33_Balthasar_Vita dalla morte

Hans Urs von Balthasar

 

Vita dalla morte

Meditazioni sul mistero pasquale

 

 

 

 

I.

 

Vita nella morte

 

 

 

Il morire è la cosa più quotidiana – i giornali riportano in ogni pagina annunci di morte e di esequie, ai quali chi non è interessato non presta attenzione – e nel singolo caso è la cosa più incomprensibile, dato che essa calpesta e sparge ai venti quel po’ di senso che a fatica era stato raccolto in una intera vita. Quando muore una persona apprezzata e amata, tutto il senso della sua vita viene messo tra parentesi; tale senso non è definitivo, ma nel migliore dei casi frammentario. Vediamo isole di senso in un mare sconfinato di insignificanza. E «verso l’altra riva tende con ostinazione lo sguardo», ma ogni sguardo furtivo dietro il sipario, ogni tentativo di risolvere enigmi – spiritismo, dottrina della trasmigrazione delle anime e ciò che ancora gli uomini potrebbero escogitare – non svela il mistero. Ancor meno il materialismo; allungare verso il futuro la catena di tale frammento di senso, nella speranza che un giorno diventi una totalità, è cosa più che utopistica. Noi dobbiamo rassegnarci al frammentario. Ma non è contraddittorio essere capaci di cogliere un senso di cui poi non riusciamo a tracciare la linea?

Dobbiamo anzitutto trattare di tale contraddizione che abita ogni esistenza umana, e che sembra insolubile sul piano semplicemente umano. Ma se il cristianesimo si presenta come la salvezza per gli uomini, dobbiamo ascoltare quale soluzione esso offra alla contraddizione in definitiva insopportabile. Vedremo ciò in un conclusivo terzo punto. Frattanto però, nella parte centrale, si deve cercare di scoprire nell’esistenza umana qualcosa a cui possa annodarsi la soluzione cristiana: se ciò non ci fosse, non si vede come l’elemento cristiano possa agganciarsi alla nostra esistenza. Certo tale punto di partenza diventa pienamente percettibile ed efficace quando emerge l’elemento cristiano, altrimenti rimane esposto a pericolosi equivoci.

 

 

1.

 

ESISTENZA NELLA CONTRADDIZIONE

 

 

Il bambino leva grandi occhi verso il mondo. Ciò che scorge – forme, colori, gente... – non lo comprende. I fenomeni non gli sono né familiari né estranei, non potendo ancora riferirli a se stesso. Il suo io non gli si è ancora dischiuso e ciò di cui ha coscienza sta a metà strada tra soggetto e oggetto. Ma quel che è veramente meraviglioso, tra tutte le meraviglie dell’inizio, è questo: un giorno il bambino riconosce il sorriso della madre come un segno del suo essere accolto nel mondo e, rispondendo col sorriso, in lui si dischiude il nucleo del proprio lo. Egli trova se stesso perché è stato trovato. E avendo trovato un Tu, il molteplice Es, che altrimenti ancora lo avvolge, può venir inglobato nel rapporto di confidenza. Ciò vale finché il bambino cresce sotto la protezione della famiglia, dove l’estraneo o viene inglobato nell’ambito della confidenza o passa inosservato. Natura e spirito si armonizzano.

La pubertà mette in questione tale armonia. L’adolescente avverte per la prima volta la sua unicità come persona e sperimenta una solitudine fino ad allora sconosciuta. Si sa elevato al di sopra del piano puramente naturale, non semplice esemplare di una specie, come gli animali. E con la scoperta della sua unicità si dischiude al giovane un orizzonte ancora traumaticamente indeterminato di totalità di senso, che corrisponde al suo essere persona. Ma insieme matura la sua capacità sessuale, quella che gli assegna un posto nel ciclo della vita della specie.

Le prime esperienze amorose saranno il tentativo inconsapevole di unire i due aspetti. Se inizialmente il fascino dell’esperienza cela la contraddizione, questa emerge con tanta maggior forza nelle delusioni che inevitabilmente seguiranno. Il disilluso si sente ingannato non solo dal partner, ma più profondamente ancora dalla sua stessa natura. Questa pretende da lui – e lungo tutta la vita – che scriva qualcosa di definitivo sulla superficie di un materiale effimero.

L’esperienza diventa acuta quando il giovane s’interroga su ciò che vorrà realizzare nella propria vita. È una domanda che un artista avverte in modo estremamente consapevole e quindi pure straziante; ma qualcosa del genere lo percepisce anche un artigiano, un contadino o un commerciante. L’uomo vorrebbe creare qualcosa di duraturo, che trascenda il tempo, fare un’affermazione definitiva che sia l’espressione della sua unicità personale. Naturalmente, talvolta è necessario anche l’effimero: addobbare la sala per una festa. Ed anche in questo è possibile esprimere la propria personalità. L’anelito dell’uomo va però oltre; nessuno vuole iscrivere nella pura caducità l’opera in cui egli cerca di esprimere totalmente se stesso, quando si ha bisogno di una forma «che nessun tempo e nessuna forza frantuma».

Tuttavia egli sa che ciò che è terreno è scritto sulla sabbia della transitorietà. Guardiamo la storia dell’arte e vedremo realtà irrimediabilmente perdute. Scorriamo alcune delle grandi perdite: quasi tutta la produzione di Saffo, di Eschilo e di Sofocle; nella musica molte opere di Monteverdi, oltre 20 composizioni di Bach, la «Gasteiner Symphonie» di Schubert; tutta la pittura greca, molta della pittura romanica, l’ultima cena di Leonardo e gli affreschi pisani di Gozzoli durante l’ultima guerra, quando scomparvero anche opere di romantici tedeschi; molte le rovine in campo architettonico, da Borobudur a Cluny, molte cancellate dai terremoti, altre dall’aspetto ormai spettrale, come il Partenone o la grande Sfinge.

Quei popoli che ritenevano di costruire per i loro dèi potevano rimuovere le rovine, perché erano capaci, come si può vedere, di sostituirle con qualcosa di meglio. Da questo punto di vista noi siamo più poveri, tanto che, finché i soldi bastano, ci limitiamo a re­staurare, a consolidare con calcestruzzo volte gotiche pericolanti. E nei paesi orientali i finanziamenti sono ancora più contenuti. Il che non significa che gli artisti del nostro tempo, a differenza di quelli del passato, non sarebbero in grado di dire una parola davvero valida; solo che trovano maggior difficoltà, dato che l’inventiva dell’uomo contemporaneo, la sua capacità di dar forma alle cose richiede delle opere della tecnica attrezzate per degli scopi quotidiani, e a tal punto che diventa sempre più difficile farsi udire e percepire. Ma anche grandi opere del nostro tempo stanno a dimostrare che gli spiriti creatori non hanno perduto il coraggio di lottare contro la transitorietà.

