli considera degno di essere amato. Dio glorifica il suo amore nel nemico. Il seguace lo sa. Per opera di Gesù egli ha avuto parte a questo amore. Perché Dio fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Ma non si tratta solo del sole terreno o della pioggia terrena che sorgono sui buoni e sui cattivi, si tratta anche del «sole della giustizia», di Gesù Cristo stesso, e della pioggia della Parola divina, che manifesta la grazia del Padre celeste che scende sui peccatori. L’amore indiviso, perfetto è l’azione del Padre, è anche l’azione dei figli del Padre celeste, come fu l’azione del Figlio unigenito.

«I comandamenti dell’amore del prossimo e del divieto di vendetta, nella lotta per Dio a cui andiamo incontro e nella quale, in parte, ci troviamo già da anni, avranno un posto preminente lì dove da una parte combatte l’odio, dall’altra l’amore. Ogni animo cristiano deve prepararvisi urgentemente e seriamente. Si sta avvicinando il tempo in cui ogni uomo che confessa il Dio vivente, a causa di questa confessione sarà non solo oggetto di odio e di rabbia - a questo punto siamo infatti più o meno già arrivati - ma solo a causa di questa confessione lo si espellerà dalla cosiddetta ‘società umana’, lo si caccerà da luogo a luogo, lo si aggredirà letteralmente, lo si maltratterà e, a seconda dei casi, lo si ucciderà. Si sta avvicinando una persecuzione cristiana generale, e questo è in realtà il vero senso di tutti i movimenti e di tutte le lotte del nostro tempo. Gli avversari, intenti alla distruzione della chiesa cristiana e della fede cristiana, non possono vivere assieme a noi, perché vedono in ognuna delle nostre parole e in ogni atto, anche in quello che non è affatto indirizzato contro di loro, una condanna delle loro parole e dei loro atti, e non a torto; e intuiscono che a noi non importa affatto la condanna che essi esprimono contro di noi, perché devono ammettere loro stessi che questa condanna non ha nessun potere e nessun valore, e che perciò non ci troviamo affatto, come loro invece desidererebbero, in stato di ‘guerra’ e di dissidio con loro. E come condurre questa lotta? Si avvicina il momento che non alziamo più le mani in preghiera come uomini singoli e isolati, ma tutti insieme come comunità, come chiesa, così che confessiamo ad alta voce in schiere, se anche relativamente poco numerose in mezzo alle migliaia e migliaia di apostati, il Signore che è stato crocifisso ed è risorto e che ritornerà e lo glorifichiamo. Che preghiera, che confessione, che inno di lode? È appunto una preghiera di amore sincero proprio per questi uomini perduti che ci circondano e ci guardano con occhi torvi e pieni di odio, che forse hanno già alzato le mani per il colpo mortale contro di noi; è la preghiera per la pace per queste anime confuse e turbate, sconvolte e distrutte, una preghiera per quello stesso amore e per quella stessa pace di cui noi godiamo; una preghiera che penetrerà profondamente nelle loro anime e tirerà il loro cuore con una presa molto più forte di quanto non sia la presa di tutti gli sforzi del loro odio sul nostro cuore. Sì, la chiesa, che veramente attende il suo Signore, che veramente comprende il tempo con i segni della separazione definitiva, deve dedicarsi anche con tutte le forze della sua anima, con tutte le forze della sua vita santa a questa preghiera dell’amore» (A.F.C. Vilmar 1880).

Che cos’è amore indiviso? Amore che non si volge con parzialità verso quelli che ricambiano il nostro amore. Nell’amore per quelli che ci amano, per i nostri fratelli, per il nostro popolo, per i nostri amici, e anche per la nostra comunità cristiana non ci distinguiamo dai pagani e dai pubblicani. Esso è un sentimento naturale, regolare, ma non è affatto il sentimento cristiano per eccellenza. Sì, è davvero «la stessa cosa» che qui fanno cristiani e pagani. L’amore che mi lega a consanguinei, connazionali o amici è lo stesso presso pagani e cristiani. Gesù non ha da dire molto di questo amore. Gli uomini sanno da sé che cos’è. Non occorre nemmeno che Gesù lo susciti, lo metta in rilievo, lo sottolinei. Le realtà naturali si acquistano il loro riconoscimento da sé, tanto presso i pagani quanto presso i cristiani. Non occorre che Gesù inciti ad amare il fratello, il popolo, gli amici; è cosa che va da sé. Ma proprio perché semplicemente lo costata e non vi perde altra parola, mentre invece comanda solo di amare il nemico, egli dice che cosa significa per lui amore e che cosa si deve pensare di quell’amore.

In che cosa il discepolo si distingue dal pagano? in che cosa consiste il «fattore cristiano?». A questo punto vien detta la parola alla quale tende tutto il quinto capitolo, nella quale è riassunto tutto quanto è stato detto prima: il fattore cristiano, lo ‘straordinario’, il perisson , l’eccezionale, ciò che non è naturale. È ciò che ‘supera’ i farisei in una «giustizia maggiore», il di più, ciò che va oltre. La cosa naturale è to auto (la medesima cosa) per pagani e cristiani, il fattore cristiano incomincia con il perisson e alla luce di questo anche ciò che è naturale acquista il giusto rilievo. Dove non c’è questo fattore singolare, straordinario, non c’è nulla di cristiano. L’azione cristiana non viene all’interno delle situazioni naturali, ma nell’andare al di là di esse. Il perisson non viene mai assorbito dal to auto. È il grave errore di una etica protestante malintesa che l’amore per Cristo si esprima nell’amar di patria, nell’amicizia o nella professione, che la giustizia maggiore si esprime nella iustitia civilis. Gesù non dice così. Il fattore cristiano è legato allo ‘straordinario’. Perciò il cristiano non può adeguarsi al mondo, perché deve badare al perisson.

In che consiste il perisson, lo straordinario? È l’esistenza di quelli che vengono detti beati, dei seguaci di Gesù; è la luce che splende, la città sul monte, è la via della rinunzia al proprio io, dell’amore totale, della totale purezza, della totale verità, della totale non-violenza; è l’amore indiviso per il nemico, l’amore per quello che non ama nessuno e che nessuno ama; l’amore per il nemico religioso, politico, personale. È in tutto ciò la via che ha trovato il suo completamento nella croce di Gesù Cristo. Che cos’è il perisson? È l’amore di Gesù stesso, che, soffrendo e obbedendo sale sulla croce, è la croce. Lo straordinario del fattore cristiano è la croce, che fa sì che il cristiano vada al di là del mondo e gli dà così la vittoria sul mondo. La passio nell’amore del Cristo crocifisso - ecco lo «straordinario» dell’esistenza cristiana. Lo straordinario è senza dubbio il fattore visibile per il quale il Padre celeste viene glorificato... Non restare nascosto. La gente deve vederlo. La comunità dei seguaci di Gesù, la comunità della giustizia maggiore è una comunità visibile, uscita dalle istituzioni terrene; ha abbandonato tutto per guadagnare la croce di Cristo.

Che fate di singolare? Lo straordinario - ed è ciò che scandalizza - è un’ azione dei seguaci. Deve essere messo in pratica - come la giustizia maggiore - fatto in modo visibile. Non nel rigore etico, non in eccentrici modi di vivere, ma nella semplicità dell’obbedienza cristiana alla volontà di Gesù. Questo modo di agire si dimostrerà ‘singolare’ per il fatto che conduce nella passio cristiana. Questo stesso modo di agire è un continuo subire. In esso Cristo viene sofferto dai suoi discepoli. Se non lo è, non è questo modo di agire che intende Gesù.

Il perisson, dunque, è l’adempimento della legge, l’osservanza dei comandamenti. In Cristo crocifisso e nella sua comunità lo ‘straordinario’ diviene evento.

Qui si trovano i perfetti che sono perfetti nell’amore indiviso come il loro Padre celeste. È stato l’amore indiviso perfetto del Padre che diede il Figlio a morire sulla croce, perciò la perfezione dei discepoli sta nella disponibilità a soffrire questa croce. I perfetti non sono altri che quelli che sono chiamati beati.

 

 

Matteo 6: La segretezza della vita cristiana

La giustizia segreta

«Badate poi di non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere visti da essi, altrimenti non ne avrete ricompensa dal Padre vostro che è nei cieli. Quando dunque fai l’elemosina non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere glorificato dagli uomini. In verità, vi dico: essi hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra, affinché la tua elemosina resti segreta e il Padre tuo che vede nel segreto ti darà la ricompensa» (Mt. 6,1-4).

Dopo aver parlato nel quinto capitolo della visibilità della comunità dei seguaci di Cristo culminando nel perisson, poiché, dunque, si deve intendere per fattore cristiano ciò che esce dal mondo, che va al di là del mondo, lo straordinario, il capitolo che segue si collega immediatamente al perisson e ne svela il doppio significato. Infatti è troppo grande il rischio di essere completamente frainteso dai discepoli, come se dovessero, nonostante tutto, darsi da fare per erigere un regno celeste in terra, disprezzando e distruggendo l’ordine del mondo attuale, e, con fanatica indifferenza di fronte a questo eone, compiere l’opera straordinaria del nuovo mondo, renderlo visibile, separarsi, con un totale e radicale rifiuto di compromessi, dal mondo per realizzare con ogni sforzo ciò che è cristiano, ciò che si addice al seguace di Cristo, lo straordinario. Troppo grave è il rischio di intendere erroneamente che, nonostante tutto, vien loro di nuovo predicato un modo di vivere religioso - per quanto libero, nuovo, entusiasmante - una determinata struttura di vita religiosa. E con quanto piacere la carne in tal modo religiosa sarebbe pronta ad accettare, anzi a cercare questo straordinario, la povertà, la veracità, il dolore, se con ciò finalmente fosse possibile soddisfare il desiderio vivo e sincero di vedere qualcosa con i propri occhi, e non solo credere. Non mancherebbe di certo la disponibilità a spostare leggermente i confini, per cui il pio modo di vivere e l’obbedienza alla Parola possano avvicinarsi l’uno all’altro, tanto da non essere più, infine, separabili. Sarebbe stato fatto per il solo scopo di veder finalmente realizzato lo straordinario.

D’altro lato dovrebbero certamente comparire subito coloro che avevano solo aspettato questa parola di Gesù a proposito dello straordinario per attaccarlo tanto più accanitamente. Ora era finalmente smascherato il sognatore, il fanatico rivoluzionario che vuole rovesciare il mondo, che ordina ai suoi discepoli di abbandonare il mondo e di ricostruire un mondo nuovo. Si può ancora chiamarla obbedienza alla parola dell’Antico Testamento? Non viene qui eretta una vera e propria giustizia basata sulla propria volontà? Gesù non sa che esiste il peccato del mondo di fronte al quale tutto ciò che egli ordina deve fallire? Non sa che Dio ha dato manifesti comandamenti per bandire il peccato? Questa cosa straordinaria che viene qui richiesta non è forse la dimostrazione di un orgoglio spirituale, che è sempre stato l’inizio di ogni esaltazione? No, appunto non lo straordinario, ma la cosa più normale, ordinaria, nascosta è il segno di vera obbedienza e sincera umiltà. Se Gesù avesse indicato ai discepoli il loro posto nel popolo, nella professione, la loro responsabilità, la necessità di obbedire alla legge, come i dottori la interpretavano al popolo, allora egli si sarebbe dimostrato uomo veramente pio, veramente umile e obbediente. Avrebbe dato un forte impulso ad una religiosità più seria, ad un’obbedienza più rigorosa. Avrebbe insegnato ciò che sapevano anche gli scribi, ma che avrebbero sentito volentieri predicato con vigore, che cioè la vera pietà e giustizia non consiste solo nell’azione esteriore, ma anche nei sentimenti del cuore, ma neppure solo nei sentimenti del cuore, bensì anche nell’azione. Questa sarebbe stata veramente una «giustizia maggiore», come era necessaria per il popolo, tale che nessuno le si poteva sottrarre. Ma tutto ciò era stato rovinato. Invece dell’umile insegnante della legge si riconosceva in lui il superbo fanatico. Certo in tutti i tempi la predicazione degli uomini esaltati aveva saputo entusiasmare il cuore umano, e anzi proprio i cuori più nobili. Ma i dottori della legge non sapevano che in questo cuore, con tutta la sua bontà e nobiltà, parlava, nonostante tutto, la voce della carne? non conoscevano loro stessi il potere della carne religiosa sull’uomo? Gesù sacrificava inutilmente, nella lotta per una chimera, i migliori figli del paese, i sinceramente devoti. Lo straordinario - era semplicemente l’opera che si fa volontariamente, che sorge direttamente dal cuore dell’uomo pio. Era il vanto della superiorità della libertà umana di fronte alla semplice ubbidienza al comandamento di Dio. Era l’autogiustificazione dell’uomo che è vietata, che la legge non ammette mai. Era l’autosantificazione illegittima, che deve essere rifiutata dalla legge. Era la libera opera, che si opponeva all’obbedienza obbligata. Era la distruzione della comunità di Dio, il rinnegamento della fede; era bestemmia contro la legge, contro Dio. Lo straordinario che Gesù insegnava era, davanti alla legge, meritevole di morte.

Che risponde Gesù a tutte queste osservazioni? Egli dice: «Badate di non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere visti da essi». La chiamata a compiere cose straordinarie è il grande inevitabile rischio di chi segue Gesù. Perciò: badate a questo straordinario, a questa visibilità nel seguire Gesù. Gesù si oppone al godimento sconsiderato, indomito, rettilineo di questa visibilità. Egli inculca una spina in questo straordinario. Gesù invita a riflettere.

I discepoli non possono avere questo fattore straordinario se non per riflesso. Devono prestarvi attenzione. Lo straordinario, infatti, non deve essere fatto per essere visto, cioè non si deve compiere lo straordinario per se stesso, non lo si deve rendere visibile a bella posta perché sia visto. La giustizia maggiore dei discepoli non deve essere attuata per se stessa. Deve essere, sì, visibile; lo straordinario deve essere fatto, ma ... attenzione! non sia fatto per essere visto. C’è una ragione necessaria perché il seguire Cristo deve essere visibile, ed è la chiamata di Gesù Cristo, ma essa non è mai una meta; altrimenti si perderebbe di vista il fatto stesso di seguire Gesù, allora subentrerebbe un momento di arresto, il cammino sarebbe interrotto, e comunque non potrebbe essere più ripreso allo stesso punto dove volevamo riposare; nello stesso attimo saremmo rimandati al primo principio. Dovremmo accorgerci di non seguire più Gesù. Dunque, qualcosa si deve certo vedere, ma - o paradosso! - badate a non farlo perché gli uomini lo vedano; «la vostra luce risplenda al cospetto degli uomini» (Mt. 5,6), ma - badate alla segretezza. I capitoli 5 e 6 urtano duramente l’uno contro l’altro. Ciò che è visibile, allo stesso tempo deve rimanere segreto; ciò che è visibile, allo stesso tempo non deve poter essere visto. La suaccennata riflessione deve dunque vertere proprio su questo, che non dobbiamo finire per riflettere proprio sulle nostre azioni straordinarie. L’attenzione a come pratichiamo la nostra giustizia deve servire proprio a questo, a non darle importanza. Altrimenti ciò che vi è di straordinario nel seguire Gesù non resta più tale, ma diviene lo straordinario di un desiderio e di una volontà propria. Come dobbiamo capire questa contraddizione?

Chiediamo per prima cosa: A chi deve restare nascosto ciò che c’è di visibile nel seguire Gesù? non certo agli altri uomini; questi, infatti, devono poter vedere la luce del discepolo di Gesù; deve restare nascosto a colui che compie quest’opera visibile. Egli deve badare a seguire Gesù e volgere la propria attenzione a colui che lo precede e non a se stesso e a ciò che fa. Chi segue Gesù resta nascosto a se stesso nella sua giustizia. Naturalmente anche lui vede lo straordinario, ma egli vi resta nascosto a se stesso; lo vede solo guardando a Gesù, e allora non vi vede più qualcosa di straordinario, ma qualcosa di naturale, di ordinario. Perciò a lui resta nascosto ciò che è visibile nella sua azione, cioè nell’obbedienza alle parole di Gesù. Se lo straordinario acquistasse per lui l’importanza di qualcosa di straordinario, egli agirebbe come esaltato, basandosi sulla propria forza, seguendo la propria carne. Dato che, però, il discepolo di Gesù agisce per semplice obbedienza al suo Signore, egli non può vedere nello straordinario altro che l’atto naturale dell’obbedienza. Secondo la parola di Gesù non può essere diversamente; chi segue deve essere luce che splende; egli non fa nulla perché sia così; egli semplicemente segue Gesù e guarda, perciò, solo al suo Signore. Dunque, perché proprio il fattore cristiano necessariamente, cioè indicativamente è lo straordinario, perciò allo stesso tempo è la cosa normale, ciò che resta nascosto. Altrimenti non è il fattore cristiano, l’obbedienza alla volontà di Gesù Cristo.

In secondo luogo domandiamo: In che cosa, dunque, consiste l’unità tra la visibilità e la segretezza nell’azione di chi segue Gesù? Com’è possibile che la stessa cosa sia contemporaneamente visibile e segreta? Per rispondere basta rivedere quanto è stato detto nel capitolo 5. Lo straordinario, il visibile è la croce di Gesù, sotto la quale stanno i discepoli. La croce è allo stesso tempo il fattore necessario, segreto e quello visibile, straordinario.

In terzo luogo chiediamo: Come si risolve allora il paradosso tra il 5° e il 6° capitolo? Il concetto stesso del seguire Gesù lo risolve. È l’unico legame con Gesù Cristo. Chi segue Gesù vede sempre solo il suo Signore e lo segue. Se vedesse l’azione straordinaria stessa, non si troverebbe più al seguito di Gesù. Chi segue Gesù semplicemente obbedisce alla volontà del Signore come cosa straordinaria, e in tutto ciò sa solo di non poter agire altrimenti, e che perciò fa solo una cosa normalissima. L’unica riflessione richiesta a chi segue Gesù è quella di agire inconsapevolmente, senza pensieri complicati, in assoluta obbedienza, seguendo Gesù e amando. Se fai del bene, non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra. Non devi conoscere il bene che fai, altrimenti è il bene che fai tu, ma non quello che viene da Cristo. Il bene di Cristo, il bene fatto seguendo Gesù è fatto inconsapevolmente. La sincera azione d’amore è sempre opera a me nascosta. Badate a non esserne coscienti. Solo così è il bene che proviene da Dio. Se cerco di conoscere il bene che faccio, il mio amore non è più amore. Anche l’amore straordinario per il nemico resta nascosto a chi segue Gesù. Infatti egli non vede più il nemico nel nemico, se lo ama. Questa cecità, o meglio questo sguardo del seguace illuminato da Cristo è la sua certezza. Il fatto che la sua vita resti nascosta a lui stesso è la promessa a lui fatta.

Al segreto corrisponde il lato pubblico. Nulla è nascosto che non venga manifestato. Questo viene da Dio, al quale tutto ciò che è nascosto è già manifesto. Dio vuole mostrarci ciò che è nascosto rendendolo visibile. Questa manifestazione è la ricompensa di Dio all’azione segreta. Resta solo la domanda, dove e da chi l’uomo riceve questa ricompensa in pubblico. Se desidera che sia manifesto agli uomini, egli ha già persa la sua ricompensa. Non importa se la cerca nella forma grossolana di essere manifesto ad altri uomini o nella forma più fine di essere manifesto a se stesso. Lì dove la sinistra sa quello che fa la destra, dove metto in luce davanti a me stesso il bene nascosto che faccio, dove voglio conoscere il bene che faccio, preparo già a me stesso la ricompensa pubblica che Dio voleva concedermi. lo stesso mi mostro i miei atti nascosti. Non attendo che me li manifesti Dio. E così mi sono privato della ricompensa. Ma chi rimane nascosto a se stesso fino alla fine, avrà la ricompensa di essere manifestato da Dio. Ma chi può vivere in modo tale da fare lo straordinario in segreto? che la sinistra non sappia ciò che fa la destra? che amore è quello che non sa di esistere, ma può restare nascosto a se stesso fino al giorno del giudizio? È chiaro: poiché è amore segreto, non può essere una virtù visibile, un modo di essere dell’uomo. Attenzione - è detto - a non scambiare il vero amore con una amorevole virtù, con una ‘qualità’ umana. Si tratta dell’amore dimentico di sé nel vero senso della parola. Ma in questo amore dimentico di sé il vecchio uomo, con tutte le sue virtù e qualità, deve morire. Nell’amore dimentico di sé del discepolo legato solo a Gesù Cristo il vecchio Adamo muore. Nella frase «non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra» è annunziata la morte del vecchio uomo. Dunque ripetiamo: chi può vivere in modo tale da far coincidere il capitolo 5 e 6? Nessuno tranne colui che è morto nel suo vecchio uomo per opera di Gesù Cristo e, nella comunione del cammino con lui, ha trovato una vita nuova. L’amore come atto di semplice obbedienza è la morte del vecchio Adamo, che si è ritrovato nella giustizia di Cristo e nel fratello. Non è più lui che vive, ma Cristo vive in lui. In colui che segue Gesù vive l’amore di Cristo, del crocifisso che porta a morire l’uomo vecchio. Ora egli si trova solo in Cristo e nel fratello.

 

La segretezza della preghiera

«Quando poi pregate non fate come gli ipocriti, i quali amano pregare in piedi nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: Essi hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu, invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto, e il Padre tuo che vede nel segreto ti darà la ricompensa. Ora, quando pregate, non moltiplicate le parole come i pagani, i quali credono di essere esauditi per il loro molto parlare. Non rassomigliate dunque ad essi, perché il Padre vostro sa di che cosa avete bisogno, prima che glielo chiediate» (Mt. 6,5-8).

Gesù insegna ai suoi discepoli a pregare. Che significa? Non è cosa naturale che sappiano pregare? Certo, la preghiera è un bisogno naturale del cuore umano, ma questo non vuol dire che è un diritto davanti a Dio. Anche lì dove la preghiera è ben disciplinata e regolare può restare inesaudita. Ai discepoli è permesso pregare, perché gliela dice Gesù che conosce il Padre. Egli promette loro che Dio li esaudirà. Perciò i discepoli pregano solo perché sono in comunione con Gesù e lo seguono. Chi è legato a Gesù e lo segue, tramite Gesù ha accesso al Padre. Così ogni vera preghiera è una preghiera mediata. Non esiste preghiera immediata. Anche nella preghiera non abbiamo accesso immediato al Padre. Solo tramite Gesù possiamo incontrare il Padre nella nostra preghiera. Presupposto della preghiera è la fede, l’unione con Gesù. Egli è il solo mediatore della nostra preghiera. Noi preghiamo perché lui ce lo dice. Così la nostra preghiera è sempre una preghiera legata alla sua Parola.

Preghiamo Dio, nel quale crediamo, per Gesù Cristo. Perciò nella nostra preghiera non si tratterà mai di scongiurare Dio; non occorre che gli esponiamo la nostra situazione. Possiamo essere sicuri che egli sa di che cosa abbiamo bisogno ancor prima che lo chiediamo. Questa consapevolezza dà alla nostra preghiera una piena fiducia e una gioiosa certezza. Non è la formula, non la quantità di parole, ma la fede che tocca il cuore paterno di Dio che da tempo ci conosce.

La vera preghiera non è un’opera, una pratica religiosa, un pio atteggiamento, ma è la richiesta del bambino rivolta al cuore del Padre. Perciò la preghiera non può mai essere ostentativa, né davanti a Dio né davanti a noi stessi e neppure davanti ad altri. Se Dio non sapesse di che cosa ho bisogno, dovrei riflettere su come dirlo a Dio, che cosa dirgli e se dirglielo. Ma la fede sulla quale si basa la mia preghiera esclude ogni riflessione, ogni esibizionismo.

La preghiera è ciò che è senz’altro segreto. È in ogni modo contrario alla pubblicità. Chi prega non conosce più se stesso, ma solo Dio che egli invoca. Dato che la preghiera non opera nel mondo, ma è solo rivolta a Dio, essa è l’azione meno ostentativa che esiste.

Certo, anche qui possiamo avere un rovesciamento della preghiera facendone un’esibizione, tirando alla luce ciò che è nascosto. E questo non accade solo nelle preghiere pubbliche, che diventano vuota chiacchiera, il che oggi avviene assai di rado. Ma non c’è differenza, anzi è molto più dannosa se rendo me stesso spettatore della mia preghiera, se prego davanti a me stesso, sia che io goda questo stato come osservatore soddisfatto, sia che mi ci colga, sorpreso o vergognoso. La pubblicità in piazza è solo una forma ingenua di pubblicità che preparo a me stesso. Anche chiuso nella mia cameretta posso allestirmi una bella esibizione. Fino a questo punto possiamo deformare la parola di Gesù. La pubblicità che cerco allora consiste nel fatto che sono contemporaneamente colui che prega e colui che ascolta. lo ascolto me stesso, esaudisco me stesso. Poiché non voglio attendere l’esaudimento di Dio, poiché non voglio farmi mostrare in futuro l’esaudimento della mia preghiera -da parte di Dio, io mi procuro da me il mio esaudimento. Constato che la mia preghiera era molto devota, ed in questa constatazione sta la soddisfazione dell’esaudimento. La mia preghiera è esaudita. Io ho ricevuto la mia ricompensa. Poiché mi sono esaudito da me, Dio non mi esaudirà; poiché io stesso mi sono preparato la ricompensa della pubblicità, Dio non mi preparerà più alcuna ricompensa.

Che cos’è la cameretta di cui parla Gesù, se non sono sicuro di fronte a me stesso? Come potrei chiuderla tanto bene che nessun ascoltatore penetri nel segreto della mia preghiera e mi rapisca la ricompensa della preghiera segreta? Come posso difendermi da me stesso? dalle mie riflessioni? Come uccidere con la riflessione la riflessione? È detto: la mia propria volontà di mettermi in luce in qualche modo con la mia preghiera, deve morire, essere uccisa. Dove in me regna solo la volontà di Gesù e tutta la mia volontà è rimessa alla sua, alla comunione con Gesù, nel seguirlo, la mia volontà muore. Allora posso pregare che sia fatta la volontà di colui che sa quello di cui ho bisogno prima che io lo chieda. Solo allora la mia preghiera è certa, forte, pura, se nasce dalla volontà di Gesù. Allora pregare vuole veramente dire chiedere. Il bambino prega il Padre che conosce. Non una venerazione generale, ma il chiedere è l’essenza della preghiera cristiana. Corrisponde all’atteggiamento dell’uomo davanti a Dio, che egli stia lì con le mani .alzate a pregare colui del quale sa che ha un cuore paterno.

Se anche la vera preghiera è qualcosa di segreto, però certo non esclude la preghiera in comune, per quanto evidenti ne siano ora i pericoli. In fondo non dipende dal pregare in pubblico o nella propria cameretta, dalla lunghezza o brevità della preghiera, sia essa una litania della preghiera in chiesa, sia essa un sospiro di colui che non sa che cosa pregare, e nemmeno dal singolo o dalla comunità, ma semplicemente dalla consapevolezza: vostro Padre sa quello di cui avete bisogno. Questo fa sì che rivolgiamo la preghiera solo a Dio. Questo libera il discepolo da un’azione erroneamente ritenuta opera di bene.

«Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano; rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, le rimetterà anche a voi il Padre vostro celeste, se invece non le perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt. 6,9-15).

Gesù non ha solo detto ai suoi discepoli come devono pregare, ma anche che cosa devono chiedere. Il Padre Nostro non è un esempio di preghiera per i discepoli; si deve pregare come Gesù ha loro insegnato. Con questa preghiera saremo esauditi da Dio, questo è certo. Il Padre Nostro la preghiera. Ogni preghiera dei discepoli vi trova la sua essenza e i suoi limiti. Gesù anche qui non lascia i suoi discepoli nell’incertezza; con il Padre Nostro ci conduce nella perfetta chiarezza della preghiera.

«Padre nostro che sei nei cieli». Tutti insieme i seguaci invocano il loro Padre celeste, che sa già tutto ciò di cui i suoi figli hanno bisogno. Sono stati resi fratelli dalla chiamata di Gesù che li unisce. In Gesù hanno riconosciuto la benevolenza del Padre. Nel nome del Figlio di Dio possono chiamare Dio loro Padre. Essi sono in terra e il loro Padre è nel cielo. Egli dall’alto guarda su loro, essi levano gli occhi a lui.

«Sia santificato il tuo nome». Il nome paterno di Dio, come è manifestato ai seguaci in Gesù Cristo, deve essere santificato dai discepoli; infatti in questo nome è compreso tutto l’Evangelo. Dio non permetta che il suo santo Evangelo venga oscurato e rovinato da false dottrine e vita empia. Dio manifesti sempre di nuovo ai discepoli il suo santo nome in Gesù Cristo. Egli induca tutti i predicatori ad annunziare con purezza il Vangelo che rende beati. Egli resista ai seduttori e converta i nemici del suo nome.

« Venga il tuo regno». In Gesù Cristo i seguaci hanno provato l’inizio del regno di Dio in terra. Qui Satana è vinto, il potere del mondo, del peccato e della morte è spezzato. Ancora il regno di Dio è soggetto a sofferenza e lotta. La piccola comunità degli eletti ne è divenuta partecipe. Sono sotto la signoria di Dio in una nuova giustizia, ma in mezzo alla persecuzione. Dio faccia crescere il regno di Gesù Cristo in terra nella sua comunità; ponga presto fine ai regni di questo mondo e faccia trionfare il suo regno con potenza e gloria.

«Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra». Nella comunione con Gesù Cristo i seguaci hanno abdicato alla loro volontà e l’hanno rimessa completamente alla volontà di Dio. Essi pregano perché la volontà di Dio sia fatta su tutta la terra. Nessuna creatura gli resista. Ma poiché anche fra i seguaci la cattiva volontà ancora sussiste,e cerca di strapparli dalla comunione con Gesù, perciò essi pregano pure che la volontà di Dio si affermi ogni giorno più anche in loro e spezzi ogni resistenza. E alla fine tutto il mondo ceda alla volontà di Dio e lo adori con gratitudine nel dolore e nel piacere. Cielo e terra siano soggetti a Dio.

I discepoli preghino in primo luogo per il nome di Dio, per il regno di Dio, per la volontà di Dio. Dio veramente non ha bisogno di questa preghiera, ma per mezzo di questa preghiera i discepoli stessi parteciperanno ai beni divini per i quali pregano. E per mezzo di questa preghiera possono contribuire ad accelerare la fine.

«Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Finché i discepoli sono in terra non dovranno vergognarsi di chiedere al loro Padre celeste i beni della vita corporale. Colui che ha creato gli uomini in terra vuole mantenere e proteggere il loro corpo. Non vuole che la sua creazione divenga disprezzabile. È il pane comune che i discepoli chiedono. Nessuno lo tenga per sé solo. Essi pregano pure che Dio conceda a tutti i suoi figli su tutta la terra il pane quotidiano; infatti sono i loro fratelli corporali. I discepoli sanno che il pane che cresce in terra viene dall’alto ed è solo dono di Dio. Perciò non si prendono il pane, ma lo chiedono. Poiché è pane di Dio, perciò viene ogni giorno di nuovo. I seguaci non chiedono provviste, ma chiedono oggi il dono quotidiano di Dio, che permette loro di vivere in comunione con Gesù e per il quale possono glorificare la mite bontà di Dio. In questa preghiera viene provata la fede dei discepoli, nell’opera viva di Dio in terra per il loro bene.

«Rimettici i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». La consapevolezza della loro colpa è il ‘Cruccio quotidiano dei seguaci. Quelli ai quali è concesso vivere in comunione con Gesù senza peccato, peccano ogni giorno per molteplice mancanza di fede, pigrizia nel pregare, indisciplina del corpo, e per molteplice vanità, invidia, odio, ambizione. Perciò essi chiedono ogni giorno perdono a Dio. Ma Dio vuole esaudire la loro preghiera solo se essi sono pronti a perdonarsi reciprocamente e fraternamente le loro colpe. Così essi portano insieme la loro colpa davanti a Dio e chiedono insieme la sua grazia. Dio non perdoni solo il mio peccato a me, ma perdoni a noi il nostro peccato.

«Non indurci in tentazione». Le tentazioni dei seguaci sono molteplici. Da ogni parte Satana li attacca e vuole farli cadere. Falsa sicurezza ed empio dubbio li tentano gravemente. I discepoli, che conoscono la loro debolezza, non sfidano la tentazione per dimostrare in essa la forza della loro fede. Pregano Dio di non tentare la loro debole fede e di proteggerli nell’ora della tentazione.

«Ma liberaci dal male». Come ultima cosa i discepoli chiedono di essere un giorno liberati da questo mondo malvagio e di ereditare il regno dei cieli. È la richiesta di una fine beata e della salvezza della comunità negli ultimi tempi di questo mondo.

«Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria...». I discepoli ricevono ogni giorno di nuovo questa certezza dalla comunione con Gesù Cristo nel quale tutte le loro richieste sono esaudite. In lui il nome di Dio è santificato, in lui il regno di Dio viene, in lui è fatta la volontà di Dio. Per amor suo la vita corporale dei discepoli è conservata, per amar suo ricevono il perdono dei loro peccati, mediante la sua potenza vengono conservati nella tentazione, mediante la sua potenza vengono salvati per la vita eterna. Suo è il regno, la potenza e la gloria in sempiterno, nella comunione con il Padre. Di questo i discepoli sono certi.

Come per riassumere la preghiera, Gesù dice ancora una volta che tutto dipende dal fatto che ricevono il perdono e che questo perdono viene loro concesso come a comunità di peccatori.

 

La segretezza nella pratica religiosa

«Quando poi digiunate, non siate tristi come gli ipocriti, che sfigurano il loro volto per mostrare agli uomini che digiunano. In verità vi dico: Essi hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu, invece, quando digiuni, profuma con l’olio il tuo capo e lava la tua faccia, per non mostrare agli uomini che digiuni, e il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà» (Mt. 6,16-18).

Gesù premette come cosa ovvia che i suoi seguaci mantengano la pia pratica del digiuno. Una severa pratica della continenza fa parte della vita di chi segue Gesù. Tali pratiche hanno l’unico scopo di rendere il seguace più pronto a intraprendere con gioia la via e l’opera che gli è stata comandata. La volontà pigra ed egoista, che non si vuol lasciar spingere al servizio, viene disciplinata, la carne viene umiliata e punita. Nella pratica della continenza si avverte chiaramente la straniazione della vita del discepolo dal mondo. Una vita in cui non viene mai praticato l’ascetismo, in cui fossero esauditi tutti i desideri della carne fin dove sono ‘permessi’ dalla iustitia civilis, difficilmente si potrà preparare a servire Cristo. La carne sazia non prega volentieri e non è pronta a un servizio che richiede molte rinunce.

Perciò la vita del discepolo ha bisogno di una severa disciplina esteriore. Non che solo così la volontà della carne possa essere spezzata, come se la morte quotidiana del vecchio uomo potesse avvenire altrimenti che per la fede in Gesù. Ma appunto il credente, che è morto in Gesù Cristo nel suo vecchio uomo, conosce la ribellione e l’orgoglio quotidiano della carne, conosce la sua pigrizia e indisciplinatezza e sa che essa è l’origine del suo orgoglio che deve essere spezzato. E ciò accade mediante una disciplina sia quotidiana sia straordinaria. È detto del discepolo che lo spirito è pronto, ma la carne debole. Perciò «vegliate e pregate». Lo spirito conosce la via ed è pronto a seguire Gesù, ma la carne ha paura, la via le pare troppo difficile, troppo incerta e faticosa. E così lo spirito vien messo a tacere. Lo spirito accetta il comandamento di Gesù di amare incondizionatamente il nemico, ma carne e sangue sono troppo forti, così che esso non vien messo in atto. E così la carne deve imparare, mediante una disciplina quotidiana e straordinaria, che non ha alcun diritto proprio. Un aiuto lo trova nella pratica quotidiana e ordinata della preghiera, come anche nella quotidiana meditazione della Parola di Dio; di aiuto è pure una molteplice pratica di disciplina e continenza.

In un primo tempo la carne resiste a questa umiliazione quotidiana con attacchi frontali, più tardi si cela dietro parole dello spirito, cioè in nome della libertà cristiana. Dove la liberazione evangelica da ogni costrizione di una legge, dal martirio di se stessi e dalla mortificazione si contrappone, per principio, alla giusta pratica evangelica della disciplina, dell’esercizio e dell’ascesi, dove indisciplinatezza e disordine nella preghiera, nella meditazione della Parola, nella vita del corpo vengono giustificati nel nome della libertà cristiana, lì ci si trova manifestamente in contrasto con la Parola di Gesù. Lì non si conosce più la necessità di estraniarsi dal mondo nel cammino quotidiano dietro a Gesù, ma nemmeno la gioia ed anche proprio la vera libertà che una retta pratica dà alla vita del discepolo. Quando il cristiano riconosce che non è all’altezza del suo servizio, che la sua prontezza vien meno, che si è reso colpevole di fronte alla vita altrui, alla colpa altrui, che il suo piacere in Dio è indebolito, che la sua forza di pregare è sparita, lì egli incomincerà l’attacco alla sua carne per prepararsi meglio al servizio mediante l’esercizio, il digiuno e la preghiera (Lc. 2,37; Mc. 9,29; 1 Cor 7,5).

