AVEVO IL DONO DI SPARGERE LA GIOIA DAPPERTUTTO (Vita 2, 8)

 DALL'INFANZIA... UNA VITA IMPETUOSA

 

L'aver dei genitori virtuosi e timorati di Dio, abbinato ai favori di cui Egli mi circondava, sarebbe certo dovuto bastarmi per crescere buona (...)

 

Mio padre era appassionato alla lettura di buoni libri e ne teneva pure di quelli scritti in lingua nazionale, perché potessero leggerli anche i suoi figli. Mia madre si premurava poi di farci pregare e di fomentare in noi la devozione alla Madonna e ad alcuni santi in particolare. Ora, tutto questo incominciò a destare precocemente la mia intelligenza che si aprì - ritengo - già verso i sei o sette anni. Mi aiutava molto il fatto non scorgere nei miei genitori altra propensione se non quella verso la virtù. E di virtù ne avevano molte.

 

Eravamo tre sorelle e nove fratelli. Grazie al Buon Dio in materia di virtù assomigliavano tutti ai genitori, tranne me, che pure ero la prediletta di mio padre. E prima che cominciassi ad offendere Dio, la sua predilezione poteva forse anche essere in certo qual modo motivata, perché io mi sento attanagli dal rimorso, quando rammento le buone inclinazioni che il Signore mi aveva elargite e quanto male abbia saputo approfittarne.

 

I miei fratelli infatti non mi distoglievano minimamente dal servizio di Dio. Ne avevo uno quasi della mia età (ed era poi quello che amavo di più, sebbene li amassi tutti intensamente, venendone cordialmente riamata), col quale mi appartavo spesso a leggere vite dei santi (...); progettavamo addirittura di recarci nella terra dei mori, elemosinando per amore di Dio, nella speranza che là poi ci decapitassero. E credo, il Signore, pur in un’età così tenera, ce ne avrebbe dato il coraggio, se ne avessimo trovato i mezzi. Ma il maggior ostacolo ci sembrava quello di avere i genitori.

 

Il sentir affermare, nelle nostre letture, che pena e gloria erano destinate a durare per sempre, impressionava molto. Ci accadeva sovente di soffermarci a lungo su questo pensiero, provando un gusto matto a ripetere innumerevoli volte: sempre, sempre, sempre! Pronunciando con insistenza tale parola piacque al Signore mi restasse impresso nell’anima dalla più tenera infanzia il cammino della verità (...).

 

Suscita ancora in me un moto di tenerezza il constatare come Dio mi abbia concesso tanto presto ciò che poi ho perduto per colpa mia (…).

 

Rammento che quando mia madre morì, avevo meno di dodici anni. Appena cominciai a capire che cosa avessi perduto, mi recai angosciata davanti ad un'immagine della Madonna, supplicandola con molte lacrime a farmi da madre. Mi sembra che il gesto, sebbene compiuto con tutta semplicità, mi abbia giovato; sì, perché da parte di questa Vergine sovrana mi sono sistematicamente vista esaudita in ciò che le ho raccomandato, ed ella ha poi finito per avvincermi a sé.

 

O Signore, (...) riconosco che a te non restava da fare nulla più di quanto hai fatto, perché sin da quell’età io fossi interamente tua. E quand’anche volessi lamentarmi dei miei genitori, non potrei fare nemmeno quello perché in essi non ebbi a vedere altro che bene e preoccupazione per il mio bene.

 

Trascorsa questa età, allorché cominciai a rendermi conto dei doni di natura elargitimi dal Signore - che a detta della gente erano molti -, mentre avrei dovuto ringraziarne Dio, presi a servirmi di tutti per offenderlo (Vita 1, 1.3.4.5.7.8).

 

 

UNA RAGAZZA ESUBERANTE

IN UNA SOCIETA' IN CRESCITA

 

Mia madre era appassionata ai libri di cavalleria; solo che a lei tale passatempo non faceva tanto male quanto ne faceva invece a me (...). Cominciai a prendere l’abitudine di leggerli: e quel piccolo difetto in me riscontrato nella mamma cominciò a sua volta a raffreddare le mie buone aspirazioni, avviandomi a mancare anche nel resto. Si noti che non mi sembrava neanche un male sciupare tante ore del giorno e della notte in una occupazione così futile, per di più all’insaputa di mio padre. La mia infatuazione era tale che non avevo fra le mani un libro nuovo, mi sembrava di non essere contenta.

 

Presi a portare abiti sofisticati e a desiderare di fare bella figura, dedicando molta cura alle mani e capelli, usando profumi e abbandonandomi a tutte vanità possibili, che erano assai numerose data la mia raffinatezza. Intenzioni cattive però non ne avevo poiché non volevo assolutamente che alcuno offendesse Dio per causa mia. Comunque, mi trascinai addosso per parecchi anni una forte smania di ricercatezza personale e di esagerata affettazione (...).