Accanto all’arte, si deve riflettere su un’altra contraddizione presente nell’esistenza umana, quella che affiora nell’amore giovanile e che si evidenzia nel matrimonio, quando sia vissuto con serietà. Due persone decidono di appartenersi reciprocamente «per la vita», ma lo fanno in vista dell’eternità, poiché vogliono amarsi in modo definitivo. «Per la vita» non significa: «Ti voglio amare finché vivrai, dopo di che sarò di nuovo libero». Essi pensano alla contraddizione di una definitività all’interno del tempo limitato. Uno dei due morirà prima dell’altro. Ed è sempre un doloroso paradosso quando chi sta per morire, per amore affranca colui che sopravvive: «Non è vero, tu ti sposi di nuovo, altrimenti sarai solo...».

Ma con la messa in luce della contraddizione relativa al fatto che l’uomo potrebbe e anche dovrebbe realizzare nella transitorietà qualcosa di imperituro, non è stato ancora detto tutto. La contraddizione non solo è ineliminabile, ma ha una necessità e perfino una fecondità sorprendente. Georg Simmel e, dopo di lui, Max Scheler lo hanno evidenziato: proprio perché il mio termine è limitato, devo e posso creare in esso qualcosa di pienamente responsabile. Se non conoscesse fine, io potrei revocare ogni mia decisione, tutto sarebbe reversibile, si avvolgerebbe in circolo. Dei termini assumono un senso soltanto quando scorrono verso un fine e una mèta («nel senso delle lancette dell’orologio», in francese «sens unique» è una strada a senso unico). E proprio perché mi so libero per una scelta, per un’opera, per l’amore verso un’altra persona, sostengo di sapere l’unicità della mia vita finita.

Io avverto la contraddizione della mia esistenza in quanto so che la materia, nella quale vorrei calare una forma definitiva, non resisterà, sia che si tratti della materia che elaboro da artefice, sia della materia delle mie ore che si disperdono, e sono ancor più certo che nell’ultimo dei miei giorni mi verrà sottratta. Ciò che nel migliore dei casi potrei dire è questo: nei miei momenti più luminosi, nelle mie decisioni positive e fondamentali avrei trasformato volentieri la mia esistenza in qualcosa di duraturo, di valido, pur sapendo che, infine, la maggior parte di tale esistenza andrà in rovina e in putridume. Non solo finisce la mia vita biologica, ma anche quella personale, con la quale avevo cercato di creare qualcosa di pienamente significativo. Non vedo proprio in che modo avrei potuto assolvere tale compito. Ma non voglio nemmeno credere di aver fatto tutto ciò che avrei potuto fare: non sarei infatti approdato allo stesso punto anche se mi fossi meglio adoperato?

Quale ignoranza abissale ci attende al termine della nostra vita, anzi la domina come totalità. Non dobbiamo chiamarla rassegnazione, né il nostro operare qualificarlo come una politica dello struzzo. È semplicemente un’ignoranza, un fuoco divorante entro il quale abbiamo costruito tutto. Il nostro stato d’animo non dovrebbe essere quello dell’angoscia?

 

 

2.

 

ABBANDONO

 

 

Non intendiamo uscire da questo vicolo cieco con un balzo diretto nella realtà cristiana, che poi sarebbe un ‘Deus ex machina’, qualcosa che ci arriva soltanto dall’esterno e dall’alto, incapace di risolvere la contraddizione umana. Bisogna invece che ci poniamo alla ricerca di un orientamento all’interno della finitudine, per poter scorgere qualcosa come un’aurora, un avvio di risposta.

Chiunque nella vita voglia qualcosa di definitivo, un amore, una prestazione, deve sacrificarsi. Deve pagare con se stesso ciò che vuole comprare. Anche, e proprio quando egli vuole esprimersi con la maggiore efficacia possibile, deve abbandonarsi alla propria espressione.

Il giovane, che vede aprirsi migliaia di possibilità di realizzazione, deve fare una scelta: per che cosa abbandonare le mille possibilità e operare una scelta seria, per che cosa devo sacrificare una libertà infinita e fare ciò che solo è necessario? In Aut‑Aut Kierkegaard ha descritto l’esistenza «estetica», quella che non‑vuole‑decidere, con lo scintillio del «Don Giovanni» mozartiano, che rimane comunque un dilettante dell’amore e che perciò alla fine si perde. Il secondo stadio della vita è poi quello di un normale matrimonio, che non ha nulla di folgorante, solo un sommesso luccichio dall’interno, che gli altri scorgono quasi solo per caso. Non possiamo ancora parlare a questo punto anche del terzo stadio, quello religioso tra gli «Stadi sul cammino della vita» di Kierkegaard. Per restare al caso del giovane: egli comprende in modo istintivo che nella scelta di una realtà, al posto di mille possibilità, sta non soltanto la serietà, ma anche il valore della vita. Un istinto, un interno sentire lo spinge a dedicarsi ad una vocazione, a scegliere una professione. E ad essa deve abbandonarsi.

Aggiungiamo: in maniera diversa da questo attivo abbandonarsi, non è possibile trovare se stessi. Non sul guanciale della meditazione, estraniandosi da tutto, uno coglierà se stesso – tutt’al più incontrerà il nulla, e guai se volesse riconoscersi in esso –, ma solo donandosi ad una realtà o ad una persona. Quello del potersi‑abbandonare è il principio di ogni realizzazione e di ogni possesso amoroso. L’opera deve esistere, dovessi pure rovinarmi! Tu devi esistere, anche se ciò mi costasse la vita! Solo così si ottenne la grande arte. Invano il papa invitava l’artista, immerso nella sua opera, a scendere dall’impal­catura eretta sul pavimento della Sistina. Non è un pretesto che consente una maggiore identificazione con la propria opera. Basti osservare come si comporta chi ama davvero.

Potremmo pensare che tale atteggiamento umano, quanto mai stupendo e fecondo, in ultima analisi fosse quello che la mistica medievale tedesca esaltava con il termine ‘Gelassenheit’ (abbandono), considerandolo come l’arte più importante della vita. Nella morte veniamo costretti all’abbandono pieno, dovendo lasciare tutte le cose e pure noi stessi.

C’è forse una via, che in tutta libertà ci consentirebbe di esercitarci, per la vita intera, in questo atto che tutto sostiene? Non è facile rispondere alla domanda, poiché ci sembra che qui si parli di due realtà totalmente distinte: la prima mi introduce nella gioia del possesso in quanto io desidero non me stesso ma l’altro e per se stesso; la seconda mi sottrae ogni possesso. L’ambiguità del termine potrebbe favorire soluzioni pericolose, il tentativo di superare le due accezioni in un senso univoco. Approfondiamo questo punto.