L’osservazione che il cristiano non deve rifugiarsi nell’ascetismo, ma nella fede, nella Parola resta del tutto vana. Questa è crudele e non ha la forza di aiutare. Che cos’è una vita di fede se non l’infinita e molteplice lotta dello spirito contro la carne? Come si può vivere nella fede, se si è pigri nella preghiera, se non si prova piacere nella meditazione della Scrittura, se dormire, mangiare e piaceri carnali rubano sempre di nuovo il piacere della comunione con Dio?

Ascetismo è sofferenza liberamente scelta, è passio activa, non passio passiva, e appunto perciò sempre in grave pericolo. L’ascetismo è sempre preso di mira dal pio, ma empio desiderio di rendersi uguali a Gesù Cristo mediante la sofferenza. Sempre vi è anche già celata la pretesa di sostituire se stessi alla passione di Cristo, di compiere personalmente l’opera della passione di Cristo, cioè quella di uccidere il vecchio uomo. Qui l’ascetismo usurpa l’amara e ultima serietà dell’opera redentrice di Cristo. Qui essa si mette in vista con tremenda durezza. La sofferenza volontaria che, basata sulla passione di Cristo, dovrebbe servire solo ad aumentare la forza di servire, a umiliare più profondamente, qui diviene una orrenda deformazione della passione del Signore stesso. Ora vuol essere messa in luce, ora è il crudele rimprovero vivente rivolto agli altri uomini; perché è divenuta via di salvezza. In una simile pubblicità la ricompensa è veramente perduta, perché ricercata presso gli uomini. «Profuma con olio il tuo capo e lava la tua faccia», questo potrebbe essere ancora occasione di un godimento raffinatissimo o di lode a se stessi. E allora sarebbe frainteso come ipocrisia. Ma Gesù dice ai suoi discepoli che nell’umiliazione volontaria devono restare totalmente umili, che non devono mai imporla come rimprovero o legge, che, anzi, devono essere grati e lieti di poter restare al servizio del loro Signore. Qui non si parla del volto allegro del discepolo come tipo cristiano, ma della giusta segretezza dell’azione cristiana, dell’umiltà, che non conosce se stessa come l’occhio non vede se stesso, ma solo l’altro uomo. Tale segretezza sarà manifestata in futuro, ma solo da Dio e mai da se stessi.

 

La semplicità della vita senza preoccupazioni

«Non accumulatevi tesori sulla terra, dove il tarlo e la ruggine logorano e i ladri scassinano e rubano. Accumulate invece tesori nel cielo, dove né il tarlo né la ruggine logorano e i ladri non scassinano né rubano. Infatti dov’è il tuo tesoro, ivi è pure il tuo cuore.
La lucerna del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è sano, tutto il tuo corpo sarà illuminato, se invero il tuo occhio è guasto, tutto il tuo corpo sarà oscuro. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra.
Nessuno può servire a due padroni. perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e trascurerà l’altro; non potete servire a Dio e a Mammona» 

(Mt. 6,19-24).

La vita del seguace si dimostra nel fatto che nulla si frappone fra Cristo e lui, né la legge né la pietà, ma neppure il mondo. Il seguace vede sempre solo Cristo; non vede Cristo e il mondo. Non incomincerà nemmeno a riflettere su questo, segue semplicemente Cristo in tutto. Perciò il suo occhio è sano; posa solamente sulla luce che gli viene da Cristo e non ha in sé nessuna ombra, nessuna ambiguità. Come l’occhio deve essere sano, chiaro, puro, perché il corpo resti nella luce, come mani e piedi non ricevono luce se non dall’occhio, come il piede inciampa e la mano sbaglia se l’occhio è opaco, come tutto il corpo si trova all’oscuro se l’occhio si spegne, così il seguace è luce solo finché guarda semplicemente a Cristo e non a questo o a quell’altro; così il cuore del discepolo deve essere intento solo a Cristo, Se l’occhio vede qualcosa di diverso della realtà, tutto il corpo è tratto in inganno, Se un cuore si attacca alle apparenze del mondo, alla creatura invece che al creatore, il discepolo è perso.

Sono i beni del mondo che cercano di distrarre il cuore del discepolo di Gesù, A che cosa è rivolto il cuore del discepolo? Ecco la domanda. È rivolto ai beni del mondo? o anche solo a Cristo e ai beni del mondo? oppure è rivolto a Cristo solo? La lucerna del corpo è l’occhio, la lucerna di chi segue Gesù è il cuore. Se l’occhio è opaco, quanto opaco dev’essere il corpo! Se il cuore è oscuro, quanta oscurità dev’esserci nel discepolo! Ma il cuore diviene oscuro se si attacca ai beni di questo mondo. Allora, per quanto energica possa essere la chiamata di Gesù, essa rimbalza, non può penetrare nell’uomo, perché il suo cuore è chiuso, appartiene ad un altro. Come nel corpo non può penetrare luce se l’occhio è malvagio, così la Parola di Gesù non raggiunge più il discepolo se il suo cuore si chiude. La Parola è soffocata come il seme tra le spine «dalle cure e dalle ricchezze e dai piaceri della vita» (Lc. 8,14).

La semplicità dell’occhio e del cuore corrisponde a quella segretezza che non conosce altro che la Parola di Cristo e la chiamata che consiste nella completa comunione con Cristo. Come può il seguace di Cristo usare dei beni terreni in modo semplice?

Gesù non vieta l’uso dei beni. Gesù era uomo; mangiava e beveva come i suoi discepoli. Così ha purificato l’uso dei beni terreni. Il seguace usi pure con riconoscenza i beni che vanno consumati sul momento, di cui ha bisogno ogni giorno per le necessità e il nutrimento della vita corporale.

«Si deve camminare come pellegrini, liberi, nudi e veramente vuoti; raccogliere, tenere per sé molte cose e agire molto rende il cammino assai pesante. Chi vuole si carichi pure tanto da morirne; noi camminiamo separati dal mondo, contenti di poco; abbiamo bisogno solo del necessario» (G. Tersteegen).

I beni sono dati per essere usati, non per essere accumulati. Come Israele nel deserto ricevette la manna da Dio ogni giorno e non doveva preoccuparsi del cibo e della bevanda, e come la manna che veniva conservata per il giorno dopo marciva presto, così il discepolo di Gesù deve ricevere da Dio ogni giorno il necessario; ma se lo accumula per un possesso duraturo, rovina il dono e se stesso. Il suo cuore resta attaccato al tesoro accumulato. Il bene accumulato si pone fra me e Dio. Lì dov’è il mio tesoro, è anche la mia fiducia, la mia sicurezza, il mio conforto, il mio Dio. Il tesoro è idolatria[9].

Ma dov’è il limite tra i beni che devo usare e il tesoro che non devo avere? Rovesciamo la proposizione e diciamo: - il tuo tesoro è ciò a cui attacchi il tuo cuore; e così la risposta è data. Può essere un tesoro molto insignificante; non è la grandezza che conta, è solo il cuore che conta, tu stesso. Se poi chiedo, da che cosa riconosco a che cosa è legato il mio cuore, la risposta è semplice e chiara: tutto ciò che ti impedisce di amare Dio sopra ogni altra cosa, ciò che si frappone fra te e l’obbedienza a Gesù è il tesoro al quale è legato il tuo cuore.

Ma poiché il cuore umano si attacca a un tesoro, perciò l’uomo, anche per volontà di Gesù, può avere un tesoro[10], ma non in terra dove esso si sciupa, bensì in cielo dove rimane. I ‘tesori’ in cielo, dei quali parla Gesù, evidentemente non sono l’unico tesoro cioè Gesù stesso, ma veri tesori raccolti dai suoi seguaci. C’è una grande promessa nell’affermazione che il discepolo, seguendo Gesù, si acquista tesori nel cielo, che non si consumano, ma che lo attendono, con i quali si riunirà. Quali altri tesori possono essere se non quel che v’è di straordinario, di segreto nella vita del discepolo? quali tesori possono essere se non i frutti della passione di Cristo che la vita del seguace produce?

Se il discepolo ha il suo cuore completamente riposto in Dio, è evidente che non può servire a due padroni. Non è possibile. Seguendo Gesù non è possibile. Sarebbe certo naturale cercare di dimostrare la propria prudenza ed esperienza cristiana col far vedere che, ciononostante, si sa servire ad ambedue i signori, a Mammona e a Dio, che si sa dare ad ognuno il suo diritto limitato. Perché come figli di Dio non dovremmo essere anche allegri figli del mondo, che godono i beni e accettano i suoi tesori come benedizioni di Dio? Dio e il mondo, Dio e i beni sono in contrasto, perché il mondo e i suoi beni vogliono impadronirsi del nostro cuore e sono quel che sono solo quando hanno conquistato il nostro cuore. Senza il nostro cuore i beni e il mondo non sono nulla. Essi vivono del nostro cuore. Perciò sono contro Dio. Possiamo dare il nostro cuore pieno di amore solo ad uno, possiamo essere legati totalmente solo a un signore. Ciò che si oppone a questo amore incorre nell’odio. Secondo la Parola di Dio non si può che o amare o odiare. Se non amiamo Dio, lo odiamo. Non c’è via di mezzo. Dio è Dio, perché può essere solo amato o odiato. C’è solo un «aut aut»: o ami Dio o ami i beni del mondo. Se ami il mondo odi Dio, se ami Dio odi il mondo. Non importa affatto che tu lo voglia o le faccia coscientemente. Certo non lo vuoi, forse anche non sai quello che fai; anzi, tu non lo vuoi, ma vuoi appunto servire ambedue i signori. Tu vuoi amare Dio e i beni, perciò riterrai sempre una falsa accusa l’affermazione che odi Dio. Tu credi di amarlo. Ma appunto se ami Dio e anche i beni del mondo, questo amore è odio per Dio. L’occhio non è più semplice, non è più in comunione con Gesù. Volere o non volere, non può essere diversamente. Non potete servire a due signori, voi che seguite Gesù.

«Perciò vi dico: non vi affannate per la vostra vita, di che cosa mangerete o berrete, né per il vostro corpo di che vi vestirete. La vita non vale forse più del nutrimento e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo che non seminano né mietono né radunano in granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre; non valete voi forse più di essi? E chi di voi, pur affannandosi, può prolungare d’un solo cubito la propria vita? E per il vestito perché vi preoccupate? Osservate i gigli del campo come crescono: non faticano né filano, eppure vi dico che neppure Salomone in tutta la sua gloria si vestì come uno di essi. Ora se Dio veste così l’erba del campo che oggi è e domani verrà data al fuoco, quanto più farà per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: che mangeremo o che berremo, o di che ei vestiremo? Tutte queste cose infatti cercano ansiosamente i pagani, ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate invece prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani si affannerà da se stesso; basta a ciascun giorno la sua pena» (Mt. 6,25-34).

Non preoccupatevi! I beni fanno credere al cuore umano di essere in grado di dargli sicurezza e serenità; ma in realtà sono loro a causare preoccupazioni. Il cuore che cerca appiglio ai beni, con essi viene caricato del peso opprimente della preoccupazione. La preoccupazione si crea dei tesori e i tesori a loro volta creano preoccupazioni. Vogliamo assicurare la nostra vita per mezzo di beni; vogliamo liberarci dalle preoccupazioni per mezzo delle preoccupazioni stesse; ma in realtà accade il contrario. I vincoli che ci legano ai beni, che trattengono i beni, sono essi stessi... preoccupazioni.

L’abuso dei beni consiste nel fatto che noi ce ne serviamo per assicurarci il giorno seguente. La preoccupazione è sempre rivolta al futuro. Ma i beni sono decisamente destinati all’oggi. È proprio il desiderio di assicurarsi per l’indomani a renderci così malsicuri oggi. Basta che ogni giorno abbia la sua pena. Solo chi affida il domani completamente a Dio ed oggi accetta quello che gli serve per vivere, vive veramente sicuro. Il ricevere ogni giorno il suo mi libera dal domani. Il pensiero del domani mi espone a preoccupazioni senza fine. «Non affannatevi dunque per il domani» - queste parole sono o un terribile scherno dei poveri e miserabili, ai quali Gesù appunto si rivolge, di tutti coloro che dal punto di vista umano - domani morranno di fame, se non ci pensano oggi, è una legge insopportabile, che l’uomo respinge con ripugnanza, oppure, invece, è l’unico annunzio dell’Evangelo stesso della libertà dei figli di Dio, che hanno un Padre celeste il quale ha donato loro il suo Figliolo diletto. «Come non ci donerebbe tutto con lui?».

«Non affannatevi per il domani», non sono parole da considerare come un modo saggio per affrontare la vita; non sono una legge. Le si può solo comprendere come Evangelo di Gesù Cristo. Solo chi segue Gesù, chi ha riconosciuto Gesù in questa Parola, riceve l’assicurazione dell’amore del Padre di Gesù Cristo e la libertà da ogni cosa. Non è la previdenza -a rendere il discepolo libero da preoccupazioni, ma la fede in Gesù Cristo. Ora egli sa: non possiamo nemmeno provvedere (sorgen = preoccuparsi e provvedere. N.d.t.) Il prossimo giorno, la prossima ora non sono in nostro potere. È inutile far finta di poter provvedere. Non possiamo cambiar nulla nella situazione del mondo. Solo Dio può provvedere, perché Egli governa il mondo. Dato che non possiamo provvedere, dato che siamo tanto impotenti, non dobbiamo nemmeno preoccuparci. Non arroghiamoci con le nostre preoccupazioni il governo che spetta a Dio.

Ma il seguace sa che non solo non può e non deve preoccuparsi, ma che non ha nemmeno bisogno di farlo. Non è la preoccupazione e nemmeno il lavoro a procurarci il pane quotidiano, ma Dio Padre. Gli uccelli e i gigli non lavorano e non tessono, eppure vengono nutriti e vestiti, ricevono ogni giorno il necessario senza preoccuparsene. Usano i beni del mondo solo per la vita quotidiana, non li accumulano, e proprio così glorificano il Creatore, non mediante la loro diligenza, il loro lavoro, la loro previdenza, ma ricevendo ogni giorno semplicemente il dono che Dio offre. Così uccelli e gigli divengono esempio per chi segue Gesù. Gesù scioglie il nesso tra lavoro e nutrimento, ritenuto necessario non tenendo conto di Dio. Egli non parla del pane quotidiano come di una ricompensa per il lavoro, ma loda la vita semplice e senza preoccupazioni di chi cammina sulla via di Gesù e riceve tutto da Dio.

«Ora nessun animale lavora per il proprio nutrimento, ma ognuno ha il suo compito, poi cerca e trova il suo cibo. L’uccello vola e canta, nidifica e genera pulcini; questo è il suo compito; ma non si nutre di questo. I buoi arano, i cavalli portano l’uomo e combattono, le pecore danno la lana, il latte, il formaggio, questo è il loro lavoro; ma di questo non si nutrono; ma la terra fa crescere l’erba e li nutre per la benedizione di Dio. Altrettanto l’uomo deve lavorare e fare qualcosa, ma pure deve sapere che è un Altro a nutrirlo, e non il suo lavoro; è la ricca benedizione del Signore; per quanto sembri essere il suo lavoro a nutrirlo, perché Dio non gli dà nulla senza il suo lavoro; così come l’uccellino non semina né raccoglie, eppure dovrebbe morire di fame se non volasse in cerca di cibo. Ma non è il suo lavoro che gli fa trovare il cibo, bensì la bontà di Dio. Infatti, chi ha sparso cibo perché lo trovi? Dove Dio non pone nulla, nessuno può trovare qualcosa, anche se lavorasse e cercasse fino a sfinirsi» (Lutero). Ma se uccelli e gigli vengono mantenuti dal Creatore, il Padre non dovrebbe tanto più nutrire i suoi figlioli che gliela chiedono ogni giorno, non dovrebbe poter dar loro ciò di cui hanno bisogno per la loro vita quotidiana, lui al quale appartengono tutti i beni della terra e che può distribuirli come gli piace? «Dio mi dà ogni giorno solo quanto mi è necessario per vivere; se lo dà agli uccelli sul tetto, come non dovrebbe darlo a me?» (Claudius).

Preoccuparsi è da pagani che non credono, che si fidano delle proprie forze e del proprio lavoro, ma non di Dio. Pagani sono coloro che si preoccupano, perché non sanno che il Padre sa che hanno bisogno di tutte queste cose. Perciò vogliono fare loro stessi quello che non si aspettano da Dio. Ma per chi segue Gesù vale: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in più».

Da ciò è evidente che preoccuparsi del nutrimento e del vestiario non vuol dire ancora preoccuparsi del regno di Dio, come noi spesso vogliamo credere, quasi l’adempimento del nostro lavoro per la nostra famiglia e per noi, quasi la nostra preoccupazione per il vitto e l’alloggio fossero già un cercare il regno di Dio, come se questo si realizzasse entro queste preoccupazioni. Il regno di Dio e la sua giustizia è qualcosa di completamente diverso dai doni del mondo che ci vengono dati. Non è altro che la giustizia, di cui si parla in Matteo 5 e 6, la giustizia della croce di Cristo e del cammino al seguito di Gesù, sotto la croce.

La comunione con Gesù e l’obbedienza ai suoi comandamenti vien prima tutto il resto segue. Non è un insieme, ma una successione. Prima delle preoccupazioni per la nostra vita, per il nutrimento e il vestiario, per la professione e la famiglia viene la ricerca della giustizia di Cristo. Qui è solo data un’estrema sintesi di ciò che già era stato detto. Anche questa parola di Gesù è un peso insopportabile, una impossibile distruzione dell’esistenza umana dei poveri e miserabili, oppure è l’Evangelo stesso, che rende completamente liberi e felici. Gesù non parla di quello che l’uomo deve e non può, ma di quello che Dio ci ha donato e ci promette ancora. Se Cristo ci è stato donato, se siamo chiamati a seguirlo, allora con lui ci viene donato tutto, veramente tutto. Tutto il resto ci sarà dato in più. Chi, seguendo Gesù, guarda solo alla giustizia di Cristo, è al sicuro nella mano e sotto la protezione di Gesù Cristo e di suo Padre, e chi è così in comunione con lui non può più dubitare che il Padre non sappia nutrire i suoi figlioli e non li farà soffrire la fame. Dio aiuterà al momento opportuno. Egli sa di che cosa abbiamo bisogno.

Chi segue Gesù, anche dopo essere stato a lungo suo discepolo, alla domanda del Signore: «Vi è mai mancato qualcosa?» risponderà: «Mai, Signore». Come potrebbe mancare di qualcosa chi, pur affamato e nudo, nella persécuzione e nel pericolo, è certo della comunione con Gesù Cristo?

 

 

 

Matteo 7: La selezione della comunità dei discepoli

Il discepolo e gli increduli

«Non giudicate affinché non siate giudicati, poiché secondo il giudizio con cui giudicate sarete giudicati e con la misura con la quale misurerete sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, mentre non consideri la trave che è nel tuo occhio? O come puoi dire a tuo fratello: ‘Lascia che io ti levi la pagliuzza dal tuo occhio’, mentre c’è la trave nel tuo occhio? Ipocrita, leva prima la trave dall’occhio e allora vedrai di cavare la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.

Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino con i loro piedi, e, rivoltandosi, vi sbranino. Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto, perché chiunque chiede, riceve, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Ora qual è fra voi quell’uomo, a cui suo figlio chiederà un pane ed egli gli darà una pietra? Oppure se chiederà un pesce gli darà un serpente? Se dunque voi che siete cattivi sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a coloro che gliele chiedono. Pertanto tutte quelle cose che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatele ad essi. Questa infatti è la legge e i profeti». (Mt. 7,1-12).

C’è un collegamento logico tra i capitoli 5 e 6 e questi versetti, e poi viene la grande conclusione del sermone sulla montagna.

Nel capitolo 5 si è parlato dello straordinario (perisson), nel 6 della giustizia segreta e semplice dei discepoli (aplous). Ambedue queste cose separano i seguaci di Gesù dalla comunità della quale avevano fatto parte fino a quel momento e li uniscono con Gesù. Il limite diviene chiaramente visibile. Da ciò nasce il problema dei rapporti dei seguaci di Gesù con gli uomini attorno a loro. A causa della selezione a cui sono stati sottoposti è forse dato loro un diritto particolare? Hanno avuto delle forze, dei metri, dei talenti particolari, che davano loro il diritto di arrogarsi una particolare autorità sugli uomini? Sarebbe stato prima di tutto ovvio che i seguaci di Gesù si distanziassero loro stessi dal loro ambiente con un giudizio severo e tagliente. Anzi, sarebbe potuto sorgere l’opinione che fosse volontà di Gesù che una tale condanna e separazione dei discepoli fosse ora messa in atto anche nelle loro quotidiane relazioni con gli altri. Perciò Gesù deve mettere bene in chiaro che un tale fraintendimento avrebbe messo seriamente in pericolo il loro cammino al suo seguito. I discepoli non devono giudicare. Se lo fanno incorrono loro stessi nel giudizio di Dio. La spada con la quale condannano il fratello ricade su loro stessi. Il taglio col quale si separano dal prossimo come giusti da ingiusti separa loro stessi da Gesù.

Perché è così? Il seguace vive completamente della sua unione con Gesù Cristo. Egli possiede la sua giustizia solo in questa comunione, mai al di fuori di essa. Perciò non può mai divenire per lui un metro a sua disposizione ed arbitrio. Ciò che fa di lui un discepolo non è un nuovo metro della sua vita, ma solo Gesù Cristo, lo stesso Mediatore e Figlio di Dio. Perciò la sua propria giustizia gli resta nascosta nella comunione con Gesù. Non può più vedere, osservare, giudicare se stesso, vede solo Gesù, ed è visto, giudicato e graziato solo da Gesù. Perciò tra il discepolo e l’altro uomo non si pone il metro di una vita giusta, ma di nuovo solo Gesù Cristo stesso. Il discepolo nell’altro uomo vede sempre solo uno al quale Gesù va incontro. Incontra l’altro solo perché si avvicina a lui con Gesù. Gesù lo precede recandosi dall’altro, ed egli lo segue. Perciò l’incontro del discepolo con l’altro uomo non è mai un libero incontro di due uomini, che nell’immediato incontro dei loro pareri, metri, giudizi si scontrerebbero. Il discepolo può incontrare l’altro uomo solo come uno dal quale si reca Gesù stesso. La lotta per l’altro uomo, il suo nome, il suo amore, la sua grazia, il suo giudizio sono l’unica cosa che ha importanza. Il discepolo, dunque, non ha occupato una posizione da cui sferrare un attacco contro l’altro, ma entra nella verità dell’amore di Gesù verso il prossimo con l’incondizionata offerta di comunione.

Giudicando ci poniamo di fronte al prossimo ad una distanza di osservazione, di riflessione. L’amore, invece, non lascia luogo e tempo per questo atteggiamento. Il prossimo, per chi ama, non può mai essere oggetto di osservazione, ma, in ogni momento, ha un reale diritto al mio amore e al mio servizio. Ma il male nel prossimo non mi costringe forse ad una necessaria condanna, proprio per amar suo? Riconosciamo quanto sono netti e precisi i limiti. Un malinteso amore per il peccatore è pericolosamente vicino all’amore per il peccato. Ma l’amore di Cristo per il peccatore è esso stesso condanna del peccato, è l’espressione più forte dell’odio per il peccato. Appunto l’amore incondizionato nel quale i discepoli di Gesù devono vivere seguendo il Maestro, opera quello che essi, con un amore parziale e condizionato donato a propria discrezione, non potrebbero mai effettuare, cioè la condanna radicale del male.

Se sono i discepoli a giudicare, essi stabiliscono metri sul bene e sul male; ma Gesù Cristo non è un metro da applicare al prossimo. È lui a giudicare me stesso e a farmi vedere come il bene che io credo di fare è qualcosa di assolutamente cattivo. E perciò mi è vietato applicare al prossimo ciò che non vale per me. Infatti, giudicando secondo il bene e il male, io confermo il prossimo nel suo male, perché anche lui giudica secondo il bene ed il male. Ma lui non sa nulla del male insito nel suo bene, ma si giustifica con questo. Se viene da me giudicato nel male che fa, egli viene confermato nella sua opinione sul bene, che pure non è mai bene secondo il giudizio di Gesù Cristo, e proprio così viene sottratto al giudizio di Gesù Cristo e sottoposto ad un giudizio umano. Io stesso, invece, attiro su di me il giudizio di Dio, perché in questo modo non vivo più della grazia di Gesù Cristo, ma della conoscenza del bene e del male e incorro nel giudizio al quale mi attengo. Dio è per ognuno tale quale egli lo vede.

Giudicare è riflessione[11] vietata, sul prossimo. Esso distrugge l’amore semplice e sincero. Questo non mi proibisce i miei pensieri sul prossimo, la mia percezione del suo peccato, ma ambedue vengono liberati dalla riflessione offrendomi l’occasione di perdonare e di amare incondizionatamente, come Gesù ama me.

Trattenendo il mio giudizio sul prossimo, non attuo il tout comprendre c’est tout pardormer, non dò, in un certo senso, ragione al prossimo. Né a me, né a lui viene data ragione: solo Dio ha ragione; la sua grazia e il suo giudizio vengono annunziati.

Giudicare rende ciechi, amare apre gli occhi. Se giudico vuol dire che sono cieco per la mia cattiveria e per la grazia concessa all’altro. Nell’amore di Cristo, invece, il discepolo conosce ogni peccato ed ogni colpa immaginabile, perché conosce la passione di Cristo, ma allo stesso tempo l’amore riconosce nell’altro colui al quale è stato perdonato sotto la croce. L’amate vede l’altro sotto la croce e appunto in questo ha veramente gli occhi aperti. Se, quando giudico, m’importasse veramente del male, cercherei il male lì dove realmente mi minaccia, cioè in me stesso. Se invece cerco il male nell’altro, proprio allora si dimostra che in tale giudizio cerco il mio proprio diritto, che, giudicando l’altro, voglio restare impunito nella mia propria cattiveria. Perciò la premessa di ogni giudizio è l’auto-inganno più pericoloso, cioè quello di credere che la Parola di Dio sia diversa per me e per il mio prossimo. lo faccio valere il mio diritto particolare dicendo: «per me vale il perdono, per l’altro il giudizio che condanna». Ma poiché i discepoli non ricevono da Gesù un diritto particolare da far valere di fronte all’altro, poiché non ottengono null’altro che la comunione con lui, al discepolo è assolutamente vietato giudicare, perché sarebbe un arrogarsi un falso diritto di fronte al prossimo.

Ma ai discepoli non è vietato solo di esprimere un giudizio; anche l’annunzio salvifico del perdono al prossimo ha certi limiti. Il discepolo di Gesù non ha né potere né diritto di imporlo a tutti in ogni momento. Ogni pressione, ogni insistenza, ogni proselitismo, ogni tentativo di ottenere qualche risultato nel prossimo servendosi del proprio potere, è inutile e pericoloso. Inutile: i porci non riconoscono le perle che vengono loro gettate; pericoloso: così non solo la parola del perdono viene profanata, non solo l’altro che voglio servire viene reso peccatore di fronte alla cosa sacra, ma anche i discepoli che predicano corrono il rischio di subire del male dalla cieca ira degli uomini induriti di cuore e dall’animo ottenebrato, senza necessità e senza utilità. Lo spreco della grazia a buon mercato disgusta il mondo. Questo, infine, si ribella a coloro che vogliono imporre ciò che esso non desidera. Per i discepoli ciò significa una seria limitazione alla loro azione: corrisponde all’invito di Matteo 10 di scuotere la polvere dai piedi, dove la parola di pace non viene ascoltata. L’attivismo che spinge la schiera dei discepoli, che non vuole accettare limiti alla sua opera, lo zelo che non bada alla resistenza scambia la parola dell’Evangelo per un’idea vittoriosa. L’idea richiede uomini fanatici, che non conoscono né rispettano una resistenza. L’idea è forte. La Parola di Dio, invece, è tanto debole che si lascia schernire e respingere dagli uomini. Davanti alla Parola i cuori possono indurirsi e le porte chiudersi, e la Parola riconosce l’opposizione che incontra e la sopporta. È un’esperienza dura: per l’idea non c’è nulla di impossibile, per l’Evangelo, invece, ci sono cose impossibili. La Parola è più debole dell’idea. Perciò anche i testimoni della Parola sono, con questa Parola, più deboli dei propagatori di un’idea. Ma in questa debolezza essi sono liberi dalla morbosa irrequietezza dei fanatici; infatti essi soffrono con la Parola. I discepoli possono anche ritirarsi, fuggire, purché la loro debolezza sia la debolezza della Parola stessa, purché non abbandonino la Parola durante la fuga. Infatti non sono altro che servitori e strumenti della Parola e non vogliono essere forti, dove la Parola vuol essere debole. Se volessero imporre la Parola in ogni modo, con ogni mezzo umano, essi muterebbero la Parola vivente di Dio in idea, ed il mondo a ragione si opporrebbe a un’idea che non gli serve a nulla. Ma proprio come testimoni deboli fanno parte di coloro che non cedono, ma rimangono - certo solo lì dove è la Parola. I discepoli che non conoscessero la debolezza della Parola, non avrebbero riconosciuto il segreto dell’abbassamento di Dio. Eppure questa Parola così debole, che subisce l’opposizione del peccatore, è l’unica parola forte, misericordiosa, che converte i peccatori fin nell’intimo cuore. La sua forza è velata dalla sua debolezza; se la Parola venisse rivelando la sua piena potenza, sarebbe giunto il giorno del giudizio. Qui i discepoli si trovano di fronte ad un grave compito, quello di riconoscere i limiti del loro ministero. Ma la Parola che avranno usata male si rivolgerà contro loro stessi.

Che devono fare i discepoli contro i cuori induriti? Lì dove non trovano accesso al cuore del prossimo? Devono riconoscere che non hanno, in nessun modo, diritto o potere sugli altri, che non hanno nessun accesso immediato al cuore del prossimo, così che non resta loro altro che volgersi a colui nella cui mano sono loro stessi come pure quegli altri. Di questo si parlerà nelle pagine seguenti. I discepoli vengono indotti a pregare. Vien detto loro che non c’è altra via per raggiungere il prossimo se non la preghiera rivolta a Dio. Giudizio e perdono sono in mano a Dio e vi rimangono. Egli chiude ed egli apre. Ma i discepoli devono pregare, cercare, bussare, ed egli li esaudirà. I discepoli devono sapere che la loro preoccupazione ed ansia per gli altri li deve indurre a pregare. La promessa fatta alla loro preghiera è il massimo potere di cui dispongono. Il fatto che sanno che cosa cercano, distingue la ricerca dei discepoli dalla ricerca di Dio dei pagani. Cercare Dio lo può solo chi lo conosce già. Chi potrebbe cercare ciò che non conosce? Come potrebbe trovare se non sa che cosa cerca? Così i discepoli cercano il Dio che hanno trovato nella promessa loro fatta da Gesù Cristo.

In breve, qui si è visto che il discepolo nel suo rapporto con l’altro uomo non ha nessun diritto, nessun potere. Vive completamente del potere datogli dalla comunione con Gesù Cristo. Gesù dà al suo discepolo una regola molto semplice, con la quale anche il più ingenuo può provare se il suo contatto con l’altro è giusto o errato; basta che capovolga il rapporto tra ‘io’ e ‘tu’, basta che ponga sé al posto dell’altro e l’altro al posto suo. «Pertanto tutte quelle cose che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatele ad essi». Nello stesso momento il discepolo perde ogni diritto particolare di fronte all’altro, non può scusare in se stesso ciò che rimprovera all’altro. Ora è altrettanto duro verso il male in sé quanto usava esserlo verso il male nell’altro, ed altrettanto indulgente verso il male dell’altro quanto lo è verso se stesso. Infatti il male nostro non è altro che il male del prossimo. C’è un giudizio, una legge, una grazia. Perciò il discepolo incontrerà l’altro sempre come uno a cui sono stati perdonati i peccati e che da questo momento vive solo dell’amore di Dio. «Questa è la legge e i profeti». Infatti non è altro che il massimo dei comandamenti: amare Dio sopra ogni cosa e amare il prossimo come se stesso.

 

La grande separazione

«Entrate per la porta stretta, poiché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione e molti sono quelli che entrano per essa. Quanto è stretta la porta ed angusta la via che conduce alla vita, e come sono pochi quelli che la trovano! Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi con vesti di pecore, mentre internamente sono lupi rapaci. Dai loro frutti li conoscerete: forse che si raccolgono grappoli d’uva dalle spine o fichi dai rovi? Così ogni albero buono fa frutti buoni, mentre ogni albero cattivo fa frutti cattivi. Non può l’albero buono portare frutti cattivi, né l’albero cattivo portare frutti buoni. Ogni albero che non porta buon frutto viene tagliato e buttato nel fuoco. Li riconoscerete dunque dai loro frutti. Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non profetammo nel tuo nome, nel tuo nome non cacciammo demoni e nel tuo nome non facemmo molti prodigi? E allora io dirò loro: andate via da me, voi che operate l’iniquità». (Mt. 7,13-23).

La comunità di Gesù non può separarsi arbitrariamente dalla comunità di quelli che non ascoltano la chiamata di Gesù. Essa è invitata dal suo Signore, con una promessa ed un comandamento, a seguirlo. Questo le deve bastare. Essa deve affidare ogni giudizio ed ogni separazione a colui che l’ha scelta secondo il suo proponimento, non per meriti e opere sue, ma per la sua grazia. Non è la comunità ad effettuare la separazione, ma questa avviene a causa della chiamata.

Così una piccola schiera di uomini che seguono Gesù viene separata dalla maggioranza degli uomini. I discepoli sono pochi e saranno sempre pochi. Questa parola di Gesù taglia alle radici ogni falsa speranza di efficacia. Mai un seguace di Cristo ha posto la sua speranza nel numero. «Come sono pochi...», ma gli altri sono numerosi e lo saranno sempre. Ma essi vanno incontro alla loro perdizione. Quale altra può essere la consolazione dei discepoli in tale esperienza se non che a loro è promessa la vita, l’eterna comunione con Gesù?

La via di chi segue Gesù è stretta. È facile passare oltre, è facile non vederla; è facile perderla anche quando vi si è già incamminati. È difficile da trovare. La via è veramente stretta, il precipizio su ambo i lati pericoloso: essere chiamati ad una cosa straordinaria, farla eppure non vedere e non sapere di farla... questo è veramente una via stretta. Confessare la volontà di Gesù e darne testimonianza, eppure amare il nemico di questa verità, il suo ed il nostro nemico, con l’amore incondizionato di Gesù Cristo... questo è veramente una via stretta. Credere alla promessa di Gesù che chi lo segue possederà la terra, eppure incontrare, indifesi, il nemico, subire l’ingiustizia piuttosto che commetterne... questo è veramente una via stretta.

Vedere l’altro e riconoscere la sua debolezza, la sua ingiustizia, e non giudicarlo mai, annunziargli l’Evangelo, ma non gettare mai le perle ai porci... questa è veramente una via stretta. Finché in questa via riconosco quella che mi è stato ordinato di percorrere e la percorro preso dalla paura di me stesso, in realtà è una via impossibile. Ma se vedo Gesù Cristo precedere, passo dopo passo, se guardo solo a lui e lo seguo, passo per passo, sarà mantenuto su questa via. Se guardo alla pericolosità della mia azione, se guardo la via invece di guardare colui che mi precede, il mio piede sta già vacillando. Infatti egli stesso è la via. Egli è la via angusta e la porta stretta. Bisogna trovare solo lui. Se lo sappiamo, allora percorriamo la via stretta e passiamo per la stretta porta della croce di Gesù Cristo che conduce alla vita, e allora proprio il fatto che è stretta ci dà certezza. Come potrebbe essere larga la via percorsa dal Figlio di Dio in terra? via che noi, che siamo cittadini di due mondi e che viviamo al margine tra la terra ed il cielo, dobbiamo percorrere? La via stretta deve essere quella giusta.