 

Avevo alcuni cugini (...). Erano quasi della mia età, un pochino più grandi. Stavamo sempre insieme. Mi volevano un gran bene e io li stuzzicavo ad incentrare la conversazione su tutti i fatti che procuravano loro soddisfazione, ascoltando avidamente la storia delle loro simpatie e delle loro affezioni tutt’altro che buone (...).

 

Imparai tutto il male possibile da una parente che bazzicava molto in casa mia (...). Mio padre e mia sorella si preoccupavano assai di quell’amicizia e me la rinfacciavano spesso (...). In effetti da tale relazione uscii cambiata a tal punto che della mia buona indole e del mio spirito virtuoso non restò in me quasi neanche più traccia. Ho addirittura l’impressione che lei e un’altra tizia stampassero in me la loro impronta.

Dopo nemmeno tre mesi da quando mi ero abban­donata a queste vanità mi rinchiusero in un monastero del luogo, dove si educavano ragazze del mio ceto (...).

 

Era così intenso l’amore nutrito per me da mio Padre e così scaltra la mia abilità nel dissimulare, che egli non arrivò mai a ritenermi tanto colpevole, e quindi non lasciò mai che il suo affetto si raffreddasse nei miei confronti (...).

 

Durante i primi otto giorni soffrii molto, non tanto per il fatto di trovarmi in quel posto, quanto per il sospetto lancinante che fosse stata scoperta la mia leggerezza. Ormai però ero stanca di sventatezze (...). Si stava avviando in me un risveglio, sicché nel giro di pochi giorni - credo forse anche meno -, mi sentivo molto più felice che in casa di mio padre. Tutte erano affiatate con me, perché il Signore mi ha dato la grazia di spargere la gioia dovunque mi trovi, e quindi anche là ero molto amata (…).

 

L’anima mia cominciò a riprendere le buone abitu­dini della prima età; ebbi così modo di toccare con mano la grande grazia che il Signore accorda a quanti Egli immette in compagnia dei buoni. Sembra quasi che Sua Maestà andasse pensando e ripensando per quale via avrebbe potuto attirarmi nuovamente a sé. Sii tu benedetto, Signore, che tanto mi hai sopportata! (Vita 2,1-8).

 

Con noi educande dormiva una monaca, tramite la quale sembra che il Signore abbia voluto cominciare a darmi qualche sprazzo della sua luce (...).

In quel monastero rimasi un anno e mezzo miglio­rando decisamente (...). Tuttavia desideravo proprio di non farmi suora augurandomi che Dio non mi chiamasse per quella via, benché a quel tempo mi spaventasse pure l’idea di sposarmi (...).

 

Allo scadere del mio periodo di soggiorno nell’educandato, sentivo già una propensione maggiore a farmi monaca, peraltro non nella casa in cui mi trovavo, a causa di certe costumanze rigorose che mi sembravano di un ascetismo eccessivo (...). Questa idea di farmi monaca un momento mi veniva e un altro se ne andava, sicché non sapevo decidermi a fare il passo.

 

Nel frattempo, il Signore (...) mi mandò una malat­tia così grave da costringermi a far ritorno a casa di mia sorella per farle una visita, dato che l’amore da lei nutrito per me era intensissimo e, qualora avessi voluto assecondare il suo affetto, non avrei mai dovuto abbandonarla. Anche suo marito mi voleva molto bene (...). È questa un’altra grazia di cui sono largamente debitrice al Signore, il quale mi ha sempre fatto trovare affetto dovunque fossi (...).

 

Lungo il percorso che dovevamo fare abitava un fratello di mio papà, vedovo, che pure il Signore andava disponendo per sé. Volle che mi trattenessi qualche giorno con lui. Occupava il suo tempo leggendo buoni libri in volgare (...). Mi ordinava di far la lettura e io, sebbene quei libri non mi piacessero granché, mostravo di trovarci gusto, perché ho sempre cercato ansiosamente di accontentare gli altri, anche quando la cosa mi pesava (...).

 

Grazie alla pressione esercitata sul mio cuore dalle parole di Dio lette ed ascoltate, giunsi a comprendere sempre meglio la verità delle massime udite da bambina (...) e quantunque la mia volontà non riuscisse ancora ad accettare l’idea di farmi monaca, capii che in sostanza quello era lo stato migliore e più sicuro, per cui a poco a poco decisi di forzare me stessa ad accettarlo.

 

Sostenni tale lotta per tre mesi (...). Mi sembra però che, in questo impulso ad abbracciare la vocazione, stimolasse più il timore servile che l’amore (...).

 

Mio padre però mi voleva tanto bene, che non riu­scii assolutamente ad ottenere il suo consenso (...). Il massimo che da lui si poté ottenere fu che dopo la sua morte sarei stata autorizzata a fare quello che vessi voluto. Ma io temevo di me stessa e avevo Paura che la mia debolezza finisse per farmi tornare indietro (Vita 2,10; 3,2-7).

 

 

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