L’intera storia della filosofia e la sapienza del mondo ci ripetono continuamente l’insegnamento di Socrate morente: in definitiva filosofia o sapienza non sono altro che un esercizio, che dura tutta la vita, alla morte. Ciò può essere vero, ma anche fondamental­mente falso. È vero quando la mia intima decisione di operare e di amare non si ripiega su di me, quando io non cerco l’«autorealizzazione», bensì il valore oggettivo dell’opera o della persona, e con la mia realtà voglio favorire e alimentare tale valore. Mentre io scompaio, germoglia l’essenziale a cui tendo. Questa può essere davvero la più alta saggezza cui l’uomo perviene nella sua vita e che la realtà cristiana conferma e porta a compimento, oltre se stessa. Frequentemente, però, questa massima è stata intesa e praticata in modo sbagliato: soprattutto quando abbandono significava distanziamento da cose o da persone comunque caduche, penetrazione dell’interiore nullità di tutto ciò che è mondano e finito. Il tutto con diversi gradi di intensità. Nel modo più intenso lo proclama la sapienza orientale, per la quale tutto ciò che è finito e limitato è solo apparenza e inganno, Maya, illusione. Tutto ciò che è finito e limitato: quindi anche il mio stesso io, che, se rettamente inteso, è solo un voler‑essere e un voler‑avere, e pertanto dev’esser pure abbandonato come il mondo che mi circonda. Questa pretesa sapienza è ritornata di moda anche da noi. E tanto più seduce, quanto più si limita ad indicare la contraddizione dell’esistenza: questa è sûnyata, vuoto. La nostra brama di realizzarsi in modo definitivo e pieno viene spiegata come una «sete» (trsna) che non si placa se non rinunciando ai voleri dell’Io, se non giungendo allo stadio del dis‑interesse (sanscrito: an‑atman; giapponese: muga).

È ciò che, in modo meno crudo, ripropone anche lo stoicismo, per il quale le quattro passioni fondamentali – il piacere e il dispiacere, il timore e il desiderio – devono venir estirpate dall’animo, affinché l’uomo interiore possa perseverare nella serenità dell’apàtheia (donde la parola apatia). Ma una persona che avesse raggiunto questo stadio riuscirebbe ancora ad avventurarsi in una vera opera, in un amore autentico?

La forma più sottile è certo quella socratico‑platonica, che ci dà a intendere che la morte non va temuta, dato che noi veniamo privati soltanto di un elemento, tutto sommato, estraneo, di un corpo effimero, ed ora, liberi, possiamo vivere come anime immortali, finalmente libere di muoversi. L’illuminismo e l’idealismo tedeschi ne parlano continuamente: nella morte dalla crisalide si libera la farfalla. Ma anche la Stoa ha influito continuamente sul modo cristiano di pensare e di sentire: già sui Padri della chiesa, poi sul medioevo con i trattati sulla vanità del mondo e, in modo ancor più incisivo, sul barocco.

Tale molteplice, e tuttavia concentrica, interpretazione dell’abbandono è il nemico più pertinace non solo del cristianesimo, ma soprattutto della vera umanità in generale, poi­ché, se attuata seriamente, paralizza ogni autentico impegno nella effimera vita terrena, quando si opera come quando si ama.

Non è però chiaro come si possa contestare una simile interpretazione, od in altri termini: come conciliare tra loro impegno e abbandono. Questo è un interrogativo rivolto all’uomo in quanto tale, un interrogativo umanistico. Ma una risposta soddisfacente viene soltanto dalla interpretazione cristiana della vita.

 

 

3.

 

CRISTO

 

 

Ci si può porre la domanda, significativa dal punto di vista cristiano: il Figlio di Dio si è fatto uomo per operare o per morire? Molti Padri della Chiesa – ad esempio Tertulliano, Gregorio di Nissa, Leone Magno – hanno risposto senza esitazione: è nato per poter morire.

Fin quando operò in vita, la sua attività fu un fallimento, e quanto più si impegnò nell’amore, tanto più venne respinto. Fu con la morte in croce che egli divenne la figura più pregnante della storia del mondo. Perché? Concisamente diremo: tutto il suo operare terreno, fin dall’inizio, scaturiva dal completo abbandono di sé al Padre celeste e tale abbandono trovò il proprio vertice, e quindi anche la sua piena efficacia, sulla croce.

Tale risposta risuona enigmatica nella sua concisione, e infatti per comprenderla appieno ci manca ancora un concetto. Gesù dice che non è venuto per fare la propria volontà, ma la volontà di Colui che lo ha mandato. E che questo è il suo cibo. Il concetto che manca è quello della missione. Si profila così la ricercata unità.

Gesù, il Figlio di Dio, esiste solo per eseguire, nella propria azione e nel proprio amore, il compito affidatogli da Dio, per cui assume tale compito con la massima serietà: nessun distanziamento interiore, dunque, dal compito assegnato.

Ma Gesù ha sempre identificato il proprio lo con la propria missione e quindi si è pure abbandonato alla volontà del Padre. Non può prescindere dalla sua missione per trovare il proprio lo o se stesso.

In che cosa consiste la missione? Nel riconciliare, con un’obbedienza amorosa spinta all’estremo, il mondo estraniatosi da Dio con Dio stesso. E ciò è possibile solo in quanto egli assume su di sé tutta questa estraniazione e l’attraversa – come eclissi di Dio fino alla fine, anzi al di là della sua fine, dato che la sua ubbidienza amorosa verso il Padre è più profonda e più definitiva di quanto non possa esserlo ogni ribellione del peccato. La colpa del mondo può esser chiamata menzogna e illusione, ma il mondo stesso e gli uomini ai quali si rivolge la missione di Gesù sono tutt’altro che Maya e illusione. E la sua missione scorre in senso inverso rispetto alla dottrina filosofica sulla morte: non si tratta di liberarsi dalle cose effimere, per fuggire verso una eternità reale o presunta, ma al contrario di seminare il seme dell’eternità nel terreno del mondo e far germogliare il Regno di Dio. Il terreno è altrettanto poco una illusione, come non lo è l’uomo; anzi è la vera, reale creazione di Dio Padre, che ora finalmente deve dare il suo frutto.

Improvvisamente tutto diventa chiaro: il Figlio di Dio viene con un compito assoluto in questo mondo limitato, e il Padre attende che tale compito venga assolutamente assolto. Pertanto, come ogni uomo, Gesù è nella situazione di contraddizione, di dover compiere qualcosa di definitivo nel transitorio. Come sarà possibile? Solo per il fatto che egli inserisce anche la propria morte – la più pesante di tutte le morti – nel lavoro della sua vita, così che nella sua passività e negatività egli porta a compimento la propria attività, in tutta la sua forza ed efficacia, ed orienta tutto ciò che il mondo non riesce a realizzare verso questa ‘ora’ in cui realmente tutto sarà «compiuto». Ciò che dopo la sua vita attiva rimane da compiere, non poggia più soltanto sulle nostre spalle. Certo, ce ne facciamo carico, ma consapevoli che già sul Monte degli Ulivi il peso da portare era insopportabile: Gesù deve vivere nel suo intimo tutto ciò che, nel peccato e nell’azione contro Dio, ha estraniato l’umanità, e lo vive senza prendere le distanze, a tal punto che secondo Paolo egli è letteralmente «reso peccato» per noi (2 Cor 5,21). Se da un canto ciò va oltre le capacità umane e, dall’altro Gesù – per la sua ubbidienza al Padre – sopporta tale peso, allora qui azione e passione (al di là di loro stesse) coincidono talmente che il soffrire è già un morire.

