24_Il Signore aiuta il giardiniere in tal modo che sembra voglia prenderne il posto e far tutto lui (V 16-17)

 

«Parliamo ora della terza acqua con cui si innaffia questo giardino, cioè dell’acqua corrente di un fiume o di una fonte, modo di innaffiare assai meno faticoso, anche se incanalare l’acqua qualche fatica la dà. Qui il Signore vuole aiutare il giardiniere in modo che quasi sia Egli stesso a fare da giardiniere e a fare tutto. È un sonno delle facoltà che né si perdono del tutto, né comprendono come agiscono».

 

Com’ è?

«il gusto, la dolcezza e il piacere sono incomparabilmente maggiori di quelli precedenti; succede che l’acqua della grazia immerge l’anima fino al collo al punto che non può proseguire - non sa come - né può tornare indietro; vorrebbe godere di grandissima gloria. È come uno che, candela alla mano, è lì lì per morire della morte che desidera; sta godendo in quell’agonia con il più grande piacere che si possa descrivere».

«Non mi sembra che sia altra cosa se non un morire quasi del tutto a tutte le cose del mondo e intanto godere di Dio» (V 16, 1).

«Ed è così che il Signore mi ha dato in abbondanza quest’orazione credo da cinque o sei anni molte volte, e io né la comprendevo, né sapevo spiegarla; e così, una volta giunta qui, avevo pochissimo o niente da dire. Capivo bene che non si trattava del tutto di unione di tutte le facoltà e che era più forte della precedente… molto chiaramente però confesso che non sapevo individuare né comprendere in che modo fosse differente» (V 16, 2).

«le facoltà hanno solo la capacità di stare tutte occupate in Dio» (V 16, 3).

 

 

Effetti dell’orazione.

«Oh vero Signore e Gloria mia, che leggera e pesantissima croce avete preparato per coloro che giungono a questo grado! Leggera, perché è dolce; pesante perché arrivano momenti in cui non c’è sopportazione che la sopporti, eppure non ci si vorrebbe mai vedere liberati da essa, se non per vedersi già totalmente con Voi. Quando l’anima si ricorda di non avervi servito in nulla e che continuando a vivere può servirvi, vorrebbe caricarsi di una croce assai più pesante e non morire più fino alla fine del mondo. Non le importa niente del non riposo, in cambio di rendervi un piccolo servizio. Non sa cosa desiderare, ma sa che non desidera altro che Voi» (V 16, 5).

«Infine il fatto è che le virtù sono ora più forti che nella precedente orazione di quiete: l’anima non può ignorarle perché si vede diversa e non sa come le sia accaduto. Comincia a operare grandi cose grazie al profumo che si diffonde dai fiori, e il Signore vuole che questi si aprano perché si renda conto di avere delle virtù, anche se si rende conto molto bene che non avrebbe potuto, né ha potuto guadagnarle in molti anni, e che in quel poco tempo il celeste giardiniere gliele ha date. Qui l’umiltà che resta impressa nell’anima è assai più grande e profonda di quella passata; perché ella vede più chiaramente che non ha fatto né poco né tanto ma ha acconsentito a che il Signore le facesse delle grazie e la volontà le ha abbracciate» (V 17, 3).

«… accade molte volte questo tipo di unione[1] di cui voglio parlare (soprattutto a me… Dio mi fa molto spesso questo tipo di grazia): Dio afferra la volontà e perfino l’intelletto, a mio parere, perché esso non fa ragionamenti, ma se ne sta occupato a godere di Dio, come uno che sta guardando e vede così tante cose che non sa dove guardare; lo sguardo si perde ora su una cosa ora su un’altra, senza distinguerne alcuna. La memoria resta libera, e credo insieme all’immaginazione; ed essa, vedendosi sola… c’è da lodare Dio per la guerra che scatena e per come cerca di far perdere totalmente la quiete! Me, mi ha stancata, e io la detesto, e molte volte supplico il Signore, se mi deve tanto disturbare, che me la tolga in quei momenti» (V 17, 5).

 

Che fare allora?

«A questo punto mi sembra opportuno, come a vostra grazia già è stato detto, abbandonarsi del tutto nelle braccia di Dio. Se Egli vuole portarla in cielo, vada; se vuole portarla all’inferno, non ne soffre, allorché è insieme al suo Bene; se vuole porre fine alla sua vita, questo ella vuole; se vuole che viva mille anni, anche lei lo vuole; agisca Sua Maestà come se l’anima fosse cosa che gli appartiene; ormai non appartiene più a se stessa; è consegnata del tutto al Signore; si disinteressi del tutto di sé» (V 17, 2).