Versetti 15-20. La separazione tra comunità e mondo è avvenuta. Ma la parola di Gesù ora avanza, giudicando e separando, nella comunità stessa. La separazione deve essere fatta sempre di nuovo tra gli stessi discepoli di Gesù. I discepoli non devono poter credere di sfuggire semplicemente il mondo e rimanere poi nella piccola schiera sulla via stretta, senza pericolo. Verranno in mezzo a loro dei profeti falsi e con la confusione aumenterà anche la solitudine. Ce n’è uno accanto a me, esteriormente un membro della comunità, c’è un profeta, un predicatore, in apparenza e a parole e a opere un cristiano, ma interiormente motivi oscuri lo spingono verso di noi, interiormente è un lupo rapace, la sua parola è menzogna e la sua opera inganno. Egli sa nascondere bene il suo segreto, ma in segreto egli compie la sua opera oscura. Egli si trova in mezzo a noi non perché ve lo abbia spinto la sua fede in Gesù Cristo, ma perché il diavolo lo spinge nella comunità. Forse egli cerca il potere e l’influenza, il denaro, la gloria, con i suoi propri pensieri e le sue profezie. Egli cerca il mondo, non il Signore Gesù Cristo. Egli nasconde i suoi malvagi progetti sotto una veste cristiana e sa che i cristiani sono un popolo credulone. Egli conta di non essere svelato nella sua veste innocente. E sa pure che ai cristiani è vietato giudicare e, a tempo debito, lo rammenterà loro. Nessun uomo può vedere nel cuore dell’altro. E così egli travia molti. Forse lui stesso non lo sa nemmeno; forse il diavolo che lo spinge gli impedisce di veder chiaro in se stesso.

Ora, avvertimenti di questo genere da parte di Gesù possono suscitare nei suoi seguaci grande paura. Chi conosce l’altro? Chi sa se dietro le apparenze cristiane non si nasconde la menzogna e il traviamento? Potrebbe, così, penetrare nella comunità una profonda diffidenza, un osservarsi a vicenda con sospetto, uno spirito di giudizio dovuto a paura. Potrebbe farsi largo una dura condanna di ogni fratello. Ma Gesù libera i suoi da questo sospetto che necessariamente dividerebbe la comunità. Egli dice: L’albero marcio porta frutti cattivi. A suo tempo si farà conoscere da sé. Non occorre che guardiamo nel cuore degli altri. Dobbiamo attendere che l’albero porti frutto. Ai frutti si riconosceranno, a suo tempo, gli alberi. Ma il frutto non si farà attendere a lungo. Qui probabilmente non s’intende il divario fra parola e opere dei falsi profeti, ma il divario fra apparenze e realtà. Gesù ci dice che un uomo non può vivere a lungo sotto false apparenze. Arriva il momento di portare frutti, arriva il momento della separazione... prima o dopo si riconoscerà chi è. All’albero non serve a nulla non voler portare frutti. Il frutto nasce da sé. E allora il momento in cui sarà necessario distinguere un albero dall’altro, il momento della fruttificazione, rivelerà tutto. Quando giunge il momento della divisione tra mondo e comunità - e può arrivare ogni momento – la confessione giusta non permette di avanzare pretese di minime scelte di tutti i giorni, si manifesterà che cosa è marcio e che cosa buono. Qui resisterà solo la realtà e non le apparenze.

Gesù s’aspetta dai suoi discepoli che, in tali occasioni, sappiano distinguere nettamente le apparenze dalla realtà e sappiano separarsi dai cristiani di nome. Questo li esime da ogni esame dell’altro uomo fatto per curiosità, ma richiede veracità e decisione nell’accettare il verdetto di Dio. Può essere prossimo il momento che i cristiani di nome vengano strappati dal nostro mezzo, che noi stessi veniamo smascherati come cristiani di nome. Perciò i discepoli sono invitati a rimanere in più stretta comunione con Gesù e a seguirlo più fedelmente. L’albero marcito verrà tagliato e gettato nel fuoco. Tutta la sua magnificenza non gli servirà a nulla.

Versetto 21. Ma la separazione che opera la chiamata di Gesù è ancora più profonda. La divisione, dopo aver separato mondo e comunità, cristiani di nome e cristiani veri, penetra nella schiera di coloro che si confessano discepoli. L’apostolo Paolo dice: «Nessuno può dire che Gesù è suo Signore se non per lo Spirito santo» (1 Cor. 12,3). Nessuno, per proprio ragionamento, per forze e decisioni proprie, può affidare la sua vita a Gesù, nessuno riconoscerlo suo Signore. Ma qui vien considerata la possibilità che ci sia chi chiama Gesù suo Signore senza lo Spirito santo, cioè senza aver sentito la chiamata di Gesù. Il che è tanto più inconcepibile se si considera che a suo tempo chiamare Gesù Signore non fruttava nulla in terra; anzi, era una confessione che esponeva ai massimi pericoli. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli». Dire Signore, Signore è la confessione della comunità. Non tutti quelli che la pronunciano entreranno nel regno dei cieli. La divisione passerà proprio in mezzo alla comunità confessante. La confessione di fede non dà nessun diritto a Gesù. Nessuno potrà mai richiamarsi alla sua confessione di fede. Il fatto di essere membri della chiesa dalla confessione giusta non permette di avanzare pretese di fronte a Dio. Non saremo beati in base a questa confessione. Se pensiamo così commettiamo lo stesso errore di Israele che considerava la grazia della sua elezione come un diritto di fronte a Dio. Pecchiamo, così, contro la grazia di colui che ci chiama. Dio non ci chiederà se siamo stati evangelici, ma se abbiamo fatto la sua volontà. Lo chiederà a tutti e così pure a noi! I confini della chiesa non sono i confini di un privilegio, ma la benevola scelta e chiamata di Dio. «Pas o legon» - e - «all’o poion» ‘dire’ e ‘fare’ non sono qui intesi senz’altro come rapporto tra parola e fatto. Qui si parla di due diversi atteggiamenti dell’uomo davanti a Dio. O legon kurie - chi dice: Signore, Signore – è l’uomo che in base al suo dir di sì avanza delle pretese, o poion - chi agisce - è chi agisce in umile obbedienza. Il primo è colui che si giustifica con la sua confessione di fede, il secondo colui che agisce, l’uomo obbediente che si affida alla grazia di Dio. Qui, dunque, proprio il parlare dell’uomo diviene il correlativo della sua autogiustificazione, l’agire, invece, il correlativo della grazia, di fronte alla quale l’uomo non può fare altro che obbedire e servire umilmente. Quello che dice: Signore, Signore, si è chiamato da sé a seguire Gesù, senza lo Spirito Santo, o ha fatto della chiamata un proprio diritto. Colui che fa la volontà di Lui è stato chiamato e graziato, obbedisce e segue Gesù. Egli sente la chiamata non come diritto, ma come giudizio e grazia, come volontà di Dio, alla quale sola egli vuole ubbidire. La grazia di Gesù richiede uomini che agiscono, e l’azione diviene la vera umiltà, la vera fede, la vera confessione della grazia di colui che ha chiamato.

Versetto 22. Chi confessa solo è dunque separato da chi agisce. Ora la separazione viene spinta ancora all’estremo. Qui, alla fine, ora parlano uomini che hanno superato le prove fino a questo punto. Sono fra quelli che agiscono, ma ora essi si richiamano appunto a questa loro azione invece che alla loro confessione di fede. Hanno operato in nome di Gesù. Sanno che la confessione non giustifica, perciò sono andati a glorificare il nome di Gesù in mezzo alla gente mediante l’azione. Ora si presentano a Gesù e gli mettono davanti le loro azioni.

Gesù qui manifesta ai suoi discepoli la possibilità di una fede satanica, che si richiama a lui, che compie opere meravigliose, simili fino all’irriconoscibile alle opere dei veri discepoli di Gesù, opere in amore, miracoli, forse anche autosantificazione, e che pure ha rinnegato Gesù ed il cammino al suo seguito. Lo stesso lo dice l’apostolo Paolo nel tredicesimo capitolo della prima epistola ai Corinti, sulla possibilità di predicare, profetizzare, avere ogni conoscenza, anzi, ogni fede tanto da poter trasportare monti, ma senza amore, cioè senza Cristo, senza lo Spirito Santo. Anzi, ancor più: Paolo deve persino considerare la possibilità di compiere le opere d’amore cristiano, di dare i propri beni, fino al martirio... senza amore, senza Cristo, senza Spirito Santo.

Senza amore - vuol dire che, nonostante tutto, in tutte queste azioni non si fa l’opera essenziale, non si segue veramente Gesù, quest’opera che, in fondo, non può realmente compiere se non colui che chiama, cioè Gesù Cristo stesso. Questa è la più profonda, la più incomprensibile possibilità del potere satanico nella comunità, l’ultima separazione, che; però, avviene solo il giorno del giudizio universale. Ma essa sarà definitiva. Chi segue Gesù, però, deve chiedere dove si trovi, allora, l’ultimo metro secondo cui uno è ben accetto a Gesù e un altro no. Chi rimane e chi no? La risposta di Gesù agli ultimi respinti dice tutto: «lo non vi ho mai conosciuti». Questo, dunque, è il segreto che viene mantenuto sin dall’inizio del sermone sulla montagna fino a questa conclusione. L’unico problema è, se siamo conosciuti da Gesù o no. A che cosa dobbiamo attenerci, se sentiamo come la Parola di Gesù compie la separazione tra comunità e mondo, e poi all’interno della comunità stessa fino al giorno del giudizio, se non ci rimane più nulla, non la nostra confessione di fede, non la nostra obbedienza? Ci rimane solo la sua Parola: «lo vi ho conosciuti». Questa è la sua Parola eterna, la sua eterna chiamata. Qui la fine del sermone sul monte chiude il cerchio riallacciandosi alla sua prima parola. La sua parola al giudizio universale... è rivolta a noi con l’invito a seguirlo. Ma dall’inizio alla fine rimane la sua Parola, la sua chiamata. Chi seguendolo non si attiene ad altro che a questa Parola, chi lascia perdere il resto, viene portato da questa Parola attraverso il giudizio universale. La sua Parola è la sua grazia.

La conclusione

«Chiunque pertanto ascolta questi miei discorsi e li mette in pratica, è simile ad un uomo saggio che edificò la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, vennero i torrenti, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma non cadde, perché era fondata sulla roccia. E chiunque ascolta questi miei discorsi e non li mette in pratica è simile all’uomo stolto che edificò la sua casa sulla rena. Cadde la pioggia, vennero i torrenti, soffiarono i venti, s’abbatterono su quella casa ed essa crollò e fu grande la sua rovina». Quando Gesù ebbe finiti questi discorsi, le folle rimasero stupite per il suo insegnamento; egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi.

Abbiamo sentito il sermone sulla montagna, forse lo abbiamo anche capito. Ma chi lo ha ascoltato veramente? A questa domanda Gesù risponde alla fine. Gesù non lascia semplicemente che i suoi uditori si allontanino, facciano del suo discorso ciò che a loro piace; che cerchino in esso ciò che a loro sembra utile per la loro vita, che esaminino in quale rapporto con la ‘realtà’ stia questo insegnamento. Gesù non dà libero corso alla sua Parola, non la concede ai suoi uditori perché ne usino come vogliono, perché con le loro mani di trafficanti ne abusino, ma la dà loro in modo tale che solo lui mantiene ogni suo potere su loro. Dal punto di vista umano ci sono infinite possibilità di intendere e di interpretare il sermone sulla montagna. Gesù conosce una sola possibilità: andare ed obbedire. Non interpretarlo, usarne, ma agire, obbedire. Solo così si ascolta la Parola di Gesù. Ma nemmeno parlare delle azioni come di una possibilità ideale, bensì incominciare veramente con il fare.

Questa Parola, alla quale concedo il potere su di me, che proviene dal «ti ho conosciuto», che mi pone subito nell’azione, nell’obbedienza, è la roccia sulla quale posso costruire una casa. A questa Parola di Gesù che viene dall’eternità corrisponde solo la semplice azione. Gesù ha parlato: a lui la parola, a noi l’obbedienza. Solo nell’azione la Parola di Gesù mantiene il suo onore in mezzo a noi, la sua forza, la sua potenza. La tempesta può ora soffiare sulla nostra casa, l’unità con Gesù, creata dalla sua Parola, non può più essere spezzata.

Accanto all’agire c’è solo il non-agire. Non esiste un voler fare ma non fare. Chi usa la Parola di Gesù diversamente che. agendo, dà torto a Gesù, nega il sermone sulla montagna, non mette in atto la sua Parola. Ogni questionare, ogni problematizzare, ogni voler interpretare è un non-agire. Compaiono qui il giovane ricco e lo scriba di Luca 10.

Per quanto io affermi la mia fede, la mia fondamentale accettazione di questa parola, Gesù lo chiama un non-agire. Ma la Parola che io non voglio mettere in atto non è, per me, una roccia, su cui possa costruire la mia casa. Qui non c’è unità con Gesù. Egli non mi ha ancora conosciuto. Perciò, se ora viene la tempesta, la Parola per me è subito persa, io mi accorgo che in realtà non ho mai creduto. lo non possedevo la Parola di Gesù, ma una parola che gli avevo strappata e fatta mia riflettendovi, ma non agendo. Ora la mia casa crolla, perché non poggia sulla Parola di Gesù.

«E le folle rimasero stupite...». Che era accaduto? Il Figlio di Dio aveva parlato. Egli aveva preso su di sé il giudizio sul mondo. Ed i suoi discepoli erano accanto a lui.

 

Matteo 9,35-10,42: I messaggeri

La messe

«E Gesù andava per le città e le borgate, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia ed infermità. Poi, avendo vedute le folle, ne ebbe pietà, perché erano stanche e spossate come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: ‘La messe veramente è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe, che mandi operai nella sua messe’» (Mt. 9,35-38).

Lo sguardo del Salvatore si posa pieno di misericordia sul suo popolo, sul popolo di Dio. Non poteva bastargli che alcuni pochi avessero ascoltato la sua chiamata e lo seguissero. Non poteva pensare a ritirarsi aristocraticamente in disparte dalla folla con i suoi discepoli, e a trasmettere a loro, alla maniera dei grandi creatori di religioni, gli insegnamenti di una dottrina superiore e di un modo di vivere perfetto. Gesù era venuto, si affaticava e soffriva per il suo popolo. Ed i discepoli che lo volevano tutto per sé, che volevano evitargli la molestia dei bambini che gli venivano portati e di altri poveri mendicanti ai margini della strada (Me. 10,48) devono riconoscere che Gesù non si lascia porre da loro dei limiti al suo servizio. Il suo Evangelo del regno di Dio e il suo potere di Salvatore appartengono ai poveri e ammalati, dovunque li trovi nel suo popolo.

La vista della folla, che nei suoi discepoli, forse, suscitava avversione, ira o disprezzo, riempiva il cuore di Gesù di profonda misericordia e afflizione. Nessun rimprovero, nessuna accusa! Il popolo amato da Dio giaceva oppresso a terra e la colpa era di coloro che avrebbero dovuto rendere loro il servizio divino. Non ne erano causa i Romani, ma il cattivo uso della Parola di Dio da parte dei servitori della Parola. Non c’erano più pastori! Un gregge che non viene più condotto alla fresca sorgente, che non viene dissetato, pecore che il pastore non protegge più dal lupo, strapazzate e ferite, spaventate e atterrite sotto il duro bastone del loro pastore, prostrato a terra: ecco come Gesù trovò il popolo di Dio. Domande senza risposta, pena senza aiuto, scrupoli di coscienza senza liberazione, lacrime senza consolazione, peccato senza perdono! Dov’era il buon pastore di cui questo popolo aveva bisogno? Che serviva se c’erano scribi che costringevano duramente il popolo a frequentare le scuole, se gli zelanti difensori della legge condannavano severamente i peccatori senza aiutarli? A che servivano i predicatori e interpreti della Parola di Dio con la loro giusta fede se non erano afferrati dalla misericordia e dal dolore per il popolo di Dio oppresso e sfruttato? A che servono scribi, gente ligia alla legge, predicatori, se mancano i pastori della comunità? Di buoni pastori, ‘pastori , ecco di che ha bisogno il gregge. «Pasci le mie pecore» è l’ultimo incarico affidato da Gesù a Pietro. Il buon pastore combatte per il suo gregge contro il lupo; il buon pastore non fugge, ma dà la sua vita per le sue pecore. Conosce per nome tutte le sue pecore e le ama. Conosce i loro bisogni, le loro debolezze. Guarisce ciò che è ferito, disseta ciò che è assetato, solleva ciò che sta per cadere. Le pasce con gentilezza e non con durezza. Le guida sulla giusta strada. Cerca la pecora smarrita, anche se è una sola, e la riconduce al gregge. I cattivi pastori, invece, dominano con violenza, dimenticano il loro gregge e si interessano solo della propria causa. Gesù cerca dei buoni pastori, ma... non ne trova.

Questo lo addolora. La sua misericordia divina abbraccia il gregge abbandonato, la folla che lo circonda. Dal punto di vista umano è un quadro disperato. Ma non per Gesù. Egli vede, lì dove il popolo di Dio è maltrattato, misero e abbandonato, il campo di Dio maturo per il raccolto. «La messe è molta». Essa è matura per essere portata nei granai. È venuta l’ora di portare a casa, nel regno di Dio, i poveri e miseri. Gesù vede che la promessa di Dio sta per realizzarsi per le folle. Gli scribi e zelanti della legge vi vedono solo un campo calpestato, bruciato, distrutto. Gesù vede il campo di spighe ondeggianti maturo per il regno di Dio. «La messe è molta». La sua misericordia solo può vederlo!

Non c’è tempo da perdere. Il raccolto non permette indugi. «Ma pochi sono gli operai». C’è da meravigliarsene, dato che a ben pochi è donato lo sguardo pieno di misericordia di Gesù? E chi potrebbe accingersi a questo lavoro se non chi è partecipe dei sentimenti di Gesù, chi ha ricevuto da lui occhi che vedono? Gesù cerca aiuto. Non può compiere l’opera da solo. Chi sono i suoi collaboratori? Solo Dio li conosce e deve darli a suo Figlio. Chi potrebbe offrirsi da sé a essere collaboratore di Gesù? Nemmeno i discepoli possono farlo. Essi preghino il Signore della messe perché mandi operai al momento opportuno; perché è ora.

 

Gli apostoli

«Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sopra gli spiriti immondi per scacciarli e curare ogni malattia e infermità. Ora i nomi dei dodici apostoli sono questi: primo Simone detto Pietro e Andrea suo fratello; Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo di Alleo e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda Iscariota, colui che poi lo tradì» (Mt. 10,1-4).

La preghiera è esaudita. Il Padre ha manifestato al Figlio la sua volontà. Gesù chiama i suoi dodici discepoli e li manda nella messe. Li fa ‘apostoli’, suoi messaggeri e collaboratori. «E diede loro potere». Infatti questo è l’importante: il potere. Gli apostoli non ricevono solo una parola, una dottrina, ma potere efficace. Come potrebbero compiere il loro lavoro senza questo potere? Dev’essere un potere maggiore del potere di colui che domina in terra, il diavolo. Che il diavolo ha potere questo lo sanno i discepoli, per quanto l’astuzia del diavolo consista proprio nel rinnegare il suo potere, nel dare all’uomo l’illusione di non esistere. È proprio questo uso così pericoloso del suo potere che dev’essere colpito. Il diavolo deve venire alla luce e deve essere vinto dal potere di Cristo. Così gli apostoli si pongono accanto a Gesù Cristo stesso. Infatti essi devono aiutarlo a compiere la sua opera. Perciò Gesù, per questo loro incarico, non nega loro il massimo dei doni, cioè quello di partecipare al suo potere sugli spiriti immondi, sul diavolo, che si è impadronito dell’umanità. In questo incarico gli apostoli sono uguali a Cristo, fanno le opere di Cristo.

I nomi di questi primi messaggeri sono conservati al mondo fino all’ultimo giorno. Il popolo di Dio conta dodici tribù. Dodici sono i messaggeri che devono compiere in esso l’opera di Cristo. Dodici troni li aspettano come giudici di Israele nel regno di Dio (Mt. 19,28). La Gerusalemme celeste avrà dodici porte, per le quali passerà il popolo e sulle quali si leggeranno i nomi delle tribù. Le mura della città hanno dodici pietre angolari, ed esse porteranno i nomi degli apostoli (Ap. 21,12 e 14).

È solo l’elezione di Gesù a unire i dodici. Simone l’uomo di pietra, Matteo il pubblicano, Simone lo zelota, colui che difende con zelo diritto e legge contro l’oppressione pagana, Giovanni che Gesù amava e che giaceva sul petto di Gesù e gli altri dei quali ci è rimasto solo il nome, ed infine Giuda Iscariota colui che lo tradì. Null’altro nel mondo avrebbe potuto unire questi uomini in una stessa opera, se non la chiamata di Gesù. In questa ogni precedente divergenza era superata, e in Gesù viene fondata una nuova forte comunione. Che anche Giuda uscì a compiere l’opera di Cristo rimane un enigma insoluto ed un terribile ammonimento.

Il lavoro

«Questi dodici Gesù mandò dopo averli istruiti, dicendo: ‘Non andate per la via dei Gentili e non entrate nelle città dei Samaritani. Andate piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele’» (Mt. 10,5 e 6).

In quanto collaboratori di Gesù i discepoli, nella loro attività, sottostanno all’ordine del loro Signore. Non possono scegliere liberamente come compiere e come intendere il loro lavoro. L’opera di Cristo che devono compiere sottopone i messaggeri completamente al volere di Gesù. Beati loro che hanno un tale incarico come compito e sono liberati da ogni parere proprio e da ogni propria valutazione.

Subito la prima parola impone ai messi una limitazione che deve essere loro parsa strana e gravosa. Non possono scegliersi il loro campo di lavoro. Non importa dove li spinge il loro cuore, ma dove vengono mandati. Con ciò risulta ben chiaro che devono compiere non l’opera loro, ma l’opera di Dio. Non sarebbe stato logico recarsi proprio dai pagani e dai samaritani, poiché proprio questi avevano particolare bisogno della buona novella? Può darsi; ma non è il loro compito. E le opere di Dio non possono essere compiute senza ordine, altrimenti verrebbero compiute senza la sua promessa. Ma il compito di predicare l’Evangelo e la promessa che ne segue non valgono dappertutto? Ambedue valgono solo lì dove Dio dà l’incarico di farlo. Non è proprio l’amore di Gesù che ci spinge ad annunziare la buona novella illimitatamente? L’amore di Gesù si distingue dall’esaltazione e dallo zelo del proprio cuore per il fatto che si attiene all’incarico. Non per il nostro amore verso i nostri fratelli nel popolo o verso i pagani in paesi stranieri, per quanto grande possa essere, noi possiamo portare loro l’annunzio della salvezza dell’Evangelo, ma solo per l’ordine che il Signore ci ha dato nel suo incarico missionario. Solo il suo incarico ci indica dove sta la sua promessa. Se Cristo non volesse che io predichi qui o lì l’Evangelo, io dovrei lasciar correre tutto e attenermi alla volontà e alla Parola di Cristo. Così gli apostoli sono legati alla Parola, all’incarico. Gli apostoli devono farsi trovare solo lì dove è la Parola di Cristo, dov’è il suo incarico. «Non andate per la via dei Gentili e non entrate nelle città dei Samaritani. Andate piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele».

Noi che eravamo fra i pagani, una volta eravamo esclusi dal messaggio. Prima Israele doveva udire e respingere il messaggio di Cristo, perché questo poi potesse giungere ai pagani e si potesse formare una comunità di pagano-cristiani secondo l’ordine di Gesù Cristo. Solo il Risorto dà l’incarico della missione. Così proprio la limitazione del compito che i discepoli non potevano comprendere, divenne la grazia dei pagani, che accettarono il messaggio del Crocifisso e Risorto. Questa è la via e la sapienza di Dio. A noi rimane solo l’incarico.

«Andando poi predicate dicendo che il regno dei cieli è vicino. Curate gli infermi, risuscitate i morti, mondate i lebbrosi e cacciate i demoni,’ gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date» (Mt. 10,7 e 8).

Il messaggio e l’attività dei messaggeri non si distinguono da quelli di Gesù stesso. Essi sono stati fatti partecipi del suo potere. Gesù ordina di annunziare la venuta del regno dei cieli e ordina i segni che confermano questo annunzio. Gesù comanda di guarire gli infermi, di purificare i lebbrosi, di risuscitare i morti, di cacciare i demoni. L’annunzio diviene avvenimento e l’avvenimento conferma l’annunzio. Regno di Dio, Gesù Cristo, perdono dei peccati, giustificazione del peccatore per fede tutto questo non è altro che distruzione del potere del diavolo, guarigione, risurrezione dei morti. In quanto Parola del Dio onnipotente è azione, avvenimento, miracolo. Quell’uno, Gesù Cristo, percorre il mondo e compie la sua opera tramite i suoi dodici messaggeri. La grazia regale di cui sono forniti i discepoli, è la Parola di Dio creatrice e redentrice.

«Non prendete né oro né argento, né rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né calzari, né bastone, poiché l’operaio ha diritto al suo nutrimento» (Mt. 10,9 e 10).

Poiché l’ordine e il potere dei messaggeri poggia solo sul Parola di Gesù, negli inviati di Gesù non si deve vedere nulla che possa rendere poco chiara o poco credibile questa missione regale. I messaggeri devono rendere testimonianza della ricchezza del loro Signore mediante la loro regale povertà. Quello che hanno ricevuto da Gesù non è un possesso loro col quale potrebbero acquistarsi altri beni. «Lo avete ricevuto gratuitamente». Essere messaggero di Gesù non attribuisce alcun diritto personale, nessun diritto a onore o potenza. Anche lì dove il libero messaggero si è mutato in pastore ‘di ruolo’, non può essere diversamente. I diritti dell’uomo che ha studiato, le pretese sociali di classe non hanno più alcun valore per chi è divenuto messaggero di Gesù. «Gratuitamente avete ricevuto». Oppure non è stata solo la chiamata di Gesù che ci ha attirati, senza che lo meritassimo, al suo servizio? «Gratuitamente date». Fate vedere chiaramente che con tutte le ricchezze che avete da dare, non chiedete nulla per voi, nessun bene, ma neppure onore, riconoscimento, e neppure gratitudine! Che cosa me ne darebbe il diritto? Tutto l’onore che ricadesse su di noi, sarebbe rubato a colui al quale appartiene realmente, al Signore che ci ha inviati. La libertà dei messaggeri di Gesù deve dimostrarsi nella loro povertà. Se Marco e Luca si distinguono un poco da Matteo nell’elenco delle cose che ai discepoli è vietato o ordinato di portare con sé, non se ne possono, però, trarre conclusioni diverse. Gesù ordina a coloro che escono con i pieni poteri dalla sua Parola di restare poveri. È bene riconoscere chiaramente che si tratta di un ordine di Gesù. Sì, lo stato dei possedimenti dei discepoli è regolato fin nei minimi particolari. Non si devono mettere in vista come mendicanti, con vesti stracciate, né essere di peso agli altri come parassiti. Ma devono girare indossando il ‘vestito di servizio’, cioè poveramente. Devono avere con sé tanto poco quanto colui che, facendo un viaggio, è sicuro di trovare presso amici un alloggio che lo accolga e gli dia il cibo necessario. Non che debba avere questa fiducia negli uomini, ma in colui che li ha inviati, nel loro Padre celeste che provvederà a loro. Così renderanno credibile il messaggio che annunziano, cioè la venuta della Signoria di Dio in terra. Con la stessa libertà con cui compiono il loro servizio, essi accettino pure alloggio e nutrimento, non come pane concesso a mendicanti, ma come cibo che un operaio merita. ‘Operai’ così Gesù chiama i suoi messaggeri. La pigrizia naturalmente non merita cibo. Ma che cos’è lavoro se non questa lotta con le forze di Satana, questa lotta per conquistare i cuori degli uomini, questa rinunzia alla propria gloria, ai beni e alle gioie del mondo per amore del servizio dei poveri, degli oppressi, dei miserabili? Dio stesso è stato «tormentato e stancato dagli uomini» (Is. 43,24), l’anima di Gesù è stata tormentata fino alla morte sulla croce per la nostra salvezza (Is. 53,11). I messaggeri partecipano a questo tormento col loro annunzio, con la vittoria su Satana e con la preghiera d’intercessione. Chi non riconosce questa fatica non ha capito ancora nulla del servizio del fedele messaggero di Gesù. Senza vergognarsi possono accettare la quotidiana retribuzione del loro lavoro; senza vergognarsi, però, devono restare poveri per amore del loro servizio.

«In qualsiasi città o borgata entriate, informatevi chi in essa è degno, e là restate fino alla vostra partenza. Entrando poi nella casa salutatela e, se la casa ne è degna, la vostra pace venga su di essa, se invece non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. E se qualcuno non vi riceve, né ascolta le vostre parole, uscendo fuori di quella casa o città, scuotete via la polvere dai vostri piedi. In verità, vi dico, toccherà una sorte più sopportabile alla terra di Sodoma e Gomorra nel giorno del giudizio che a quella città» (Mt. 10,11-15).

Il lavoro nella comunità partirà dalle case «che sono degne» di ospitare i messaggeri di Gesù. Dio ha ancora dappertutto una comunità che prega e attende. In essa i discepoli vengono accolti umilmente e volentieri nel nome del loro Signore. In essa il loro lavoro sarà sostenuto dalla preghiera, in essa c’è una piccola schiera che è vicaria per tutta la comunità. Per impedire, nella comunità, discordie e falsa concupiscenza o arrendevolezza dei discepoli, Gesù ordina agli apostoli di restare nella stessa casa per il tempo che si trovano nello stesso luogo. I messaggeri, entrando in una città, vengano immediatamente al nocciolo del loro compito. Il tempo è prezioso e breve. Ancora molti attendono il messaggio. Già la prima parola di saluto, con la quale si rivolgono al Signore della casa: «Pace a questa casa!» (Lc. 10,5) non è una vuota formula, ma porta subito la potenza della pace di Dio a quelli che «ne sono degni». L’annunzio dei messaggeri è breve e chiaro. Essi annunziano la venuta del regno di Dio, essi chiamano alla conversione (= tornare indietro, mutar rotta!) e alla fede. Vengono con i pieni poteri di Gesù di Nazareth. Si esegue un ordine, si fa un’offerta con la massima autorità. E con ciò tutto è fatto. Poiché tutto è della massima semplicità e chiarezza, e poiché la causa non ammette rinvio, essa non ha neppure bisogno di lunga preparazione, discussione, insistenza. Un re sta davanti alla porta, può entrare da un momento all’altro: volete sottomettervi a lui e accoglierlo umilmente, o volete che, nella sua via, egli vi distrugga e uccida? Chi vuol ascoltare ha udito tutto, non può voler trattenere il messo, perché questo deve proseguire per la prossima città. Ma chi non vuol udire, per quello il tempo della grazia è passato, egli ha espresso su di sé il proprio giudizio. «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori» (Ebr. 4,7): questo è predicazione evangelica. Sarebbe una fretta spietata? Nulla v’è di più spietato del voler illudere gli uomini che hanno ancora tempo per mutare rotta. Nulla v’è di più misericordioso, nessun messaggio è più lieto di quello che annunzia che c’è fretta, che il regno è molto vicino. Il messaggero non può attendere che venga ripetuto sempre di nuovo ai singoli. nel loro linguaggio. Il linguaggio di Dio è sufficientemente chiaro. Il messo non decide nemmeno chi vuole e chi non vuole sentire. Dio solo conosce quelli che «ne sono degni». E questi udranno la Parola, così come viene annunziata dai discepoli. Ma guai alla città e alla casa, dove il messaggero di Gesù non viene accolto! Sarà giudicata terribilmente. Sodoma e Gomorra, le città della immoralità e della perdizione, dovranno attendersi un giudizio più mite di queste città di Israele che respingono la Parola di Gesù. Vizi e peccati possono essere perdonati dalla Parola di Gesù, ma chi rifiuta questa stessa Parola di salvezza, non ha più alcuna possibilità di salvezza. Non c’è peccato più grave che l’incredulità di fronte all’Evangelo. Ai messaggeri, in questo caso, non resta altro che andarsene. Se ne vanno perché la Parola qui non può rimanere. Con timore e meraviglia allo stesso tempo devono riconoscere la potenza e la debolezza della Parola divina. Ma poiché i discepoli non possono né devono ottenere, con costrizione, nulla contro la Parola o oltre alla Parola, poiché il loro compito non è lotta eroica, non imposizione fanatica di una grande idea, di una «buona causa», perciò si fermano solo lì dove la Parola di Dio rimane. Se questa viene respinta, essi si lasciano respingere con essa. Ma scuotono la polvere dai loro piedi come segno della maledizione che colpirà questo luogo e della quale essi non saranno partecipi. Ma la pace che essi hanno portato a questo luogo ricadrà su di loro. «Questa è la consolazione dei ministri della chiesa che credono di non riuscire a nulla. Non rammaricatevi; ciò che gli altri non accettano, per voi stessi sarà di tanto maggiore benedizione. È il Signore che lo lice; costoro lo hanno disprezzato, perciò tenetelo per voi» (Bengel).

 

 

Le sofferenze dei messaggeri

«Ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi: siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe. Guardatevi, però, dagli uomini, perché vi consegneranno ai sinedri e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe. E sarete ancora condotti davanti a governatori e a re, per causa mia, in testimonianza ad essi e alle genti. Quando però vi abbiano consegnati nelle loro mani, non vi date pensiero come o cosa dovrete dire, perché vi sarà dato in quell’ora cosa dovrete dire. Non siete infatti voi che parlate, ma lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. Il fratello consegnerà a morte il fratello, il padre il figlio e i figli insorgeranno contro i genitori e li daranno a morte. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine, sarà salvo. Quando poi vi perseguitino in una città, fuggite nell’ altra, perché in verità vi dico, non finirete le città d’Israele, fino a che venga il Figlio dell’uomo. Non c’è discepolo da più del maestro, né servo da più del padrone. Basta al discepolo che divenga come il suo maestro e al servo come il suo padrone. Se hanno chiamato Beelzebul il padrone di casa, quanto più i suoi domestici?» (Mt.10,16-25).

Insuccesso e inimicizia non possono confondere il messo a proposito dell’incarico avuto da Gesù. Gesù lo ripete, perché sia loro di forte sostegno e consolazione:

«Ecco, io vi mando...». Non è una via propria: è missione. Con ciò il Signore promette che sarà con i suoi messi, quando si troveranno come pecore in mezzo ai lupi, indifesi, impotenti, impauriti e in grave pericolo. Non accadrà loro nulla che Gesù non lo sappia. «Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe». Quante volte servitori di Gesù hanno abusato di questa frase! Quant’è difficile, anche per il messaggero più volonteroso di Gesù, intendere bene questo ammonimento e restare obbediente. Chi è in grado di distinguere sempre prudenza divina da furbizia umana? Quanto più volentieri si rinuncia dunque ad ogni ‘prudenza’ e si usa solo la semplicità delle colombe e ci si rende, proprio così, disobbedienti. Chi ci dice dove cerchiamo di evitare la sofferenza per paura e dove la cerchiamo per temerarietà? Chi ci indica i limiti nascosti? Infatti è la stessa disubbidienza che ci induce a richiamarci all’ordine di essere prudenti contro la semplicità e, al contrario, all’ordine di essere semplici contro la prudenza. Poiché qui nessun cuore umano sa distinguere e poiché Gesù non ha mai chiamato un discepolo all’incertezza, l’ammonimento di Gesù non può essere che l’invito ad attenersi alla sua Parola. Il discepolo rimanga lì dov’è la Parola, questa è vera prudenza e semplicità. Se la Parola deve cedere perché viene evidentemente respinta, il discepolo si allontani assieme alla Parola; se la Parola rimane nel combattimento aperto, anche il discepolo rimanga. In ambedue i casi agirà allo stesso tempo con prudenza e con semplicità.

Mai un discepolo per ‘prudenza’ si incammini per una via che non può sussistere di fronte alla Parola di Gesù. Non giustifichi mai con «prudenza spirituale» una via che non corrisponde alla Parola. Solo la verità della Parola gli insegnerà a riconoscere ciò che è prudente. Ma non può mai essere ‘prudente’ detrarre anche solo una minima parte dalla verità per amore di una prospettiva o speranza umana. Non è il nostro giudizio su una situazione a indicarci che cosa è prudente, ma solo la verità della Parola di Dio. Prudente può essere solo il rimanere sempre aderenti alla verità di Dio. Solo in questo si trova la promessa della fedeltà e dell’aiuto di Dio. Si dimostrerà vero in ogni occasione che la cosa «più prudente» per il discepolo è di attenersi semplicemente alla Parola di Dio.