Il corpo vivente, che realizza tutto questo, è l’opera d’arte e di amore più sublime del mondo: qui ciò che vi è di più orrendo nella nostra storia, in tutto il suo realismo, viene trasformato dall’intimo nella realtà più bella, nell’amore che sopporta, che perdona e che trasforma. Conviene, quindi, che questo memoriale ci venga partecipato continuamente nel sacramento dell’eucaristia, che non sarebbe quella che essa è, se includesse anche la nostra morte, ora tramutata in un atto dell’amore teandrico. Beviamo il sangue che è stato versato per colpa nostra, ma in senso più profondo: per noi. E quando abbiamo paura della morte, perché non sappiamo cosa comporti, pur convenendo che essa ci rapisce come totalità, non dobbiamo dimenticare che Uno lo ha già anticipato, Uno che non morì come un individuo tra i tanti, ma che soffrendo e morendo aveva già in sé la nostra morte. Lungo tutta la vita egli aveva già attuato la sua dedizione totale al Padre, ma nella morte egli ha realizzato questa dedizione totale all’interno della nostra angoscia, della nostra impotenza, del nostro invincibile non‑volere, e ciò non per sé, ma per noi, cosicché nel medesimo atto, eucaristicamente, ha trasferito in noi l’intera sua prestazione.

La sua consapevole realizzazione salda dunque fra loro la morte di espiazione e l’eucaristia. Tutto il resto egli l’affida allo Spirito santo, che lo guida lungo tutta la sua vita e che nella morte egli esala verso il Padre. Gesù realizza l’opera d’arte e d’amore divino‑umana: ha sufficiente buon gusto per non spiegarlo egli stesso. Oggi molti esegeti non lo capiscono; ritengono che il Dio che parla (Theos legon) dovrebbe pure essere il teologo di se stesso. «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e ve lo spiegherà» (Gv 16,12-14). Finché possiamo, tentiamo di portare a compimento le opere finite con le nostre forze; Gesù non ha bisogno di spiegare l’opera infinita, quella che lui ha iniziato e pure compiuto, e di renderla gradevole al mondo; può affidarla allo Spirito divino per una inesauribile interpretazione. Questo è abbandono cristiano al suo massimo livello.

Ma non si può dimenticare che in tale abbandono, egli viene pure lasciato solo, cioè abbandonato. «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?» Nell’abbandono da Dio il senso non si apre più, solo l’interrogativo e il grido sono ancora possibili. La strada porta ad un vicolo cieco. La morte, di cui ora si muore, è la cosa più difficile da pensare (in realtà impensabile). La stessa luce, in mezzo a queste tenebre incomprensibili, diventa incomprensibile, e quel che brilla è la sua irrinunciabile ubbidienza al sole paterno. Egli si affida alle mani, divenute impercettibili, del Padre.

Con quanta intensità la nostra morte si ponga all’interno della morte di Gesù, non spetta a noi deciderlo. Dio può entrambe le cose: alleviare la nostra morte per la pesantezza della morte del Figlio suo o renderci benevolmente un po’ partecipi di tale pesantezza. Egli ci accoglierà tra le sue braccia paterne anche quando ci sentiamo compartecipi in Gesù, quando ci sembra di affondare in un abisso senza fondo.

Ma che ne è della nostra realizzazione terrena, quale che sia stata? Quanta autodedizione avremo mostrato – non per noi, ma per glorificare Dio e per generare da noi stessi quel che era chiesto –, altrettanta sopravvivrà in eterno come parte di noi. Nel «nuovo cielo e nella nuova terra» non si perderà nulla di ciò che, con vera dedizione, è stato fatto o sofferto. Nell’ultimo libro della Scrittura ci viene descritta la Gerusalemme eterna: vi sono raccolti tutti i tesori del mondo. Ma saranno più belli e più preziosi di quanto non siano qui, poiché la grazia di Dio vi porterà a perfezione ciò che noi avremmo voluto esprimere, ma non abbiamo potuto. Allora diventerà percettibile un aspetto della vita eterna che noi, alla fine del Credo, professiamo di attendere. Con tutta evidenza ciò diventerà «contemplazione di Dio», in un senso certamente molto misterioso e per ora non svelabile. Ma certo non come uno spettacolo cui assisteremmo eternamente e durante il quale Dio ci scoprirebbe le profondità della sua essenza e del suo potere. Ciò non servirebbe al perfezionamento della creatura. In più occasioni, e certo non a torto, Goethe disse di attendersi dalla vita eterna anche una intensificazione della nostra capacità creativa, poiché l’uomo può esser felice solo se può realizzare, donare, produrre.

Quali possibilità inespresse risiedono nel fondo di un’anima che ha creato anche opere sublimi, come quella di Bach o di Mozart! Con la perfetta autodonazione della natura umana nella morte di Cristo, che assume la nostra morte e la conduce a pienezza, nella nostra natura si sprigionano delle energie di amore che si svilupperanno nell’eternità di Dio.

 

 

II.

 

Vita dalla morte

 

 

 

La prima meditazione ha riflettuto sulla presenza della morte in tutta la vita transitoria, osservando non soltanto il fatto che la morte, in quanto termine fisico della vita mortale abita in ciascuno dei suoi momenti, ma pure che essa conferisce, in prospettiva spirituale, una singolare dignità alla nostra esistenza: il peso della irripetibile unicità e della connessa responsabilità. Ciò non dovrebbe essere spiegato, in modo unilaterale, come esercizio al distacco, certo necessario, dalle realtà terrene – sarebbe l’interpretazione più ristretta dell’abbandono –, ma nello stesso tempo come disponibilità a soddisfare le esigenze dei singoli momenti, dove emerge la serietà della missione: in entrambi gli aspetti la rinuncia a vivere fino in fondo la vita è una condizione per immedesimarsi seriamente in essa.

 

 

1.

 

LA POTENZA DI DIO

 

 

Ciò non porta, tuttavia, al di là dell’insopprimibile paradosso dell’esistenza umana, ad iscrivere qualcosa di definitivo in un materiale effimero. L’unica volta che Gesù scrisse, scrisse su polvere che si disperdeva. Il paradosso stesso si disperde di fronte alla morte definitiva che ci trasforma in polvere, di fronte alla fama, al ricordo e alla continuità che presto o tardi essa seppellisce con sé. Cristo stesso non ha voluto e potuto dominare la totalità del suo operare e del suo soffrire terreno, con tutto il suo significato immanente, ma lo ha affidato alle mani invisibili del Padre. E nella morte non trattiene lo Spirito della sua missione, ma lo esala e restituisce al Padre e lo riceve. Solo così si attua il completo abbandono: nell’essere accolti come uno spontaneo lasciarsi‑prendere: «Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso» (Gv 10,18). Qui la morte – e quale morte! ‑appare come la più elevata, la più vitale realizzazione della vita. Ed è proprio per questa prestazione, dice Gesù, che «il Padre mi ama» (ibid. 17).