 

Differenza tra questa orazione e la precedente (orazione di quiete)

«Questo, anche se sembra la stessa cosa, è differente dall’orazione di quiete di cui ho parlato; o almeno lo è in parte, perché in essa è l’anima che non vorrebbe agitarsi e muoversi, stando a godere in quell’ozio santo come Maria; in quest’ultima orazione può anche essere Marta[2] - così che quasi metta in opera contemporaneamente sia la vita contemplativa sia la vita attiva - e impegnarsi in opere di carità e affari pertinenti alla sua condizione, e leggere, anche se non si è del tutto padroni di se stessi e si comprende bene che la parte migliore dell’anima è da qualche altra parte. È come quando stiamo parlando con qualcuno e da un’altra parte viene un altro a parlarci e così non possiamo ascoltare bene né l’uno né l’altro» (V 17, 4).

«In tutti i diversi tipi di unione di quest’ultima acqua sorgiva…

Sono così grandi la gloria e il riposo dell’anima, che in modo assai chiaro a quel godimento e piacere partecipa anche il corpo; e questo molto chiaramente, e le virtù ne escono assai accresciute …» (V 17, 8). In V 6, 3-4 Teresa dice in cosa consistano queste virtù che le sono state donate mediante l’orazione[3][3]: «non parlare male di nessuno, anche in cose insignificanti, ma cercare sempre di evitare ogni mormorazione; perché mi era molto chiaro che non dovevo volere dire degli altri ciò che non volevo dicessero di me. Prendevo tutto ciò estremamente sul serio per le occasioni che avevo, anche se non così perfettamente da non cadere, in qualche caso in cui erano grandi; ma di solito facevo in questo modo. … Mi ritrovai un desiderio di solitudine, amica del parlare e trattare di Dio: se trovavo con chi farlo, maggior gioia e sollievo mi dava che tutta la cortesia – o per meglio dire scortesia – delle conversazioni del mondo; facevo la Comunione e mi confessavo molto più spesso … E la paura non c’entrava affatto. Piuttosto se mi ricordavo dei doni che il Signore mi faceva nell’orazione e del molto che gli dovevo e se vedevo quanto male lo ripagavo, non lo potevo sopportare …».

È, qui come dice Giovanni della Croce, nell’annotazione alla prima strofa del suo Cantico Spirituale: «Quando l’anima si rende conto di quanto è obbligata a fare … soprattutto sapendo che Dio è molto irritato e si è nascosto perché … ha voluto dimenticarsi di lui fino a tal punto in mezzo alle creature».

 

Lo avevo ridotto a un idolo, ecco perché se ne è andato «l’amore dell’anima mia». L’idolo, anche il più piccolo, procura un po’ di nutrimento al cuore: un po’ di gioia, una certa identità, un po’ di sicurezza a chi si sente pellegrino e affamato. Ma è solo un immagine di Dio; un’immagine fabbricata dall’uomo. Gli idoli sono «argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono; non c’è respiro nella loro bocca» (Sal 135 15-18 – cfr. Sal 115, 4-9). «Diventi come loro chi li fabbrica – prosegue il Salmo – e chiunque in essi confida». Se ne è andato «l’amore dell’anima mia», ci ha lasciati sempre più freddi e vuoti nelle nostre relazioni, come l’idolo che volevamo che fosse: «Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete. La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo» (Francesco, Evangelii Gaudium, n. 54).

 



[1] Teresa parla di tre fasi nel corso della conoscenza mistica, a partire dall’esperienza mistica stessa fino all’esito letterario: riconoscere, comprendere e descrivere - «una grazia è che il Signore faccia la grazia, un’altra è comprendere di che grazia si tratti e che si tratta di un dono, un’altra ancora è saperla descrivere e far capire come avvenga» (V 17, 5; cfr. V 12, 6 e V 30, 4). In questo si avvicina molto alla teoria conoscitiva della psicologia moderna che nomina altresì tre momenti: sperimentare, comprendere, comunicare.

[2] Cfr. Lc 10, 38-42.

[3] Sulle virtù come frutto dell’esperienza di Dio cfr. anche V, 14, 5.

 

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