Basandosi sulla Parola i messaggeri acquisteranno anche la necessaria conoscenza degli uomini. «Guardatevi dagli uomini». I discepoli non mostreranno di temere gli uomini, di diffidare di loro, ma soprattutto mostreranno non solo di provare odio per gli uomini, ma nemmeno leggera incredulità, avranno fiducia nel bene in ogni uomo; ma mostreranno una reale conoscenza e un giusto rapporto tra Parola e uomo, e uomo e Parola. Sono divenuti sobri, e così possono anche sopportare la predizione di Gesù che la loro via in mezzo agli uomini sarà una via crucis. Ma nel dolore dei discepoli c’è una meravigliosa forza. Mentre il delinquente subisce la sua punizione di nascosto, la via della sofferenza conduce i discepoli al cospetto dei principi e sovrani, «per cagion mia, per servire da testimoni dinanzi a loro e ai Gentili». il messaggio si diffonderà tramite la sofferenza. Poiché questo è il piano di Dio e la volontà di Gesù, anche l’ora della resa dei conti davanti a tribunali e troni darà ai discepoli la forza di una buona confessione di fede, di una testimonianza senza timore. Lo Spirito santo stesso li assisterà. Egli li renderà invincibili. Egli darà loro «una sapienza alla quale tutti i vostri avversari non potranno contrastare né contraddire» (Lc. 21,15). Poiché i discepoli nelle sofferenze si atterranno alla Parola, la Parola li assisterà. Un martirio cercato volontariamente è privo di promessa. La sofferenza con la Parola ne è certa.

L’odio per la parola dei messaggeri di Gesù rimarrà fino alla fine. Accuserà i discepoli di ogni discordia che avverrà fra città e case. Gesù e i suoi discepoli verranno condannati da tutti come distruttori delle famiglie, come seduttori del popolo, come pazzi fanatici, e come istigatori di ribellioni. La tentazione di rinnegare Gesù qui si è molto avvicinata al discepolo. Ma anche la fine è vicina. Fino a quel momento bisogna ancora restare fedeli, sopportare, perseverare. Beato sarà solo chi si atterrà fino alla fine a Gesù e alla sua Parola. Ma quando verrà la fine, quando l’inimicizia per Gesù e i suoi discepoli sarà manifesta in tutto il mondo, allora, ma solo allora, i messaggeri fuggiranno da una città all’altra per annunziare la Parola solo là dove viene ancora ascoltata. Anche in questa fuga non si separeranno dalla Parola, ma vi si atterranno strettamente.

La promessa di Gesù del suo prossimo ritorno ci è stata trasmessa dalla comunità nella certezza della sua realtà. Il suo compimento è oscuro e non è bene cercare espedienti umani. Ma una cosa è certa e l’unica importante per tutti noi oggi, che la venuta di Gesù sarà improvvisa e che è più certa del fatto che noi oggi potremo ancora terminare la nostra opera al suo servizio, che è più certa della nostra morte. In tutto ciò i messaggeri di Gesù non possono trovare consolazione maggiore che la certezza che, nelle loro sofferenze, saranno simili al loro Signore. Come il maestro così il discepolo, come il padrone così il servitore. Se Gesù viene chiamato Beelzebul, quanto più lo saranno i servitori della sua casa. E Gesù sarà presso di loro ed essi saranno in tutto uguali a Cristo.

La decisione

«Non temeteli dunque, perché non vi è nulla di nascosto che non sarà rivelato e nulla di occulto che non sarà conosciuto. Quello che dico a voi nelle tenebre, ditelo nella luce e quello che udite all’orecchio, predicatelo sui tetti. Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete piuttosto colui che può fare perdere anima e corpo nella Geenna. Due passeri non si vendono forse per un asse? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Persino i capelli del vostro capo sono stati tutti contati. Non temete dunque: voi siete ben più di molti passeri. Chiunque pertanto mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli. Chiunque invece mi avrà rinnegato davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli. Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace ma la spada. Sono venuto infatti a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre e la nuora dalla suocera; e nemici dell’uomo saranno i suoi familiari. Chi ama il padre o la madre più di me e chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà e chi avrà perduta la sua vita per causa mia la troverà» (Mt.10, 26-39).

Il messaggero rimane con la Parola e la Parola rimane con il messaggero, ora ed in eterno. Tre volte Gesù conferma i suoi messaggeri con il grido: «non temete». Ciò che loro ora accade in segreto, non rimarrà nascosto, ma sarà manifesto davanti a Dio e agli uomini. Al dolore nascosto che viene loro inferto è stata fatta la promessa che un giorno sarà manifesto, a giudizio e a glorificazione dei messaggeri. Ma anche la testimonianza dei messaggeri non resterà nascosta, ma diverrà testimonianza manifesta. L’Evangelo dovrà essere non azione settaria nascosta, ma predicazione aperta. Anche se oggi deve vivere ancora, qui e lì, al margine, negli ultimi tempi questa predicazione riempirà tutto l’orbe terrestre, per la salvezza e per la perdizione. Ma l’Apocalisse di Giovanni predice: «Poi vidi un altro angelo volare in mezzo al cielo, recante l’evangelo eterno per annunziarlo a quelli che abitano sulla terra, e ad ogni nazione e tribù e lingua e popolo» (Ap. 14,6). Perciò «non temete».

Non si devono temere gli uomini. Essi non possono fare molto male ai discepoli. Il loro potere cessa con la morte corporale. Ma i discepoli devono vincere la paura della morte con il timor di Dio. Non il giudizio degli uomini, ma il giudizio di Dio, non la distruzione del corpo, ma l’eterna perdizione del corpo e dell’anima costituiscono il pericolo per il discepolo. Chi teme ancora gli uomini non teme Dio. Chi teme Dio non teme più gli uomini. Questa affermazione è degna di essere ricordata ogni giorno dai predicatori dell’Evangelo.

Il potere dato per breve tempo agli uomini in terra non è dato senza che Dio lo sappia e lo voglia. Se cadiamo nelle mani degli uomini, se soffriamo o veniamo uccisi dalla violenza degli uomini, siamo tuttavia sicuri che tutto viene da Dio. Lui che non vede cadere un passero senza che lui lo voglia e lo sappia, non permette che accada nulla che non sia utile o bene per i suoi e per la causa loro affidata. Siamo nelle mani di Dio. Perciò «non temete».

Il tempo è breve. L’eternità è lunga. È tempo di decisione. Chi si attiene, in terra, alla Parola e alla confessione di fede, per costui Gesù Cristo testimonierà nell’ora del giudizio. Egli lo riconoscerà e starà dalla sua parte quando l’accusatore reclamerà il suo diritto. Tutto il mondo sarà testimone quando Gesù chiamerà i nostri nomi al cospetto del Padre suo nei cieli. Se uno durante la vita si è attenuto a Gesù, Gesù si metterà dalla sua in eterno. Ma se uno si vergogna di questo Signore e del suo Nome, se lo rinnega, anche Gesù si vergognerà di lui in eterno e lo rinnegherà.

Quest’ultima separazione deve già avere inizio in terra. La pace di Gesù Cristo è la croce. Ma la croce è la spada di Dio in terra. Essa divide: il figlio contro il padre, la figlia contro la madre, i familiari contro i familiari, e tutto questo per amore del regno di Dio e della sua pace; questa è l’opera di Cristo in terra. Ci si può meravigliare se il mondo accusa di odio per gli uomini colui che portò l’amore di Dio agli uomini? Chi parla così dell’amore paterno e materno, dell’amore per il figlio e per la figlia se non o il distruttore di ogni vita oppure il creatore di una vita ‘nuova’? Chi può arrogare a sé solo l’amore e il sacrificio degli uomini, se non il nemico degli uomini oppure invece il salvatore degli uomini? Chi porterà la spada nelle case se non il demonio o Cristo, il principe della pace! L’amore di Dio per gli uomini e l’amore degli uomini per i loro simili sono troppo diversi. L’amore di Dio per gli uomini si chiama croce e obbedienza, ma, proprio in queste, vita e resurrezione. Chi perderà la sua vita per amar mio la troverà. Questa è la promessa di colui che ha potere sulla morte, del Figlio di Dio, che va incontro alla croce e alla resurrezione e prende con sé i suoi seguaci.

 

Il frutto

«Chi accoglie voi accoglie me e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta in quanto profeta riceverà la ricompensa del profeta e chi accoglie un giusto in quanto giusto riceverà la ricompensa del giusto. E chi darà da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa» (Mt. 10,40-42).

I portatori della Parola di Gesù ricevono un’ultima promessa per la loro opera. Sono divenuti collaboratori di Dio e suoi aiutanti, saranno uguali a Cristo in tutto, perciò devono essere «come Cristo» anche per gli uomini dai quali vanno. Con loro Gesù Cristo stesso entra nella casa che li accoglie. Essi portano la sua presenza. Essi portano agli uomini il dono più prezioso, Gesù Cristo, e con lui Dio Padre, e questo vuoI dire perdono, salvezza, vita, beatitudine. Questo è la ricompensa ed il frutto del loro lavoro e della loro sofferenza. Ogni servizio reso a loro è servizio reso a Gesù Cristo stesso. È allo stesso tempo grazia per la comunità e per i messaggeri stessi. La comunità farà tanto più volentieri del bene ai messi, li onorerà e li servirà, poiché con loro il Signore stesso è entrato da loro. Ma i discepoli sanno che la loro entrata in una casa non resta vana o senza senso; essi portano un dono incomparabile. C’è una legge nel regno di Dio, che ognuno diviene partecipe del dono che accetta prontamente come dono di Dio. Chi riceve il profeta sapendo quello che fa, costui parteciperà alla sua causa, al suo dono e alla sua ricompensa. Chi riceve un giusto riceverà la ricompensa di un giusto, perché ha partecipato alla sua giustizia. Ma chi offre a uno di questi minimi, di questi miserabili, che non hanno diritto ad alcun titolo d’onore, di questi messaggeri di Gesù Cristo, anche solo un bicchiere d’acqua, quello ha servito Gesù Cristo stesso, e gli sarà data la ricompensa di Gesù Cristo.

Così l’ultimo pensiero dei messaggeri non viene rivolto alla loro propria via, alla loro sofferenza e alla loro ricompensa, ma alla meta del loro lavoro, alla salvezza della comunità.

 

 

PARTE SECONDA

La Chiesa di Gesù Cristo e la sua obbedienza

Domande preliminari

Gesù era fisicamente presente con la sua Parola presso i suoi primi discepoli. Ma questo Gesù è morto e risorto. Come ci raggiunge oggi l’invito a seguirlo? Gesù non passa più fisicamente accanto a me, come passò accanto al pubblicano Levi, per chiamarmi: seguimi! Anche se fossi pienamente pronto ad ascoltarlo, a lasciare tutto e a seguirlo, chi me ne dà il diritto? Ciò che allora era così chiaro, per me è una decisione molto dubbia, incontrollabile. Come potrei attribuire a me per es. la chiamata di Gesù rivolta al pubblicano? Gesù, ad altri e in altri momenti, non ha forse parlato in maniera ben diversa? Ha forse amato meno il paralitico, a cui perdonò i peccati e che guarì? O Lazzaro che risuscitò dai morti? Eppure non li chiamò a lasciare la loro professione e a seguirlo, ma li lasciò a casa loro, nella loro famiglia e professione. Chi sono io che mi offrirei volontariamente a compiere qualcosa di insolito, di straordinario? Chi dice a me e chi dice agli altri che non agisco per mia volontà e fanatismo? E questo non sarebbe certo un seguire Gesù. Tutte queste domande sono domande false, con le quali ci poniamo sempre di nuovo al di fuori della presenza viva di Cristo. Queste domande non tengono conto del fatto che Gesù Cristo non è morto, ma vive anche oggi e ci parla ancora mediante la testimonianza delle Scritture. È presente oggi, col suo corpo e con la sua Parola. Se vogliamo sentire il suo invito a seguirlo, dobbiamo sentirlo lì dove si trova lui stesso. Gesù Cristo chiama nella Chiesa, mediante la sua Parola e il suo Sacramento. Nella predicazione e nel Sacramento della Chiesa è presente Gesù Cristo. Se vuoi udire la chiamata di Gesù non hai bisogno di una manifestazione personale. Ascolta la predicazione e ricevi i Sacramenti! Ascolta l’annunzio del Signore crocifisso e risorto! Qui egli è lo stesso che incontrò i discepoli. Sì, Gesù è presente come il Cristo trasfigurato, vincitore, vivente. Nessun altro se non lui stesso può invitare a seguirlo. Ma poiché al suo seguito non si tratta mai essenzialmente di decidersi per questa o quella azione, ma sempre della decisione per o contro Cristo, appunto perciò la situazione per il discepolo o il pubblicano, che era chiamato da lui, non era per nulla più chiara di quella nostra oggi. Anche per quei primi chiamati l’obbedienza voleva dire seguire Gesù solo in quanto riconoscevano Cristo in colui che li chiamava. Ma allora come oggi è il Cristo nascosto che chiama; la chiamata in sé è ambigua. Importante è solo chi chiama. E Cristo può essere riconosciuto solo per fede. Questo era vero per gli uomini di allora non meno che per noi oggi. Costoro vedevano il rabbino e taumaturgo e riconoscevano in lui Cristo. Noi ascoltiamo la Parola e vi riconosciamo Cristo.

Ma i primi discepoli non erano forse dei privilegiati, perché, quando avevano riconosciuto Cristo, ricevevano il suo comando in maniera inequivocabile; sentivano dalla sua bocca che cosa dovevano fare, mentre noi, proprio in questo punto decisivo per l’obbedienza cristiana, siamo lasciati soli? Lo stesso Cristo non parla forse a noi in maniera diversa da quella con cui parlò agli altri? Se ciò fosse vero, allora certo saremmo in una situazione disperata. Ma non è affatto vero. Cristo non ci parla in modo diverso da come parlò a suo tempo. Anche i discepoli di Gesù non riconobbero in lui prima il Cristo e ricevettero dopo i suoi comandamenti; lo riconobbero solo tramite la sua parola e il suo comandamento. Credettero alla sua Parola e al suo comandamento, e riconobbero in lui il Cristo. Per i discepoli non ci fu altra possibilità di riconoscerlo se non tramite la sua decisa Parola. Perciò doveva accadere anche il contrario: cioè riconoscere Gesù come il Cristo comportava anche il riconoscere la sua volontà. Il riconoscimento della persona di Gesù Cristo non toglieva al discepolo la certezza della sua azione, ma anzi la creava. Non c’è nessun’altra possibilità di conoscere il Cristo. Se Cristo è il Signore vivente della mia vita, nell’incontro con lui io ricevo la sua Parola per me, quant’è certo che non lo riconosco veramente se non tramite la sua chiara Parola e il suo comandamento. L’obiezione, che in questo sta appunto la nostra miseria, che vorremmo, sì, riconoscerlo e credere in lui, ma non siamo in grado di riconoscere la sua volontà, è il segno di una conoscenza di Cristo vaga e sbagliata. Riconoscere Cristo significa riconoscerlo nella sua Parola come Signore e Salvatore della mia vita. Ma questo comprende il riconoscimento della sua Parola rivoltami con chiarezza.

Se, infine, diciamo che il comandamento ai discepoli è stato univoco, mentre noi dobbiamo decidere quale delle sue parole vale per noi, fraintendiamo ancora non solo la situazione dei discepoli, ma anche la nostra. Il comandamento di Gesù ha sempre come scopo quello di pretendere la fede di un cuore indiviso, di pretendere amore per Dio e per il prossimo, di tutto cuore e con tutto l’animo. Solo in questo il comandamento era inequivocabile. Ogni tentativo di seguire l’ordine di Gesù senza intenderlo in questo senso, vorrebbe dire fraintenderlo e disobbedire alla Parola di Gesù. D’altro canto anche a noi non è tolta la possibilità di riconoscere il comandamento concreto. Anzi, questo ci viene annunziato in ogni parola nella quale udiamo Cristo, ci viene chiaramente detto, ma certo in modo tale da farci riconoscere che il suo adempimento avviene solo nella fede in Gesù Cristo. Così il dono di Gesù ai suoi discepoli ci è pienamente mantenuto, anzi, ci è ancora più vicino a causa della morte di Gesù, della conoscenza della sua trasfigurazione e della missione dello Spirito Santo.

Questo dovrebbe averci fatto capire chiaramente che non possiamo più opporre il racconto della vocazione dei discepoli ad altri racconti. Non si tratta mai, per noi, di essere o di divenire uguali a discepoli o ad altre persone del Nuovo Testamento, ma solo del fatto che Gesù Cristo e la sua chiamata non sono diversi oggi da allora. La sua Parola è sempre la stessa, sia essa pronunciata durante la sua vita in terra o oggi, rivolta ai discepoli o al paralitico. Oggi come allora si tratta della sua misericordiosa chiamata al suo regno e sotto la sua Signoria. La questione, se io debba paragonarmi al discepolo o al paralitico, è una domanda posta in un modo pericolosamente errato. lo non devo paragonarmi a nessuno dei due. Devo solo ascoltare e mettere in atto la Parola e la volontà di Cristo, così come la ricevo in questa o quella testimonianza. La Scrittura non ci presenta una serie di tipi cristiani, a cui dovremmo, a nostra scelta, conformarci, ma ci predica in ogni passo l’unico Gesù Cristo. Solo lui io devo ascoltare. Egli è sempre lo stesso.

Perciò alla domanda, dove noi cristiani del nostro tempo possiamo sentire la chiamata di Gesù, non rimane altra risposta che: ascolta la predicazione, ricevi il suo Sacramento, ascolta in essi lui stesso e sentirai la sua chiamata.

 

Il battesimo

Il concetto del seguire Gesù che presso i sinottici riusciva ad esprimere quasi interamente il contenuto e l’ampiezza del rapporto tra discepolo e Gesù Cristo, presso l’apostolo Paolo viene messo completamente in secondo piano. Paolo non ci annunzia in primo luogo la biografia del Signore in terra, ma la presenza del risorto e trasfigurato e la sua opera in noi. Per questo c’è bisogno di una nuova e propria concettualizzazione. Essa nasce dalla particolarità dell’oggetto e tende all’unità dell’ annunzio di quell’unico Signore che visse, morì e risorse. Alla testimonianza completa di Cristo corrisponde una molteplice concettualizzazione. La concezione di Paolo conferma quella dei sinottici e viceversa, e nessuna prevale sull’altra; perché noi non siamo «di Paolo o di Apollo o di Cefa o di Cristo», ma prestiamo fede all’unità della testimonianza di Cristo data dalla Scrittura. Noi spezzeremmo l’unità della Scrittura se volessimo dire che Paolo annunzia quel Cristo che è ancora altrettanto presente a noi, mentre la testimonianza dei sinottici parlerebbe di una presenza di Gesù Cristo che noi non conosciamo più. Un tale discorso per lo più è considerato pensiero storico-riformato, ma in realtà è proprio il contrario, è la più pericolosa esaltazione. Chi ci dice che noi abbiamo ancor oggi la presenza di Gesù come è stata predicata da Paolo? Chi lo dice se non la Scrittura stessa? O forse si parla qui di un’esperienza della presenza e realtà di Cristo, libera e non vincolata dalla Parola? Ma se solo nella Scrittura ci viene testimoniata la presenza di Gesù Cristo, essa testimonia tutta, e perciò allo stesso tempo come quella che ci testimonia la presenza del Gesù dei sinottici. Il Cristo dei sinottici non è né più vicino né più lontano da noi di quanto lo sia Cristo di Paolo. Ci è presente quel Cristo del quale testimonia tutta la Scrittura. Egli è colui che si è fatto uomo, è stato crocifisso ed è risorto e trasfigurato; egli ci viene incontro nella sua Parola. La diversa prospettiva con cui i sinottici e Paolo ci trasmettono questa testimonianza non toglie nulla all’unità della testimonianza della Scrittura[12].

Chiamata e dedizione a Gesù trovano, presso Paolo, l’atto corrispondente nel battesimo. Battesimo non è offerta di sé da parte dell’uomo, ma offerta di Gesù Cristo. Si fonda esclusivamente sulla benigna volontà di Gesù Cristo che chiama. Battesimo significa essere battezzati,  cioè ‘subire’ la chiamata di Cristo. Con esso l’uomo diviene possesso di Cristo. Sul battezzato viene pronunciato il nome di Gesù Cristo, l’uomo così diviene partecipe di questo nome, viene battezzato «in Gesù Cristo» (Rom. 6,3; Gal. 3,27; Mt. 28,19). Ora appartiene a Gesù Cristo. È stato strappato alla signoria del mondo ed è divenuto ‘possedimento’ di Cristo.

Perciò il battesimo è una rottura. Cristo interviene nel dominio di Satana e mette la sua mano sui suoi, crea la sua comunità. Passato e futuro sono così nettamente separati. Le cose vecchie sono passate, tutto è divenuto nuovo. La rottura non avviene, perché un uomo strappa le proprie catene da sé, perché ha un desiderio insaziabile di un nuovo ordine libero della sua vita e di tutte le cose; Cristo stesso da tempo ha compiuto la rottura. Nel battesimo questa rottura viene attribuita anche alla mia vita. Il rapporto immediato con le cose del mondo mi viene tolto, perché Cristo, il Signore e mediatore, si è frapposto. Chi è battezzato non appartiene più a questo mondo, non serve più a lui, non gli è più assoggettato. Appartiene solo a Cristo ed il suo rapporto con il mondo passa attraverso Cristo.

La rottura con il mondo è completa. Pretende ed opera la morte dell’uomo[13]. Nel battesimo l’uomo con il suo vecchio mondo muore. Anche questa morte, nel senso più stretto, è da intendere come un fatto che si subisce. Non è l’uomo a tentare di darsi questa morte con molteplici rinunce e sacrifici. Una tale morte non sarebbe mai la morte del vecchio uomo richiesta da Cristo. Il vecchio uomo non può mai uccidere se stesso; non può volere la sua morte. L’uomo muore solo a causa di Cristo, mediante Cristo, con Cristo. Cristo è la sua morte. Solo per amore della comunione con Cristo e in essa l’uomo muore. Con la comunione con Cristo nella grazia del battesimo egli riceve la sua morte[14]. Questa morte è la grazia che l’uomo non può mai procurarsi da sé. Certo, in lui il vecchio uomo e il peccato viene giudicato, ma da questo giudizio nasce l’uomo nuovo che è morto al mondo e al peccato. Perciò questa morte non è l’ultima irata condanna delle creature da parte del Creatore, ma è benevola accettazione delle sue creature da parte del Creatore. Questa morte nel battesimo è la benevola morte acquistataci dalla morte di Cristo. È la morte nella potenza e nella comunione della croce di Cristo. Chi appartiene a Cristo deve porsi sotto la croce, deve soffrire e morire con lui. Chi riceve la comunione con Gesù Cristo deve morire la benedetta morte del battesimo. Questa è opera della croce di Cristo alla quale Gesù sottopone chi vuole seguirlo. La croce e la morte di Cristo era dura e difficile, il giogo della nostra croce è leggero e soave a causa della comunione con lui. La croce di Cristo è la nostra morte, che avviene una volta sola ed è piena di grazia, nel battesimo. La nostra croce, alla quale siamo chiamati, è la quotidiana morte nella forza della morte compiuta da Cristo. Così il battesimo diviene dono della comunione con la croce di Gesù Cristo (Rom. 6,3 ss.; Col. 12,12). Il credente si pone sotto la croce di Cristo.

La morte del battesimo è l’affrancamento dal peccato. Il peccatore deve morire per essere liberato dal peccato. Chi è morto è affrancato dal peccato (Rom. 6,7; Col. 2,20). Sui morti il peccato non esercita più alcun diritto, il suo conto è completamente saldato ed estinto con la morte. Così l’affrancamento dal (apo) peccato avviene solo mediante la morte. Perdonare i peccati non significa ignorarli, dimenticarli, ma reale uccisione del peccatore e separazione dal (apo) peccato. L’unica ragione per cui la morte del peccatore opera la giustificazione e non la condanna sta nel fatto che questa morte viene subita partecipando alla morte di Cristo. Il battesimo nella morte di Cristo opera il perdono dei peccati e la giustificazione compie il completo affrancamento dal peccato. La partecipazione alla sua croce, alla quale Gesù chiama i suoi discepoli, è il dono della giustificazione, della morte e del perdono dei peccati. Il discepolo che seguì Gesù nella comunione della croce, non ebbe dono diverso dal credente che, secondo l’insegnamento di Paolo, è stato battezzato.

Che il battesimo in tutta la passività alla quale costringe l’uomo non possa mai essere inteso come evento automatico lo si vede chiaramente dal vincolo tra battesimo e Spirito (Mt. 3,11; At. 10,47; Gv. 3,5; 1 Cor. 6,11 e 12,13). Il dono del battesimo è lo Spirito Santo. Ma lo Spirito Santo è Cristo stesso che prende dimora nel cuore del credente (2 Cor. 3,17; Rom. 8,9-11, 14 ss.; Ef. 3,16 s.). I battezzati sono la casa nella quale lo Spirito Santo ha preso dimora (oikei). Lo Spirito Santo ci assicura la continua presenza di Gesù Cristo e la comunione con lui. Ci dà una giusta conoscenza del suo essere (I Coro 2,10) e della sua volontà; ci insegna a ricordare tutto ciò che Cristo ci ha detto (Gv. 14,26), ci guida in tutta la verità (Gv. 16,13), perché non ci venga meno la conoscenza di Cristo, perché possiamo sapere che cosa ci è stato donato da Dio (1 Cor. 2,12; Ef. 1,9). Lo Spirito Santo ci dà la certezza, non l’incertezza. Perciò possiamo camminare nello Spirito (Gal. 5,16; 18,25; Rom. 8,1 e 4), e fare determinati passi. La misura della certezza concessa da Gesù ai suoi discepoli, durante la comunione terrena con lui, non è stata tolta ai suoi discepoli dopo la sua morte. Mediante l’invio dello Spirito Santo nei cuori dei battezzati la certezza della conoscenza di Gesù non viene solo mantenuta, ma confermata e rafforzata dalla comunione (Rom. 8,16; Gv. 16,12 s.).

Quando Gesù invitava a seguirlo, richiedeva una ubbidienza visibile. Seguire Gesù era un atto pubblico. Altrettanto il battesimo è un atto pubblico; in esso, infatti, avviene l’inserimento nella comunità visibile di Gesù Cristo (Gal. 3,27 s.; 1 Cor. 12,13). La rottura con il mondo compiuta in Cristo non può restare nascosta, deve manifestarsi esteriormente mediante la partecipazione al culto e alla vita della comunità.. Il cristiano che si attiene alla comunità fa un passo fuori del mondo, fuori del lavoro, fuori della sua famiglia, appartiene apertamente alla comunità di Gesù Cristo. Egli compie questo passo da solo. Ma ritrova ciò che ha abbandonato, fratelli, sorelle, case, campi. Il battezzato vive nella comunità visibile di Gesù Cristo. Che cosa questo significhi deve essere mostrato in due ulteriori paragrafi sul «Corpo di Cristo» e sulla «Comunità visibile» .

Il battesimo e il suo dono è qualcosa di unico. Nessuno può essere battezzato due volte con il battesimo di Cristo[15]. L’irripetibilità e unicità di questo atto della grazia divina viene annunziata dall’epistola agli Ebrei in quel passo così oscuro, nel quale si nega la possibilità di un secondo pentimento del battezzato e convertito (Ebr. 6,4 ss.). Chi è battezzato, è stato reso partecipe della morte di Gesù Cristo. Mediante questa morte è stato condannato ed è morto. Come Cristo è morto una volta per tutte (Rom. 6,10) e come il suo sacrificio non può essere ripetuto, così il battezzato subisce con Cristo una volta per sempre la sua morte. Ora è morto. La morte quotidiana del cristiano è solo la conseguenza di quell’unica morte nel battesimo, così come l’albero, a cui è stata tagliata la radice, muore a poco a poco. D’ora in poi per il battezzato vale: «Così anche voi fate conto di essere morti al peccato, ma viventi a Dio in Gesù Cristo» (Rom. 6,11). I battezzati si conoscono solo come morti, come uomini nei quali tutto è già stato compiuto per la salvezza.’ Il battezzato vive della ripetizione memoriale della fede nell’atto di grazia e della morte di Cristo in noi, ma non di una reale ripetizione dell’ atto di grazia di questa morte che dovrebbe essere compiuta sempre di nuovo. Egli vive dell’unicità della morte di Cristo nel suo battesimo.

Da questa severa unicità del battesimo, il battesimo dei bambini riceve una luce particolare[16]. Il dubbio non sta nel fatto se il battesimo dei bambini è battesimo; ma proprio perché il battesimo dei bambini è battesimo unico, irripetibile, anche il suo uso deve avere certi limiti. Non era certo segno di una vita sana della comunità, se cristiani credenti, nel secondo e terzo secolo, si facevano spesso battezzare solo da vecchi o sul letto di morte; ma il fatto dimostra allo stesso tempo anche una chiarezza nel riconoscere la grazia del battesimo che per noi è per lo più andata perduta. Per il battesimo dei bambini ciò significa che esso può essere concesso solo là dove la ripetizione memoriale della fede nell’ atto di grazia compiuto una volta per sempre può essere assicurata, cioè in una comunità vivente. Il battesimo dei bambini senza la comunità non solo è abuso del Sacramento, ma allo stesso tempo riprovevole leggerezza di fronte alla salvezza dell’anima dei bambini; infatti il battesimo è irripetibile.

Tale era pure la chiamata di Gesù, unica e irripetibile per il chiamato. Chi seguiva Cristo era morto per il suo passato. Perciò Gesù doveva pretendere dai suoi discepoli che abbandonassero tutto ciò che avevano. L’irrevocabilità della decisione doveva essere visibile, ma allo stesso tempo lo doveva essere anche la pienezza del dono che ricevevano dal Signore: «Se il sale diviene insipido con che si salerà?». Il dono di Gesù non poteva essere espresso con più chiarezza. Egli pretendeva la loro vita, ma voleva preparare loro una vita completa, piena, e donava loro la sua croce. Questo era il dono del battesimo dei primi discepoli.

 

Il corpo di Cristo

I primi discepoli vissero alla presenza reale e in comunione fisica con Gesù? Che significa e come continua per noi questa comunione? Mediante il battesimo siamo divenuti membri del Corpo di Gesù Cristo, dice l’apostolo Paolo. Questa frase che per noi suona così strana e incomprensibile deve essere spiegata a fondo.

Con essa ci viene detto che i battezzati devono vivere, anche dopo la morte e resurrezione del Signore, alla presenza reale e in comunione fisica con Gesù. La morte di Gesù non è una perdita per i suoi, ma anzi un nuovo dono. I primi discepoli non potevano avere, nella comunione corporale con Gesù, nulla che non avessimo anche noi oggi; anzi, questa comunione è divenuta più salda, più piena, più certa. Viviamo nella piena comunione della presenza fisica del Signore trasfigurato. La nostra fede non deve trascurare la grandezza di questo dono. Il Corpo di Gesù Cristo è il fondamento e la certezza della nostra fede; il Corpo di Gesù Cristo è quel dono perfetto, nel quale noi siamo resi partecipi della salvezza, il Corpo di Cristo è la nostra nuova vita. Nel Corpo di Gesù Cristo noi siamo accettati da Dio in eterno.

Dal peccato di Adamo in poi Dio ha inviato la sua Parola nel mondo per cercare ed accettare l’uomo. Per questo la Parola di Dio è con noi, per accettare di nuovo l’umanità perduta. La Parola di Dio è venuta come promessa, è venuta come legge. Divenne debole e povera per amar nostro. Ma gli uomini respinsero la Parola e non vollero essere accettati. Fecero sacrifici, compirono opere, perché Dio li accettasse in loro vece; e si volevano affrancare a questo prezzo.

Ed ecco che avviene il miracolo dei miracoli. Il Figlio di Dio si fece uomo. La Parola divenne carne. Colui che esisteva da sempre, partecipe della gloria del Padre, in forma di Dio, che in principio era mediatore della creazione, così che tutto il mondo creato può essere conosciuto solo in lui e mediante lui, Dio stesso (1 Cor. 8,6; 2 Cor. 8,9; Fil. 2,6 ss.; Ef. l,4; Col. 1,16; Gv. 1,1ss.; Eb. 1,1 ss.), prende su di sé l’umanità e viene sulla terra. Prende su di sé l’umanità assumendo carattere umano, «natura» umana, forma umana (Rom. 8,3; Col.4,4; Fil. 2,6 ss.). Dio accetta l’umanità, non solo mediante la parola predicata, ma nel Corpo di Gesù. La misericordia di Dio manda suo Figlio nella carne, perché nella carne si carichi di tutta l’umanità, la porti. Il Figlio di Dio assume corporalmente tutta l’umanità, la quale rifiutò, con il suo odio per Dio e la superbia della carne, la Parola di Dio incorporea e invisibile. Ora essa è assunta nel Corpo di Gesù Cristo, corporalmente e realmente, così com’è, per misericordia di Dio.

I Padri della chiesa, considerando questo miracolo, disputarono appassionatamente, perché si debba dire che Dio abbia assunto natura umana, ma non che Dio si sia scelto un singolo uomo perfetto per unirsi con questo. Dio divenne uomo. Cioè: Dio assunse tutta la natura umana inferma, peccaminosa; Dio assunse tutta l’umanità defezionata; ma non: Dio assunse l’uomo Gesù. La giusta comprensione dell’annunzio della salvezza dipende da questa chiara distinzione. Il Corpo di Gesù Cristo, nel quale siamo accettati con tutta l’umanità, è ora il fondamento della nostra salvezza.

È la carne peccaminosa quella che egli porta - ma senza peccato (2 Cor. 5,21; Eb. 4,15). Dove si trova il suo Corpo umano, lì è accettata tutta la carne. «Eran le nostre malattie che egli portava; erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato», solo per questo Gesù potè guarire le infermità e i dolori, perché portò nel suo corpo tutte le nostre infermità e i nostri dolori (Mt. 8,15-17). «Egli è stato trafitto a motivo delle nostre trasgressioni, fiaccato a motivo delle nostre iniquità». Egli portò il nostro peccato perciò potè perdonare i peccati, perché nel suo Corpo la nostra carne peccaminosa era ‘accettata’. Perciò Gesù accettava i peccatori (Lc. 15,2), perché li portava nel suo corpo. Con Gesù era incominciato l’anno accettevole (dekton) nel Signore (Lc. 4,19).

Così il Figlio di Dio divenuto uomo era le due cose: lui stesso e la nuova umanità. Ciò che faceva lo faceva allo stesso tempo per la nuova umanità, che portava nel suo corpo. Perciò è un secondo Adamo; l’ ‘ultimo’ Adamo (1 Cor. 15,45). Anche in Adamo erano uniti il singolo e tutta l’umanità, anche Adamo portava in sé tutta l’umanità, in lui peccò tutta l’umanità; in Adamo (uomo) peccò l’ ‘uomo’ (Rom. 5,19). Cristo è il secondo uomo (1 Cor. 15,47), nel quale viene creata la nuova umanità. Egli è l’ «uomo nuovo».

Questo ci permette di comprendere tutta l’essenza della comunione corporale donata in Gesù ai discepoli. Che il legame con Gesù, essendo al suo seguito, fosse un legame fisico, non era casuale, ma necessario, perché egli era divenuto uomo. Il profeta e maestro non aveva bisogno di seguaci, aveva bisogno di discepoli e uditori. Il Figlio di Dio divenuto uomo, venuto nella carne umana, ha bisogno di una comunità di seguaci, che non sono solo partecipi del suo insegnamento, ma proprio anche del suo corpo. Nel corpo di Gesù Cristo i suoi seguaci hanno comunione. Essi vivono e soffrono in comunione fisica. La comunione con il corpo di Gesù impone loro la croce; perché in questa essi vengono tutti portati e accettati.

Il corpo terreno di Gesù viene crocifisso e muore. Nella sua morte la nuova umanità viene crocifissa e muore con lui. Poiché Gesù non ha assunto un uomo, ma la ‘forma’ umana, la carne peccaminosa, la ‘natura’ umana, perciò con lui soffre e muore tutto ciò che egli ha caricato su di sé. Sono le nostre infermità, il nostro peccato che egli porta sulla croce; siamo noi a essere crocifissi e a morire con lui. Certo il corpo terreno di Cristo muore, ma risorge dalla morte come corpo incorruttibile, trasfigurato. È lo stesso corpo - la tomba era vuota! - eppure è un corpo nuovo. Così egli porta l’umanità, con la quale morì, con sé nella risurrezione. Così porta ancora nel suo corpo trasfigurato l’umanità che ha preso su di sé in terra.