Non ne segue però che l’ultima morte, quella di cui l’uomo muore, sarebbe una morte meno seria, quasi che questa vitale realizzazione del lasciarsi‑prendere avesse tolto alla morte il suo pungiglione. Al Venerdì santo non segue la Pasqua, ma la «discesa nel regno dei morti», dove, secondo i salmi, nessuno ha più la forza di lodare Dio. «In inferno quis confitebitur tibi?» (Sal. 6,6). La morte è privazione di tutta la vita e delle sue funzioni, non è quindi il nulla né un semplice annientamento, anche se non possiamo raffigurarci questo stato di privazione, lo stato in cui il corpo ritorna alla terra e la vita a Dio che l’ha data (Gb 34,14s.; Sal 104,29; Sir 12,7). È come una espirazione ed inspirazione di Dio. E allora diventa chiaro che solo Lui, la fonte della vita, può infondere a chi è morto – e che non è il nulla – una nuova vita. In modo sovrano, libero, senza pregiudicare il merito o il demerito della vita passata. È solo Lui che «dà vita ai morti» (Rm 4,17), nella «straordinaria grandezza della sua potenza, secondo l’efficacia della sua forza», come Paolo, addossando montagna a montagna, si esprime (Ef 1,19). Ciò vale per la resurrezione di Cristo «dai morti» e vale anche per noi, non ancora morti fisicamente, ma spiritualmente: «offrite voi stessi a Dio come vivi tornati dai morti» (Rm 6,13); «déstati dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14). Ma ciò solo perché Dio s’è già ripreso «dai morti» (Mt 17,9; Lc 16,30s.; 24,46; Gv 20,9; At 3,15; 13,30; 17,5; Eb 13,20), nella sua vita divina, il proprio Figlio ucciso.

 

E ora il punto decisivo: questa nuova vita, che ha definitivamente la morte dietro di sé (Rm 6,10), rimane, nonostante tutto, vita dalla morte, vita segnata dal suo passaggio attraverso la morte: è vita che da una parte ha potere sulla morte («io ho le chiavi della morte e degli inferi»: Ap 1,18), ma dall’altra parte rimane interiormente segnata dall’evento e dall’esperienza della morte, in quanto questa era – e rimane – la più elevata realizzazione di una completa autodedizione. Pertanto si vedrà sempre, nell’agnello apocalittico, l’impronta datagli dalla morte: è vivo, ma «come immolato» (Ap 5,6.9.12; 13,8); e poiché «l’agnello senza difetti e senza macchia, prima della fondazione del mondo era già predestinato» alla immolazione (1 Pt 1,19s.), non si vede perché Ap 13,8 non potrebbe esser tradotto: «L’agnello immolato fin dal principio del mondo». Era necessario che colui, a cui dovevano essere consegnati il potere e il giudizio sui vivi e sui morti, conoscesse tutte le situazioni dell’uomo, incluse quelle dei morti; era necessario che colui, a cui doveva «piegarsi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra» (nel regno dei morti) (Fil 2,10), e che doveva essere elevato «al di sopra di tutti i cieli», scendesse nei «luoghi» e situazioni «a! di sotto della terra» (nel re­gno dei morti) (Ef 4,9)[1]. E da tale sovraceleste e divina altezza, Cristo non solo riempie «il tutto», ma distribuisce pure tutte le missioni ecclesiali con la sua impronta, che resteranno così contrassegnate dalla sua vita per la morte e dalla morte.

Ma se la morte, dalla quale la potenza di Dio ha richiamato il Figlio, ha segnato la sua vita eterna, necessariamente ha pure segnato tutto ciò che è mortale, ciò che ha condizionato la sua vita terrena. E c’era forse qualcosa, in quella vita, che non fosse connotato dalla rinuncia e dall’annullamento nella volontà del Padre? Al culmine troviamo l’«ora del Padre» e «delle tenebre», tutte le fasi della passione, la cui assunzione gloriosa nella vita eterna viene attestata ai discepoli dalle stigmate loro esibite. Neppure la più mortale di tali ferite, il cuore aperto, si chiude più nella vita definitiva; Tommaso, che stende la mano sul costato, coglie solo l’apertura di tale cuore; nulla del corpo offerto e del sangue versato viene nuovamente raccolto (perché ne risulti un corpo vivente, come noi lo intendiamo), mentre lo stato del perfetto fluire nella morte costituisce il massimo grado di vitalità conseguibile nella realtà terrena. Solo in questa forma di dedizione ultima il Risorto con il corpo continua a vivere, d’ora in avanti, la sua vita eterna. E non in una forma confusa‑diffusa, che dissolva la sua peculiare identità ma in una signoria estremamente determinata, quella che conferisce l’impronta del suo carattere filiale ad ogni sfera dell’Universo che lui abita.

Tale carattere filiale può esser colto rettamente solo nel contesto trinitario. Ciò che ai nostri occhi offuscati non mostrava ancora, nel suo aspetto terreno, la vera origine, il Padre, ora diventa pienamente trasparente in lui. È la gloria abbagliante con la quale, ad esempio, egli apparve al persecutore di Damasco, quella che va oltre tutte le manifestazioni della signoria di Jahvé nell’Antico Testamento (in Isaia, o Ezechiele, o Daniele), che non toglievano, come invece a Paolo, la luce degli occhi. «Chi vede me, vede il Padre» per noi non è più un paradosso, ma realtà immediata. Egli continua a svolgere la sua funzione di Mediatore, ma per situarci nell’immediatezza: «Io non vi dico che pregherò il Padre per voi: il Padre stesso vi ama» (Gv 16,26). E come egli introduce nelle profondità del Padre, così ci alita lo Spirito che ci dona sensibilità e cuore necessari per accedere, nell’infinita libertà, all’eterno amore trinitario. Poiché «dove c’è il Signore, là c’è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Si­gnore, c’è libertà» (2 Cor 3,17)[2]. È la libertà della figliolanza divina, quella che ha accesso nello Spirito, attraverso il Figlio, al Padre. Nel Figlio risorto la natura umana partecipa immediatamente alla vita trinitaria, e ciò è evidentissimo non soltanto quando, insieme a Dio Padre, egli spira lo Spirito, ma, con inaudita concretezza, alita sul gruppo dei discepoli, donando loro lo Spirito Santo e il potere di rimettere i peccati (Gv 20,22).

Ma il Risorto è, soprattutto in Luca e Giovanni, anche la pienezza dell’umanità – da vedere solo in senso paradisiaco. Le parole, i gesti e le azioni sono di una delicatezza che non ha nulla di astratto o di estatico, ma è assolutamente vicina e familiare, dove però già s’intravede il varco della morte verso una vita che comprende l’esperienza ultima dell’uomo. Cosa c’è di più delicato, di più intimo delle parole scambiate con Maria di Magdala presso la tomba vuota, cosa di più incantevole del dialogo sulla via verso Emmaus, con l’epilogo della frazione del pane, cosa di così intimo e insieme sobrio come la colazione in riva al lago? Se è necessario il rimprovero, perché manca la disponibilità a credere, c’è anche un estremo rispetto, una accompagnata dal dono della presenza, anzi pure dal contatto, come con commozione rileviamo nella scena del primo finale giovanneo: la possibilità di toccare, e insieme l’invito a desistere, Gesù che si sottrae alla Maddalena per darle qualcosa di meglio, qualcosa di più pasquale: la missione ai fratelli, con l’annunzio della resurrezione.

Ma forse il fatto più stupendo è che Gesù, apparendo ai discepoli che lo avevano rinnegato ed erano vilmente fuggiti, non solo accorda il suo perdono ma consegna loro in mano il frutto della sua croce, il potere ecclesiale di perdonare: «Ricevete io Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati...»

Nel Risorto si manifesta Dio nella sua realtà più divina, e l’uomo nella sua realtà più umana, ma entrambi indissolubilmente congiunti. La sublimità divina, che si manifesta in modo da farsi vedere solo quando vuol farsi riconoscere, non è estraniazione dal terreno e quotidiano, ma si trasforma direttamente nella prossimità più familiare. Egli dona, agli impauriti, la pace. E proprio la sua pace, riportata dalla croce, dalla morte e dal mondo degli inferi, una pace che comprende, trasfigurata, la pace della morte.

 

 

2.

 

REALTÀ EFFUSA

 

 

I discepoli sono grati ai Signore che loro appare nei quaranta giorni soprattutto per l’accondiscendenza loro manifestata: viene loro donata una prova, umanamente percepibile, del fatto che nella vita e nella passione di Gesù si compie ogni promessa, il mondo è riconciliato con Dio. Ma il Signore ha cura di sottolineare la provvisorietà ditali giorni: non può essere trattenuto, appare e scompare quando vuole, li rinvia alla fede e soprattutto a quella presenza che è stata istituita nell’Ultima Cena e che d’ora in poi dovrà rimanere la realtà normativa. Quando ad Emmaus spezza il pane e nello stesso attimo scompare, egli addita appunto questa permanente presenza. Si può discutere se il comando di ripetere il suo gesto «Fate questo in mia memoria» sia stato dato esplicitamente prima della passione, ma il fatto che egli stesso, da risorto, abbia continuato a mangiare con i Suoi e che i discepoli con tanta naturalezza si riunissero per spezzare il pane – come con cognizione di causa Paolo per primo ci co­munica nella Prima lettera ai Corinzi (cap. 11) – mostra chiaramente che i fedeli hanno capito il desiderio che Gesù aveva di rimanere in mezzo a loro in questo modo. Così è un dono straordinario quello che Gesù ha fatto alla Chiesa quando le ha concesso di agire in suo nome, la sera di Pasqua in cui diede il potere di rimettere i peccati, nello Spirito Santo.

E se la grazia pasquale dell’assoluzione suppone la croce e la morte di Gesù, che rappresentativamente è stato «reso peccato» fin nella morte dell’abbandono, l’istituzione dell’eucaristia racchiude in sé, anticipatamente, la medesima croce e la medesima morte, dato che il corpo nella sua lacerazione e il sangue nella sua effusione vengono esibiti come cibo e bevanda. In che modo il Signore vivente, in uno stato di compattezza fisica, possa già disporre di una sua corporeità che si condensa nella morte, rimane un suo mistero; ma come nella trasfigurazione del Tabor la sua figliolanza divina si è potuta manifestare fino a comprendere l’intera sua corporeità, allo stesso modo, in forza della sua libera autodedizione – «nessuno mi toglie la vita, ma io la dò liberamente» – egli dispone pure di un potere sul proprio stato di morte. E ciò in un duplice modo: donandosi come cibo ai suoi nella propria condizione di sacrificio estremo e, quando conferisce il potere di assolvere, autorizzandoli a disporre di questa sua con­dizione estrema, «consacrandoli» insieme a se stesso (Gv 17,19). Dal parallelismo che si osserva tra l’evento del Giovedì santo e quello della sera di Pasqua si deduce che l’offerta che Gesù fa di se stesso può diventare una (co‑)offerta della Chiesa.

Entrambi i sacramenti, eucaristia e confessione, che a differenza degli altri sacramenti non sono in primo luogo avvenimenti che si verificano una volta soltanto nella vita del cristiano ma accompagnano il ritmo di questa vita e lo scandiscono, sono vita dalla morte. Nella confessione il peccatore, morto a Dio, attraverso il Signore risorto dalla morte dei peccatori viene restituito ad una vita in Dio e per Dio. Ciò che in lui era morto, il Signore, che da morto era disceso agli inferi, l’ha seppellito colà, per farlo risorgere con sé per il Padre. «Déstati dai morti» (Ef 5,14) dice ad esso il Risorto, come precedentemente, nel simbolo terreno, aveva richiamato alla vita persone fisicamente morte. Ma l’eucaristia viene istituita prima della passione e della morte per rendere capaci coloro che prendono parte al banchetto misterico di attuare insieme al Signore la dedizione ultima, la «resa dello Spirito» nelle mani del Padre (Lc 23,46), quella che nella morte è insieme la suprema attuazione della vita donata. In Gesù questa è la sua ubbidienza di fede verso il Padre nella forza dello Spirito, una ubbidienza che dalla morte fisica, anzi addirittura dalla morte spirituale, quando il Padre «abbandona» e dove è «reso» lo Spirito, ricava qualcosa che, al di là di tutte le morti, ma includendo il loro radicalismo, costituisce un’opera del Vivente per eccellenza. Pertanto: «Chi crede in me, anche se muore, vivrà e... non morrà in eterno» (Gv 11,25s.). L’interrogativo che subito segue: «Credi tu questo?», è la domanda che il Signore rivolge a chi sta per comunicarsi, il quale non morirà in eterno poiché è già disposto a partecipare di quella morte. Ciò vale in modo eminente per chi è deputato a ripetere le stesse parole di Gesù: «Questo è il mio sangue versato per voi e per i molti», ma non meno per coloro che credono con gioia e quindi sono pronti a morire, per non morire in eterno.

Mai la Chiesa è talmente oltre se stessa, come lo è qui, dove viene istituita, nella sua peculiare figura, attraverso il sacramento. Gesù muore per «i molti», i «figli dispersi di Dio» al di là di Israele (Gv 11,52): non c’è nessun peccatore per il quale egli non sia morto, rappresentandolo nella morte del peccato e in lontananza da Dio. Perciò l’eucaristia può esser celebrata solo «sul mondo» (come dice Teilhard), se è vero che essa produce un gruppo che può comprendersi soltanto come esistente per i «molti» (inescludibili). Il credente crede per coloro che non credono, si comunica per coloro che non si comunicano, poiché il corpo che egli riceve ha portato i peccati di tutti. Ciò che ha ucciso Gesù sono i peccati di tutti: se egli non avesse eliminato questo che era nostro, non avrebbe potuto darci, in sua vece, ciò che era suo, e che non ci è estraneo (come potrebbe esserlo una protesi artificiale), dato che il suo è ciò che ha preso di nostro per restituircelo trasformato (da morte in vita). Ma pur nella sua particolarità ecclesiale, intenzionalmente questo è un processo universale: con la morte di Cristo, il Padre intende riconciliare con sé il mondo (2 Cor 5,19).