Come possiamo, ora, divenire parte viva di questo corpo di Cristo che fece tutto ciò per noi? Perché una cosa è certa, che non esiste comunione con Gesù Cristo, se non in quanto comunione con il suo corpo, nel quale siamo accettati, nel quale solo sta la nostra salvezza. Noi siamo resi partecipi della comunione del corpo di Cristo mediante i due sacramenti, mediante il battesimo e la Santa Cena. L’evangelista Giovanni, con un accenno che non può essere ignorato, dice che dal corpo di Gesù Cristo uscirono acqua e sangue, gli elementi dei due sacramenti (Gv. 19,34 e 35). Questa testimonianza viene confermata da Paolo, che vincola la partecipazione al corpo di Cristo ai due sacramenti[17]. Il corpo di Cristo è meta e sorgente dei Sacramenti. Solo perché c’è un corpo di Cristo ci sono i sacramenti. Non è la Parola della predicazione a operare la nostra comunione con il corpo di Gesù Cristo, deve essere aggiunto il sacramento. Il battesimo è inserimento nell’unità del corpo di Cristo, la Santa Cena è mantenimento della comunione (koinonia) con il corpo. Il battesimo ci rende membri del corpo di Cristo. Siamo «battezzati in» Cristo (Gal. 3,27; Rom. 6,3), siamo battezzati per formare un unico corpo (1 Cor. 12,13). Così nella morte del battesimo lo Spirito Santo ci donò ciò che Cristo ha acquistato nel suo corpo per noi tutti. La comunione del corpo di Gesù che abbiamo ricevuto significa che ora siamo «con Cristo», «in Cristo», e che «Cristo è in noi», ora. Queste espressioni ricevono il loro vero significato da una giusta interpretazione del corpo di Cristo.

«Con Cristo» sono veramente tutti quanti gli uomini semplicemente per opera dell’incarnazione di Gesù. Gesù porta su di sé tutta la natura umana. Perciò la sua vita e la sua morte e risurrezione sono un avvenimento reale in tutti gli uomini (Rom. 5,18 ss.; 1 Cor. 15,22; 2 Cor. 5,14). Ma «con Cristo» in particolare lo sono i cristiani. Ciò che per gli altri diviene morte, per loro diviene grazia. Nel battesimo viene loro assicurato che sono «morti con Cristo» (Rom. 6,8), «crocifissi» con lui (Rom. 6,6; Col. 2,20), «sepolti» con lui (Rom. 6,4; Col. 2,12); «una stessa cosa con lui per una morte somigliante alla sua» (Rom. 6,5), e che perciò vivremo con lui (Rom. 6,8; Ef. 2,5; Col. 2,12; 2 Tm. 2,11; 2 Cor. 7,3). «Siamo con Cristo», ciò trova la sua ragione nel fatto che Cristo l’Emmanuele è «il Dio con noi». Solo per chi riconosce Cristo così, l’essere con Cristo diviene grazia. Egli viene battezzato «in Cristo» (eis) nella comunione della sua passione. Così egli stesso diviene membro di questo corpo e la comunità dei battezzati diviene quel corpo che è il corpo di Cristo stesso. Perciò sono «in (en) Cristo» e «Cristo è in loro». Non sono più «sotto la legge» (Rom. 2,12; 3,19), «nella carne» (Rom. 7,5; 8,3.8.9; 2 Cor. 10,3), «in Adamo» (1 Cor. 15,22), ma in tutta la loro esistenza e in tutte le manifestazioni della loro vita da ora in poi sono «in Cristo».

Paolo riesce a esprimere il miracolo dell’incarnazione in un’inesauribile quantità di relazioni. Tutto ciò che dice può essere riassunto nella proposizione: Cristo è «per noi», non solo nella sua Parola e nei suoi sentimenti, ma con tutta la sua vita fisica. Egli sta con il suo corpo davanti a Dio, dove dovremmo stare noi. Egli è al nostro posto. Egli soffre e muore per noi. Egli lo può, perché porta la nostra carne (2 Cor. 5,21; Gal. 3, 13; 1,4; Tit.2,14; 1 Tess. 5,10; ecc.). Il corpo di Gesù Cristo nel vero senso della parola sta «per noi»sulla croce, nella Parola, nel battesimo, nella Santa Cena. In ciò sta il fondamento di ogni comunione corporale con Gesù Cristo.

Il corpo di Gesù Cristo è la stessa nuova umanità da lui assunta. Il corpo di Cristo è la sua comunità. Gesù Cristo è lui stesso e insieme la sua comunità (1 Cor. 12, 12). Gesù Cristo, da Pentecoste in poi, vive in terra sotto forma del suo corpo, della sua Chiesa. Qui sta il suo corpo, qui sta l’umanità incarnata. Essere battezzati significa, perciò, divenire membro della comunità, membro del corpo di Cristo (Gal. 3,28; 1 Cor. 12,13). Essere in Cristo significa essere nella comunità. Ma se siamo nella comunità siamo anche veramente e corporalmente in Gesù Cristo. Così il concetto del corpo di Cristo si manifesta in tutta la sua pienezza.

Lo spazio di Gesù Cristo nel mondo, dopo la sua morte, viene occupato dal suo corpo, la sua Chiesa. La Chiesa è il Cristo presente. Con ciò riacquistiamo un concetto della Chiesa del tutto dimenticato. Pensiamo alla Chiesa come a un’istituzione. Ma alla Chiesa si deve pensare come a una Persona fisica, certo una persona assai particolare.

La Chiesa è Uno. I battezzati sono «uno solo in Cristo» (Gal. 3,28; Rom. 12,5; 1 Cor 10,17). La Chiesa è«uomo». È l’uomo nuovo (kainos anthropos). Come tale la Chiesa è creata mediante la morte di Cristo sulla croce. Qui è stata superata l’inimicizia tra ebrei e pagani, che divideva gli uomini (Ef. 2,15). L’«uomo nuovo» è uno, non molti. Fuori dalla Chiesa, che è l’uomo nuovo, c’è solo l’uomo vecchio, lacerato interiormente.

Questo «uomo nuovo» che è la Chiesa è quello secondo Dio, creato in vera giustizia e santità. (Ef. 4,24). Egli è «rinnovato per la piena conoscenza a immagine di colui che lo ha creato» (Col. 3,10). Qui non si parla di altri che di Cristo stesso, immagine di Dio. Adamo fu il primo uomo, creato secondo l’immagine del Creatore. Ma egli perse questa immagine, peccò. Ora viene creato «un secondo uomo», un «ultimo Adamo» conforme alla immagine di Dio; e questo è Gesù Cristo (1 Cor. 15,47). Perciò questo «uomo nuovo» è allo stesso tempo Cristo e la Chiesa. Cristo è la nuova umanità in uomini nuovi. Cristo è la Chiesa.

Il rapporto tra il singolo e l’«uomo nuovo» consiste nell’”indossarlo”[18]. «L’uomo nuovo» è come un vestito, che deve coprire il singolo. Il singolo deve indossare l’immagine di Dio che è Cristo e la Chiesa. Chi viene battezzato, indossa Cristo (Gal. 3,27), il che deve essere interpretato come inserimento nel corpo di Cristo, in quell’unico uomo, nel quale non c’è greco o ebreo, non libero o schiavo, cioè appunto nella comunità. Nessuno diviene uomo nuovo se non nella comunità mediante il corpo di Cristo. Chi vuol divenire da solo un uomo nuovo, resta in quello vecchio. Divenire un uomo nuovo significa entrare nella comunità, divenire membro del corpo di Cristo. Non il singolo giustificato e santificato è l’uomo nuovo, ma la comunità, il corpo di Cristo, Cristo.

Il Cristo crocifisso e risorto esiste, mediante lo Spirito Santo, come comunità, come l’ «uomo nuovo», quant’è vero che il suo corpo è la nuova umanità. Come in lui la pienezza di Dio si è incarnata e ha preso dimora, così i suoi sono ripieni di Cristo (Col. 2,9 e Ef. 3,19). Anzi, essi stessi sono la pienezza divina; essendo il suo corpo ed essendo lui solo colui che riempie tutto in tutti.

L’unità di Cristo con la sua Chiesa, con il suo corpo richiede allo stesso tempo che Cristo venga riconosciuto come Signore del suo corpo. Perciò Cristo, a ulteriore spiegazione del concetto di corpo, viene chiamato il capo del corpo (Ef. 1,22; Col. 1,18; 2,19). Si mantiene una chiara contrapposizione: Cristo è Signore. L’evento salvifico che rende necessaria questa contrapposizione e non ammette mai una fusione mistica tra comunità e Cristo, è l’ascensione di Cristo e il suo ritorno. Lo stesso Cristo che è presente nella sua comunità ritorna dal cielo. È lo stesso Signore, qui come lì; è la stessa Chiesa, qui come lì; è lo stesso corpo di colui che è qui presente e di colui che ritorna. Ma c’è una profonda differenza, se ci troviamo qui o lì. Così necessariamente si trovano insieme unità e diversità.

La Chiesa è Uno, è il corpo di Cristo, ma allo stesso tempo è molteplicità e comunione dei membri (Rom. 12,5; 1Cor. 12,2 ss.). Il corpo ha molte membra e ognuna, occhio, mano o piede, è e resta ciò che è - questo è il senso della similitudine di Paolo. La mano non diviene occhio e l’occhio non diviene orecchio. Ognuno rimane ciò che è. Eppure sono ciò che sono solo perché membra dell’unico corpo, come comunità che serve nell’unità. Solo visto dall’unità della comunità ogni singolo è ciò che è e la comunità è ciò che è; come la comunità solo per l’opera di Cristo e del suo corpo è ciò che è. Qui si manifesta chiaramente l’opera dello Spirito Santo. Egli è colui che porta il singolo a Cristo (Ef. 3,17; 1 Cor. 12,3). Egli edifica la sua Chiesa, raccogliendo i singoli, ma l’edificio nel suo insieme è già finito (Ef. 2,22; 4,12; Col. 2,2). Egli crea la comunità (2 Cor. 13,13), delle membra del corpo (Rom. 15,30; 5,5; Col. 1,8; Ef. 4,3). Il Signore è lo Spirito (2 Cor. 3,17). La Chiesa di Cristo è il Cristo presente nello Spirito Santo. Così la vita del corpo di Cristo è divenuta la nostra vita. In Cristo non viviamo più la vita nostra, ma Cristo vive la sua vita in noi. La vita dei credenti nella comunità in realtà è la vita di Gesù Cristo in loro (Gal. 2,20; Rom. 8,10; 1 Gv. 4,15).

Nella comunione con il corpo di Gesù Cristo crocifisso e trasfigurato partecipiamo alla passione e alla glorificazione di Cristo. La croce di Cristo posa sul corpo della comunità. Ciò che questa soffre sotto la croce è passione di Cristo. È in primo luogo un subire la crocifissione nel battesimo; ed è poi «il morire quotidiano»dei cristiani (1 Cor. 15,31) nella potenza del suo battesimo. Ma è inoltre anche un soffrire che gode di una indicibile promessa: certo solo la passione di Cristo stesso ha potere di riconciliare, egli soffrì «per noi» e vinse «per noi», ma nel potere della sua passione egli dà a coloro che non si vergognano del suo corpo l’incommensurabile grazia di poter, a loro volta, soffrire «per lui». Non poteva donare ai suoi maggiore gloria, non può esservi per i cristiani dignità più incomprensibile di quella di poter soffrire «per Cristo». Ciò che è profondamente contrario alla legge, qui si avvera. Secondo la legge possiamo subire solo il castigo per il nostro proprio peccato. Nemmeno a proprio favore un uomo è in grado di fare o subire qualcosa, quanto meno a favore di un altro, quanto meno a favore di Cristo! Il corpo di Cristo donato per noi, che subì la punizione per i nostri peccati, ci rende liberi per vivere «per Cristo», nella morte e nel dolore. Si può lavorare e soffrire solo per Cristo, a favore di colui che ha fatto tutto a favor nostro. Questo è il miracolo e la grazia nella comunione del corpo di Cristo (Fil. 1,25; 2,17; Rom. 8,35 ss.; 1 Cor. 4,10; 2 Cor. 4,10; 5,20; 13,9). Per quanto Cristo abbia compiuto ogni passione riconciliatrice e vicaria, la sua passione in terra non è ancora terminata. Nella sua grazia egli ha lasciato ancora alla sua comunità, per gli ultimi tempi fino al suo ritorno, un resto ustremata di sofferenze che devono ancora essere completate (Col. 1,24). Questa sofferenza può andare a favore del corpo di Cristo, della Chiesa. Resta incerto se possiamo pensare che anche questa passione dei cristiani ha potere di distruggere il peccato (cfr. 1 Pt. 4,1). Ma è certo che chi soffre, nella potenza del corpo di Cristo soffre per il corpo di Cristo, come vicario ‘per’ la comunità, che può portare ciò che viene risparmiato ad altri. «Portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Noi, che viviamo, infatti, siamo sempre esposti alla morte per Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. E così in noi agisce la morte e in voi la vita» (2 Cor. 4,10-12; cfr. 1,5-7; 13,9; Fil. 2,17). Il corpo di Cristo deve sopportare una certa misura di dolore. Dio dà ad uno la grazia di portare particolari dolori al posto di un altro. Il dolore deve essere completato, portato, superato. Beato chi viene da Dio ritenuto degno di soffrire per il corpo di Cristo (Col. 1,24; Fil. 2,17). In tale sofferenza il credente può gloriarsi di portare nel proprio corpo la morte di Gesù Cristo, di portare le sue ferite (2 Cor. 4,10; Gal. 6,17). Così il credente può servire perché «Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia» (Fil. 1,20). In tale agire e subire vicario delle membra del corpo di Cristo sta la vita stessa del Cristo che vuol prendere forma nelle sue membra (Gal. 4,19).

Ma in tutto ciò noi siamo nella comunione dei primi discepoli e seguaci di Cristo.
La conclusione di questa meditazione deve ora consistere nel ritrovare la testimonianza del corpo di Cristo nell’insieme della Scrittura. Qui si dimostra che nel corpo di Cristo la grande profezia dell’Antico Testamento sul tempio di Dio trova il suo compimento.

Il concetto del corpo di Cristo deve essere inteso non nel contesto dell’uso ellenistico di questa immagine, ma nelle profezie dell’Antico Testamento sul tempio. Davide vuol costruire un tempio per Dio. Egli interroga il profeta. Questo riferisce a Davide la Parola di Dio su questa sua intenzione: «Sarai proprio tu a costruirmi una casa perché io vi abiti?... Il Signore ti fa sapere che egli farà a te una casa» (2 Sm. 7,5 e 11). Il tempio di Dio può essere costruito solo da Dio stesso. Allo stesso tempo Davide, in strano contrasto con quanto detto prima, riceve la promessa che un suo discendente costruirà la casa per Dio e che il suo regno rimarrà in eterno (v. 12 e 13). «lo sarò Padre ed egli mi sarà figlio» (v. 14). Salomone, «il figlio della pace» di Dio con la casa di Davide, ha riferito a sé questa promessa. Egli costruì il tempio e venne confermato in questa azione da Dio. Ciononostante in questo tempio non si adempiva la profezia, poiché era costruito da mano d’uomo e doveva andare distrutto. Così la profezia, incompiuta, rimaneva attuale ed il popolo d’Israele attende ancora il tempio che doveva essere costruito dal figlio di Davide, il cui regno durerà in eterno. Il tempio a Gerusalemme fu più volte distrutto, un segno che non si tratta del tempio promesso. Dov’era il vero tempio? Cristo stesso lo dice riferendo la profezia del tempio al suo corpo:

«Occorsero 46 anni per costruire questo tempio, e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Egli però parlava del tempio del suo corpo. Quando pertanto fu risorto dai morti, i suoi discepoli si sovvennero che aveva detto questo e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù» (Gv. 2,20 ss.). Il tempio atteso da Israele è il corpo di Cristo. Il tempio dell’Antico Testamento è solo l’ombra del suo corpo (Col. 2,17; Ebr. 10,1; 8,5). Gesù intende il suo corpo umano. Egli sa che anche il tempio del suo corpo terreno sarà distrutto, ma risorgerà, ed il nuovo tempio, il tempio eterno sarà il suo corpo risorto e trasfigurato. Questa è la casa che Dio stesso costruisce a suo Figlio e che, tuttavia, il Figlio costruisce al Padre. In questa casa abita veramente Dio ed allo stesso tempo la nuova umanità, la comunità di Cristo. Il Cristo incarnato stesso è il tempio dell’adempimento della promessa. Corrisponde a ciò che l’Apocalisse di Giovanni dice della nuova Gerusalemme, che in essa non c’è tempio. «Infatti il Signore, Dio onnipotente, è tempio insieme all’agnello» (21,22).

Il tempio è il luogo della benevola presenza di Dio e la sua dimora in mezzo agli uomini. È allo stesso tempo il luogo dove la comunità viene accettata da Dio. Ambedue le cose si sono realizzate solo in Gesù Cristo divenuto uomo. Qui la presenza di Dio è reale e corporale. Qui l’umanità è reale e corporale, poiché egli l’ha accettata nel suo corpo. Perciò il corpo di Cristo è il luogo dell’accettazione, della riconciliazione e della pace tra Dio e uomo. Dio trova nel corpo di Cristo l’uomo e l’uomo è accettato nel corpo di Cristo. Il corpo di Cristo è il tempio spirituale (oikos pneumaticos), edificato di pietre viventi (1 Pt. 2,5 ss.). Cristo solo è fondamento e pietra angolare di questo tempio (Ef. 2,20; 1 Cor. 3, 11), egli è allo stesso tempo lui stesso e il tempio (oikodome), Ef. 2,21), nel quale dimora lo Spirito Santo e riempie i cuori dei credenti e li santifica (1 Cor. 3,16; 6,19).
Il tempio di Dio è la santa comunità in Gesù Cristo. Il corpo di Cristo è il tempio vivente di Dio e la nuova umanità.

 

La comunità visibile

Il corpo di Cristo occupa dello spazio in terra. Con la sua incarnazione Cristo pretende dello spazio tra gli uomini. Venne «in casa sua». Ma alla sua nascita gli diedero una stalla, «perché non v’era posto nel loro albergo»: lo respinsero nella vita e nella morte, così che il suo corpo fu appeso tra cielo e terra, sulla forca. Ma l’incarnazione comprende il diritto ad uno spazio proprio in terra. Ciò che occupa dello spazio è visibile o non è corpo. Si vede l’uomo Gesù, lo si crede Figlio di Dio. Si vede il corpo di Gesù, lo si crede corpo di Dio divenuto uomo. Si vede che Gesù era incarnato, si crede che egli portò la nostra carne. «Devi indicare questo uomo e dire: è Dio» (Lutero). Una verità, una dottrina, una religione non ha bisogno di spazio per sé. È senza corpo. La si ascolta, impara, comprende: ecco tutto. Ma il Figlio di Dio incarnato ha bisogno non solo di orecchi e di cuori, ma di veri uomini che lo seguano.

Perciò egli invitò i discepoli a seguirlo fisicamente, e la sua comunione con loro era visibile a tutti. Era fondata e tenuta unita da Gesù Cristo stesso divenuto uomo. La Parola incarnata aveva chiamato, aveva creato la comunità fisica visibile. I chiamati non potevano più rimanere nascosti, erano la luce che deve risplendere, la città sul monte che si deve vedere. Sopra la loro comunità stava eretta visibilmente la croce e passione di Gesù Cristo. Per amore della comunione con lui i discepoli dovettero lasciare tutto, dovettero soffrire ed essere perseguitati, ma proprio mentre erano perseguitati era loro visibilmente restituito, nella comunione con lui, ciò che avevano perduto, fratelli e sorelle, campi e case. La comunità dei seguaci era manifesta davanti al mondo. Qui erano corpi che agivano, lavoravano, soffrivano in comunione con Gesù.

Anche il corpo del Signore glorificato è un corpo visibile sotto forma di comunità. Come diviene visibile questo corpo? In primo luogo nella predicazione della Parola. «Ed erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli» (At. 2,42). Ogni parola di questa frase è importante. Dottrina (didake) significa predicazione, qui in opposizione ad ogni specie di discorso religioso. Qui si tratta di comunicazione di fatti avvenuti. Il contenuto di ciò che deve essere detto è obiettivamente certo, basta che venga trasmesso con «l’insegnamento». Ma una comunicazione si limita essenzialmente a cose non note. Una volta che sono conosciute non ha senso continuare a comunicarle; perciò veramente il concetto di ‘insegnamento’ rende se stesso superfluo. In strano contrasto qui è detto che la prima comunità ‘perseverava’ nell’insegnamento; cioè che questo insegnamento non si rende superfluo, ma pretende, anzi, perseveranza. L’ ‘insegnamento’ e la ‘perseveranza’ devono essere collegate da una necessità obiettiva. Essa è espressa nel fatto che si tratta qui di «insegnamento degli apostoli». Che significa «insegnamento degli apostoli?». Apostoli sono gli uomini scelti da Dio per testimoniare la realtà della rivelazione in Gesù Cristo. Hanno vissuto in comunione fisica con Gesù, hanno visto Gesù incarnato, crocifisso, risorto e hanno toccato il suo corpo con le proprie mani (1 Gv. 1,1). Essi sono i testimoni di cui si serve Dio, Spirito Santo, come strumento per annunziare la Parola. La predicazione degli apostoli è la testimonianza della realtà che Dio si è rivelato fisicamente in Gesù Cristo. Sul fondamento degli apostoli e profeti è edificata la Chiesa, la cui pietra angolare è Gesù Cristo (Ef. 2,20). Ogni ulteriore predicazione deve essere predicazione apostolica ed edificare su questo fondamento. Così viene stabilita l’unità tra noi e la prima comunità mediante la parola degli apostoli. Fino a che punto questo insegnamento apostolico rende necessaria la perseveranza nell’ascolto? La parola apostolica è, nella Parola di Cristo, realmente Parola di Dio (1 Ts. 2,13). È perciò Parola che vuole accettare uomini ed ha il potere di farlo. La Parola di Dio cerca una comunità per accettarla. È essenziale nella comunità. Entra spontaneamente nella comunità. Ha un movimento proprio verso la comunità. Non che da una parte ci sia una parola, una verità e dall’altra una comunità, e che il predicatore debba ora prendere questa parola, la debba usare, muovere per portarla nella comunità, applicarla ad essa. La Parola percorre da sé questa via, il predicatore non deve e non può fare nulla se non servire al movimento proprio della Parola, non opporle nulla. La Parola esce per accettare gli uomini; gli apostoli sapevano questo e questo era il contenuto della loro predicazione. Avevano pur visto la Parola di Dio stessa, com’era venuta, come si era incarnata ed aveva preso su di sé, in questa carne, tutta l’umanità. Ora non dovevano che testimoniare che questo, che la Parola di Dio è divenuta carne, che venne per accettare i peccatori, per perdonare e santificare. Questa è la Parola che entra nella comunità, la Parola incarnata, che porta già tutta l’umanità, che non può più essere senza l’umanità che ha accettata, che va dalla comunità. Ma con questa Parola viene lo Spirito santo stesso, che mostra al singolo ed alla comunità ciò che da tempo le è stato donato in Cristo. Egli opera negli uditori la fede, che nella Parola della predicazione Gesù Cristo stesso è venuto in mezzo a noi nella potenza del suo corpo, che viene per dirmi che mi ha già accettato e che mi vuole accettare anche oggi.

La parola della predicazione apostolica è la Parola che ha portato nel suo corpo i peccati di tutto il mondo, è il Cristo presente nello Spirito santo. Cristo nella sua comunità, ecco «l’insegnamento degli apostoli», la predicazione degli apostoli. Quest’insegnamento non si rende mai superfluo, ma si crea la comunità che resta ferma in essa, perché è accettata dalla Parola e ogni giorno riacquista questa certezza. Questo insegnamento si crea una comunità visibile. Alla visibilità del corpo di Cristo nella predicazione della Parola si aggiunge la visibilità nel battesimo e nella Santa Cena. Ambedue provengono dalla reale umanità del nostro Signore Gesù Cristo. In ambedue egli ci viene incontro fisicamente e ci rende partecipi della comunione del suo corpo. Ma tutti e due questi atti vanno uniti all’annunzio. Nel battesimo e nella Santa Cena c’è l’annunzio della morte di Cristo per noi (Rom. 6,3 ss.; 1 Cor. 11,26). In ambedue ci viene donato il corpo di Cristo. Nel Battesimo ci viene dato di essere membri del suo corpo, nella Santa Cena ci viene donata la comunione fisica (koinonia) con il corpo del Signore che riceviamo, ed appunto in questa la comunione fisica con le membra di questo corpo. Così, mediante il dono del suo corpo, diveniamo un corpo con lui. Non comprendiamo completamente né il dono del Battesimo né quello della Santa Cena se li qualifichiamo perdono dei peccati. Il corpo del Signore offertoci nel sacramento ci dona il Signore realmente presente nella sua comunità. Ma il perdono dei peccati è incluso nel dono del corpo di Cristo nella sua comunità. Da ciò si comprende come in origine la somministrazione del battesimo e della Santa Cena - proprio al contrario di quanto accade oggi - non fosse legato al ministero della predicazione apostolica, ma venisse compiuto anche dalla comunità stessa (1 Cor. 1,1 e 14ss.; 11,17ss.). Battesimo e Santa Cena appartengono solo alla comunità del corpo di Cristo. La Parola è rivolta a chi crede e a chi non crede. I sacramenti appartengono solo alla comunità. Perciò la comunità cristiana nel suo vero senso è comunità di battesimo e di Santa Cena, e solo da qui nasce il suo compito di comunità che annuncia la Parola.

È ora chiaro che la comunità di Gesù Cristo nel mondo richiede uno spazio per la predicazione. Il corpo di Cristo è visibile nella comunità raccolta attorno alla Parola ed al Sacramento.

Questa comunità è un tutto articolato. Il corpo di Cristo come comunità include articolazione e ordinamento della sua comunità. Questo è dato con il corpo. Un corpo non articolato si trova in stato di decomposizione. La forma del Cristo vivente, secondo l’insegnamento di Paolo, è forma articolata (Rom. 12,5; 1 Cor. 12,12 ss.). Qui è impossibile distinguere contenuto e forma da essenza e manifestazione. Questo vorrebbe dire rinnegare il corpo di Cristo, cioè del Cristo incarnato (1 Gv.4,3). Perciò il corpo di Cristo assieme allo spazio per la predicazione richiede pure lo spazio per l’ordinamento della comunità.

L’ordinamento della comunità ha origine e carattere divino. Certo è solo lì per servire, non per dominare. I ministeri della comunità sono ‘servizi’ (diakoniai 1 Cor. 12,4). Da Dio (1 Cor. 12,28), da Cristo (Ef. 4,11), dallo Spirito santo (At. 20,28) sono stati istituiti nella comunità e non per mezzo di essa. Anche lì dove la comunità stessa assegna le cariche, lo fa solo sotto la guida dello Spirito Santo (At. 13,2 e passim). Ministero e comunità hanno la stessa origine nel Dio uno e trino. I ministeri servono alla comunità, hanno il loro diritto divino solo in questo servizio. Perciò nelle diverse comunità ci devono essere ministeri, ‘diaconie’, diversi, diversi per es. a Gerusalemme che nelle comunità fondate dalla missione di Paolo. Certo la loro articolazione è data da Dio, ma la loro forma è varia e dipende solo dal giudizio spirituale della comunità stessa, che nomina i suoi membri per il servizio. Anche i carismi che lo Spirito santo dona a singoli sottostanno severamente alla disciplina della diaconia nella comunità, perché Dio non è un Dio del disordine, ma della pace (1 Cor. 14,32 ss.). In questo appunto è visibile lo Spirito (phanerosis 1 Cor. 12,6), che tutto accade per il bene della comunità. Apostoli, profeti, dottori, sovrintendenti (episcopi), diaconi, anziani rettori e capi (1 Cor. 12,18 ss.; Ef. 2,20 e 4,11) sono i servitori della comunità, del corpo di Cristo. Sono nominati per il servizio nella comunità, perciò la loro carica ha origine e carattere divini. Solo la comunità può dispensarli dal servizio. Perciò la ,comunità è libera di disporre i propri ordinamenti secondo il bisogno; ma se i suoi ordinamenti vengono toccati dall’esterno, è la forma visibile del corpo stesso di Cristo a essere toccato.

Particolare attenzione merita, tra i ministeri della comunità, in tutti i tempi, l’amministrazione genuina della Parola e dei Sacramenti. Bisogna tener conto di quanto segue: l’annunzio sarà sempre vario e diverso a seconda del compito e dei doni del predicatore. Ma sia esso di Paolo o di Pietro, di Apollo o di Cristo, in tutto si deve riconoscere quell’unico Cristo indiviso (1 Cor 1,11). Ognuno dia una mano all’altro (1 Cor. 3,6). Formazione di scuole conducono solo a dispute nelle quali ognuno cerca di difendere la propria opinione (1 Tm.6,5 e 20; 2 Tm. 2,10; 3,8; Tt. 1,10). Troppo facilmente la ‘beatitudine’ diviene guadagno terreno sia di gloria, sia di potere o di denaro. Facilmente nascerà pure la tendenza a creare problemi per amore di dispute e di distogliere dalla semplice verità (2 Tm. 3,7). Si sarà indotti a seguire la propria volontà e a disubbidire a Dio. Al contrario, la sana e utile dottrina rimarrà scopo della predicazione (2 Tm. 4,3; 1 Tm. 1,10; 4,16; 6,1; Tt. 1,9 e 13; 2,1; 3,8); e garanzia del giusto ordine e dell’unità.

Non è sempre facile riconoscere il limite tra un’opinione lecita di una corrente e un’eresia. In qualche comunità una dottrina, che in un’altra è già messa al bando come eresia, è ancora accettata come opinione di corrente (Ap. 2,6 e 15 ss.). Ma se si manifesta l’eresia, è necessaria una netta separazione. E l’eresiarca deve essere espulso dalla comunità e dalla comunione personale (Gal. 1,8; 1 Cor. 16,22; Tt. 3,10; 2 Gv. 10 ss.). La Parola di una predicazione genuina deve unire e separare in maniera visibile. Lo spazio per l’annunzio e l’ordinamento della comunità si è quindi manifestato con chiarezza nella sua necessità voluta da Dio.

Si pone la questione se con ciò è già delimitata la forma visibile della comunità del corpo di Cristo e se essa comprende ancora un diritto ad un ulteriore spazio nel mondo. La risposta del Nuovo Testamento indica senza ambiguità che la comunità deve pretendere dello spazio in terra non solo per i suoi culti e le sue istituzioni, ma anche per la vita quotidiana dei suoi membri. Quindi si dovrà parlare dello spazio vitale della comunità visibile.

La comunione di Gesù con i suoi discepoli era pure comunione di vita in tutte le sue manifestazioni. Tutta la vita di ognuno di essi si svolgeva nella comunità. La comunità è una testimonianza viva dell’umanità incarnata del Figlio di Dio. La presenza fisica del Figlio di Dio richiede l’impegno fisico per lui e con lui nella vita quotidiana. L’uomo con tutta la sua vitale vita fisica deve essere unito a colui che per amor suo assunse corpo umano. Il discepolo che segue Gesù deve essere inseparabilmente unito al corpo di Gesù.

Lo testimonia pure la prima relazione sulla giovane comunità negli Atti degli apostoli (2,42 ss.; 4,3 ss.). «Ed erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere». «E tutti quelli che avevano creduto stavano insieme e avevano tutto in comune». È istruttivo che qui la comunità (koinonia) trova il suo posto tra la Parola e la Santa Cena. Non è una determinazione casuale del suo essere, se deve sempre di nuovo avere la sua origine nella Parola, la sua meta e il suo perfezionamento nella Santa Cena. Ogni comunità cristiana vive tra la Parola e i Sacramenti; nasce e finisce nel culto. Attende l’ultima cena con il Signore nel Regno di Dio. Una comunità che ha tale origine e tale fine è comunità perfetta, nella quale si inseriscono anche le cose e i beni di questa vita. In libertà, serenità e potenza dello Spirito santo qui viene stabilita una comunità perfetta, nella quale nessuno «vive nell’indigenza» e «distribuivano a tutti secondo che ognuno ne aveva bisogno», «né c’era alcuno che dicesse che era suo quel che gli apparteneva». Nel quotidiano ripetersi di questo fatto si manifestava la piena libertà evangelica che non ha bisogno di costrizione. Essi erano infatti «un cuor solo ed una anima sola».

Questa giovane comunità era visibile agli occhi di tutti e - cosa strana! - «godeva il favore di tutto il popolo» (At. 2,47). Era la cecità del popolo d’Israele che non vedeva più dietro questa comunità perfetta la croce di Gesù? O è l’anticipazione del giorno in cui ogni popolo dovrà onorare il popolo di Dio? O è la bontà di Dio per la quale, proprio in periodi di crescita, di seria lotta e di divisione dei credenti dai nemici, circonda la sua comunità con una cerchia di benevolenza puramente umana, di partecipazione umana al destino della comunità, o il popolo presso il quale la comunità godeva favore era il popolo che aveva gridato ‘Osanna’ e non ‘crocifiggilo’? «Il Signore poi aggiungeva ogni giorno alla Chiesa quelli che si salvavano». Questa comunità visibile con la sua piena comunione di vita irrompe nel mondo e gli strappa i suoi figlioli. Il crescere quotidiano della comunità dimostra la potenza del Signore in essa vivente.

Per i primi discepoli vale: dov’è il loro Signore devono trovarsi anche loro, e dove saranno loro Il sarà anche il loro Signore fino alla fine del mondo. Tutto ciò che il discepolo fa, lo fa assieme alla comunità di Gesù quale suo membro. Anche l’azione più profana avviene ora nella comunità. E così per il popolo di Cristo vale: dov’è uno dei suoi membri lì è tutto il corpo, e dov’è tutto il corpo lì si trova anche il membro. Non c’è sfera della vita nella quale il membro si possa o voglia sottrarre al corpo. Dovunque uno sia, qualunque cosa faccia, tutto avviene «nel corpo», nella comunità, «in Cristo». Tutta la vita è accolta «in Cristo». Il cristiano è forte o debole «in Cristo» (Fil. 4,13; 2 Cor. 13,4), lavora o fatica o gode «nel Signore» (Rom. 16,9 e 12; 1 Cor. 15,58; Fil. 4,4), parla e ammonisce «in Cristo» (2 Cor. 2,17; Fil. 2,1), è ospitale «in Cristo» (Rom. 16,2), sposa «nel Signore» (I Coro 7,39), si trova in prigione «nel Signore» (Fil. 1,13 e 23), è schiavo «nel Signore (1 Cor. 7,22). Tutta la gamma di relazioni umane tra cristiani è abbracciata da Cristo, dalla comunità.

Il battesimo che inserisce nel corpo di Cristo concede ad ogni cristiano la piena vita in Cristo, nella comunità. È una grave riduzione, per nulla neotestamentaria, se il dono del battesimo trova i suoi limiti nella partecipazione alla predica e alla Santa Cena, cioè nella parte dei beni salvifici, o forse ancora ai ministeri e servizi della comunità. Con il battesimo ad ogni battezzato viene aperto incondizionatamente tutto lo spazio della vita comunitaria dei membri del corpo di Cristo in tutti i campi. Chi concede ad un fratello battezzato solo la partecipazione al culto, mentre gli nega la comunione nella vita quotidiana, ne abusa o lo disprezza, si rende colpevole di fronte a tutto il corpo di Cristo stesso. Chi riconosce che i fratelli battezzati posseggono i doni della salvezza, ma nega loro i doni della vita terrena o li lascia coscientemente nel bisogno e nel tormento terreno, schernisce il dono della salvezza ed è menzognero. Chi, dopo che lo Spirito Santo ha parlato, dà ancora ascolto alla voce del sangue, alla sua natura, ai suoi sentimenti di simpatia o antipatia, si rende colpevole di fronte al sacramento. Il battesimo che inserisce nel corpo di Cristo non muta solo lo stato della salvezza personale del battezzato, ma anche tutti i suoi rapporti nella vita.

Filemone «riavrà per sempre» lo schiavo Onesimo che è fuggito al suo padrone, credente, e lo ha alquanto danneggiato, ma «non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello diletto... secondo la carne e nel Signore» (Fm. 16). Paolo sottolinea «fratello secondo la carne» e mette così in guardia davanti a quel pericoloso malinteso di tutti i cristiani ‘privilegiati’, che sopportano la comunione con i cristiani aventi minori diritti e minore considerazione, nel culto, ma non permettono che tale comunione si effettui pure al di fuori di esso. Secondo la carne un fratello di Filemone! Filemone accolga lo schiavo come un fratello, come se fosse Paolo stesso (v. 17); come fratello non tenga conto del danno subìto (v. 18). Filemone lo faccia volontariamente, per quanto Paolo si sentirebbe anche di comandarlo (v. 8- I 4), e certo Filemone farà più di quanto richiesto (v. 2 I). Un fratello secondo la carne, perché battezzato. Anche se Onesimo rimane sempre schiavo del suo padrone Filemone, pure il rapporto tra loro è cambiato. Perché? Il libero e lo schiavo sono divenuti membra del corpo di Cristo. Nella loro comunione ora vive, come in una piccola cella, il corpo di Cristo, la comunità. «Quanti siete stati battezzati in Cristo, di Cristo vi siete rivestiti. Non c’è più né giudeo, né gentile, non c’è più né schiavo né libero, non c’è più né maschio né femmina, voi siete uno solo in Cristo Gesù» (Gal. 3,27 s.; Col.3,11). Nella comunità l’uno non vede più nell’altro il libero o lo schiavo, il maschio o la femmina, ma il membro del corpo di Cristo. Certo, questo non significa che ora lo schiavo non sia più schiavo, il maschio non più maschio. Ma non vuol nemmeno dire che nella comunità si continui a vedere in ognuno il giudeo o il gentile, il libero o lo schiavo. Proprio questo deve essere escluso. Noi vediamo negli altri solo l’appartenenza al corpo di Cristo, cioè consideriamo che siamo tutti Uno in lui. Giudeo e gentile, libero e schiavo, maschio e femmina sono ora nella comunità parte della comunità del corpo di Cristo. Lì dove vivono, parlano, agiscono insieme è la comunità; essi sono dunque in Cristo. Ma allora anche la loro comunione è determinata e mutata in maniera decisiva. La donna obbedisce all’uomo «nel Signore», lo schiavo serve Dio quando serve il suo padrone; il padrone sa che anche lui ha un Signore in cielo (Col. 3,18; 4,1), ma ora sono fratelli «secondo la carne e nel Signore».

Così la comunità interviene nella vita del mondo e conquista spazio per Cristo, perché ciò che è «in Cristo» non è più sotto il dominio del mondo, del peccato e della legge. In questa comunità rinnovata nessuna legge del mondo ha più da dire qualcosa. Il regno dell’amore cristiano tra fratelli è sottoposto a Cristo, non al mondo. La comunità non può ormai permettere oltre che al servizio dell’amore reso al fratello, al servizio della misericordia siano imposti dei limiti. Infatti dov’è il fratello lì è il corpo di Cristo stesso, lì è sempre anche la sua comunità, lì devo esserci anch’io.

Chi appartiene al corpo di Cristo è liberato dal mondo, chiamato fuori, deve essere visibile al mondo non solo a causa della comunione nel culto e dell’ordinamento della comunità, ma anche per la nuova fraterna comunione di vita. Quando il mondo disprezza il fratello cristiano, il cristiano lo amerà e lo servirà; quando il mondo gli usa violenza, egli lo aiuterà e consolerà; quando il mondo lo disonora e offende, egli darà il suo onore per il disonore del fratello. Dove il mondo cercherà guadagno, egli rinunzierà; dove il mondo sfrutta, egli si priverà; dove il mondo opprime, egli si piegherà verso l’oppresso e lo solleverà. Se il mondo nega di far giustizia, egli userà misericordia; se il mondo si circonda di menzogna, egli aprirà la sua bocca per i muti e testimonierà la verità. Per amore del fratello, sia esso giudeo o pagano, schiavo o libero, forte o debole, nobile o ignobile, egli rinunzierà a ogni comunione con il mondo; infatti egli serve la comunità del corpo di Gesù Cristo. Perciò in questa comunità non può restare nascosto al mondo. Egli è chiamato fuori e segue.

Ma «ognuno rimanga in quella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato chiamato quando eri schiavo? Non te ne preoccupare, ma pur potendo diventare libero approfitta piuttosto della tua condizione» (cioè: resta schiavo), perché chi è stato chiamato nel Signore da schiavo è un liberto del Signore, come chi è stato chiamato da libero è schiavo di Cristo. Siete stati comprati a gran prezzo, non diventate schiavi degli uomini. Fratelli, ognuno rimanga davanti a Dio nella condizione in cui era quando fu chiamato» (1 Cor. 7,20-24). Non è, forse, tutto mutato da quanto accadde quando Gesù invitò i primi discepoli a seguirlo? Allora i discepoli dovettero abbandonare tutto e seguirlo. Ora invece è detto: «ognuno rimanga nella condizione in cui era quando è stato chiamato». Come risolviamo questa contraddizione? Solo riconoscendo che sia per la chiamata di Gesù sia per l’ammonimento degli apostoli l’unica cosa importante è che chi è chiamato entri a far parte del corpo di Cristo. I primi discepoli dovettero andare con Gesù per restare in comunione fisica con lui. Ora, invece, il corpo di Cristo, nella Parola e nel Sacramento, non è più legato ad un unico luogo in terra. Il Cristo risorto e glorificato si è avvicinato al mondo, il corpo di Cristo è penetrato nel mondo - sotto forma della sua comunità. - Chi è battezzato è battezzato nel corpo di Cristo. Cristo è venuto a lui, ha accettato la sua vita ed ha quindi strappato al mondo ciò che gli apparteneva. Se uno è stato battezzato quando era schiavo, egli è divenuto partecipe della comunione del corpo di Cristo come schiavo. Come schiavo è già strappato al mondo, è divenuto liberto di Cristo. Perciò lo schiavo rimanga pure schiavo. Come membro della comunità di Cristo ha già ottenuto la libertà che nessuna ribellione, nessuna rivoluzione gli avrebbe potuto né potrebbe dare. Paolo ammonisce lo schiavo a rimanere schiavo non certo per vincolarlo maggiormente al mondo, per «ancorare religiosamente» la sua vita al mondo, per fame un cittadino di questo mondo, migliore e più fedele. Paolo non parla certo per giustificare un’organizzazione sociale oscurantista, per coprirla con una guarnizione cristiana. Non perché l’ordinamento civile del mondo sia così divino da non dover essere rovesciato, ma solo perché tutto il mondo è già stato scosso fin nelle fondamenta dall’opera di Cristo, dalla liberazione concessa da Cristo sia allo schiavo sia al libero. Una rivoluzione, un rovesciamento dell’ordine sociale non rischierebbe di offuscare lo sguardo per il rinnovamento divino di tutte le cose e per la creazione della sua comunità per opera di Gesù Cristo? Ogni tentativo rivoluzionario non impedirebbe forse, o almeno ritarderebbe, la demolizione di tutto l’ordine cosmico e così l’avvento del regno di Dio? Non certo, dunque, perché nell’adempimento del proprio dovere professionale del mondo si debba riconoscere il compimento della vita cristiana, ma perché nella rinunzia a liberarsi agli ordinamenti di questo mondo sta l’espressione adeguata del fatto che il cristiano non s’aspetta nulla dal mondo, ma tutto da Cristo e dal suo regno - perciò lo schiavo rimanga schiavo! Poiché questo mondo non ha bisogno di riforme, ma è maturo per essere distrutto - perciò lo schiavo rimanga schiavo! Egli gode di una promessa migliore. Il mondo non è forse giudicato con sufficiente chiarezza e lo schiavo sufficientemente consolato nel fatto che il Figlio di Dio ‘prese’ forma di schiavo (Fil. 2,5) quando venne in terra? Il cristiano chiamato come schiavo, proprio nella sua condizione di schiavo in terra non è forse già abbastanza lontano dal mondo, che potrebbe amare e desiderare, del quale potrebbe preoccuparsi? Perciò lo schiavo non soffra perché ribelle, ma perché membro della comunità e del corpo di Cristo. In ciò il mondo diviene maturo per la distruzione. «Non siate schiavi degli uomini!». Ciò accadrebbe in due modi: d’un canto con la ribellione e con il rovesciamento dell’ordine dato, d’altro canto con la trasfigurazione religiosa delle istituzioni date. «Fratelli, ognuno rimanga davanti a Dio nella condizione in cui era quando fu chiamato». «Davanti a Dio» e perciò «non siate schiavi degli uomini» né ribellandovi né assoggettandovi falsamente. Restare davanti a Dio nella propria professione, significa restare, in mezzo al mondo, uniti al corpo di Cristo nella comunità visibile, e dare una testimonianza viva della vittoria sul mondo nel culto e nella vita dedita a Gesù.

Perciò «ogni persona sia sottomessa ai poteri superiori» (Rom. 13,1 ss.). Il cristiano non desideri salire in alto fino al potere; il suo compito è di rimanere in basso. Le autorità sono sopra (uper) di lui, lui rimanga sotto (upo). Il mondo domina, il cristiano serve; in ciò è in comunione con il suo Signore che si fece schiavo. «E Gesù chiamatili a sé dice loro: Sapete che quelli che hanno fama di guidare i popoli li tiranneggiano e i loro grandi li opprimono. Ma non è così tra di voi; chi infatti voglia diventare grande tra di voi sia vostro servo e chi voglia essere primo fra voi sia lo schiavo di tutti, poiché anche il Figlio dell’uomo non venne per essere servito ma per servire e dare la sua vita in riscatto di molti» (Mc. 10,42-45). «Perché non v’è potere se non da Dio». Questo è detto al cristiano, non alle autorità. I cristiani sappiano che riconoscono e adempiono la volontà di Dio proprio in basso, dove è stato loro assegnato il posto dai superiori. I cristiani si sentono confortati dal fatto che Dio stesso vuole agire in loro favore tramite i superiori, che il loro Dio è Signore anche delle autorità. Ma questo non deve rimanere una considerazione ed una conoscenza generale del carattere delle autorità (exousia singolare), ma deve essere applicato nella presa di posizione del cristiano di fronte alle reali autorità in carica (ai de ousai). Chi si oppone a queste si oppone alle disposizioni di Dio (diataxe tou theou), che ha voluto che il mondo domini e che Cristo vinca servendo, e con lui i suoi cristiani. Il cristiano che non volesse comprenderlo, attirerebbe su di sé il giudizio (v. 2); infatti egli si sarebbe di nuovo adeguato al mondo. Da che cosa nasce tanto facilmente l’opposizione dei cristiani alle autorità? Dal fatto che si scandalizzano degli errori e delle ingiustizie delle autorità. Ma con questa considerazione i cristiani incorrono già nel grave pericolo di badare ad altro che alla volontà di Dio che essi stessi devono compiere. Purché essi stessi badino sempre ad agire bene, come Dio ordina loro, essi possono vivere «senza timore» dei superiori, perché «i magistrati non sono da temere per le opere buone, bensì per quelle cattive» (v. 3). Perché il cristiano che rimane davanti al suo Signore e fa il bene dovrebbe temere? «Vuoi vivere senza temere il potere? Fa’ quel che è bene». «Fa’ quel che è bene», solo questo conta. Non ciò che fanno gli altri, ma quello che farai tu sarà importante per te. Fa’ il bene, senza timore, senza limitazioni, senza condizioni. Come, infatti, potresti biasimare i superiori per i loro errori, se tu stesso non agisci bene? Come vuoi giudicare gli altri, se tu stesso incorri nel giudizio? Se vuoi vivere senza temere, fa’ quel che è bene! «e ne riceverai lode. Esso, infatti, è per te ministro di Dio per il tuo bene». Non che il desiderio di lode possa essere la ragione delle nostre buone azioni; non può nemmeno essere il nostro fine; la lode è solo qualcosa che sarà aggiunto se i superiori sono come devono essere. Paolo fa tutte queste considerazioni tenendo sempre presente la comunità cristiana; lo interessa solo la comunità cristiana, la sua salvezza e il suo cammino, a tal punto che egli deve mettere in guardia i cristiani dalla loro propria cattiveria e ingiustizia, mentre non biasima le autorità. «Se fai il male temi, perché essa (l’autorità) non porta la spada invano, ma essendo ministra di Dio deve punire chi fa il male» (v. 4). È solo importante che nella comunità cristiana non accada alcun male. Paolo si rivolge ancora ai cristiani e non alle autorità. A lui importa solo che i cristiani siano mantenuti nella penitenza e nell’obbedienza, dovunque si trovino, qualunque conflitto li minacci; e non che qualche autorità terrena sia giustificata o respinta. Nessuna autorità può leggere in queste parole una giustificazione divina della propria esistenza. Anzi, se realmente questa parola toccasse una volta un’autorità, anche per essa sarebbe, allo stesso modo, un richiamo al pentimento, come in realtà qui è un invito a pentirsi rivolto alla comunità. Un potente (arxon) che sentisse queste parole non ne potrebbe mai dedurre l’autorizzazione divina al suo modo di adempiere alle sue funzioni; dovrebbe piuttosto sentirvi l’ordine di essere servitore di Dio per il bene della cristianità che fa del bene. E con questo incarico dovrebbe pentirsi. Paolo parla in questo modo ai cristiani, non certo perché le istituzioni di questo mondo siano tanto buone, ma perché la loro bontà o meno non ha nessuna importanza di fronte a ciò che solo importa, cioè che nella comunità domini la volontà di Dio e venga adempiuta. Non vuole insegnare quali siano i compiti delle autorità, ma parla solo dei compiti della cristianità davanti all’ autorità.

Il cristiano deve «ricevere lode» dalle autorità. Se non è così, se invece di essere lodato viene punito e perseguitato, che colpa ne ha lui? Non ha infatti fatto per amore di gloria ciò che ora gli viene imputato a colpa. E non ha fatto il bene nemmeno per timore della punizione. Se ora deve soffrire invece di essere lodato, è tuttavia libero davanti a Dio e senza timore, e sulla comunità non è ricaduta alcuna vergogna. Obbedisce alle autorità non per qualche vantaggio, ma per «motivo di coscienza» (v. 5). Perciò l’errore delle autorità non può toccare la sua coscienza. Egli rimane libero e senza timore e ancora, soffrendo innocentemente, può dimostrare la debita obbedienza alle autorità. Egli infatti sa che, in definitiva, non domina l’autorità, ma Dio, che l’autorità è ministra di Dio. L’autorità è ministra di Dio - questo lo dice l’apostolo, che più volte è stato messo in prigione innocentemente, che tre volte è stato duramente percosso da essa, che sapeva che tutti gli ebrei erano stati cacciati da Roma dall’imperatore Claudio (At. 18,1 ss.). L’autorità è ministra di Dio così dice l’apostolo che sa che da tempo a tutte le potenze e autorità del mondo è stato tolto il potere, che Cristo le ha portate in trionfo sulla croce, che non passerà molto tempo prima che tutto questo sarà manifestato.

Ma tutto quello che è detto qui è posto sotto l’ammonimento precedente di Paolo a proposito delle autorità: «Non esser vinto dal male, ma vinci il male col bene» (Rom. 12,21). Non si tratta qui della bontà o malvagità dei potenti, ma della vittoria sul male operata dai cristiani.

Mentre per gli ebrei era una questione che poteva realmente indurre in tentazione, se pagare all’imperatore i tributi o no, poiché ponevano le speranze nella distruzione dell’impero romano e nell’istituzione di un proprio dominio, per Gesù e i suoi è una domanda spassionata. «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt. 22,21) dice Gesù, «perciò pagate anche i tributi» (Rom. 13,6) così Paolo conclude le sue esplicazioni. Questo dovere non suscita nelle coscienze cristiane nessun conflitto, con i comandamenti di Gesù, perché restituiscono all’imperatore ciò che, in fondo, è suo. Anzi, devono rispettare coloro che chiedono tributi quali «ministri di Dio» (leitourgoi) (v. 6). Certo, non può esserci alcun malinteso: i cristiani non rendono un culto a Dio pagando i tributi, così dice Paolo, ma quelli che riscuotono le tasse rendono in questo il - loro! - servizio a Dio. Paolo non invita neppure i cristiani a questo servizio, ma a sottomettersi e a non restare a nessuno debitori di quello che gli è dovuto (v. 7-8). Ogni opposizione, ogni resistenza, a questo punto, dimostrerebbe solo che i cristiani scambiano il regno di Dio con un regno di questo mondo.

Perciò lo schiavo rimanga schiavo, perciò il cristiano si sottometta ai superiori che hanno potere su di lui, perciò il cristiano non abbandoni il mondo (1 Cor. 5,11). Ma naturalmente, pur essendo schiavo, viva come liberto di Cristo; sotto le autorità viva facendo del bene, nel mondo viva come membro del corpo di Cristo dell’umanità rinnovata; e faccia tutto senza riserva; e così in mezzo al mondo testimoni della perdizione del mondo e della nuova creazione della comunità. Egli soffra solo in quanto membro del corpo di Cristo.

Il cristiano rimanga nel mondo; non per la bontà data da Dio al mondo, non per la sua responsabilità per il corso del mondo, ma per amore del corpo di Cristo incarnato, per amore della comunità. Egli rimanga nel mondo per attaccare il mondo frontalmente, egli viva la sua «vita civile nel mondo» per poter far vedere tanto più chiaramente la sua «estraneità al mondo». Ma questo accade solo mediante l’appartenenza visibile alla comunità. L’opposizione al mondo deve essere disputata nel mondo. Perciò Cristo divenne uomo e morì in mezzo ai suoi nemici. Perciò - e solo perciò - lo schiavo rimanga schiavo ed il cristiano resti sottomesso alle autorità.

Lutero non ha pensato diversamente a proposito della professione civile negli anni decisivi in cui si è allontanato dal monastero. Non biasima il fatto che nel monastero si richiedevano azioni straordinarie, ma che l’obbedienza al comandamento di Gesù veniva inteso come opera buona di singoli. Lutero non ha attaccato l’ «estraneità al mondo» della vita monastica, ma il fatto che questa estraneità al mondo nell’ambito del monastero era divenuta di nuovo adeguamento spirituale al mondo, che è un vergognoso rovesciamento dell’Evangelo. Questa «estraneità al mondo» della vita cristiana deve essere trasferita in mezzo al mondo, nella comunità, nella vita quotidiana, così aveva pensato Lutero. Perciò i cristiani vivono la loro vita cristiana nella loro professione civile. Perciò nella professione devono morire al mondo. Il valore della professione cristiana consiste nel fatto che il cristiano può vivere in essa, perché Dio è buono, e può lottare con più impegno contro il mondo. Il ritorno di Lutero nel mondo non è dovuto a un «giudizio più positivo» sul mondo o addirittura a una rinuncia all’attesa paleo-cristiana di un vicino ritorno di Cristo. Esso aveva semplicemente il significato critico di protesta contro la secolarizzazione del cristianesimo nella vita monastica. Lutero, richiamando i cristiani nel mondo, li richiamava proprio alla giusta estraneità dal mondo. Lutero lo ha sperimentato di persona. L’invito di Lutero a ritornare nel mondo era sempre un richiamo a far parte della comunità visibile del Signore divenuto uomo. E Paolo non la pensava diversamente.

Perciò ora è anche chiaro che la vita nella professione civile per il cristiano ha ben determinati limiti e che perciò può accadere che all’invito a dedicarsi a una professione nel mondo segua l’invito ad abbandonarla. Questo è il modo di pensare di Paolo, e anche di Lutero. I limiti sono segnati dall’appartenenza stessa alla comunità visibile di Cristo. Il limite è raggiunto se lo spazio richiesto e occupato dal corpo di Cristo in questo mondo per servire Dio, per il culto, per i ministeri ecclesiastici e per la vita civile entra in collisione con lo spazio preteso dal mondo. Che si è raggiunto questo limite lo si riconosce chiaramente nel momento in cui si rende necessaria, da parte del membro della comunità, una confessione di fede aperta e pubblica sulla propria appartenenza a Cristo, mentre il mondo si ritira prudentemente oppure usa violenza. Qui per il cristiano iniziano le sofferenze pubbliche. Lui che morì con Cristo nel battesimo, il cui segreto soffrire con Cristo non è stato riconosciuto dal mondo, ora viene pubblicamente espulso dalla sua professione in questo mondo. Entra in visibile comunione con la passione del suo Signore. Ora ha più che mai bisogno della piena comunione e dell’aiuto fraterno della comunità.

Ma non è sempre il mondo a espellere il cristiano dalla sua vita professionale. Fin dai primi tempi della chiesa primitiva ci furono delle professioni considerate incompatibili con l’appartenenza alla comunità cristiana. L’attore che deve rappresentare divinità ed eroi pagani, l’insegnante che deve insegnare in scuole pagane la mitologia pagana, il gladiatore che deve uccidere per gioco degli uomini, il soldato che deve usare la spada, il gendarme, il giudice - tutti questi dovettero lasciare la loro professione pagana se volevano essere battezzati. In seguito la Chiesa - cioè il mondo - riuscì a liberalizzare di nuovo la maggior parte di queste professioni. Più e più la resistenza dalla parte della comunità passò a quella del mondo.

Quanto più il mondo invecchia, quanto più aspra diviene la lotta tra Cristo e Anticristo, tanto più radicalmente il mondo cerca di liberarsi dei cristiani. Ai primi cristiani il mondo concesse ancora lo spazio nel quale potevano nutrirsi e vestirsi col lavoro delle proprie mani. Ma un mondo divenuto assolutamente anticristiano non può più concedere ai cristiani questa sfera privata della loro attività professionale, del loro lavoro per guadagnarsi il pane quotidiano. Per ogni pezzo di pane che i cristiani vogliono mangiare il mondo deve pretendere da loro il rinnegamento del loro Signore. E così ai cristiani, infine, non resta altro che la fuga o la prigione. Ma la fine sarà vicina, quando ai cristiani sarà tolto l’ultimo spazio vitale su questa terra.

Così il corpo di Cristo si inserisce profondamente in tutte le sfere vitali di questo mondo, eppure, d’ altro canto, la netta separazione è ben visibile e deve divenire sempre più chiaramente visibile. Ma sia l’essere nel mondo sia l’esserne nettamente separati, ambedue le cose avvengono in piena obbedienza alla Parola: «Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati «(metamorphousthe) mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio» (Rom. 12,2).

Ci si può adeguare a questo mondo, ma ci si può anche rifugiare volontariamente nel ‘mondo’ spirituale del monastero. Si può restare nel mondo contro la volontà di Dio e si può fuggire il mondo contro la sua volontà. In ambedue i casi si tratta di un adeguamento al mondo. Ma la comunità di Cristo ha una ‘forma’ diversa dal mondo. Essa deve lasciarsi trasformare in modo da assumere sempre più questa forma. È la forma di Cristo stesso che venne al mondo e accolse e portò gli uomini con infinita misericordia senza pertanto adeguarsi al mondo, tanto che fu rifiutato dal mondo e scacciato da esso. Non era di questo mondo. In un giusto incontro con il mondo la comunità visibile diverrà sempre più simile all’immagine del Signore nella sua passione.

Perciò i fratelli devono sapere: «Il tempo si è fatto breve, non rimane dunque altro che coloro i quali hanno moglie siano come se non l’avessero, quelli che piangono come se non piangessero, quelli che godono come se non godessero, quelli che comprano come se non possedessero e quelli che usano del mondo come se non ne fruissero: passa infatti l’apparenza di questo mondo. Ora io vorrei che foste senza preoccupazioni» (1 Cor. 7,29-32a). Questa è la vita della comunità di Cristo nel mondo. I cristiani vivono come altri uomini: sposano, piangono e godono, comperano e usano del mondo per la loro vita quotidiana. Ma ciò che hanno lo posseggono solo mediante Cristo e in Cristo e per amore di Cristo, e perciò non ne sono mai vincolati. Lo posseggono come se non lo possedessero. Non vi attaccano il loro cuore. Sono del tutto liberi. E poiché lo sono, possono usare del mondo e non devono andarsene (I Coro 5,13). Poiché sono liberi possono anche abbandonare il mondo se esso impedisce loro di seguire il Signore. Essi sposano; certo, l’apostolo pensa che sono più beati se restano liberi, ma solo se lo fanno per fede (1 Cor. 7,7 e 33-40).

Comperano e commerciano, ma tutto per le loro necessità nella vita quotidiana. Non raccolgono tesori a cui resti legato il loro cuore. Lavorano perché non devono vivere nell’ozio. Ma naturalmente il lavoro non è per loro un fine a se stesso. Il Nuovo Testamento non conosce il lavoro per il lavoro. Ognuno si guadagni con il suo lavoro ciò di cui ha bisogno. E abbia anche qualcosa da dare ai suoi fratelli (1 Ts. 4,11 s.; 2 Ts. 3,11 s.; Ef. 4,28). Sia indipendente da quelli «di fuori», dai pagani (1 Ts. 4,12), come Paolo stesso si vanta di guadagnare il suo pane con il lavoro delle sue mani per non dipendere nemmeno dalle sue comunità. (2 Ts. 3,8; 1 Cor. 9,11). Questa indipendenza serve al messaggero come la miglior prova che egli non predica per un qualche guadagno. Tutto accade a servizio della comunità. Accanto all’ordine di lavorare si pone quell’altro: «Non preoccupatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere a Dio le vostre richieste, con preghiere, con suppliche e con azioni di grazie» (Fil. 4,6). I cristiani sanno: «La pietà è infatti una fonte di grande guadagno, accompagnata dall’accontentarsi di ciò che si ha, poiché nulla abbiamo portato nel mondo e nulla, senza dubbio, possiamo portar via. Se dunque abbiamo vitto e vestito, accontentiamoci di questo. Quelli invece che vogliono abbondare in ricchezze, cadono nella tentazione, nei lacci, in molte cupidige insensate e funeste che sommergono gli uomini nella rovina e nella perdizione» (1 Tm. 6,6-9). Perciò i cristiani usano dei beni di questa terra come di «cose destinate a perire con l’uso» (Col. 2,22). Lo fanno ringraziando e pregando il Creatore, perché tutto quello che ha creato è buono (1 Tm. 4,4). Eppure sono liberi. Possono essere sazi o patire la fame, avere in abbondanza o essere nel bisogno. «lo posso ogni casa in colui che mi fortifica» (Fil. 4,12).

I cristiani sono nel mondo; hanno bisogno del mondo, perché sono carne e per amore della loro carne Cristo venne nel mondo. Essi fanno cose di questo mondo. Sposano, ma il loro matrimonio sarà diverso da quello del mondo. Sarà «nel Signore» (1 Cor. 7,39). Sarà santificato nel servizio reso al corpo di Cristo e verrà condotto nella disciplina della preghiera e della temperanza (1 Cor. 7,5). Esso sarà così una simili tu dine dell’amore di Cristo che ha sacrificato tutto per la sua comunità. Il loro matrimonio sarà parte del corpo di Cristo; sarà chiesa (Ef. 5,22). I cristiani comperano e vendono, commerciano e sono artigiani, ma anche qui essi si comporteranno in maniera diversa dai pagani. Non solo non si soverchieranno a vicenda (1 Ts. 4,6), ma faranno anche ciò che al mondo sembra così impossibile, cioè accetteranno più volentieri di essere imbrogliati e di subire ingiustizia piuttosto che cercare di far valere per amore di «beni terreni» il proprio diritto rivolgendosi a tribunali pagani. Se dev’essere, essi risolveranno i loro conflitti all’interno della comunità, davanti a tribunali propri (1 Cor. 6,1-8).

E così la comunità cristiana conduce la sua propria vita in mezzo al mondo e, con tutto il suo essere e agire, in ogni momento, testimonia che «l’apparenza di questo mondo passa» (1 Cor. 7,23) ed «il Signore Gesù è vicino» (Fil. 4,5). Questo la colma di grande letizia (Fil. 4,4). Il mondo diviene troppo piccolo per lei; solo il ritorno del Signore ha importanza per lei. Ancora cammina nella carne. Ma il suo sguardo è rivolto al cielo, da dove ritornerà colui che essa attende. Qui essa è, in paese straniero, una colonia lontana dalla patria, una comunità, una colonia di stranieri che godono dell’ospitalità del paese in cui vive, che obbedisce alle leggi di questo paese e rispetta le sue autorità. Usa con gratitudine ciò che è necessario per la vita; si dimostra onesta in ogni cosa, giusta, pura, mite, silenziosa e pronta a servire. A tutti gli uomini dimostra l’amore del suo Signore, «ma soprattutto ai fratelli in fede» (Gal. 6,10; 2 Pt. 1,7). Nel dolore è paziente e allegra e si vanta delle sue sofferenze. Vive la sua propria vita sotto autorità straniere e così rende loro il massimo servizio (1 Tm.2,1). Ma è qui solo di passaggio. Ogni momento può esserle dato il segnale di continuare la marcia. Allora essa parte e abbandona tutte le amicizie e parentele terrene e segue solo la voce di colui che l’ha chiamata. Lascia il paese straniero e va incontro alla sua patria che è in cielo.

Sono poveri e addolorati, affamati e assetati, misericordiosi, amanti della pace, perseguitati e scherniti dal mondo, eppure solo a cagione loro il mondo viene ancora preservato. Essi proteggono il mondo dal giudizio di Dio. Soffrono perché il mondo possa ancora vivere nella pazienza di Dio. Sono ospiti e stranieri in terra (Eb. 11,13; 13,14; 1 Pt. 2,1), aspirano a quello che è nel cielo e non a quello che è in terra (Col. 3,3). Perché la loro vera vita non è stata ancora manifestata, è ancora nascosta con Cristo in Dio. Qui essi vedono il riflesso di ciò che saranno. Qui si vede solo il loro morire, il segreto morire quotidiano dell’uomo vecchio e il suo morire in pubblico davanti al mondo. Ancora sono nascosti a se stessi. La sinistra non sa ciò che fa la destra. Proprio come comunità visibile sono assolutamente sconosciuti a se stessi. Guardano solo al loro Signore, che è nel cielo e presso di lui è la loro vita che essi attendono. Ma quando Cristo, la loro vita, sarà manifestato, allora anch’essi saranno manifesti con lui nella gloria (Col. 3,4).

Camminano in terra e vivono nel cielo, 
rimangono impotenti e proteggono il mondo;
gustano la pace in mezzo al tumulto,
sono poveri, ma hanno ciò che piace loro.
Sono nel dolore, ma rimangono allegri,
sembrano morti ai sensi esteriori
e conducono la vita della fede interiormente.


Quando Cristo, la loro vita, sarà manifestato, 
quando un giorno si presenterà nella sua gloria, 
essi compariranno assieme a lui come principi della terra,
e faranno meravigliare il mondo. 
Regneranno, trionferanno con lui, 
orneranno il cielo come splendidi astri.
E allora la loro gioia sarà sentita apertamente.

Da «Es glänzet der Christen inwendiges Leben» 
( La vita interiore dei cristiani risplende, di Chr. F. Richter).

Questa è la comunità degli eletti, l’ecclesia, il corpo di Cristo in terra, i seguaci e discepoli di Gesù.

 

I santi

L’ecclesia di Cristo, la comunità dei discepoli è strappata alla signoria del mondo. Vive, sì, ancora nel mondo, ma forma un corpo, forma un dominio a sé, uno spazio a sé. È la Chiesa santa (Ef. 5,27), la comunità dei santi (1 Cor. 14,34), ed i suoi membri sono chiamati a santità (Rom. 1,7), sono stati santificati in Gesù Cristo (1 Cor. 1,2), eletti e messi a parte prima della fondazione del mondo (Ef. 1,4). Lo scopo della loro chiamata a Gesù Cristo, della loro elezione prima della creazione del mondo era che vivessero santi e irreprensibili (EI. 1,4); perciò Cristo si è dato alla morte per presentarli santi, immacolati e irreprensibili davanti a lui (Col. 1,22); questo è il frutto dell’affrancamento dal peccato mediante la morte di Cristo, che quelli che prestarono le loro membra come schiave all’impurità e all’iniquità ora le prestano come schiave alla giustizia per la santificazione (Rom. 6,19-22).

Santo è solo Dio. Lo è sia nella totale separazione dal mondo peccatore sia nella fondazione del suo santuario in mezzo al mondo. Mosè canta con i figli d’Israele, dopo la distruzione degli Egiziani, un inno di lode al Signore che ha salvato il suo popolo dalla schiavitù del mondo: «Chi è come te fra gli dèi, o Signore? Chi è come te maestoso nella santità, terribile in atti gloriosi, operatore di prodigi? Hai steso la tua destra, la terra li ha inghiottiti. Hai condotto, con la tua grazia, questo popolo che hai riscattato, l’hai guidato con la tua forza, alla tua santa dimora... Tu li introdurrai e li pianterai sul monte della tua eredità, nel luogo che tu, o Signore, hai preparato per tua dimora, nel santuario che le tue mani hanno stabilito, o mio Signore» (Es. 15,11 ss.).

Questa è la santità del Signore che si prepara una dimora in mezzo al mondo, un santuario, e fa uscire da questo santuario giudizio e salvezza (Salmo 99 e passim). Ma nel santuario il Santo si unisce al suo popolo. Ciò accade mediante una riconciliazione che non si può ottenere se non nel santuario (Lv. 16,16 ss.). Dio fa un patto con il suo popolo. Lo mette a parte, lo fa suo e se ne fa lui stesso garante. «Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo» (Lv. 19,1) e «santo sono io, il Signore che vi santifica» (Lv. 21,8). Ecco il fondamento sul quale poggia questo patto. Tutte le altre leggi che vengono date al popolo hanno come premessa e come fine la santità di Dio e della comunità.

Come Dio stesso, in quanto santo, è separato dalle cose comuni, dal peccato, così accade anche per la comunità del suo santuario. L’ha eletta lui stesso. L’ha fatta comunità del suo patto. L’ha riconciliata e purificata nel santuario. Ma il santuario è il tempio, e il tempio è il corpo di Cristo. Così nel corpo di Cristo è compiuta la volontà di Dio di formare una comunità santa. Separato dal mondo e dal peccato e reso proprietà di Dio, il corpo di Cristo è il santuario di Dio nel mondo. Dio dimora in esso con lo Spirito santo.

Come può essere? Come Dio può formarsi, con uomini peccatori, una comunità di santi, che sono completamente separati dal peccato? Come può Dio allontanare da sé l’accusa di ingiustizia se si collega con il peccato? Come può essere giusto il peccatore e Dio restare tuttavia giusto?

Dio si giustifica da sé, dimostra la sua giustizia. Nella croce di Gesù Cristo avviene il miracolo dell’autogiustificazione di Dio davanti a se stesso e agli uomini (Rom. 3,21 ss.). Il peccatore deve essere separato dal peccato, eppure vivere al cospetto di Dio. Ma la separazione dal peccato per il peccatore può avvenire solo mediante la morte. La sua vita è in tal misura peccato che deve morire se vuol essere affrancata dal peccato. Dio può essere giusto solo uccidendo il peccatore. Eppure il peccatore deve vivere ed essere santo davanti a Dio. Com’è possibile?

Dio stesso si fa uomo, egli stesso si incarna in Gesù Cristo, suo Figlio, porta sul suo corpo la nostra carne nella morte sulla croce. Dio uccide suo Figlio che si è incarnato, e con suo Figlio uccide tutto ciò che è carne sulla terra. Ora è manifesto che nessuno è buono tranne Dio, che nessuno è giusto tranne Dio solo. Così Dio ha dato la terribile dimostrazione della sua propria giustizia (endeixis tes dikaiosunes autou Rom. 3,26) mediante la morte di suo Figlio. Dio dovette mettere a morte l’umanità tutta condannandola alla pena della croce, perché lui solo potesse essere giusto. La giustizia di Dio è manifesta nella morte di Cristo Gesù. La morte di Gesù Cristo è il luogo dove Dio dà la benevola prova della sua giustizia, dove dimora solo la giustizia di Dio. Chi potesse divenire partecipe di questa morte, sarebbe anche partecipe della giustizia di Dio. Ora Cristo portò la nostra carne e i nostri peccati nel proprio corpo sul legno (1 Pt. 2,24). Ciò che è stato fatto a lui è stato fatto a noi tutti. Egli prese parte alla nostra vita e alla nostra morte, e così noi divenimmo partecipi della sua vita e della sua morte. Se la giustizia di Dio dovette essere dimostrata con la morte di Cristo, noi ci troviamo con lui lì dove dimora la giustizia di Dio sulla sua croce, perché egli portò la nostra carne. Così in quanto morti diveniamo partecipi della giustizia di Dio nella morte di Gesù. La giustizia di Dio stesso che uccide noi peccatori, nella morte di Gesù, è la sua giustizia per noi. Essendo la giustizia di Dio ristabilita con la morte di Gesù, anche per noi che siamo inclusi nella morte di Gesù, è ristabilita la giustizia di Dio. Dio dimostra la sua giustizia «in modo da essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù» (Rom. 3,26). In questo sta la giustificazione del peccatore che Dio solo è giusto e l’uomo è assolutamente ingiusto, non che egli pure sia giusto accanto a Dio. Ogni volontà di essere noi pure giusti ci separa completamente dalla giustificazione per opera della sola giustificazione di Dio. Dio solo è giusto. Questo, nella croce, viene riconosciuto come giudizio su di noi in quanto peccatori. Ma chi si ritrova per fede nella morte di Gesù sulla croce, riceve proprio lì, dov’è condannato a morte perché peccatore, la giustizia di Dio che trionfa sulla croce. Egli viene giustificato proprio perché non può e non vuole mai essere giusto lui stesso, ma accetta che Dio solo sia giusto. Perché l’uomo davanti a Dio non può mai essere fatto giusto, se non nel momento in cui riconosce che Dio solo è giusto, e lui, uomo, è del tutto peccatore. Se domandiamo, come noi peccatori possiamo essere giusti davanti a Dio, in fondo, domandiamo come Dio può essere giusto solo verso di noi. La nostra giustificazione trova la sua ragione solo nella giustificazione di Dio, «affinché tu (Dio) sia riconosciuto giusto nelle tue parole e trionfi dovunque ti si mette in giudizio» (Rom. 3.4).