Questa universalizzazione – che non sopprime la particolarità e la personalità – non deve farci dimenticare mai il ruolo dello Spirito Santo che, se si è comunicato solo in parte ai profeti, su Gesù si è posato «senza misura» (Gv 3,34), e nemmeno il fatto che quel Gesù che lo restituisce senza misura lo può pure effondere senza misura nel tempo e nello spazio. Ciò che è storico viene generalizzato, senza perciò diventare astorico o sovra storico: lo vediamo nel modo in cui Gesù si lega all’azione eucaristica quando l’affida alla Chiesa, sua sposa, presente ai piedi della croce in Maria e Giovanni, quando la lancia gli trafigge il cuore. E mentre Maria, la «Chiesa senza macchia» (Ef 5,27), viene affidata per testamento al nuovo figlio Giovanni, e quindi aggregata alla Chiesa visibile che ha in Pietro il suo principio di unità, rimane per tutti i tempi la comunione che si è stabili­ta tra il Gesù trafitto e il suo «corpo» sponsale. E su questa unità, irrisolvibile in una qualche sintesi, come sua parte (insieme di «chiese» o di organizzazioni profane) che si fonda l’universalizzazione della salvezza ad opera dello Spirito.

Ma occorre sempre ricordare che tale universalizzazione non è possibile se non come vita dalla morte: Gesù non ha subito soltanto la sua morte personale, ma la morte per tutti i peccatori e quindi la morte di tutti, per cui egli ha incorporato nella sua vita personale la morte universale. «Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap 1,18). Ha tali chiavi, perché morì e andò nello Sheol, ma anche perché ha portato in sé la morte di tutti e quindi ha il potere su tutto il regno degli inferi. Come la sua vita terrena era polarizzata verso questa morte universale, così la sua vita eterna assume i tratti eucaristici.

In tale forma la vita eucaristica di Gesù è in definitiva anche la forma economica della sua donazione trinitaria al Padre, che egli non «ha», ma soprattutto «è». Come la volontà del Padre e il compimento della sua opera sono, per il Gesù terreno, il continuo cibo «eucaristico» (Gv 4,34), così nella vita intra‑trinitaria tutte le ipostasi divine sono, nelle reciproche relazioni, cibo «eucaristico». Anche il Padre si «nutre» del Figlio, senza del quale non potrebbe essere Padre, come entrambi sono Padre e Figlio solo mediante lo Spirito Santo; ma lo Spirito è colui che viene «nutrito» da entrambi e insieme è il «nutrimento». Certo tale «perdersi» dell’uno nei confronti dell’altro e nell’altro, non può esser chiamato morte (né «kenosi», né «annientamento»), ma forma ed espressione di vita suprema. E a partire dal mistero della vita di Dio si vede che anche la morte naturale della creatura può essere un aspetto di somiglianza con Dio (cosa che non si può dire della morte del peccato), e specialmente che Gesù Cristo può conferire alla morte terrena una impronta di donazione trinitaria.

 

 

3.

 

MORIRE NELLA MISSIONE

 

 

Molto di ciò che è stato detto diventa più chiaro quando i quaranta giorni che il Risorto trascorse con i suoi vengano compresi come il tempo della missione della Chiesa nel mondo, ma anche della necessaria premessa, cioè del formarsi di una Chiesa capace di svolgere una missione. La Chiesa è fondamentalmente comunità di persone che credono in Cristo e di lui partecipano; la missione invece è il superamento di tale forma di comunità, verso la solitudine di un compito che è sempre singolo. Certo, i «carismi» possono venir intesi come funzioni all’interno di una comunità (in pace con se stessa, «integrata»), ma è un pace che il Risorto quasi impazientemente vorrebbe finisse: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra (non solo nella Chiesa). Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole... insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato: ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,19s.). «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (Gv 20,21), non ad Israele, e neppure alla Chiesa soltanto, ma «fuori», dove il pastore cammina davanti alle pecore, che egli ha «fatto uscire» (ekbale: Gv 10,4). Questo «fuori» è il luogo in cui si aggirano i lupi (0v 10,12), per niente innocui ma pronti a «sbranare» ed a «fare irruzione» (At 20,29). Ma è proprio questo il luogo della missione: «Vi mando come pecore in mezzo ai lupi» (Mt 10,16).

A questo punto la missione acquista una serietà mortale. La missione, centro della vita cristiana, presuppone il sì ad una duplice morte: anzitutto la morte della persona privata, che non vive più per sé; per i propri obiettivi e le proprie inclinazioni, ma per colui che per noi è «morto e risuscitato» (2 Cor 5,15); poi la morte con la quale essa, in quanto membro della Chiesa, deve morire dalla Chiesa visibile al mondo ostile. Questa seconda morte include, senza sottolinearne il pàthos, la donazione della stessa vita fisica, il martirio in senso stretto, dato che martyrion, come testimonianza, coincide sotto ogni aspetto con la missione.

Nel Nuovo Testamento i martiri non presentano alcunché di patetico, poiché sono la semplice conseguenza logica della premessa – certo patetica – che la missione cristiana deriva in definitiva da colui che per noi è morto e risuscitato. Per principio siamo stati privati dei nostri diritti: «Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso: perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore» (Rm 14,7s.). Paolo blocca esplicitamente ogni tentativo di fuga nell’esistenza privata: «Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi» (ibid. 8s.). Tale signoria e tale sovrana missione ci vengono ancora descritte là dove t’ascensione di Cristo «sopra tutti i cieli» indica il «luogo» dal quale procedono tutte le missioni, mentre si aggiunge significativamente che l’ascesa sopra tutti presuppone la discesa sotto tutto (Ef 4, 7‑11). Dio, si potrebbe pur dire, lo ha innalzato al di sopra di tutto, poiché lui, nella sua missione, si era abbassato fin nella più profonda umiliazione (Fil 2,6‑11).

Non è difficile pensare cosa può succedere alle pecore mandate tra i lupi. Quali siano le ostilità e le trame omicide che attendano i cristiani inviati, chi li manda ben le conosce, dato che sono alla sua sequela e non possono attendersi sorte diversa dalla sua. «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20), «il servo non è più del suo maestro, e dev’esser lieto se gli succede come al suo padrone» (Mt 10,25). C’è qui, per Gesù, un evidente crescendo: «Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più i suoi familiari» (ibid.). Che Pietro venga crocifisso «capovolto», col capo all’ingiù, costi­tuisce un chiaro simbolo di questo non patetico «tanto più».

Oggi la Chiesa, come mai nella sua storia, vive la sequela del perseguitato, e si può ben dire che la vive tanto più quanto più è Chiesa, Chiesa cattolica. L’Ortodossia più del Protestantesimo, e la Cattolica più dell’Ortodossia.

Oggi si prende molto sul serio la parola d’ordine «Ecrasez l’Infame». Questo è un titolo onorifico, nella misura in cui la Chiesa, nella sua lunga storia, perseguitando altri ha messo in dubbio la sua nobiltà. Forse, nella condizione di perseguitata, ora sconta le sue molte colpe. Ed è bene che non lo dimentichi mai. Ma in certi momenti è pure evidente che essa vive nella sequela. Ebbene, fin dal tempo degli Atti degli apostoli essa sa che queste persecuzioni garantiscono anche la fecondità della missione. È una specie di bagno di sangue eucaristico, in cui anche la sua carne e il suo sangue – non è essa il corpo di Cristo? – sono cibo per la vita del mondo.