Si tratta solo della vittoria di Dio sulla nostra ingiustizia, che Dio resti giusto di fronte a se stesso, che sia giusto lui solo. Questa vittoria di Dio è stata conquistata sulla croce. Perciò questa croce non è solo giudizio, ma anche riconciliazione (ilasterion v. 25) per tutti quelli che credono che nella morte di Gesù Dio solo è giusto e che riconoscono i propri peccati. La giustizia di Dio crea essa stessa la riconciliazione (proetheto v. 25). «Dio in Cristo si riconciliava il mondo non imputando ad esso i suoi errori» - li portò lui stesso e subì perciò la morte del peccatore «affidando a noi la parola della riconciliazione» (2 Cor. 5,19 ss.). Questa parola vuol essere creduta: Dio solo è giusto e la nostra giustizia è nata in Gesù. Ma tra la morte di Cristo e l’annunzio della croce sta la sua resurrezione. Solo in quanto risorto egli è colui la cui croce ha potere su di noi. L’annunzio di Gesù crocifisso è sempre già l’annunzio di colui che non è stato trattenuto dalla morte. «Noi dunque siamo ambasciatori di Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: riconciliatevi con Dio». L’annunzio della riconciliazione è la Parola stessa di Cristo. Egli è il risorto, che si mostra a noi come il crocifisso, nelle parole dell’apostolo: ritrovatevi nella morte di Gesù Cristo nella giustizia di Dio, che in essa ci viene donata. Chi si ritroverà nella morte di Gesù si ritrova nella giustizia di Dio solo. «Colui che non conobbe il peccato, egli lo ha fatto diventare peccatore per noi, affinché noi diventassimo in lui giustizia di Dio». L’innocente viene ucciso, perché porta la nostra carne peccaminosa, è odiato e maledetto da Dio e dal mondo, fatto peccato a cagione della nostra carne. Noi, invece, troviamo nella sua morte la giustizia di Dio. In lui noi usufruiamo del potere della sua incarnazione. Egli morì per noi, perché noi, che siamo peccatori, in lui divenissimo giustizia di Dio, in quanto peccatori che mediante la giustizia di Dio solo siamo affrancati dal peccato. Se Cristo davanti a Dio è il nostro peccato che dev’essere condannato, noi siamo in lui la giustizia, ma non certo la nostra propria giustizia (idia dikaiosune  Rom. 10,3; Fil. 3,9), ma appunto, nel senso più stretto, solo giustizia di Dio. Questo dunque è la giustizia di Dio, che noi peccatori diveniamo i suoi giustificati, e questa è la nostra, cioè la sua giustizia (Is. 54,7), che Dio solo è giusto e noi siamo peccatori accettati da lui. La giustizia di Dio è Cristo stesso (1 Cor. 1,30). Ma Cristo è il «Dio con noi» l’Emmanuele (Is. 7,14). Dio la nostra giustizia (Ger. 33,16). L’annunzio della morte di Cristo è per noi la predicazione della giustificazione. Il battesimo è l’inserimento nel corpo di Cristo, cioè nella sua morte e risurrezione. Cristo è morto una volta, perciò anche battesimo e giustificazione vengono concessi una volta per sempre. Sono irripetibili nel senso più vero della parola. Ripetere si può solo il ricordo di ciò che è accaduto in noi una volta per sempre; e non solo lo si può, ma lo si deve ripetere. Ciononostante il ricordo è cosa ben diversa dal fatto stesso. Chi perde questo fatto non può più ripeterlo. In questo ha ragione l’epistola agli Ebrei (6,5 s. e 10,26 s.). Se il sale diviene insipido con che lo si salerà? Per chi è battezzato vale: «Non sapete...?» (Rom. 6,3; 1 Cor. 3,16 e 6,19) e: «Considerate voi stessi come morti al peccato, ma viventi a Dio in Gesù Cristo» (Rom. 6,11). È tutto compiuto, non solo sulla croce di Gesù, ma anche in voi. Voi siete affrancati dal peccato, morti, giustificati. Con ciò Dio ha compiuto la sua opera. Egli ha fondato il suo santuario in terra mediante la giustizia. Il santuario si chiama Cristo, corpo di Cristo. L’affrancamento dal peccato è stato effettuato mediante la morte del peccatore in Gesù Cristo. Dio ha una comunità affrancata dal peccato. È la comunità dei discepoli di Gesù, la comunità dei santi. Essi sono accolti nel suo santuario, essi stessi sono il suo santuario, il suo tempio. Essi sono stati presi fuori dal mondo e vivono in una sfera nuova, loro propria, in mezzo al mondo.

Da qui innanzi i cristiani nel Nuovo Testamento vengono sempre chiamati ‘santi’. L’altro termine che si penserebbe usato, ‘giusti’, invece non trova diffusione. Infatti non riesce a rendere allo stesso modo tutta l’ampiezza dei doni ricevuti: esso si riferisce al battesimo e all’affrancamento che avviene una volta sola. Certo, il ricordo di questo avvenimento dev’essere ripetuto ogni giorno; certo, i santi restano i peccatori giustificati. Ma con il dono del battesimo e della giustificazione, avvenuti una volta per sempre, e con il ricordo di esso ci viene anche garantito, nella morte di Cristo, che la vita di coloro che sono stati giustificati sarà preservata fino al giorno del giudizio. Ma la vita così preservata è santificazione. Ambedue i doni hanno lo stesso fondamento, cioè Gesù Cristo il crocifisso (1 Cor. 1,2 e 6,11). Ambedue i doni hanno lo stesso contenuto, la comunione con Cristo. Ambedue i doni sono inseparabilmente uniti. Ma appunto perciò non sono la stessa cosa. Mentre la giustificazione attribuisce al cristiano l’atto di Dio già compiuto, la santificazione gli promette l’azione di Dio presente e futura. Mentre il credente, mediante la morte avvenuta una volta, viene posto nella comunione con Gesù Cristo, la santificazione lo mantiene nell’ambito nel quale è stato posto, cioè in Cristo nella comunità. Mentre nella giustificazione in primo piano si trova la posizione dell’uomo di fronte alla legge, nella santificazione è decisiva la separazione dal mondo fino al ritorno di Cristo. Mentre la giustificazione inserisce il singolo nella comunità, la santificazione preserva la comunità assieme a tutti i singoli. La giustificazione strappa il credente al suo passato di peccatore, la santificazione gli permette di attenersi a Cristo, di rimanere nella fede, di crescere nell’amore. Si può considerare il rapporto tra giustificazione e santificazione simile a quello tra creazione e conservazione. La giustificazione è la nuova creazione dell’uomo nuovo, la santificazione il suo mantenimento e la sua preservazione fino al ritorno di Cristo.

Nella santificazione si compie la volontà di Dio: «Siate santi, perché io sono santo» e «io sono santo, il Signore che vi santifica». È Dio Spirito santo a compiere questa santificazione. In lui si completa l’opera di Dio nell’uomo. Egli è il ‘sigillo’ con il quale i credenti vengono sigillati come appartenenti a Dio fino al giorno della redenzione. Come prima erano tenuti prigionieri sotto la legge come in una prigione chiusa (Gal. 3,23), così ora i credenti sono chiusi «in Cristo», sigillati con il sigillo di Dio, lo Spirito santo. Nessuno può spezzare questo sigillo. Dio stesso ha sigillato e tiene in mano le chiavi. Il che significa che Dio si è ora completamente impadronito di quelli che ha conquistati in Cristo. Il cerchio è chiuso. Nello Spirito Santo l’uomo diviene proprietà di Dio. Chiusa fuori dal mondo con un sigillo infrangibile, la comunità dei santi attende la sua ultima salvezza. La comunità percorre il mondo come in un treno sigillato in un paese straniero. Come l’arca di Noè era «spalmata di pece, di dentro e di fuori, per essere salvata dai Rutti», così la via della comunità sigillata assomiglia al cammino dell’arca attraverso i Rutti. Meta di questo suggellamento è la redenzione, la salvezza (Ef. 4,30; 1,14; 1 Ts. 5,23; 1 Pt. 1,5 e passim) al ritorno di Cristo. Il pegno che garantisce ai suggellati che raggiungeranno la loro mèta è appunto lo Spirito Santo stesso: «affinché fossimo a lode della sua gloria noi che da prima abbiamo sperato in Cristo, nel quale siete anche voi, che ascoltate la Parola della verità, il vangelo della vostra salvezza, nel quale anche credendo foste segnati con lo Spirito Santo della promessa, che è anticipo della nostra eredità, per redenzione della proprietà, per lode della sua gloria» (Ef. 1,12-14).

La santificazione della comunità consiste nel fatto che è stata da Dio separata da ciò che è empio, dal peccato. La sua santificazione consiste nel fatto che è divenuta, in questo suggello di Dio, la proprietà da lui scelta, la dimora di Dio in terra, il luogo dal quale partono giudizio e riconciliazione per tutto il mondo. La santificazione consiste nel fatto che i cristiani ora sono completamente intenti al ritorno di Cristo, custoditi per questo, e gli vanno incontro.

Questo, per la comunità dei santi, ha un triplice significato: la sua santificazione si dimostrerà nella netta separazione dal mondo. La sua santificazione si dimostrerà in un comportamento degno del santuario di Dio. La sua santificazione resterà nascosta in attesa del ritorno di Cristo.

Perciò la santificazione - ecco il primo punto - può aver luogo solo nella comunità visibile. La visibilità della comunità è un segno decisivo per la santificazione. La pretesa della comunità di occupare un determinato spazio nel mondo e con ciò la limitazione dello spazio del mondo, dimostra che la comunità si trova in stato di santificazione. Il suggello dello Spirito Santo suggella la comunità di fronte al mondo. Nella potenza di questo sigillo la comunità deve avanzare le pretese di Dio su tutto il mondo, deve, allo stesso tempo, richiedere per sé uno spazio determinato nel mondo e così tracciare confini ben definiti tra sé e il mondo. Poiché la comunità è la città - polis (Mt. 5,14) - fondata da Dio in terra e posta sul monte, poiché come tale è proprietà sigillata di Dio, perciò il suo ‘carattere’ politico fa necessariamente parte della sua santificazione. La sua «etica politica» ha la sua sola ragion d’essere nella sua santificazione; il ‘carattere’ politico della comunità sta nel fatto che il mondo dev’essere mondo e la comunità comunità, e che tuttavia la Parola di Dio deve uscire dalla comunità diffondendosi per tutto il mondo come annunzio che la terra e tutto ciò che è in essa appartiene al Signore. Una santificazione personale, che voglia evitare questa separazione della comunità dal mondo così apertamente visibile, scambia i pii desideri della carne religiosa con la santificazione della comunità per mezzo del sigillo di Dio, ottenuta con la morte di Cristo. È la falsa superbia e la fallace concupiscenza dell’uomo vecchio che vuol essere santo al di fuori della comunità visibile dei fratelli. È il disprezzo del corpo di Cristo nella comunità visibile dei peccatori giustificati, che si nasconde sotto l’umiltà di questi sentimenti intimi. È disprezzo del corpo di Cristo, perché a Cristo è piaciuto assumere visibilmente la mia carne e portarla sulla croce; disprezzo della comunità, perchè voglio essere santo per me, senza i fratelli; disprezzo del peccatore, perché io mi sottraggo alla forma della mia chiesa ancora peccatrice e mi chiudo in una santità da me scelta.

La santificazione mediante il suggello dello Spirito santo impone alla Chiesa una continua lotta. Si tratta del combattimento per questo suggello, perché esso non venga spezzato, né dall’esterno né dall’interno, perché né il mondo voglia essere Chiesa né la Chiesa mondo. La lotta della Chiesa per lo spazio concesso al corpo di Cristo in terra è la sua santificazione. Separazione del mondo dalla Chiesa e della Chiesa dal mondo è il santo combattimento della Chiesa per ciò che è santo a Dio in terra.

Ciò che è santo può sussistere solo nella comunità visibile. Ma - ecco il secondo punto - proprio separandosi dal mondo, la comunità vive nel santuario di Dio e, con la comunità, in questo santuario vive anche un po’ del mondo. Perciò ai santi è ordinato di camminare sempre in modo degno della loro vocazione e dell’Evangelo (Ef. 4,1; Fil. 1,27; Col. 1,10; 1 Ts. 2,12); ma essi ne saranno degni solo se si ricordano ogni giorno dell’Evangelo nel quale vivono. «Vi siete fatti lavare, siete stati santificati, siete stati giustificati» (1 Cor. 6,1 l). Vivere ogni giorno in questo ricordo è santificazione. Il messaggio di cui devono essere degni è appunto che il mondo e la carne sono morti, che essi sono stati crocifissi e sono morti con Cristo sulla croce e mediante il battesimo, che il peccato ha perso il suo potere su di loro, perché questo potere è già stato spezzato, che perciò non è neppure più possibile che un cristiano pecchi. «Chiunque è nato da Dio non commette peccato»(1 Gv. 3,9).

È avvenuta la rottura. Essi sono liberati dal vecchio comportamento (Ef. 4,22). «Eravate tenebre una volta, ma ora siete luce nel Signore» (Ef. 5,8). Prima compivano azioni turpi e «opere infruttuose delle tenebre», ora lo Spirito opera i frutti della santificazione.

Perciò i cristiani non possono più essere chiamati ‘peccatori’, se per peccatori intendiamo uomini che vivono sotto il dominio del peccato (amartoloi cfr. come unica eccezione l’asserzione dell’apostolo Paolo in 1 Tm. 1,15); una volta erano peccatori, empi, nemici di Cristo (Rom. 5,8 e 19; Col. 2,15 e 17), ora però sono santi per opera di Gesù Cristo. Come santi vengono ammoniti a essere veramente ciò che sono. Non si pretende l’impossibile, cioè che quelli che sono peccatori siano santi - sarebbe una piena ricaduta nella giustificazione per opere e bestemmia contro Cristo - ma che i santi, siano santi; infatti sono stati santificati in Cristo Gesù mediante lo Spirito Santo.

La vita dei santi spicca su uno sfondo terribilmente nero. Le tenebrose opere della carne vengono messe completamente in luce dalla vita dello spirito: fornicazione, impurità, lascivia, idolatria, magia, inimicizie, contese, gelosia, ire, risse, discordie, dissenzioni, invidie, ubriachezze, orge e cose simili a queste» (Col. 5,19). Tutto questo non ha più posto nella comunità di Cristo. È messo da parte e condannato alla croce, è cessato. Fin dall’inizio ai cristiani vien detto che «quelli che praticano tali cose non erediteranno il regno di Dio» (Col. 5,21; Ef. 5,5; 1 Cor. 6,9; Rom. 1,32). Questi peccati tolgono ogni possibilità di salvezza. Ma se uno di questi vizi, ciononostante, si manifestasse nella comunità, ne deriverebbe la necessità di escludere il colpevole dalla comunione della comunità (1 Cor. 5,1 ss.).

Dà nell’occhio che nei cosiddetti cataloghi dei vizi, per lo più, si trova una grande corrispondenza nell’enumerazione dei peccati. Quasi dappertutto al primo posto sta la fornicazione (porneia), che non è compatibile con la nuova vita cristiana. Poi segue generalmente la cupidigia (pleonexias): 1 Cor. 5,10; 6,10; Ef. 4,19; 5,3; Col 3,5; 1 Ts. 4,4 ss., che può essere considerata assieme alla precedente come ‘impurità’ e ‘idolatria’ (1 Cor. 5,10; 6,9; Col. 5,3 e 19; Col. 3,5 e 8). Seguono i peccati contro l’amore fraterno, ed infine l’orgia[19]. Non certo per caso nell’elenco dei vizi la fornicazione è sempre al primo posto. La ragione non è da cercare nelle circostanze di quell’epoca, ma nel carattere particolare di questo peccato. In esso rivive il peccato di Adamo, cioè quello di voler essere come Dio, di voler essere creatore della vita, di voler dominare e non servire. Con questo peccato l’uomo oltrepassa i confini postigli da Dio e viola le creature di Dio. Era il peccato d’Israele che sempre di nuovo rinnegò la sua fedeltà al suo Signore «commettendo idolatria» (1 Cor 10,7) e serviva gli idoli. La fornicazione è in primo luogo peccato contro Dio creatore. Ma per il cristiano è in particolare il peccato contro il corpo di Cristo stesso; perché il corpo del cristiano è un membro del corpo di Cristo. Egli appartiene solo a Cristo. L’unione fisica con la prostituta annulla la comunione spirituale con Cristo. Chi sottrae a Cristo il suo corpo e lo concede al peccato, si è separato da Cristo. La fornicazione è peccato contro il proprio corpo. Ma il cristiano deve sapere che anche il suo corpo è il tempio dello Spirito Santo che dimora in lui (1 Cor. 5,14 ss.). La comunione del corpo del cristiano con Cristo è così intima che neanche il suo corpo può appartenere allo stesso tempo al mondo. L’unione con il corpo di Cristo vieta il peccato contro il proprio corpo. Chi compie atti impuri sarà colpito dall’ira di Dio (Rom. 1,29; 1 Cor. 1,5 s.; 7,2; 10,7; 2 Cor. 12,21; Eb. 12,16; 13,4). Il cristiano è puro e mette tutto il suo corpo al servizio del corpo di Cristo. Egli sa che, con la passione e la morte di Cristo sulla croce, anche il suo corpo è stato colto dalla morte. La comunione con il corpo di Cristo martoriato e trasfigurato libera il cristiano dall’intemperanza della vita fisica. La selvaggia passione del corpo muore ogni giorno in questa comunione. Il cristiano serve con il suo corpo, in disciplina e temperanza, solo all’edificazione del corpo di Cristo, la comunità. Lo fa pure con il matrimonio, così che questo viene a essere parte del corpo di Cristo.

Alla fornicazione è strettamente legata la cupidigia. Ambedue hanno in comune l’insaziabilità della propria concupiscenza, per cui anche chi è dominato dalla passione di possedere cade in potere del mondo. Non concupire, ordina Dio. Sia chi commette atti impuri sia chi si lascia dominare dalla cupidigia non è altro che un uomo dominato dalla concupiscenza. Il fornicatore desidera il possesso di un altro uomo, l’avaro il possesso di beni terreni. L’avaro desidera potere e dominio, ma diventa schiavo del mondo, al quale ha attaccato il suo cuore. Fornicazione e cupidigia mettono l’uomo in contatto con il mondo che li rende impuri. Fornicazione e cupidigia sono idolatria, perché il cuore dell’uomo non appartiene più a Cristo, ma ai beni di questo mondo tanto desiderati.

Ma chi si crea da sé il proprio mondo e il proprio Dio, chi si fa un Dio della propria concupiscenza, deve odiare il fratello che gli sbarra il cammino e gli impedisce di mettere in atto la sua volontà. Discordia, odio, invidia, omicidio nascono tutti dalla sorgente della propria cupidigia. «Donde le guerre e donde le contese tra voi? Non sono forse qui dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra?» (Gc. 4,1 s.). Ma il fornicatore e il concupiscente non conoscono amore fraterno. Vivono nelle tenebre del loro cuore, commettendo peccato contro il corpo di Cristo e oltraggiando anche il fratello. Fornicazione e amore fraterno si escludono a vicenda a causa del corpo di Cristo. Il corpo che sottraggo alla comunione del corpo di Cristo non può nemmeno essere al servizio del prossimo. E all’oltraggio recato al corpo proprio e a quello del fratello deve seguire l’empia ingordigia, l’ubriachezza, l’orgia. Chi disprezza il proprio corpo cade in potere della sua carne «e il suo ventre sarà il suo dio» (Rom. 16,18). La bruttura di questo peccato sta nel fatto che qui la carne morta vuole curare se stessa e oltraggia l’uomo anche nel suo aspetto esteriore. L’ingordo non può aver parte al corpo di Cristo.

Il mondo dominato da questi vizi per la comunità è passato. Da coloro che praticano questi vizi la comunità si è separata e deve separarsi sempre di nuovo (1 Cor. 5,9 ss.); infatti «quale comunanza c’è tra la luce e le tenebre?» (2 Cor. 6,14 ss.). Lì stanno «le opere della carne», qui «il frutto dello Spirito» (Gal. 5,19 ss.; Ef. 5,9).

Che vuol dire ‘frutto’? Ci sono molte ‘opere’ della carne, ma c’è un solo ‘frutto’ dello Spirito. Le opere vengono compiute dalle mani di uomini, il frutto germoglia e cresce senza che l’albero lo sappia. Le opere sono morte, il frutto vive e porta seme che produce nuovo frutto. Le opere possono sussistere da sé, il frutto non può rimanere senza l’albero. Il frutto è sempre qualcosa di meraviglioso, qualcosa che viene fatto, non qualcosa che è voluto; qualcosa che è cresciuto. Il frutto dello Spirito è un dono operato solo da Dio. Chi porta questo frutto non lo sa, come l’albero non sa nulla del suo frutto. Egli conosce solo la potenza di colui che gli dà la vita. Non se ne può gloriare, ma si unirà sempre più strettamente con la sua origine, Gesù Cristo. I santi stessi non conoscono il frutto della santificazione che essi producono. La sinistra non sa quel che fa la destra. Se ne sapesse qualcosa, se volesse darsi all’autosservazione, si sarebbe già strappata dalle sue radici e il tempo della sua fruttificazione sarebbe passato. «Ma il frutto dello spirito è carità, gaudio, pace, longanimità, benignità, bontà, fedeltà, mitezza continenza» (Gal. 5,22). Accanto alla santità della comunità qui viene alla luce la santificazione del singolo. Ma la sorgente è la stessa, la comunione con Cristo, la comunione nello stesso corpo. Come la separazione dal mondo si compie visibilmente solo in una continua lotta, così anche la santificazione personale si compie nella lotta dello spirito contro la carne. I santi nella loro propria vita non vedono altro che lotta, pena, debolezza, peccato; e quanto più sono progrediti nella santificazione tanto più si vedono come vinti, come morenti secondo la carne. «Ora coloro che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le passioni e i desideri» (Gal. 5,24). Ancora vivono nella carne, ma appunto perciò tutta la loro vita deve essere fede nel Figlio di Dio che ha incominciato la sua vita in loro (Gal. 2,20). Il cristiano muore ogni giorno (1 Cor. 15,31), ma anche se la sua carne soffre e muore, l’uomo interiore viene rinnovato di giorno in giorno (2 Cor. 4,6). Il morire dei santi nella loro carne trova la sua ragione nel fatto che Cristo mediante lo Spirito Santo ha iniziato la sua vita in loro. I santi muoiono per Cristo e la sua vita. Ora non hanno bisogno di andare in cerca di sofferenze con le quali essi si confermerebbero di nuovo nella loro carne. Cristo è la loro morte e la loro vita quotidiana. Ma perciò per loro ha pieno valore la gioia di chi è nato di nuovo in Dio, perché sa che non può più peccare, che il peccato non lo domina più, che è morto al peccato e vive nello spirito[20]. «Nessuna condanna vi è dunque per coloro che sono in Cristo Gesù» (Rom. 8,1). Dio si compiace dei suoi santi, perché è lui stesso che opera in loro la lotta e la morte e appunto così fa ‘germogliare’ la santificazione, della cui azione il santo dovrebbe essere assolutamente certo, anche se essa resta profondamente nascosta. Naturalmente nella comunità, una volta annunziato il perdono, non può più dominare la fornicazione, la cupidigia, l’omicidio, l’odio per il fratello. Il frutto della santificazione non può nemmeno rimanere nascosto; ma proprio lì dove è visibile da lontano o dove il mondo alla vista dei cristiani deve dire, come ai tempi della chiesa primitiva: «vedete come si amano gli uni gli altri», proprio lì i santi guarderanno incessantemente solo a colui a cui appartengono, e ignorando le proprie buone azioni chiederanno perdono per i loro peccati. Gli stessi cristiani che non si lasciano più dominare dal peccato, che sanno che un credente non pecca più, confesseranno: «Se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto, da rimetterci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non aver peccato facciamo lui mendace e la sua parola non è in noi. Figlioli miei, vi scrivo queste cose affinché non pecchiate. E se qualcuno pecca abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto» (1 Gv. 1,8-2,1). Il Signore stesso ha loro insegnato a pregare: «rimettici i nostri debiti»; e ha loro ordinato di perdonar si incessantemente i peccati gli uni agli altri (Ef. 4,32; Mt. 28,21 ss.). I cristiani perdonandosi fraternamente a vicenda permettono che il perdono di Gesù dimori nella loro comunità. Non vedono più nell’altro uno che ha loro fatto del male, ma uno per il quale Cristo ha impetrato il perdono morendo sulla croce. Sotto questa croce nella morte quotidiana, il loro pensiero, la loro parola, il loro corpo viene santificato; sotto questa croce cresce il frutto della santificazione.

La comunità dei santi non è la comunità ‘ideale’ di uomini senza peccato, perfetti. Non è la comunione dei puri, che non dà più luogo al peccatore perché si penta. È, anzi, proprio la comunità che si rende degna dell’Evangelo del perdono dei peccati, in quanto qui viene veramente annunziato il perdono di Dio, che non ha nulla a che vedere con un perdono concesso da se stessi; la comunità di coloro che realmente hanno sperimentato la grazia a caro prezzo di Dio e che camminano degni dell’Evangelo, perché non sprecano né gettano al vento questa grazia.

Con ciò si intende dire che nella comunità dei santi si può predicare l’Evangelo solo lì dove si annunzia anche la necessità della penitenza, dove non si annunzia l’Evangelo senza predicare anche la legge, dove non si perdonano solo i peccatori e non si perdona incondizionatamente, ma dove possono anche non essere perdonati. È la volontà del Signore stesso che il dono santo dell’Evangelo non venga gettato ai cani, ma possa essere annunziato sotto la protezione della predicazione della penitenza. Una comunità che non chiama il peccato per il suo vero nome, non può nemmeno trovare fede quando vuole annunziare il perdono dei peccati. Essa commette peccato contro ciò che è santo, cammina in modo indegno dell’Evangelo. È una comunità empia perché spreca il perdono del Signore così caro. Non si tratta di lamentarsi in generale della peccaminosità degli uomini presente anche nelle opere buone; questo non è predicazione di penitenza, bisogna nominare peccati concreti e punirli e condannarli. In questo modo si usa correttamente il potere delle chiavi (= potere spirituale della chiesa, sua facoltà di sciogliere e legare i peccatori; Mt. 16,19; 18,18; Gv. 20,23), che il Signore ha dato alla sua chiesa e che i riformatori hanno tanto sottolineato. Per amore di ciò che è santo, per amore dei peccatori e della comunità, anche nella comunità si deve esercitare il potere spirituale legando il peccatore e non perdonando i peccati. L’esercizio della disciplina nella comunità fa parte del cammino della comunità degno dell’Evangelo. La santificazione opera la separazione della comunità dal mondo; essa deve perciò anche operare la separazione del mondo dalla comunità. L’una senza l’altra è falsata e mendace. La comunità separata dal mondo deve esercitare la disciplina entro la comunità.

La disciplina nella comunità non serve a formare una comunità di uomini perfetti, ma solo a edificare una comunità di uomini che vivono veramente della misericordia di Dio, che è pronto a perdonare. La disciplina della comunità è al servizio della grazia a caro prezzo di Dio. Il peccatore nella comunità deve essere ammonito e punito, perché non perda la sua salvezza e perché non si abusi dell’Evangelo. Perciò solo chi si pente e confessa la sua fede in Gesù Cristo può essere battezzato. Perciò può ricevere la grazia della Santa Cena solo chi «sa distinguere» (1 Cor. 11,29) tra il vero corpo e sangue di Gesù Cristo dato per il perdono dei peccati e un qualche altro pasto simbolico o di altra specie. Ma per questo è necessario che sappia dimostrare la sua conoscenza di ciò che crede, che si ‘esamini’ o si sottoponga all’esame di un fratello per riconoscere se veramente desidera il corpo e sangue di Cristo e il suo perdono.

All’esame di fede si aggiunge la confessione nella quale il cristiano cerca e riceve la certezza del perdono dei suoi peccati. In essa Dio concede al peccatore un aiuto perché non incorra nel pericolo dell’autoinganno e del perdono concessosi da sé. Nella confessione dei peccati fatta al fratello la carne con il suo orgoglio muore. Viene esposta con Cristo al vituperio e alla morte, e mediante la parola del perdono nasce un uomo nuovo, certo della misericordia di Dio. Perciò l’uso della confessione deve far parte della vita dei santi. È il dono della grazia divina, della quale non si può abusare senza incorrere in punizione. Nella confessione si riceve la grazia a caro prezzo di Dio. In essa il cristiano si identifica con la morte di Cristo. «Perciò se vi ammonisco a confessarvi, non faccio altro che ammonirvi a essere cristiani» (Lutero nel suo grande catechismo).

La disciplina compenetra tutta la vita della comunità. Qui esiste una scala di valori, che si basa sul servizio di misericordia che rendiamo al fratello. Punto di partenza di ogni disciplina rimane l’annunzio della Parola secondo il potere delle due chiavi. Essa non rimane limitata all’assemblea riunita per il culto; il ministro non è mai dispensato dal suo incarico, «Annunzia la parola, insisti a tempo e fuori tempo, confuta, rimprovera, esorta, con ogni longanimità e dottrina» (2 Tm. 4,2). Questo è l’inizio della disciplina nella comunità. E si deve subito mettere in rilievo che possono essere puniti solo peccati che sono venuti alla luce: «I peccati di alcuni uomini sono manifesti prima ancora del giudizio, quelli invece di altri seguono il giudizio» (1 Tm. 5,24). Perciò la disciplina nella comunità preserva dalla punizione al Giudizio Universale.

Ma se la disciplina della comunità viene a mancare già a questo primo stadio, cioè nel quotidiano servizio pastorale del ministro, allora tutto il resto è messo in questione. Il secondo gradino infatti è il reciproco ammonimento fraterno dei membri della comunità. «Ammaestrandovi e ammonendovi gli uni gli altri» (Col. 3,16; 1 Ts. 5,11 e 14). Fa parte dell’ammonimento anche il conforto ai pusillanimi, il sostegno dei deboli, l’esercizio della pazienza verso tutti (1 Ts. 5,14). Solo così ci si può opporre alla tentazione ed alla defezione dalla comunità.

Dove, nella comunità, non vige più questo servizio cristiano, sarà difficile raggiungere il terzo stadio. Infatti, se, ciononostante, un fratello cade in peccato manifesto in parole o atti, la comunità deve avere la forza di attuare contro di lui un vero e proprio processo disciplinare. Anche questo è un cammino lungo: la comunità deve dapprima vincere se stessa e tenersi lontana dal peccatore. «Non abbiate alcuna relazione con lui» (2 Ts. 3,14), «evitateli» (Rom. 16,17), «non dovete neppure mangiare insieme» (la Santa Cena?) (1 Cor. 5,11), «tienti lontano anche da costoro» (2 Tm. 3,5; 1 Tm. 3,4). «Vi comandiamo poi, fratelli, in nome del Signore nostro Gesù Cristo, di tenervi lontani da qualunque fratello che viva oziosamente e non secondo l’istruzione ricevuta da noi» (2 Ts. 3,6).

Il comportamento della comunità deve indurre il peccatore ad «arrossire di vergogna» (2 Ts. 3,14) e così riconquistarlo. Certo, la necessità di evitarlo comporta anche un suo temporaneo allontanamento dalle funzioni della comunità. Ma non si deve subito cessare ogni comunione con il peccatore manifesto. Anzi, la comunità che si tiene lontana dal peccatore, deve continuare a incontrarlo nella Parola e nell’ammonimento: «tuttavia non trattatelo, come un nemico, ma correggetelo come un fratello» (2 Ts. 3,15). Il peccatore rimane un fratello e appunto per questo viene punito e ammonito dalla comunità. È la misericordia fraterna che spinge la comunità a punire. I ribelli devono essere puniti, con tutta soavità, i malvagi portati «nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi alla piena conoscenza della verità e ritornino in sé, liberandosi dai lacci del diavolo, dal quale erano stati catturati per fare la sua volontà» (2 Tm. 2,25 s.). La via seguita nell’ammonire il colpevole dovrà essere diversa per ogni peccatore, ma avrà sempre lo stesso scopo, di condurre al pentimento e alla riconciliazione. Se il peccato può restare un segreto tra te e il peccatore, non manifestarlo, ma tu solo va e riprendilo, perché si penta, «e avrai guadagnato il tuo fratello». Ma anche se egli non ti ascolta e persiste nel suo peccato, non manifestare subito il suo peccato, ma cercati uno o due testimoni sia per lo stato di fatto peccaminoso - veramente se non lo si può dimostrare e se il membro della comunità nega, si affidi la cosa a Dio; i fratelli sono testimoni, non inquisitori! - sia per l’indurimento del peccatore di fronte al pentimento. Il segreto dell’esercizio della disciplina dovrebbe facilitare il ritorno del peccatore. Se ancora non ascolta o se il peccato ormai è noto a tutta la comunità, allora è compito di tutta la comunità ammonire il peccatore, chiamarlo al pentimento (Mt. 8,17; cfr. 2 Ts. 3,14). Se il peccatore riveste una qualche carica nella comunità, sia accusato solo in base all’accusa di due o tre testimoni. «I colpevoli riprendili davanti a tutti, affinché gli altri ne siano intimiditi» (1 Tm. 5,20). Ora la comunità è chiamata a usare del suo potere spirituale assieme al ministro. La sentenza ‘ufficiale’ richiede una rappresentanza ufficiale della comunità e del ministero: «Ti scongiuro davanti a Dio, a Cristo Gesù e agli angeli eletti di osservare queste norme senza pregiudizi e senza agire per favoritismi» (1 Tm. 5,21); infatti ora si pronunzierà il giudizio di Dio stesso sul peccatore. Se questo si pente sinceramente, se confessa pubblicamente i suoi peccati, egli ottiene il perdono di tutti i suoi peccati nel nome di Dio (cfr. 2 Cor. 2,6 ss.); ma se persevera nel suo peccato, la comunità nel nome di Dio non può scioglierlo dal peccato. Ma questo comporta la esclusione da ogni comunione con la comunità. «Sia per voi come un gentile o un pubblicano» (Mt. 18,7). «In verità vi dico, tutto ciò che legherete sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto nei cieli»... «Dove infatti sono riuniti due o tre nel mio nome, ivi sono anch’io in mezzo a loro» (Mt. 18,18 ss.). L’esclusione dalla comunità conferma solo quanto è già un dato di fatto, che cioè il peccatore che non si pente è uno che «si è condannato da sé» (Tt. 3,10). Non è la comunità a condannarlo, lui stesso ha espresso la condanna su di sé. A proposito di questa completa esclusione Paolo dice: «consegnare a Satana» (1 Cor. 5,5; 1 Tm. 1,20). Il colpevole viene restituito al mondo nel quale regna Satana e la morte è operante (confrontando 1 Tm. 1,20 e 2 Tm. 2,17; 2 Tm. 4,15 si comprende che qui non si pensa a una condanna a morte come in At. 5). Il colpevole è espulso dalla comunione con il corpo di Cristo, perché lui stesso se ne è separato. Non ha più alcun diritto di partecipare alla comunione. Tuttavia anche quest’ultimo atto resta ancor sempre completamente inteso allo scopo di salvare il colpito «affinché lo spirito sia salvo nel giorno del Signore» (1 Cor. 5,15) «perché imparino non più a bestemmiare» (1 Tm. 1,20). Scopo della disciplina comunitaria resta il ritorno nella comunità o la salvezza. Quant’è certo che il giudizio della comunità prevarrà in eterno se l’altro non si pente, tant’è vero che questa condanna, nella quale si toglie la salvezza al peccatore, è solo l’ultima offerta di comunione con la comunità e di salvezza[21]  [22].

Così la comunità dà prova della sua santificazione nel suo cammino degno dell’Evangelo. Porta i frutti dello spirito e si sottopone alla disciplina della Parola. In tutto ciò rimane la comunità di coloro, la cui santificazione è Cristo solo (1 Cor. 1,30) e che va incontro alla venuta del Signore. E così siamo arrivati alla terza definizione della vera santità. Ogni santificazione è intesa a che la comunità possa essere trovata giusta il giorno del Signore. «Cercate la santificazione senza la quale nessuno potrà vedere il Signore» (Ebr. 12,14). La santificazione è sempre rivolta alla fine dei tempi. Il suo scopo non è di affermarsi di fronte al giudizio del mondo o a quello proprio, ma ad essere trovati giusti davanti al Signore. Di fronte a se stessi e al mondo la sua santità potrebbe essere peccato, la sua fede incredulità, il suo amore durezza, la sua disciplina debolezza. La sua vera santità rimane nascosta. Ma Cristo stesso si prepara la sua comunità in modo che essa risulti giustificata davanti a lui. «Voi mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo amò la Chiesa e diede se stesso per lei, per santificarla, avendola lavata; col lavacro dell’acqua con la parola, per rendere egli stesso la Chiesa gloriosa davanti a sé, senza neo, né ruga o altro del genere, così da essere santa e immacolata» (Ef. 5,25-27; Col. 1,22; Ef. 1,4). Davanti a Gesù Cristo può essere giusta solo la Chiesa santificata; l’ha fatta tale colui che riconciliò i nemici di Dio e diede la sua vita per gli uomini empi, affinché la sua comunità sia santa fino al suo ritorno. Ciò accoglie mediante il suggello dello Spirito Santo, che chiude i santi nel santuario della comunità e li custodisce fino al giorno di Gesù Cristo. In quel giorno essi compariranno davanti a lui senza neo e senza macchia, santi e irreprensibili nello spirito, nell’anima e nel corpo (1 Ts. 5,23).

«Non sapete voi che gli ingiusti non possederanno il regno di Dio? Non illudetevi: né fornicatori, né idolatri, né effeminati, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapitori saranno eredi del regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi. Ma vi siete fatti lavare, ma siete stati santificati, ma siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù e nello Spirito del nostro Dio». (1 Cor. 6,9-11). Perciò nessuno … nella grazia del Signore, volendo persistere nel peccato! Solo la comunità santificata sarà salvata dall’ira del giorno di Cristo Gesù, perché il Signore giudicherà secondo le opere e non avrà riguardo della persona. Ogni parola sarà manifesta ed egli darà ad ognuno «la ricompensa di quel che avrà fatto mentre era nel corpo, sia in bene sia in male» (2 Cor. 5,10; Rom. 2,6 ss.; Mt. 16,26). Chi non è stato giudicato qui in terra, non si potrà sottrarre alla giustizia; tutto sarà manifestato. Chi potrà essere giusto? Colui che avrà operato bene. Non sarà giustificato chi ha commesso fornicazione, ma chi avrà osservato la legge (Rom. 2, 13). Lo ha detto il Signore stesso che entrerà nel cielo solo chi avrà fatto la volontà del Padre suo che è nei cieli.

Ci è stato ordinato di compiere «opere buone», perché saremo giudicati secondo le nostre opere. Il timore della buona opera, con il quale cerchiamo di giustificare le nostre opere malvagie, è del tutto estraneo alla Bibbia. In nessun passo la Scrittura oppone la fede all’opera buona, vedendo nella buona opera la distruzione della fede; anzi, è l’opera malvagia che impedisce e distrugge la fede. Grazia ed azione devono restare unite. Non c’è fede senza opera buona, come non c’è opera buona senza fede[23]. Il cristiano ha bisogno delle opere buone per la sua salvezza; perché chi avrà agito male non vedrà il regno di Dio. Perciò la meta del cristiano è di compiere opere buone. Poiché in questa vita una sola cosa importa, che cioè l’uomo sia trovato giusto al giudizio universale, e poiché ognuno sarà giudicato secondo le sue opere, è necessario che il cristiano sia preparato a compiere opere buone. Perciò anche la nuova creazione dell’uomo in Cristo ha per meta l’opera buona, «poiché per grazia siete salvati, mediante la fede, e ciò non proviene da voi: è dono di Dio, e non di opere affinché nessuno si vanti. Infatti siamo opera sua essendo stati creati in Cristo Gesù per le buone opere che Dio preparò, affinché camminassimo in esse» (Ef. 2,8-10; cfr. 2 Tm. 2,21; 3,17; Tt. 1,16; 3,1.8.14). Qui è ben chiaro: la meta richiesta da Dio è la produzione di buone opere. La legge di Dio rimane in vigore e deve essere osservata (Rom. 3,31). E questo vien fatto mediante le buone opere. Ma c’è una sola opera buona, l’opera di Dio in Gesù Cristo. Noi siamo giusti per l’opera di Dio stesso in Cristo, non per le nostre opere. Perciò dalle nostre opere non ci viene nessun merito; infatti noi siamo la sua opera. Ma siamo stati creati di nuovo in Cristo, perché in lui compissimo buone opere.

Ma tutte le nostre buone opere sono l’opera buona di Dio solo, egli ci ha preparati. Dunque per la nostra salvezza ci viene ordinato di compiere opere buone, eppure le buone opere non sono altro che le opere stesse che Dio produce in noi. Sono il suo dono. Siamo noi a dover camminare nelle buone opere, ad essere continuamente ammoniti a compiere buone opere, eppure sappiamo che non potremmo mai essere considerati giusti davanti a Dio con le nostre opere, ma dobbiamo aggrapparci in fede solo a Cristo e alla sua opera. Dio promette a quelli che sono in Cristo Gesù buone opere mediante le quali potremmo, un giorno, essere giustificati; egli promette loro di custodirli nella santificazione fino al giorno di Gesù Cristo. Noi possiamo solo prestar fede a questa promessa fidando nella sua Parola, e camminare nelle buone opere per le quali egli ci ha preparati.

Perciò la nostra buona opera resta completamente nascosta ai nostri occhi. La nostra santificazione ci resta nascosta fino al giorno in cui tutto sarà manifestato. Chi vuol vedere qualcosa già in terra, chi vuole essere manifesto a se stesso e non sa attendere con pazienza, ha già ricevuto la sua ricompensa. Proprio quando ci sembra di notare un progresso nella nostra santificazione e vogliamo rallegrarcene, siamo tanto più chiamati al pentimento e riconosciamo che le nostre opere sono peccaminose fino in fondo. Ma siamo invitati a rallegrarci sempre più nel Signore. Solo Dio conosce le nostre buone opere, noi conosciamo solo la sua buona opera, ascoltiamo il suo comandamento e camminiamo nella sua grazia, camminiamo nei suoi comandamenti e pecchiamo. Dev’essere così; la nuova giustizia, la santificazione, la luce che splende deve restare a noi stessi completamente nascosta. La sinistra non sa che cosa fa la destra. Ma noi crediamo e viviamo nella certezza che «colui che ha incominciato in voi un’opera buona) la condurrà a termine, fino al giorno di Cristo Gesù» (Fil. 1,6). In quel giorno Cristo stesso ci manifesterà le buone opere che non conoscevamo. Senza saperlo gli abbiamo dato da mangiare e da bere, lo abbiamo vestito e visitato, e senza saperlo lo abbiamo respinto. Ed allora ci meraviglieremo grandemente e riconosceremo che non sono le opere nostre a giustificarci, ma l’opera che Dio ha compiuta a suo tempo per mezzo nostro, senza che lo volessimo o che ci affaticassimo (Mt. 25,31 ss.). E perciò non ci resta che volgere lo sguardo via da noi verso colui che ha già fatto tutto per noi, e seguirlo.

Chi crede è giusto, chi è stato giustificato viene santificato e chi è stato santificato sarà salvato nel giudizio, non perché la nostra fede, la nostra giustizia, la nostra santificazione - per quanto sta in noi - sia altro che peccato, ma perché Gesù Cristo «è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione, e redenzione, affinché chi si gloria si glori nel Signore» (1 Cor. 1,30).

 

 

 

L’immagine di Cristo

«Quelli che egli ha preconosciuti li ha anche predestinati a divenire conformi all’immagine del suo Figlio) affinché egli sia il primogenito di molti fratelli» (Rom. 8,29).

La grande inconcepibile promessa fatta a coloro che sono stati raggiunti dalla chiamata di Gesù Cristo, dice che essi saranno uguali a Cristo. Essi porteranno la sua immagine quali fratelli del primogenito figlio di Dio. Il destino del discepolo è di essere «come Cristo». La immagine di Gesù Cristo che il seguace ha sempre davanti a sé, di fronte alla quale scompaiono tutte le altre immagini, penetra in lui, lo riempie, lo forma di nuovo, perché il discepolo divenga simile, anzi uguale al Maestro. L’immagine di Gesù Cristo imprime al discepolo, nella quotidiana comunione, la sua impronta. Il seguace non può guardare l’immagine del Figlio con sguardo ozioso e senza vita; da questa immagine parte una forza trasformatrice. Chi si dà completamente a Gesù Cristo, assumerà necessariamente la sua immagine. Diviene figlio di Dio, sta accanto a Cristo, fratello invisibile, e gli è conforme nell’aspetto, è, cioè, immagine di Dio.

Dio creò Adamo a sua immagine e somiglianza. Dio in Adamo, compimento della sua creazione, cercò il compiacimento nella sua propria immagine: «ed ecco era molto buono». In Adamo Dio riconobbe se stesso. E perciò il segreto insolubile dell’uomo sin dagli inizi rimane: egli è creatura, eppure dev’essere uguale al creatore. L’uomo creato deve portare l’immagine di Dio che non è stato creato. Adamo è «come Dio». Ora egli porti il suo segreto, di essere creatura eppure simile a Dio, con gratitudine e obbedienza. Fu l’infamia del serpente a osservare che egli doveva ancora divenire simile a Dio, e questo mediante una sua azione decisiva. Allora Adamo ripudiò la grazia e scelse la propria azione. Adamo volle risolvere da sé il segreto del suo essere, cioè quello di essere creatura eppure simile a Dio. Volle diventare, con le proprie forze, ciò che Dio già aveva fatto di lui. Questo fu il peccato originale. Adamo divenne «come Dio» - sicut Deus - a modo suo. Egli si era fatto Dio da sé, e così aveva perduto Dio. Egli regnava solo come Dio-creatore in un mondo privato di Dio e assoggettato.

Ma l’enigma del suo essere rimane insoluto. L’uomo ha perduto la somiglianza con Dio, che gli era stata donata da Dio. Vive ora privato del suo vero destino, quello di essere immagine di Dio. L’uomo vive senza essere uomo. Deve vivere senza poter vivere. Ecco la contraddizione della nostra vita e la sorgente di tutti i nostri dolori. Da allora gli orgogliosi figli di Adamo cercano di ristabilire in sé, con le proprie forze, la perduta immagine di Dio. Ma proprio quanto più seria e impegnata è la loro aspirazione a riconquistare ciò che è andato perduto, e quanto più convincente e pieno di orgoglio è l’apparente successo, tanto più profondo diviene il loro contrasto con Dio. La loro malformazione, alla quale essi danno l’impronta del dio inventato da loro stessi, assume, senza che lo sappiano, ogni giorno più l’immagine di Satana. L’immagine di Dio, dono del Creatore, su questa terra è perduta per sempre.

Ma Dio non toglie lo sguardo dalla sua creatura perduta, vuole creare in essa una seconda volta la sua immagine. Dio vuole compiacersi di nuovo nella sua creatura. Cerca in lei la sua propria immagine, per amarla. Ma non la trova se non rivestendo lui stesso, per misericordia, l’immagine e l’aspetto dell’uomo perduto. Dio deve conformarsi all’aspetto dell’uomo, perché l’uomo non può conformarsi all’immagine di Dio.

L’immagine di Dio deve di nuovo essere ricostruita nell’uomo. Si tratta di fare un’opera completa. Il destino e la meta non sono che l’uomo abbia pensieri nuovi su Dio, non che sottometta di nuovo le sue singole azioni alla Parola di Dio, ma che sia completamente conforme all’immagine di Dio, come creatura viva di Dio. Corpo, anima e spirito, tutto l’essere dell’uomo deve portare l’immagine di Dio in terra. Dio si compiace solo della sua immagine perfetta.

L’immagine nasce dalla vita, dalla viva immagine primitiva. Una forma si modella su un’altra forma. O l’immagine umana si conforma all’immagine del dio inventato dagli uomini, o è la stessa vera immagine di Dio che dà forma all’immagine umana e la fa divenire immagine di Dio. Deve avvenire una trasformazione, una ‘metamorfosi’ (Rom. 12,2; 2 Cor. 3,8), un cambiamento dell’aspetto, perché l’uomo che ha peccato possa essere di nuovo immagine di Dio. Ci si chiede come questo mutamento dell’uomo in immagine di Dio possa aver luogo.

Poiché l’uomo peccatore non può più ritrovare e rivestire l’immagine di Dio, c’è una sola via per aiutarlo. Dio stesso assume forma di uomo e viene dall’uomo. Il Figlio di Dio, che viveva in forma divina presso il Padre, si priva di questa forma e viene dagli uomini in forma di servo (Fil. 2,5 ss.) La trasformazione, che non poteva aver luogo negli uomini, ora ha luogo in Dio stesso. L’immagine di Dio che era rimasto in eterno presso Dio, assume ora la forma degli uomini peccatori. Dio manda suo Figlio nella stessa forma della carne del peccato (Rom. 8,2 s.).

Dio manda suo Figlio - solo in questo può consistere l’aiuto. La meta non potrebbe essere raggiunta né da una nuova idea né da una religione migliore. Un uomo viene dagli uomini. Ogni uomo porta un’immagine. Il suo corpo e la sua vita appaiono chiaramente visibili. Un uomo non è solo una parola, un pensiero, una volontà, ma prima di tutto questo e in tutto questo è appunto un uomo, una persona, un’immagine, un fratello. Perciò in lui non si forma solo un nuovo modo di pensare, di volere, di agire, ma una nuova immagine, un aspetto nuovo. In Gesù Cristo l’immagine di Dio è venuta in mezzo a noi nella forma della nostra povera vita umana perduta, nella stessa forma della carne del peccato. La sua immagine si manifesta nel suo insegnamento e nelle sue azioni, nella sua vita e nella sua morte. In lui Dio ha creato di nuovo la sua immagine in terra. Incarnazione, parole e atti di Gesù e la sua morte sulla croce fanno, in modo inalienabile, parte di questa immagine. È un’immagine diversa da quella di Adamo nella prima gloria del paradiso. È l’immagine di colui che si mette in mezzo a questo mondo dominato dal peccato e dalla morte, che prende su di sé le pene della carne umana, che si sottomette umilmente all’ira e al giudizio di Dio sui peccatori, che resta obbediente alla volontà di Dio nella morte e nella passione, colui che è nato in povertà, il commensale dei pubblicani, dei peccatori e di gente abbandonata e rifiutata dagli uomini: questo è Dio in forma umana, questo è l’uomo rivestito della nuova immagine di Dio!

Sappiamo bene che i segni della passione, le stigmate della croce sono ora i segni della grazia sul corpo del Cristo risorto e trasfigurato, che l’immagine del Cristo crocifisso d’ora innanzi vive nella gloria dell’eterno sommo sacerdote che in cielo intercede per noi presso Dio. Dalla forma di servo assunta da Gesù, la mattina di Pasqua risorse un nuovo corpo in forma e splendore divino. Ma chi vuole, secondo la promessa di Dio, partecipare allo splendore e alla gloria di Gesù, deve prima essere reso simile all’immagine del servo di Dio, che obbedì e patì sulla croce. Chi vuole rivestire l’immagine trasfigurata, deve aver portato l’immagine dell’uomo crocifisso, oltraggiato qui in terra. Nessuno può ritrovare l’immagine di Dio perduta, se non chi ha fatto parte dell’immagine di Gesù Cristo incarnato e crocifisso. Dio si compiace solo in questa immagine. Solo chi si fa trovare conforme a questa immagine, vive nel compiacimento di Dio.

Identificarsi con l’immagine di Gesù Cristo non è solo un ideale che ci impone di divenire, in qualche modo, simili a Cristo. Non siamo noi ad assumere l’aspetto di Dio, ma è l’immagine di Dio stesso, di Cristo stesso che vuole manifestarsi in noi. Cristo non cessa la sua opera in noi prima di averci resi uguali a sé. Dobbiamo essere conformati in tutto a colui che si è incarnato, che è stato crocifisso e trasfigurato. Cristo ha rivestito l’aspetto di uomo. Divenne un uomo come noi. Noi riconosciamo la nostra propria immagine nella sua umanità e nella sua umiltà. Egli si è reso uguale agli uomini perché questi potessero essere uguali a lui. Nell’incarnazione di Cristo tutta l’umanità riceve la dignità della conformità a Dio. Chi ora offende uno dei minimi offende Cristo che ha rivestito la forma di uomo ed ha ristabilito in sé l’immagine di Dio per tutto ciò che porta volto umano. Nella comunione con colui che si è fatto uomo ci viene donata la nostra vera umanità. Se partecipiamo al corpo di Cristo divenuto uomo, partecipiamo a tutta l’umanità, che è portata da lui. Poiché sappiamo di essere accettati e portati nell’umanità di Gesù, la nostra nuova umanità consiste nel portare i dolori e le colpe degli altri. Colui che si è fatto uomo fa dei suoi discepoli fratelli di tutti gli uomini. La ‘filantropia’ (Tt. 3,4) di Dio, che si è manifestata nell’incarnazione di Cristo, è fondamento dell’amore fraterno dei cristiani per tutto ciò che ha nome di uomo in terra. Colui che si è fatto uomo fa sì che la comunità diventi il corpo di Cristo, sul quale ricadono i peccati e le pene di tutta l’umanità e dal quale solo essi sono portati.

L’immagine di Cristo in terra è l’immagine dell’uomo crocifisso. L’immagine di Dio è l’immagine di Gesù Cristo sulla croce. La vita del discepolo deve essere trasformata in questa immagine. È una vita canna turata con la morte di Cristo (Fil. 3,10; Rom. 6,4 s.). È la vita di chi è crocifisso con lui (Gal. 2,19). Cristo, nel battesimo, imprime alla vita dei suoi la sua morte. Morto alla carne e al peccato, il cristiano è morto per questo mondo e il mondo è morto per lui (Gal. 6,14). Chi vive del suo battesimo, vive della sua morte. Cristo segna la vita dei suoi con la quotidiana morte nella lotta dello spirito contro la carne, con la quotidiana sopportazione delle pene mortali che il demonio infligge al cristiano. È la passione di Gesù Cristo stesso che tutti i suoi discepoli devono rivestire in terra. Cristo rende solo pochi dei suoi seguaci degni della partecipazione più intima alla sua passione, al suo martirio. In questo la vita del discepolo è più intimamente conforme all’immagine di Cristo nella sua morte. Nell’oltraggio pubblico, nella sofferenza, nella morte subita per amore di Gesù Cristo, Cristo prende forma visibile nella sua comunità. Ma dal battesimo al martirio si tratta sempre della stessa passione, della stessa morte. È la nuova creazione dell’immagine di Dio per opera del Cristo crocifisso.

Chi vive in comunione con l’incarnato e crocifisso, chi ha rivestito la sua immagine, sarà pure uguale al Cristo trasfigurato e risorto: «Come abbiamo portato la immagine del terrestre, così rivestiremo pure l’immagine del celeste» (1 Cor. 15,49). «Saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è» (1 Gv. 3,2). Come la immagine del crocifisso, così anche l’immagine del risorto trasformerà quelli che la guardano. Chi guarda Cristo sarà attirato nella sua immagine, sarà identificato con lui, diverrà specchio dell’immagine divina. Già qui in terra si rispecchierà in noi la gloria di Gesù Cristo. L’immagine della morte del Cristo crocifisso, nella quale viviamo, nel dolore e nella croce, rifletterà sin da ora la luce e la vita del risorto, e la trasformazione in immagine di Dio sarà sempre più profonda, sempre più chiara l’immagine di Cristo in noi; è un progredire da conoscenza a conoscenza, da chiarezza a chiarezza, ad una sempre maggiore conformità all’immagine del Figlio di Dio. «Noi tutti che a viso scoperto riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati nella stessa immagine, di gloria in gloria, come dallo Spirito del Signore» (2 Cor. 3,18).

È Gesù Cristo che prende dimora nei nostri cuori. La vita di Gesù Cristo non è ancora finita in terra. Cristo continua a viverla nella vita dei suoi seguaci. Non dobbiamo parlare della nostra vita cristiana, ma della vera vita di Gesù Cristo in noi. «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal. 2,20); colui che si è fatto uomo, che è stato crocifisso ed è trasfigurato, è entrato in me e vive la mia vita. «Per me il vivere è Cristo» (Fil. 1,21). Ma con Cristo vive con me il Padre, e Padre e Figlio vivono in me mediante lo Spirito Santo. È la santa Trinità stessa che ha preso dimora nel cristiano, lo ha colmato e lo trasmuta in sua immagine. Il Cristo incarnato, crocifisso e trasfigurato prende forma nei singoli uomini, perché sono membra del suo corpo, della Chiesa. La Chiesa riveste la forma umana, l’immagine della morte e della risurrezione di Gesù Cristo. Essa è per prima rivestita della sua immagine (Ef. 4,24; Col. 3,10), e in essa lo sono tutti i suoi membri. Nel corpo di Cristo siamo divenuti «come Cristo».

Ora si comprende come il Nuovo Testamento invita sempre di nuovo a essere «come Cristo» (kathos Xristos).

Essendo stati rivestiti dell’immagine di Cristo, dobbiamo essere come Cristo. Solo perché portiamo l’immagine di Cristo, Cristo può essere l’esempio che seguiamo. Poiché lui stesso vive in noi la sua vera vita, noi possiamo «camminare come camminò lui» (1 Gv. 2,6), «fare come ha fatto lui» (Gv. 13,15), «amare come egli ha amato» (Ef. 5,2; Gv. 13,34; 15,12), «perdonare come lui ha perdonato» (Col. 3,13), «avere il modo di pensare che fu anche in Gesù Cristo» (Fil. 2,5), perciò possiamo seguire l’esempio che egli ci ha dato (1 Pt. 2,21), dare la nostra vita per i fratelli, come egli l’ha data per noi (1 Gv. 3,16). Solo per questo possiamo essere come lui, perché egli era come noi. Solo per questo possiamo essere «come Cristo», perché siamo resi uguali a lui. Ora che siamo stati conformati alla sua immagine, possiamo vivere secondo il suo esempio. Qui si agisce veramente, qui si vive in tutta semplicità, al suo seguito, una vita simile a quella di Cristo. Qui si obbedisce semplicemente alla Parola. Non guardo più affatto la mia vita, la nuova immagine che rivesto. La perderei nello stesso attimo in cui volessi guardarla. Infatti è solo lo specchio di quell’immagine di Gesù Cristo che io guardo incessantemente. Chi segue, guarda solo a colui che egli segue. Ma di colui il quale porta l’immagine di Gesù Cristo incarnato, crocifisso e risorto, seguendolo, di colui che è divenuto immagine di Dio alla fine si dirà che è stato chiamato a essere ‘imitatore’ di Dio. Chi segue Gesù imita Dio. «Diventate dunque imitatori di Dio come figli diletti» (Ef. 5,1).

 



[1] Enders III, p. 208, 118ss.

[2] La giustificazione esegetica di questa interpretazione sta nella espressione anoigen to stoma,  sulla quale già nell' esegesi della chiesa primitiva si attirava l'attenzione. Prima che Gesù inizi il suo discorso, passano alcuni minuti di silenzio.

[3] La costruzione di un contrasto tra Matteo e Luca non trova nessuna ragione nella Scrittura. Non si tratta di una spiritualizzazione, da parte di Matteo, delle beatitudini originali in Luca, né di una politicizzazione delle beatitudini da parte di Luca, dicendo che in origine si sarebbero solo riferite alla «disposizione d'animo». Né in Luca la ragione della beatitudine è la privazione, né in Matteo la rinunzia. In ambedue privazione e rinuncia, atteggiamento spirituale o politico, sono giustificate solo dalla chiamata e dalla promessa di Gesù, che solo fa delle beatitudini ciò che sono, e che è il solo fondamento della loro beatificazione. L'esegesi cattolica, a partire dai Clementini, ha voluto proclamare beatitudine la virtù della povertà pensando d'un canto alla paupertas voluntaria dei monaci, d'altro canto ad ogni povertà volontaria per amore di Cristo. In ambedue i casi l'errore consiste nel fatto che la ragione della beatitudine non viene ricercata solo nella chiamata e promessa di Gesù, ma in un comportamento umano.

[4] L'imperatore Giuliano nella sua 43ma lettera scriveva beffardamente, che confiscava i beni dei cristiani solo perché potessero entrare poveri nel regno dei cieli.

[5] Eirenopoioi ha un duplice senso: anche l'espressione 'pacifici' secondo l'interpretazione non deve essere presa solo in senso passivo. La traduzione inglese peacemakers (= facitori di pace) è unilaterale a causa di un molteplice attivismo cristiano frainteso.

[6] Attenzione alla mancanza di articolo!

[7] L'aggiunta di eike nella maggior parte dei codici è la prima cauta correzione del rigore della Parola di Gesù.

[8] È una cattiva leggerezza richiamarsi a Gv. 18,23 affermando che Gesù stesso non ha osservato alla lettera questa legge e liberarsi così della necessità di obbedire. Gesù chiama il male male ma lo subisce senza difendersi fino alla morte sulla croce.

[9] Non è un caso che nell'elenco dei vizi l'apostolo Paolo nomini di nuovo l'una accanto all'altra l'avarizia e la prostituzione, e chiama ambedue idolatria.

[10] Bisogna tener presente che Gesù non toglie al cuore umano ciò di cui ha bisogno, cioè il tesoro, l'onore, la gloria; ma dà ad esso un altro contenuto, la gloria di Dio (Gv.5,44), la gloria 'della croce (Gal. 6,14), il tesoro nel cielo.

[11] B. usa il termine in doppio senso: 1. riflettere (= pensare) su qualcuno e 2. riflettere (= rigettare) il proprio pensiero e sentimento sull'altro. N.d.T.

[12] Ogni fanatismo consiste nello scambiare affermazioni ontologiche e testimonianza nell'annunzio. La frase «Cristo è risorto ed è presente» in senso ontologico annulla l'unità della Scrittura. Infatti comprenderebbe un'affermazione sul modo di esistere di Gesù, che è diverso per es. da quello del Gesù dei sinottici. Che «Gesù è risorto e presente» è una frase a se stante con un proprio significato ontologico, che potrebbe pure essere usato in forma di critica contro altre affermazioni antologiche. Diviene un principio teologico. In forma analoga per es. ogni perfezionismo esaltato scaturisce da un simile malinteso ontologico di quanto la Scrittura dice sulla santificazione. Qui per es. l'affermazione che chi è in Dio non pecca, diviene punto di partenza antologico del pensiero; l'affermazione viene così tolta dalla Scrittura e resa verità a se stante che può essere provata. A questo si oppone in maniera assoluta il carattere della testimonianza nella predicazione. La frase «Cristo è risorto ed è presente», intesa in senso stretto come testimonianza della Scrittura, è vera solo come Parola della Scrittura. A questa Parola presto fede. lo non posso immaginare altra via di accesso alla verità se non mediante questa Parola. In questa Parola mi è testimoniata in pari modo la presenza del Cristo di Paolo e del Cristo dei sinottici, così che la vicinanza all'uno o all'altro non viene determinata se non dalla Parola, dalla testimonianza della Scrittura. Non si vuole certo però negare che Paolo dia una testimonianza diversa per contenuto e concettualità dai sinottici; ma ambedue vengono interpretati in stretta relazione con tutta la Scrittura. Tutto ciò non è solo una conoscenza aprioristica, nata da un severo concetto del canone, ma ogni singolo caso deve a sua volta dimostrare che questo concetto della Scrittura è giusto. Così nelle pagine seguenti si dovrà dimostrare come il concetto di obbedienza a Gesù nella testimonianza di Paolo è assunto e continuato in una prospettiva mutata.

[13] Gesù stesso ha chiamato la sua morte un battesimo ed ha predetto ai suoi discepoli questo battesimo della morte (Mc. 10,39; Lc. 12,50).

[14] Schlatter riferisce anche 1 Cor. 15,29 al battesimo del martirio.

[15] Il battesimo di Giovanni deve essere rinnovato da quello di Cristo (At. 19,5).

[16] Ai passi più noti che attribuiscono il battesimo dei bambini già al periodo neotestamentario si può forse aggiungere 1 Gv. 2,I2 ss. Il fatto che due volte sono elencati nello stesso ordine: bambini, padri, giovani fa pensare che il teknia  nel v. I2 non sia da riferire alla comunità, ma veramente da intendere come 'bambini'.

[17] Anche Ef. 3,6 abbraccia tutto il dono della salvezza: Parola, battesimo, Santa Cena.

[18] Nell'immagine di endusasthai  in un certo senso c'è il concetto volumetrico di un'abitazione, di un vestito. Forse anche 2 Cor. 5,1 ss. può essere interpretato in relazione con questo passo. Qui si riscontra endusasthai  in connessione con il divino oiketerion. L'uomo senza questo oiketerion è gumnos; nudo, e deve temere Dio. Egli non è vestito e desidera essere rivestito. Egli è rivestito del divino oiketerion. Questo rivestire la chiesa in questo mondo con l'oiketerion non corrisponde forse all''indossare' la chiesa celeste, come Paolo desidera così ardentemente? Qui e lì è quell'unica Chiesa della quale veniamo rivestiti, la capanna di Dio, lo spazio della presenza e del rivestimento divino. Qui come lì il corpo di Cristo ci veste.

[19] Origine di questi cataloghi dei vizi si può considerare la Parola del Signore in Mc. 7,21s.

[20] «Io vivo, dice il credente. Vivo al cospetto di Dio, vivo davanti al suo tribunale, sotto la sua grazia, vivo nel suo favore, nella sua luce, nel suo amore; sono completamente riscattato dai miei peccati; nel libro dei debiti non c'è più alcuna partita aperta, tutto è pagato. La legge non pretende più nulla da me, non mi stringe, non mi condanna più. Sono giusto davanti a Dio, com'è giusto lui; santo e perfetto, com'è santo il mio Dio, perfetto, com'è perfetto il mio Padre celeste. Tutto il compiacimento di Dio mi abbraccia; è il mio fondamento, sul quale poggio, il mio asilo dove mi rifugio; tutta la beatitudine di Dio, tutta la sua pace mi sostiene e mi porta; in lui mi sento sollevato, mi sento eternamente bene. Non c'è più nessun peccato in me; non ne commetto più; posso affermare con buona coscienza che cammino nella via di Dio e faccio la sua volontà, che sono così come egli mi vuole - quando cammino e quando sosto, quando seggo e quando sono sdraiato, quando veglio e quando dormo. Anche ciò che penso e dico è conforme alla sua volontà. Dovunque mi trovi, fuori o dentro casa, tutto avviene secondo la sua benevola volontà. lo sono a lui gradito, sia quando agisco sia quando riposo. La mia colpa è cancellata per sempre, e non posso fare nuovi debiti che non fossero già cancellati. Sono ben custodito nella sua grazia e non posso più peccare. Nessuna morte può uccidermi, vivo in eterno, come tutti gli angeli di Dio. Il mio Dio non si adirerà con me, né mi biasimerà; sono salvato per sempre dall'ira futura. Il maligno non mi toccherà più; il mondo non mi tirerà mai più nei suoi lacci. Chi ci separerà dall'amore di Dio? Se Dio è per noi chi sarà contro di noi? (Koblbrügge).

[21] Al di là di ogni disciplina ecclesiastica, che è sempre al servizio della misericordia, persino al di là della consegna del peccatore a Satana, il Nuovo Testamento conosce, come punizione più terribile, la maledizione, l'anatema. Questo non ha più come scopo la redenzione. È un'anticipazione del giudizio di Dio. Nell'Antico Testamento vi corrisponde il 'Cherem', che viene applicato agli empi. È un'espulsione definitiva dalla comunità; il condannato viene ucciso. Questo fa notare due cose: la comunità non è più assolutamente in grado di portare e assolvere lo scomunicato. Perciò viene consegnato a Dio solo. Così lo scomunicato è allo stesso tempo maledetto, eppure santo, perché consegnato a Dio. Ma poiché in quanto maledetto appartiene oramai solo a Dio, la comunità non può più pensare alla sua salvezza. Che anatema significa separazione dalla salvezza lo dimostra Rom. 9,3; che anatema sia inteso in senso escatologico lo fa supporre 1 Cor. 16,22; che venga colpito da anatema colui che distrugge volontariamente, mediante la sua predicazione, l'Evangelo stesso, è detto in Gal. 1,8 S. Non certo a caso l'unico passo che esprime l'anatema su un uomo si riferisce all'eresiarca. Doctrina est coelum, vita terra (Lutero).

[22] La disciplina nei riguardi dell'insegnamento si distingue da quella della comunità in quanto quest'ultima nasce da un retto insegnamento, cioè dal retto uso del potere spirituale della Chiesa, mentre la prima punisce l'abuso dell'insegnamento stesso. Mediante un insegnamento errato la sorgente di vita della comunità e della disciplina comunitaria viene alterata. Perciò il peccato contro la dottrina è più grave del peccato nel comportamento. Chi sottrae alla comunità l'Evangelo merita una condanna senza attenuanti; se invece uno pecca nel suo comportamento, l'Evangelo è apposta per lui. La disciplina nell'insegnamento è in primo luogo diretta verso colui che è incaricato dell'insegnamento nella Chiesa. Presupposto è che, affidando ad uno questo incarico, si garantisca che l'incaricato sia didaktikos abile all'insegnamento (1 Tm. 3,2; 2 Tm. 2,24; Tt. 1,9), «capace di istruire anche gli altri» (2 Tm. 2,2); che a nessuno siano state imposte le mani con troppa fretta, perché altrimenti la sua colpa ricade su colui che lo ha consacrato (1 Tm. 5,22). La disciplina dell'insegnamento perciò inizia già prima che si affidi un incarico. Vita e morte della comunità dipende dalla massima scrupolosità. Ma la disciplina non cessa al momento dell'imposizione delle mani, anzi, è appena ai suoi inizi. Anche se colui al quale è stato affidato l'insegnamento è assai scrupoloso - Timoteo - deve essere continuamente richiamato perché custodisca la buona e salutare dottrina. Per questo gli viene particolarmente raccomandata la lettura delle Scritture; troppo grave è il pericolo di eresia (2 Tm. 3,10; 3,14; 4,2; 2,15; 1 Tm. 4,13 e 16; Tt. 1,9; 3,8). Si aggiunge lo ammonimento a condurre una vita irreprensibile. «Vigila su te stesso e sulla dottrina» (1 Tm. 4,13 s.; At. 20,28). Non è un'umiliazione per Timoteo se Paolo lo ammonisce a essere puro, umile, imparziale, diligente. Perciò prima di esercitare la disciplina della comunità è necessaria la disciplina di coloro a cui è affidato l'insegnamento. È compito del ministro diffondere, nella sua comunità, la giusta dottrina e opporsi ad ogni errore. Se si manifesta una vera e propria eresia, l'incaricato dell'-insegnamento ordini «di non insegnare diversamente» (1 Tm. 1,3); infatti egli è incaricato dell'insegnamento e può anche dare degli ordini. Inoltre egli ammonisca e ricordi che si devono evitare dispute di parole (2 Tm. 2,14). Se uno è manifestamente eresiarca, egli sia «ammonito una e più volte». Se non vuole ascoltare, «dopo una o due correzioni», lo si lasci perdere (Tt. 3,10; 1 Tm. 6,4 s.), perché seduce la comunità (2 Tm. 3,6 s.). «E chi non rimane nella dottrina di Cristo non ha Dio». Un falso insegnante non venga neppure accolto in casa e non lo si saluti (1 Gv. 10). Negli eresiarchi si presenta l'Anticristo. Non chi pecca nel suo comportamento, ma solo l'eresiarca viene chiamato Anticristo. Contro lui solo è diretto l'anatema di Gal. 1,9. A proposito del rapporto tra disciplina dell'insegnamento e disciplina nella vita comunitaria si deve tener presente che non può esserci disciplina nella comunità senza disciplina dell'insegnamento. Ma non c'è nemmeno disciplina dell'insegnamento che non porti necessariamente alla disciplina nella comunità. Paolo rimprovera i Corinzi che nella loro vanità vogliono far nascere scismi senza imporre una disciplina (1 Cor. 5,2). Non è possibile separare il problema della dottrina da quello della vita cristiana.

[23] La differenza tra Paolo e Giacomo sta nel fatto che Giacomo toglie all'umiltà della fede ogni possibilità di presunzione e che Paolo sottrae all'umiltà dell'opera ogni possibilità di presunzione. Giacomo non nega l'esattezza dell'affermazione che l'uomo è giustificato per sola fede, ma vuole sottrarre il credente al pericolo di sentirsi sicuro nella propria fede ed attirare la sua attenzione sull'obbedienza rendendolo così veramente umile. Sia Paolo che Giacomo vogliono solo che l'uomo viva veramente di grazia e non confidi in se stesso.

 

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