Qui c’imbattiamo nel cuore del mistero della Chiesa, dato che ora non possiamo più stabilire se la Chiesa viva più per la morte o dalla morte, se si consumi ai piedi della croce o se non viva invece della grazia del Risorto, con la morte alle spalle, in una nuova vita eterna. Sono due aspetti intimamente legati: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio... Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta in Dio... Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra... Tutto quello che fate in parole e opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui eucaristia a Dio Padre», cioè dicendo grazie (Col 3,1.5.17). Sia da morti che da risorti, si è sempre tenuti a mortificare ciò che è puramente terreno ed a vivere nella missione di Cristo, che è sempre una missione eucaristica.

C’è un indissolubile legame fra il Venerdì Sabato santo di morte e la Pasqua dell’ascensione al Padre, sia nella vita della Chiesa come in quella del singolo credente.

Dalla Pasqua il fedele viene rinviato al Venerdì santo, dalla morte del battesimo ad una vita eucaristica dalla morte e per la morte. Il cristiano non riesce, né vuole capirlo a fondo. A lui basta credere, confidando nel Signore, che Lui, il quale viveva della vita eterna, ha scelto e sperimentato la morte temporale, per conferire alla morte che accompagna ogni vita vissuta nella caducità un senso nuovo, un senso che la tramuta in vita vissuta in maggiore profondità: il senso della donazione trinitaria, di quella vita suprema che nella vita di Cristo e nella sua sequela assume la forma della morte ignominiosa – «spazzatura del mondo, feccia», sporcizia «di tutti» coloro che vogliono purificarsi in noi (1 Cor 4,13) ‑, ma proprio per ciò serve alla purificazione del mondo[3].

 

 

 

 

III.

 

Una sola cosa attraverso la morte

 

 

Tutto quel che si è detto sfocia nel mistero della comunione dei santi. I viventi, come Paolo diceva, sono morti insieme al Signore che è morto per loro, per poter vivere nascosti, col Risorto, in Cristo (Col 3,3), oltre la propria mortalità, che ha ancora la morte «dinanzi» a sé. I morti, invece, che l’hanno «dietro» di sé, vivono, come dice Gesù, quali «figli della resurrezione» presso il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui» (Lc 20,37s.). Ma se Cristo, nell’eucaristia, è con noi, non dovrebbero esserlo pure coloro che sono «con Cristo» (Fu 1,23)? La morte ci appare come una barriera che ci tiene lontani dal cielo. Ma se la barriera è caduta, ora il cielo non dovrebbe essere vicino alla terra, non dovrebbe accompagnarla e guidarla nel cammino che ad esso conduce?

Quando la Chiesa terrena celebra l’Eucaristia, essa invoca coloro che in cielo sono «communicantes» nella preghiera, perché partecipino all’evento temporale; ma li invoca più per «farne memoria» che per conservarne il ricordo. Infatti l’essere‑per‑sé, che sulla terra è condizionato dalla mortalità, nel cielo cede il posto all’essere veramente personale e trinitario, all’«essere‑fuori‑da‑sé‑per-l’altro». E non solo il Signore della Chiesa, che per noi è morto, ci insegna ciò che è mortale, ma anche, insieme a lui, tutto ciò che è passato nella «vita‑dalla‑morte». Dalla terra al cielo c’è distanza (segretamente già superata), dal cielo alla terra non ce n’è. I centoquarantaquattromila, il cui canto risuona «come un fragore di grandi acque e come un rimbombo di forte tuono e suono di arpe» e coloro che «seguono l’Agnello dovunque va» (Ap 14,2.4), sono coloro che lo seguono dalla vita alla morte, come pure coloro che lo seguono dalla morte alla vita. E se lo seguono realmente, anche la prima schiera sta già sotto la legge del vivere e del morire per (tutti) gli altri, ed entrambe le schiere seguono la medesima strada. «Il pastore delle pecore cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce» (Gv 10,4).

I misteri della comunione dei santi sono così insondabili come quelli dell’Eucaristia. Chi vi rientra è tenuto soltanto a dare, e riceve solo donando. Personalità e comunità cre­scono insieme e l’una mediante l’altra. La paradossalità del detto: «A chi non ha, viene tolto anche ciò che ha», e a chi ha i dieci talenti «viene dato in più» l’undicesimo (Mt 25,29), non deve meravigliare nessuno. Nella Chiesa di Cristo si ha solo per dare, ed è così che ci si arricchisce.

Basta vedere Maria per capire la giustezza ditale legge. Lei, che con le sette spade nel cuore, donò continuamente tutto, cioè il Figlio, il suo Tutto, è la più ricca in questa comunità e può stendere su ciascuno il suo manto di protezione. Se così spesso ci appare e si presenta come modello di vera ecclesialità, questo solo perché, nel suo Figlio, ella ha subìto mille morti e, attraverso di lui, può donare mille vite agli «altri (suoi) figli» (Ap 12,17). Già in terra la missione (o secondo Paolo «ministero ecclesiale», «carisma»: 1 Cor 12,4ss.) era sia ciò che determina la «personalità» unica e insostituibile del singolo cristiano, come pure la sua capacità di impegnarsi fecondamente nella comunione dei santi.

In questa duplice descrizione della missione, vita e morte sembrano quasi risolversi, come trasfigurate, l’una nell’altra, ma solo a patto che non si ignorino le tenebre in cui dovrà immergersi la vita che si dona, se vuol vincere le resistenze all’amore: «Le tenebre non l’hanno accolta [la luce], i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,5.11). In tale brillare­-nelle‑tenebre la luce deve dimenticarsi di sé, per diventare «un martello che spacca la roccia» (Ger 23,29): la roccia che resiste alla fluente comunità dei santi e che solo la forza della sofferenza e della morte può rimuovere.

Ma la roccia della morte – «chi ci rimuoverà la pietra?» – non resiste ad ogni attacco, «poiché forte come la morte è l’amore» e i flutti del caos non possono «spegnere le sue vampe» (Ct 8,6s.). In definitiva, dunque, nessuno saprà mai, prima di morire, quanto il suo compito esigerà ancora da lui, prima di entrare, al di là della sua morte sempre più profonda, nella vita eterna della comunione dei santi.



[1] Vedi al proposito ThWNT: art. katò, katoterò (Büchsel) III, 641s., a differenza della «versione concordata» che omette semplicemente il «sotto terra» e che invece di «al di sopra di tutti i cieli» pone «nel più alto dei cieli».

 

[2] Che questa sia la lettura del testo, che debba esserci cioè un (al posto o prima di o): lo ha illustrato in maniera convincente Alberto Giglioli, Il Signore e lo Spirito, in Rivista Biblica (Brescia) XX (1972) 263‑276.

[3] Per l’intera tematica vedi: Ferdinand Ulrich, Le­ben in der Einheit von Leben und Tod (Frankfurt a. M. 1973).

 

 

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